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                                                                                                                           INSEGNAMENTI - COMMENTI - LECTIO

 

 

 

indice

domenica 22 novembre 2015 - Domenica con Dio sul tema Naaman il Siro (2Re 5,1-19) - in Badia - insegnamento del Sig. Andrea Lasso
sabato 3 marzo 2012 - "Insegnaci le parole del silenzio" - intervento di fr. Massimo-Maria FMJ sulla lettera dell'Arcivescovo "Nel silenzio la Parola"- San Miniato al Monte
sabato 4 e Domenica 5 dicembre 2010 - Ritiro di Avvento delle FEG - insegnamento di sr. Chiara FMJ

sabato 3 aprile 2010 - Sabato Santo -  ora media in Badia   sr. Grazia FMJ

sabato 23 maggio 2009 - Lectio Divina - Il Regno dei cieli è simile…ad un tesoro nascosto in un campo…ad una perla preziosa …ad una rete gettati nel mare…(Mt 13, 44-52)  a Gamogna - sr. Sarah FMJ

 sabato 11 aprile 2009 Ufficio della discesa agli inferi - Mt.27, 57.66 in Badia - commento di fr. Pierre-Emanuel FMJ

aprile 2009 San Paolo, Lettera agli Efesini - commento di Fr. Nicola-Marie FMJ sul Mail Ange

sabato 28 marzo 2009  Lectio divina: “Il seminatore uscì a seminare” (Mc 4,1-20)  a Gamogna - Sr. Petra FMJ

Domenica 1 marzo 2009 - Domenica con Dio sul tema: "La vita di fede: un bene prezioso in un vaso di creta" - in Badia - Insegnamento di Sr. Grazia FMJ

Domenica 23 novembre 2008 - Domenica con Dio sul tema: "La speranza in San Paolo"  in Badia - Insegnanento di Mons. Dante Carolla

 

 

Domenica con Dio sul tema: Naaman il Siro (2Re 5,1-19) - in Badia - 22 novembre 2015 - insegnamento di Andrea Lasso
 

Mi chiamo Naaman. Il mio paese, il paese di Aram è un grande paese, che voi chiamate Siria. Sono un uomo molto stimato nel mio paese e molto stimato dal Re di Aram. E’ stato sotto la mia guida che è arrivata la vittoria per il mio esercito, per gli aramei. Tutti riconoscono la mia autorità dunque e mi rispettano. Per il re, oltre che braccio destro, sono un amico. Dunque ho raggiunto tutto ciò a cui la maggior parte degli uomini ambisce e a cui la maggior parte degli uomini non arriverà mai.

Tuttavia tutto questo iniziò a sembrarmi senza importanza il giorno che scoprii di essere lebbroso.

Prima una piccola macchia, poi un’altra, poi una piaga… era lebbra. Il mondo mi crollava addosso. Sono qui per raccontarvi quello che mi successe poi, perché la ritengo una buona notizia anche per voi. La mia guarigione mi ha fatto scorgere e capire cose che non avrei mai immaginato.

Vedete, io ero in un abisso di disperazione e mi dicevo che ne sarei uscito soltanto quando fosse conclusa la malattia. Il re, grande amico e fortemente preoccupato per me, mi indirizzò dai più grandi medici e stregoni della sua corte, ma tutto fu inutile. Avevo perso quasi la speranza quando ecco che avvenne questo: Mi riferì mia moglie che una ragazzina, una delle sue schiave, proveniente dal paese di Israele, aveva detto: “Se il mio signore si rivolgesse al profeta che è in Samaria, certo lo libererebbe dalla lebbra”.

Solo oggi mi rendo conto della grandezza di questa ragazzina. Il mio popolo l’aveva razziata alla sua famiglia, al suo villaggio, era adesso mia schiava. Avrebbe potuto vedere in me il suo nemico, anzi il capo dei suoi nemici, e compiacersi della disgrazia che si era abbattuta su di me… invece cercò di aiutarmi, e mise in moto con la sua frase tutta la serie di eventi che seguirono. La salvezza è arrivata nella mia vita grazie a lei… questa è una delle tante cose che capisco oggi: come piccoli gesti, di piccole persone quasi invisibili, diventino strumenti fondamentali di salvezza.

Ma poi, ancora, mi rendo conto del coraggio di questa fanciulla: si sa che quando il padrone è turbato è bene non contrariarlo, non si sa mai come può reagire: e in effetti se non fossi stato in un momento di così grande povertà interiore, toccando il fondo della mia solitudine e disperazione, avrei reagito male al suo consiglio, l’avrei pubblicamente derisa per quella stolta idea che in un popolo che giudicavo inferiore, visto che lo avevamo dominato e saccheggiato, potesse trovarsi un profeta e un guaritore… sì, credo che in un altro momento l’avrei derisa e le avrei dato un paio di bastonate per la sua impertinenza… Ma grazie a Dio, il coraggio di affrontare le mie eventuali reazioni non le è mancato, e grazie a Dio io ero troppo povero e solo in quel momento per non appigliarmi a quella speranza.

E infine, volevo sottolineare la grande fede di questa mia piccola salvatrice. Oggi so che l’uomo che mi ha guarito non ha mai guarito altri lebbrosi o altri malati, dunque la sua convinzione non era fondata sull’aver sentito parlare di prodigi o miracoli da parte di quell’uomo, ma solo dalla fede nel suo Dio e nel suo profeta…

Quando parlai al re della mia intenzione di recarmi in Israele, il re da bravo amico mi dette il suo appoggio, non fece obiezioni. Agì come agiscono i potenti: fidandosi della sua potenza e della sua ricchezza, mi inviò carico di doni a un altro potente, al re di quel paese chiedendo che facesse in modo di guarirmi.

Il risultato fu disastroso: quasi scoppiava una guerra, con il re di Israele che stracciandosi le vesti esclamava “sono forse Dio perché costui mi mandi un lebbroso da guarire? Ora è chiaro che cerca pretesti contro di me”. Mi rendo conto adesso che se il re di Israele avesse avuto anche solo una parte della fede della mia schiava, mi avrebbe condotto immediatamente da Eliseo. E’ strano come questa cosa grande che adesso chiamo fede, scarseggi nei cuori di quelli che ho sempre considerato ‘grandi’ e si trovi più facilmente nei ‘piccoli’…

Anche se il re non pensò neanche per un istante al profeta di Samaria, le voci sull’accaduto giunsero a Eliseo che rimproverando il re gli mandò a dire: “perché ti sei stracciate le vesti, mandalo da me e quell’uomo saprà che c’è un profeta in Israele”.

Così fu che andai da quell’uomo. Cerco di riportare alla mente le sensazioni che provavo quando ero in viaggio per andare da lui, insieme a tutta la servitù. La speranza, che dopo la crisi diplomatica era quasi del tutto morta, si ravvivava a ogni metro, provavo a immaginarmi la persona del profeta, le sue parole, le sue mani. Pensavo a un incontro che sarebbe risultato un onore per entrambi, anche per un uomo del suo calibro sarebbe stato un evento straordinario poter incontrare e guarire una persona importante come me. Ricevere i miei doni…

Mi aspettava una grossa sorpresa. Quando arrivai a casa sua con il mio carro e i miei cavalli, lui non mi ricevette nemmeno. Non si fece neanche vedere. Mandò un suo messaggero a dirmi di bagnarmi sette volte nel Giordano. La carne sarebbe tornata sana e io guarito.

Non so se riuscite a immaginarvi la rabbia che mi prese. Mi sentivo umiliato e oltraggiato, nella mia vita non avevo mai ricevuto un simile affronto. E mi dicevo: cosa ci sono venuto a fare, se non perché le sue mani tocchino le mie piaghe e le guariscano, se non perché lui invochi a gran voce il suo Dio e compia il prodigio. Le acque dei fiumi di Damasco non valgono forse le acque del Giordano? Non potevo bagnarmi in quelle? La mia collera era qualcosa di davvero bruciante. Me ne partii per fare ritorno alla mia città.

Ancora una volta devo ringraziare dei servi, quelli che erano con me, che dimostrando coraggio cercarono di convincermi a fare quello che l’uomo aveva detto. Ero talmente arrabbiato che li avrei uccisi tutti a fil di spada, eppure osarono dirmi qualcosa di molto sensato “se il profeta ti avesse imposto una cosa gravosa non l’avresti eseguita? Tanto più ora che ti ha detto bagnati e sarai guarito”.

Anche in quel momento fu la mia disperazione, la mia povertà nel corpo e nell’anima, a spingermi a mangiarmi l’orgoglio e fare quello che loro suggerivano. Scesi.

Scesi dal carro ma soprattutto dal mio orgoglio, dalle mie certezze. E mi lavai nel Giordano. Sette volte. Per quanto assurdo mi sembrasse dover ripetere sette volte l’operazione, lo feci. E guarii. Dalla mia malattia… e dalla superbia, dall’autosufficienza...

In quel momento cominciai a guardare tutto sotto una luce diversa. Mi si aprivano orizzonti nuovi. Quell’uomo che mi era parso così arrogante mi sembra adesso un uomo umile e libero, che non desiderava prendersi alcun merito, ma soltanto farmi incontrare con il suo Dio. Era un uomo libero e dunque capace di liberare. Ed io cominciai a sentirmi libero. A capire che tutto ciò che aveva riempito la mia vita: l’onore, la ricchezza, la fama, non mi aveva portato a questa libertà. Era la mia povertà, quel pezzo della mia vita che avrei voluto scartare, cancellare, togliere, era il pezzo più prezioso. La mia malattia mi aveva condotto a questo unico vero Dio, a questo Dio potente e misterioso. Questo Dio che non cerca di essere protagonista, proprio come Eliseo non ha cercato di essere protagonista. Ma che pure non rimane spettatore, solo ora mi rendevo conto di quanto tenesse alla mia vita e di come non fosse mai stato assente un attimo.

Tornai da Eliseo per portare a lui tutti i doni che avevo con me. E per riconoscere davanti a lui tutto ciò che avevo capito. Che il suo Dio, il Dio di Israele è l’unico vero Dio e non c’è alcun altro. Lui rifiutò i doni, proprio in nome del suo Dio li rifiutò.

Mentre parlavo con lui mi resi conto che dovevo iniziare a rendere omaggio al suo Dio nella mia vita, a continuare a essere in relazione con lui. E mi resi conto con un po’ di paura che dovevo rinnegare tutte le divinità che adoravamo a Damasco. Forse mi sarei inimicato il Re, il popolo. Sarei riuscito a fare tutto questo? Ne parlai al profeta di questa paura, chiedendo perdono se fossi per caso entrato nel tempio di Rimmon insieme al mio Re. Eliseo mi disse soltanto “Va’ in pace”

E la mia paura sembrò dissolversi. Sentii che il profeta non dava così tanta importanza quanta ne davo io alle mie mancanze. Quello che aveva fatto per me era stato fatto in modo gratuito.

Così adesso torno in patria con un senso di libertà ulteriore, guarito nel corpo ma guarito soprattutto nella mia ferita profonda. E’ per questo che ho deciso di raccontare questa mia storia, perché gustiate anche voi questa buona, buonissima notizia. Il Dio che mi ha guarito ha cura delle nostre vite, e le nostre ferite profonde sono spesso tra i doni più preziosi che ci fa, per unirci a Lui.

 

sabato 3 marzo 2012 - "Insegnaci le parole del silenzio" - intervento di fr. Massimo-Maria FMJ sulla lettera dell'Arcivescovo "Nel silenzio la Parola"

- San Miniato al Monte

Il mio intervento di questa sera non ha la pretesa di aggiungere altro di importante a quanto è stato detto sul silenzio, sulla parola, sulla lettera pastorale del nostro Arcivescovo “ nel silenzio la Parola”.

Vuole essere, così l'ho pensata, la condivisione di una riflessione scaturita, ( o piuttosto direi, con sorpresa, provocata) dalla lettera del Cardinale, riflessione maturata in chi, vive o cerca di vivere, nella Chiesa, l'avventura della vita monastica.

 

Già nel suo titolo la lettera mi pare interpelli fortemente il carisma monastico: se infatti il silenzio e la Parola ( con la P maiuscola evidentemente) sono come il grembo e la forza vitale, indispensabili per la crescita e la maturazione di una vita credente, senza dubbio il silenzio e la Parola sono per il monachesimo come l'aria e il cibo indispensabili per il cammino.

 

Spesso uno dei motivi che spingono tanti uomini e donne a bussare alla porta dei monasteri per vivere un tempo di preghiera, di riflessione o, come spesso ci si sente dire, un momento per staccare la spina, è proprio il fascino del silenzio, che si capisce essere necessario per la salute spirituale, psichica e fisica.

 

In tanti sempre più comprendono, magari senza troppi ragionamenti, che è da questa mancanza di spazi e di tempi di silenzio, che nasce:

  • un certo disagio interiore, un diffuso disagio nelle relazioni;

  • la superficialità, ed anche la volgarità, delle parole;

  • una qualità di comunicazione che di fatto non comunica, perché non crea comunione anzi produce incomprensioni e talvolta genera conflitti. Ha scritto il Cardinale nella sua lettera:

Soprattutto il silenzio è ciò di cui abbiamo bisogno per far nascere

un atteggiamento di ascolto, che è il presupposto del felice

esito della comunicazione:”


 

Ma in particolare, lo sappiamo – e in questo contesto lo sottolineiamo - ed anche chi non lo ammette chiaramente, tuttavia lo intuisce, la mancanza di silenzio, anestetizza il cuore, lo rende insensibile ad accorgersi di Dio, a percepirne la presenza, ad accoglierne le “ prese di Parola”.

La mancanza di silenzio distrae il cuore, non gli permette, in una parola, di cogliere la presenza di Dio nella creazione, in se stesso e nell'altro che gli sta di fronte.

 

Il P. Pierre Marie Delfieux, fondatore della famiglia monastica a cui appartengo, sostiene che, forse, è proprio la mancanza di silenzio uno dei principali motivi dell'ateismo moderno.

 

In effetti, a pensarci, questo non sorprende, poiché la nostra società definita la “civiltà della comunicazione”, in cui tanto si ritiene di sapere e tutto si crede di conoscere, di fatto rischia di essere una Babele, una confusione, proprio perché piena di parole e avara di silenzio, e rischia non solo di non conoscere in verità, ma di più di lasciarsi sfuggire l' “Essenziale”.

 

In molti, dicevo, bussano alle porte dei monasteri in cerca del “silenzio”, comprendendone il valore, intuendone la preziosità, riconoscendone il bisogno.

 

Tuttavia la parola “silenzio” non ha un significato univoco, ha in realtà una grande varietà di interpretazioni e di significati.

 

Uno infatti è il silenzio del cristiano in preghiera, del monaco in adorazione, del credente in ascolto della Parola; altro è il silenzio del monaco zen, altro quello dello studioso che ricerca tra i volumi delle biblioteche o del matematico immerso nei suoi calcoli; altro è il silenzio come assenza di ogni brusio e rumore per cercare una non ben identificata armonia interiore; altro ancora,lo sappiamo. il silenzio del disappunto, della collera, della rabbia o del broncio, tanto diverso dal silenzio dello stupore, dell'ammirazione, dell'adorazione.

Il Cardinale cita, ad un certo punto della sua lettera, un apoftegma dei padri del deserto, una vera perla di saggezza, un detto di Abba Poemen.

Così recita l'apoftegma:

” Vi è un uomo che sembra tacere, e il suo cuore giudica gli altri; costui parla sempre! E ve n'è un altro che parla da mane a sera e conserva il silenzio, non dice niente che non sia di edificazione”.

Continua il Cardinale: “Se così è non ogni silenzio va cercato e coltivato.” Da qui l'importanza di un' adeguata educazione al silenzio.

 

Nella mia condivisione-riflessione voglio allora tentare con voi di capire quale silenzio il monaco riconosce come il buon silenzio, quello che va coltivato, cercato, desiderato e quindi vissuto.

 

Una precisazione anzitutto, forse un po' scontata, ma credo importante.

Nel riconoscere un posto speciale al valore del silenzio, c'è senza dubbio alla base, nella vita cristiana e monastica, una convinzione profonda, derivata dalla Scrittura e dall'esperienza della vita spirituale, e cioè che il silenzio è decisamente legato al mistero di Dio e del Suo Amore Misericordioso e, di conseguenza, al mistero che siamo noi, che è il cosmo, che è la storia.

Ma, di più, non solo il silenzio è legato a Dio, ma anche Lo indica , lo richiama, e di esso, cioè del mistero di Dio, paradossalmente, il silenzio tanto esprime.

 

La Scrittura ci dice che l'essenza di Dio è l'amore, e se, come l'esperienza ci dimostra, attraverso il silenzio si dice l'indicibile dell'amore, evidentemente questo è vero “ a fortiori” per Dio, tanto da poter affermare che poiché Dio ama, anzi è amore, per questo si può dire che è silenzioso, meglio è silente. Il suo amore infatti è così infinito, così puro, così sublime che si comunica attraverso il silenzio.

 

Commentando il testo del 1Re, scrive nella sua lettera il nostro Arcivescovo, “ Dio giunge, ma lo fa nel sussurro di una brezza leggera. Ancora più eloquente è il testo se tradotto alla lettera:

“ una voce di esile silenzio”. Dio giunge nell'esile silenzio.

Scrive la Monaca Madre Anna Maria Canopi: “ L'amore più profondo, più grande, più vero, si dice soltanto nel silenzio. Dove le parole si rivelano insufficienti, ecco, lì l'esperienza dell'amore raggiunge il suo culmine: “ é “ semplicemente.“

San Giovanni della Croce afferma: “ Il solo linguaggio che Dio ascolta è l'amore silenzioso” precisando che: “ Il silenzio non è tuttavia l'amore ma una accortezza dell'amore.”.

E il filosofo Kierkegaard ha scritto: “ Signore non lasciarci mai dimenticare che tu parli quando fai silenzio”.

La “ regola” delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme – quella che evidentemente conosco meglio, chiamata Libro di Vita – scrive: “ Il silenzio ti porta a Dio.”

Poiché Dio è amore e, poiché il silenzio esprime l'amore, esiste quindi una reciprocità molto forte tra Dio e il silenzio.

Il silenzio ri-chiama, con-clama, re-clama, de-clama Dio.

Pensiamo ancora a questo proposito al Salmo 19:

I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio e senza parole senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio”. ( Sal 9, 2-5 ).

 

Fatta però questa precisazione, ritorniamo alla domanda di cui sopra “ Qual'è il silenzio buono, utile, necessario, quello che i monaci desiderano vivere, e con-dividere, con coloro che bussano alle porte dei monasteri.?”

 

Oso uno slogan: il silenzio buono, che è da coltivare nella vita cristiana e da ricercare nella vita monastica è il silenzio che apre , precisamente in tre direzioni:

  • Il silenzio che apre verso l'alto nell'ascolto di Dio

  • Il silenzio che apre verso la profondità, nella conoscenza di se stessi.

  • Il silenzio che apre verso l'altro nell'accoglienza del fratello.

  1. Il silenzio apre verso l'alto!

 

Il silenzio non è mai fine a stesso. Non esiste il silenzio per il silenzio.

Cito ancora il Libro di Vita di Gerusalemme : “ Lo scopo della tua vita non è tacere, ma amare i tuoi fratelli, conoscere te stesso ed accogliere il tuo Dio” (L.d.V. 30).


 

Il silenzio non è semplicemente assenza di parole, certamente ne esige una limitazione, non è assenza di rumore, anche se questo è importante, il silenzio è piuttosto espressione di un desiderio, di un profondo desiderio di incontro, di ascolto, di una Parola che dà vita; è prendere coscienza di quell'apertura radicale verso l'alto che ognuno porta nel più profondo di se assecondandola; è espressione dell'apertura all'Oltre, prendendola sul serio! “ Mediante il silenzio entrerai nel mistero di Dio, aprirai la tua anima alla gioia della sua presenza, e alla grazia dell'adorazione.” Così scrive ancora il Libro di Vita dei monaci di Gerusalemme.

Per questo il silenzio non è mutismo o isolamento, al contrario è apertura, è : “liberare nel fondo del cuore quello spazio caldo ed accogliente per ricevere, accogliere, fare spazio alla Parola di Colui che bussa continuamente alla nostra vita perché vuole diventane l'unico Signore.” ( M.M.C.Rellàn)

Il silenzio – affermava Paolo VI – è l'attività profonda dell'amore che ascolta”, affermazione vera nei confronti dei fratelli, ma ancor più, nei confronti di Dio.


 

Il silenzio apre verso l'alto, cioè verso Dio, particolarmente abilitandoci all'ascolto. Non è quindi a caso che il primo comando di Dio nella Scrittura sia : “ Ascolta Israele...”. Fare perciò silenzio, o, come talvolta si dice, mettersi in stato di silenzio, coincide con l'obbedire a questo invito all'ascolto da parte di Dio. Ed ogni comunità monastica, nella Chiesa è essenzialmente questo: una comunione di persone convocate per essere una particolare apertura verso l'alto ( è questa in definitiva quella ricerca di Dio che caratterizza la vita monastica ) attraverso il silenzio che esprime l'intensità dell'ascolto e confessa così l'indiscutibile primato di Dio.

Il silenzio apre verso l'alto nell'ascolto di Dio!

 

  1. Il silenzio apre verso la profondità della conoscenza di sé.

Il silenzio è poi un prezioso alleato, per accompagnarci a scendere nel nostro cuore e scoprire cosa vi abita. Se il silenzio conduce a Dio, non meno conduce all'incontro con noi stessi. Ci apre infatti alle profondità del nostro cuore mostrandoci tutto il bene che vi è presente, tutta la ricchezza che il Signore vi ha deposto, in modo particolarissimo il suo stesso mistero, a partire dal quale possiamo conoscere il nostro.

Ciascuno infatti sa bene chi è solamente in Dio.

Ma nella profondità del cuore, attraverso il silenzio, con un certo sgomento, scopriamo anche tutte le ferite che il peccato ha lasciato. Ed è a questo proposito che questo processo di conoscenza di ciò che siamo realmente può divenire pesante, spesso non facile da sopportare e talvolta persino doloroso. E' probabilmente per questo che il silenzio affascina tanti, ma insieme incute un certo timore.

Il silenzio fa cadere infatti, le maschere che portiamo, spegne, per così dire, i riflettori su ciò che noi pensavamo di essere, su quelle immagini ingombranti di noi stessi che ci eravamo costruiti e che credevamo ci facessero esistere procurandoci l'ammirazione degli altri, il loro riconoscimento, la loro stima, la loro attenzione, la loro considerazione.

La tentazione di fuga dal silenzio diviene allora pressante , e il desiderio di rincorrere il rumore si fa forte. Una tale esperienza è certo impegnativa, dicevo talvolta dolorosa, ma nell'itinerario discepolare è sempre, assolutamente, un momento propizio, un' occasione di grazia: è la prova del deserto, quel deserto attraverso cui bisogna passare per portare frutto, secondo l'espressione del B. Charles de Foucauld

La Scrittura ci suggerisce, nel libro delle Lamentazioni, una parola che può essere molto preziosa in momenti come questo: “ E' bene allora attendere in silenzio la salvezza del Signore” .

E il Signore è fedele. Nel silenzio del cuore umiliato, si fa incontro la verità del volto misericordioso del Padre, è offerta la possibilità di conoscersi, ma in Dio, di guardarsi, ma con il suo sguardo. Nella vulnerabilità, scoperta attraverso il silenzio, si scopre di avere un solo difensore: Dio, la sua fedeltà, la sua Presenza.

Ha scritto ancora, a proposito di una tale esperienza, l' Abadessa del Monastero dell'Isola di San Giulio: “ Davanti alla realtà del nostro cuore, davanti alla realtà del male che è in noi, che cosa possiamo fare, se non uscire da noi stessi e in silenzio, con umiltà, spalancare il nostro sguardo su di Lui. Se ci trova prostrati, umili, in silenzio di compunzione ci avvolge con il suo sguardo di compassione e ci solleva.”

A questo punto, da una vera conoscenza di noi stessi, a cui il silenzio può condurci, dall'esperienza dell'umiliazione nascono l'umiltà, la libertà e la pace, una più profonda esperienza e conoscenza dell'Amore di Dio.

L'aver intravisto il baratro che siamo e l'abisso che è il nostro cuore, l'aver riscoperto di essere fragili creature, alla luce di Dio, non ci schiaccia, ma ci libera, ci riconcilia, ci pacifica, non ci crea complessi e non provoca drammi.

Il silenzio apre, per dirla con i medioevali, al cognoscimento di sé, e il cognoscimento di sé è inizio del cammino di santità.

 

  1. Il silenzio apre verso l'altro!

 

Se il silenzio ci apre verso l'alto, all'ascolto di Dio, alla profondità del cuore umano nella conoscenza di se stessi, ci apre anche all'altro, al fratello, nell'accoglienza, un' accoglienza che ha l'intensità e la profondità del silenzio.

Attraverso il silenzio infatti, è permesso di vedere l'altro, di accorgersi che l'altro c'è, esiste, e che– importante – esiste altro da noi, in tutta la sua unicità. “Accoglierlo è permettergli di esistere dandogli, lasciandogli piuttosto, tutta quella libertà di cui la sua esistenza necessità.”

Ecco allora che il silenzio, in questo caso, è un silenzio interiore, esigente, ascetico. Assume infatti i connotati della povertà, intesa qui come presa di distanza dall'”io”; quell'io sempre tentato di manipolare, strumentalizzare, manovrare, possedere, imporsi. Anche per questo, il Libro di vita di Gerusalemme ricorda che: “ Nel crogiolo del silenzio imparerai la santità...Conducendoti all'oblio di te stesso, il silenzio ti farà trovare Dio e, nel suo cuore, il mondo.”

Il silenzio permette di aprirsi all'altro nell'accoglienza, proprio aiutando a prendere le distanze con determinazione dal proprio “io”, “dimenticandosi” - secondo l'espressione di S.Teresa di Lisieux.

E' proprio questa distanza dall'io infatti, è questo fare silenzio su se stessi, che permette di aprirsi al fratello e che, certo, prepara la comunione.

A tale proposito è prezioso quanto scrive la Madre Anna Maria Canopi:

Il vero silenzio è quello che fa tacere noi stessi. Se non facciamo tacere l'”io” possiamo andare anche nel deserto più deserto, ma è una illusione, ci rimane infatti l'ostacolo maggiore, quello che ci separa da Dio e dagli altri, quello che non ci lascia conoscere il “Tu” di Dio ed il “ tu “ dell'altro: questo ostacolo si chiama il nostro “io”.

Quante volte, nei nostri rapporti interpersonali, salta fuori questo terribile personaggio – l'”io” - che si mette in conflitto con gli altri e fa tanto chiasso da stordirci...Il chiasso più grande che può disturbare il monastero infatti è quello del nostro “io”.

Questo silenzio così difficile ma così prezioso, è cammino di vera apertura all'altro, di squisita accoglienza, di profonda comunione.

In questo senso il libro di vita di Gerusalemme ricorda: “ Mediante il silenzio impara ad amare”.

  1. Conclusione

     

Il silenzio – che paradossalmente finora ho riempito di parole - così prezioso nella vita cristiana e così essenziale nella vita monastica non isola, piuttosto custodisce e fa crescere la comunione,non è mai sterile ma sempre fecondo, soprattutto non chiude, ma apre, decisamente apre: all'amore, alla verità, alla conoscenza, alla comunicazione. Apre a Dio, agli altri, a se stessi, proprio perché, come ha scritto Bonhoeffer: “ Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali.”

Filosseno di Mabbug, autore siriano del VI secolo, ha scritto in una delle sue omelie:

Per due motivi puoi scegliere il silenzio che si pratica per Iddio, fuori dal mondo: o perché hai già raggiunto quel grado di purezza e di sapienza che ti fa sperimentare Dio, o perché hai udito qualcuno parlare di questo bene ed anche tu, sulla sua parola, ti affretti a conseguirlo:”

E' in questo senso che mi permetto di leggere un passo sul silenzio interiore di P.Pierre Marie, nel già citato Libro di Vita di Gerusalemme, fondatore delle comunità monastiche nel cuore delle città:

Il silenzio ti porta a Dio e Dio ti introduce nel suo silenzio...Il Signore scavi dentro di te un'attesa ed un invito che orientino la tua vita a ricevere e a custodire la Parola del Padre che è suo Figlio, nella pace dello Spirito. Gusta questa Parola divina, pronunciata interamente nel silenzio: silenzio trinitario che è pienezza di attenzione, di rispetto, di condivisione e di Amore. Solo la contemplazione di questo mistero saprà portarti a vivere a tua volta nel segreto di questo silenzio che avrai interiorizzato e tutto il tuo essere, nel suo silenzio tranquillo e forte, esprimerà Dio. Al lavoro, per strada, quando esci e quando rientri, da solo o sui mezzi pubblici, fra il trambusto della città porta con te il segreto del silenzio interiore. Dio vive in te, ascoltalo! Il silenzio è lo slancio della tua preghiera nel cuore della città e ogni giorno la pace della tua anima.”


fr. Massimo-Maria

 

 

 sabato 4 e Domenica 5 dicembre 2010 - Ritiro di Avvento delle FEG - insegnamento di sr. Chiara FMJ

 

«Hai visto bene, perché io vigilo sulla mia parola per realizzarla»

 

Vorrei suggerirvi come punto di partenza un versetto del profeta Geremia: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa vedi Geremia?” Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché Io vigilo sulla mia parola per realizzarla”.» Ger1,11-12

Geremia ha appena ricevuto la missione dal Signore, sta un po’ contrattando, perché non si sente a suo agio con quanto il Signore gli ha detto e mentre si trova assorto nei suoi pensieri vede un oggetto assolutamente insignificante, un ramo di mandorlo, il cui nome in ebraico vuol dire “colui che veglia”. Potremmo dire che Geremia risponde: “Vedo un ramo che veglia”. Questo nome viene dato al mandorlo perché è come se personificasse una sentinella dal momento che vigila sui primi segni di inizio della primavera per essere il primo a fiorire; per altri il ruolo di sentinella che vigila, è dato dal guscio del frutto, che lo custodisce lasciando intravedere il frutto solo alla fine della maturazione. Quando il tempo è giunto il guscio, che ha compiuto il suo compito, si apre e libera il frutto maturo.

Dio gli conferma che ha visto bene “colui che veglia” – e qui c’è un gioco di parole in ebraico perché i due termini si assomigliano nella pronuncia, oltreché nella scrittura – è Lui stesso. Egli veglia sull’adempimento, sulla maturazione, della Sua parola.

Vegliare, vigilare pensiamo che normalmente sia un’azione che ha per soggetto l’uomo: quante volte in queste ultime settimane siamo stati invitati dalla Parola di Dio ad essere vigilanti, quante volte ci siamo trovati a vegliare in determinate situazioni sui nostri cari. Possiamo in realtà scoprire che è prima di tutto un’azione di Dio: da Lui l’uomo impara a vigilare, a vegliare, ad essere sentinella.

“Hai visto bene, perché io vigilo sulla mia parola per realizzarla” dice il Signore a Geremia che ha paura. La stessa parola, il Signore la dice a ciascuna di noi. Nella mia storia, nella tua storia il Signore ti dice: “ hai visto bene perché io vigilo sulla mia parola – quella parola che ho detto a te personalmente - per realizzarla nella tua vita”, non temere.

Dio ha tempo per l’uomo

Questa parola, presa sul serio, ci apre alla conoscenza profonda del Signore.

Prima di tutto ci dice che Dio ha tempo per l’uomo: «il Signore veglierà su di te quando esci e quando entri, da ora e per sempre» Sal. 121, 8. Dio ha tempo per l’uomo, condivide il suo tempo con l’uomo, tutto il tempo in tutte le sue vicende. Esci/entri; ora/per sempre sono termini estremi ed opposti per dirci che tutta la gamma delle azioni e la molteplicità dei momenti del tempo sono racchiusi qui dentro. «Come ho vegliato su di te per sradicare e demolire, per abbattere e per distruggere (…) così veglierò su di te per edificare e per piantare» Ger 31, 28. Ogni frammento del nostro tempo è custodito e vegliato dalla fedeltà del suo amore.

Dal ramo che vigila io capisco anche perché Dio ha tempo per noi.

«Ricorda tali cose, o Giacobbe, o Israele, poiché sei mio servo. Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me» Is 44, 22.

Non sarai dimenticato da me, ci dice il Signore, perché io ti ho formato e ti ho formato mia immagine e somiglianza e perciò capace di comunione profonda con me, l’unico che ho formato per una relazione così personale tanto che ti chiamo mio servo, appellativo che nella Bibbia è un titolo d’onore, perché indica chi è chiamato ad essere collaboratore di Dio. Per queste ragioni “non si addormenta, non prende sonno il custode di Israele” lo cantiamo nella liturgia.

«Tuo gōél è il Santo di Israele»

E’ talmente intenso, esclusivo, totale l’interesse, la vigilanza, che Dio ha per noi che per capire fino in fondo il perché Lui ha tempo per me ci facciamo aiutare da un altro breve testo del profeta Isaia: «Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele: non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare, poiché io sono il Signore, tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore. Io do l'Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l'Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo, (…)Non temere, perché io sono con te; (...)Così dice il Signore, vostro redentore, il Santo d'Israele…» Is 43, 1-5,14.

Quattro verbi ci aiutano a comprendere le ragioni della vigilanza di Dio per noi:

²     creare: esprime l’attività propria di Dio.

Questo verbo fin dall’inizio della Genesi è riservato solo a Dio ed è la capacità di chiamare all’esistenza qualcosa di nuovo, ciò che ancora non è.

A questo verbo si collega

²     plasmare, formare. Ci richiama il prendere forma dalle mani di Dio che plasma la polvere della terra soffiando in essa il suo alito di vita.

C’è poi il verbo

²   chiamare: Dio disse e fu. Dio ha chiamato all’esistenza con la sua parola. La sua parola pronunciata sul creato ne esprime il possesso e il dominio, rivolta ad una persona ne connota l’appartenenza, fa iniziare una vocazione.

Ma il verbo su cui mi voglio fermare è

²     riscattare: apparentemente è il termine che ci parla di meno, forse il meno carico di relazionalità, meno evocativo dell’azione di Dio per noi, eppure mi sembra che proprio qui stia in sintesi la ragione dell’avere tempo da parte di Dio per noi, della sua vigilanza per noi. Riscattare è un termine del diritto, è un termine giuridico poi passato al linguaggio religioso che dobbiamo mettere insieme a redimere. Dio dice di sé, al v. 14 “così dice il Signore, vostro redentore….”.

Riscattare/redimere è un’azione che nella tradizione giudaica si utilizza per una situazione compromessa. Si riscatta, si libera da un potere estraneo ciò che appartiene alla famiglia o riguarda la schiavitù di una persona, la proprietà di un terreno. Questa azione la compie il parente più stretto della persona che ha subito il torto. Il parente più stretto che svolge l’azione di riscattare, di redimere e si chiama gōél.

Il gōél acquista un bene che a lui è estraneo perché in questo modo le leggi di Israele permettono alla famiglia di mantenere la proprietà di quel bene; libera una persona sua parente pagando un prezzo a chi lo detiene come schiavo. E’ un impegno per il gōél liberare, riscattare. E’ un dovere anche gravoso e non solo dal punto di vista economico.

Il gōél è dunque il parente più stretto, che vigila sulle sorti della famiglia e sui suoi beni.

Quando il Signore parla a Israele dice: “Non temere(...)io vengo in tuo aiuto – oracolo del Signore – tuo gōél è il Santo di Israele” Isaia 41,14.

Dio dice di se stesso che Lui è il gōél per Israele, è Lui il suo parente più stretto, forse potremmo dire il fratello maggiore, padre, madre, sposo, comunque il parente più vicino a cui non solo sta a cuore la sorte di Israele, ma è impegnato con un patto ad esercitare questo compito di gōél. Impegna se stesso in un modo che supera il modo in cui un gōél terreno esercita questo compito. Dio in quanto gōél non acquista un bene estraneo, ma recupera ciò che da sempre gli appartiene. Dio fa valere il suo diritto su Israele perché – l’abbiamo appena letto – è Lui che ha creato e scelto questo popolo ed è il suo re.

Troviamo dunque la ragione della vigilanza di Dio, del suo avere tempo per l’uomo, per noi, nel fatto che lui è il tuo gōél, il tuo parente stretto, colui a cui da sempre tu appartieni, per questo vigila perché la sua parola si realizzi. E’ bello vedere che alla rivelazione di questa parentela stretta con il Signore, l’uomo risponde riconoscendo che questa è la sua identità da sempre: «Questi dirà: “Io appartengo al Signore”, quegli si chiamerà Giacobbe: altri scriverà sulla mano “del Signore” e verrà designato con il nome d’Israele» Isaia 44,5. Il libro del Deuteronomio ci ricorda «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» Dt 7, 7 – 8.

Non c’è nessuna prerogativa, nessun merito da far valere perché il Signore sia il gōél E’ perché ama e vuole mantenere la parola data.

                               «Ecco io stabilisco la mia alleanza con voi»

La parola sulla quale Dio vigila perché si realizzi non è come le nostre parole, “ti do la mia parola” diciamo a volte quando prendiamo l’impegno con qualcuno, ma spesso poi ce ne dimentichiamo. La Parola di Dio è quella che Dio pronuncia alla creazione “e Dio disse e fu”: è una parola che realizza ciò che dice. E’ una parola che, come abbiamo già detto, chiama l’uomo all’esistenza e ad un’esistenza ad immagine e somiglianza di Dio ed il significato di essere ad immagine e somiglianza di Dio è quello di essere capace di entrare in relazione con Lui, capaci perché Lui ha messo questa capacità nella nostra vita.

La Parola di Dio ha chiamato, fin dall’inizio dell’esistenza, l’uomo alla relazione con Lui, all’appartenenza a Lui, ad essere familiare di Dio, della sua parentela stretta.

Su questa parola il Signore veglia impegnandosi, in un patto, con una promessa, si parla di un’alleanza (berith): il Signore veglia perché l’uomo resti nella relazione con Lui. Io sarò con te, e tu sarai mio, questa è l’alleanza.

Su questo punto si snoda tutta la storia del rapporto fra Dio e l’uomo fin dai Patriarchi. La promessa della terra, di una discendenza sono il segno concreto del desiderio di Dio di essere “il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te”. Proprio perché vigila su questa parola, Dio «ascolta il lamento del popolo (quando è schiavo e oppresso). Dio si ricorda della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guarda la condizione degli israeliti. Dio se ne diede pensiero» Es. 2, 24-25.

Ascolta, si ricorda, guarda, se ne dà pensiero sono tutti verbi che scandiscono con forza l’atteggiamento di vigilanza di Dio, a cui corrisponde l’agire concreto della liberazione e della salvezza. Anche in questo il Signore ci sorprende, perché quello che normalmente succede tra le persone quando fanno un patto è che entrambi si danno degli obblighi, il rispetto o il non rispetto dei quali fa sì che il patto venga a cessare. Con il Signore non è così. Tra gli uomini è un patto bilaterale,ma tra Dio e l’uomo l’impegno è unilaterale, è Dio solo che si impegna. Se vogliamo una conferma di questo possiamo leggere il capitolo della Genesi in cui a conclusione dell’esperienza del diluvio Dio dice a Noè e ai suoi figli: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi, non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra.» Gn 9, 9-11. Chi si impegna qui? E’ il Signore: io stabilisco…. Chiede qualcosa in cambio? Niente, anzi pone un segno per ricordare l’impegno che si è preso.

Quando Dio fa alleanza con Abramo usa un rito antico, tribale. Vengono squartati a metà degli animali. Normalmente i contraenti del patto passano in mezzo agli animali squartati per significare con questo gesto che succeda a loro così se non rispettano il patto. Chi passa in mezzo agli animali squartati? «Quando tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse alleanza con Abram.» Gn 15,17. Solo il Signore è passato in mezzo, Abram non ha fatto niente.

Nel tempo della “giovinezza”, dopo la liberazione dall’Egitto ed aver seguito il Signore con fiducia nel deserto il popolo si impegna a sua volta con entusiasmo «tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!” e ancora “quanto ha detto il Signore lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» Es 24 Fa tuttavia l’esperienza atroce del continuo tradimento, degli idoli, del volere essere come gli altri popoli e farsi un proprio re. Qual è la risposta del Signore? «Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani, …- noi diremmo: è meglio lasciar perdere perché non ottengo niente di buono, ma il Signore continua - perciò eccomi continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo.» Is 29, 13-14.

La parola del Signore fa, compie, crea quel che dice, infatti il Signore si dà i mezzi perché questa appartenenza non venga mai meno, perché non sia condizionata dalle fedeltà o infedeltà dell’uomo. L’alleanza continua perché Dio lo vuole.

Leggiamo nel libro del profeta Geremia «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore - , nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno istruirsi l’un l’altro dicendo: “Conosci il Signore”, perché tutti mi conosceranno dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore-, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» Ger 31, 31-34.

In questo brano compare per l’unica volta in tutto l’Antico Testamento il termine alleanza unito alla parola nuova.

In cosa consiste la novità?

²   La prima novità: farò dono della mia legge (parola) dentro di loro, nel loro intimo e la scriverò sul loro cuore: la legge non è più scritta su tavole di pietra, ma sul loro cuore e questo segna un passaggio da una adesione esteriore ad una interiore.

²     La seconda novità: sarò per essi Dio ed essi saranno il mio popolo. Forse più che una novità questa è una conseguenza ma colta comunque come un fatto nuovo perché mette di fronte alla verità “Io sono per essi Dio (e non altri) essi sono mio popolo (mia proprietà).

²     La terza novità: tutti mi conosceranno. Non si tratta più di insegnare l’uno all’altro, qui c’è una contrapposizione fra i due termini. Si tratta di conoscenza, di esperienza personale e diretta con il Signore che si fa conoscere da tutti, dal più piccolo al più grande.

²     La quarta novità: viene eliminato l’ostacolo che impedisce di rispondere con fedeltà all’alleanza “Io perdonerò, non ricorderò più”.

Questo testo ci fa vedere una svolta nei rapporti tra Dio e il suo popolo, nella vigilanza di Dio sulla sua parola perché si realizzi. La novità del rapporto con Dio è fondata sull’assicurazione che Dio non verrà mai meno, anche se l’uomo non è fedele. Il Signore prende su di sé l’impegno.

«Dio, alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio»

La costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II Dei Verbum ci dice che lungo tutta la storia del rapporto fra Dio e l’uomo, Dio a più riprese e in diversi modi ha parlato attraverso eventi e parole intimamente connessi, ha parlato agli uomini come ad amici (è il gōél), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé (questa è la parola su cui Lui veglia). Dio che ha parlato così «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» Eb 1, 1-2.

Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse fra noi e ci spiegasse i segreti di Dio. Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” e porta a compimento la parola su cui Dio veglia. Il desiderio di Dio è di invitare gli uomini alla comunione con Lui, riportando a sé ciò che da sempre gli appartiene. Gesù è la Parola di Dio che compie questo desiderio, spiegando i segreti di Dio fa conoscere ad ogni uomo il suo volto di gōél e realizza il patto che Dio ha fatto con il suo popolo “Io sarò con te”.

Ci aiuta a comprendere questa parola ultima e definitiva detta da Dio, che è Gesù, il canto degli angeli che troviamo nel Vangelo di Luca. «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che Egli ama» Lc 2,13.

I questo canto ci sono delle parole che si richiamano tra loro, a due a due, come un’eco.

Gloria richiama pace, cieli richiama terra, Dio richiama uomini.

Questo canto è una professione di fede: gli angeli non dicono sia gloria a Dio, così diciamo noi alla fine di un salmo, ma dicono è gloria a Dio. Gli angeli con il loro canto raccontano e spiegano quello che è accaduto: c’è gloria in cielo e c’è pace in terra per gli uomini.

C’è gloria a Dio in cielo perché quello che Dio ha fatto con Gesù suscita la glorificazione da parte delle sue creature. La gloria di Dio è lo splendore di Dio che c’è sempre e indipendentemente da ogni riconoscimento, ma questa è la gloria a Dio, data dalla lode da parte degli uomini.

Pace è l’insieme dei doni che Gesù messia inviato di Dio porta. E’ una parola che ha un significato molto vicino a “grazia” e non indica tanto l’assenza o l’eliminazione di guerra o di contrasti umani, ma indica il ristabilito, pacifico e filiale rapporto con Dio. Indica la realizzazione definitiva della Parola su cui Dio da sempre veglia “Io sarò il tuo Dio e tu sarai mio popolo”.

Poi c'è un'altra parola a cui fare attenzione: agli uomini che Egli ama. Noi siamo abituati ad avere nella memoria “Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”, attribuendo la buona volontà agli uomini, in realtà oggi sappiamo che è un errore di interpretazione entrato nella tradizione. La buona volontà, anzi la benevolenza è di Dio. E sono gli uomini, tutti gli uomini, non solo quelli di buona volontà, che sono benvoluti da Dio, sono tutti oggetto dell'amore di Dio. Così cantiamo nella lettera agli Efesini «in Lui (Cristo) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità, predestinandoci ad essere per Lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d'amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato» Ef 1, 4-6.

Natale è quindi la suprema epifania dell'amore di Dio: in Gesù si è manifestata la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini. (Tt 3,4) Dio non aveva parola più alta, più profonda, più efficace per vigilare sulla realizzazione del suo desiderio di comunione con l'uomo, per dichiarare apertamente tutto il suo amore.

Potremmo dire che ci sono due modi per manifestare ad un altro il proprio amore. Il primo consiste nel fare doni alla persona amata, per assicurare all'altro il proprio interessamento ed affetto. Dio ci ha amato così nella creazione. La creazione è tutta un dono: dono è essere chiamati alla vita, i fiori, l'aria, il sole stesso. Tutto è dono, regalo di Dio.

C'è un altro modo di manifestare il proprio amore, ed è molto più difficile del primo, ed è soffrire per la persona amata. E' questo l'amore con cui Dio ci ha amati nell'incarnazione. “Siccome non doveva rimanere nascosto quanto immensamente Dio ci amasse, per darci l'esperienza del Suo grande amore e mostrare che ci ama di un amore senza limiti, Dio inventa il proprio annientamento (N. Cabasilas “Vita in Cristo”). Ha inventato il proprio annientamento, in Gesù che - ci ricorda la Lettera ai Filippesi- “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”.

In Gesù si realizza la parola su cui Dio veglia, si concretizza il dono di pace agli uomini sulla terra. Condividendo la vita del’uomo, Dio porta a compimento la sua parola.

“C’è più gioia nel dare che nel ricevere”, dice Gesù, c’è più gioia nel dare amore che nel riceverlo. Natale non è perciò solo la festa della gioia degli uomini, ma anche la festa della gioia di Dio, perché con Gesù si realizza la parola dell’amore più grande.

Qual è l’amore più grande? Noi siamo abituati al pensare che é quello per i nemici. In realtà Gesù ci dice «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» Gv. 15, 3.

Nel Natale, Gesù che è la nostra Pace già dà inizio a quello che poi porta a compimento nella Pasqua. Dare la vita per i propri amici è dare la vita perché quelli che sono nemici, da nemici divengano amici di Dio. Questa è la parola di addio che Gesù lascia ai suoi apostoli nell’ultima cena sapendo quello che avrebbe fatto, ma già è prefigurato nel mistero del Natale.

L’iconografia ci aiuta a contemplare questo mistero. “Questo per voi il segno - dice l’evangelista Luca - troverete un bambino avvolto in fasce adagiato in una mangiatoia”.

Nell’icona della Natività la mangiatoia è raffigurata come altare dove l’agnello legato per il sacrificio viene immolato, è il mistero dell’Eucarestia in cui Cristo, con il dono che fa di se stesso, ristabilisce per noi una profonda comunione con il Padre, con la creazione (usando come segno le cose del creato lavorate dall’uomo e quindi con una nobiltà ulteriore) e con l’umanità.

Anche la scena del bagno, che troviamo in basso a destra, nella rappresentazione grafica è giunta fino a raffigurare la bacinella come un fonte battesimale, ha qui la forma del calice.

Il battesimo di Gesù è innanzitutto un essersi immerso fino in fondo nella mia realtà umana: fino in fondo, fino alla fine, mi riporta alle parole del Vangelo di Gv 13 “sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine…”

Sino alla fine, sino al compimento, giunge la vigilanza di Dio per noi. Questa parola che è Gesù, è la parola ultima (non ce n’è un’altra) e definitiva.

Ciò che è definitivo è per sempre, e ciò che è per sempre è al di là del tempo. Non è solo quando Cristo verrà, ma è attuale, è oggi. Oggi Cristo viene.

“Ecco io sto alla porta e busso, se uno ascolta la mia voce io entrerò, cenerò con lui e lui con me”.

Nella mia vita quotidiana la vigilanza di Dio che bussa e la vigilanza di me che ascolto e apro si incontrano.

 

ÒÏ

 

«Fatevi imitatori di Dio come figli carissimi  e camminate nell'amore»

Attraverso un ramo di mandorlo abbiamo contemplato Dio che veglia sulla realizzazione della sua parola, quella parola che gli fa dire “Io sono il tuo Dio e tu sei il mio popolo” e che si realizza attraverso Gesù, perché “in lui ci ha scelti, secondo il beneplacito/la benevolenza della sua volontà”. In Gesù ci dice “Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”.

Se abbiamo contemplato Dio che veglia e questo suo vegliare si esprime nell'amare è perché a nostra volta capiamo anche noi come vegliare: «Fatevi imitatori di Dio come figli carissimi – esorta l'Apostolo – e camminate nell'amore» Ef 5, 1 ss. Fatevi imitatori di Dio: come Dio ha vegliato così vegliamo anche noi, come Dio si è fatto nostro gōél facciamoci anche noi gōél del nostro fratello; come Dio ha avuto tempo per l'uomo anche noi diciamo “ho tempo”. Ho tempo Signore, tutto il tempo che tu mi dai per ricevere da te l'altro, tuo e mio fratello, le sue speranze e le sue angosce, le sue tristezze e le sue gioie sono pure le gioie e le mie speranze le mie tristezze e le mie angosce. GS 1 Davvero non posso proprio dire “sono forse io il custode di mio fratello? Perché come ci dice sapientemente la Gaudium et spes “nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco  nel cuore di colui che è discepolo di Cristo”

Se il frutto della vigilanza di Dio è la pace,  che non è tanto assenza di conflitti ma che è una ricreata filiale comunione con Dio, se appunto il frutto della vigilanza di Dio è la pace, io che mi faccio imitatore di Dio non posso essere altro che un figlio della pace e quindi un operatore di Pace, nel significato di facitore di pace. Colui che fa /costruisce la pace che è quindi quella ristabilita comunione con Dio, la relazione fondamentale che dà identità e consistenza alla vita di ognuno di noi e che si traduce in una rinnovata comunione/pace con il fratello e in una relazione di giustizia che è ancora pace con i beni della terra.

La vigilanza di Dio ha rimesso armonia tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e l'uomo, tra l'uomo e il creato, proprio quelle relazioni che la non vigilanza dell'uomo aveva sovvertito.

L'attesa vigilante ci deve trovare con i fianchi cinti (cioè con il grembiule del servizio) e con le lampade accese (cioè sapientemente illuminati dalla parola di Dio) proprio sulle stesse realtà che stanno a cuore a Dio nel suo vigilare: la comunione con Lui, la relazione con l'altro, il nostro rapporto con i beni della terra.

E di queste tre cose la prima sta a fondamento delle altre.

Nel cuore della città, nel cuore di Dio

Così dice il libro di vita delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme: “Nel cuore di Dio che ha creato, riscattato il mondo e l'ha tanto amato tu ritrovi tutto l'universo. Non potresti dunque renderti più presente al mondo che vivendo costantemente alla presenza del Creatore del mondo” LV § 140.

Vivere costantemente alla presenza del Creatore a noi non sembra facile, perché il ritmo della vita di tutti i giorni ci fa già dimenticare di prima mattina chi siamo e da dove veniamo. Ritirati in un luogo a parte, in un tempo privilegiato in cui ascoltiamo la Parola di Dio ci sembra facile sentirci alla sua presenza, ma non ci sembra la stessa cosa quando dobbiamo discutere con i colleghi di lavoro, contrattare con i figli l'orario di rientro alla sera, trovarsi imbottigliati nel traffico in orario di punta, o anche solo cercare di mettere in fila tutti gli impegni di una giornata. “Non ho tempo”, è la prima obiezione che ci viene, o tutt'al più “appena ho tempo” faccio rientrare Dio nelle mie situazioni, nella mia giornata, nei miei impegni...

Per vivere costantemente alla presenza del Creatore è necessario che alla vigilanza e alla custodia di Dio, corrisponda la vigile accettazione dell'uomo: se Dio ha tempo per l'uomo e custodisce il senso della sua vita e della sua storia, l'uomo deve avere tempo per Dio e riconoscerlo, nella vigilanza della fede, della Speranza e dell'amore, come il Signore della sua vita e della sua storia. In questo modo ci collochiamo nella relazione di alleanza: la preghiera cristiana è una relazione di alleanza tra Dio e l'uomo in Cristo.

Una vita che prega è una vita che accetta questa alleanza da parte di Dio e con Dio, è una vita che attraverso la preghiera compie un'azione gratuita con cui esprime di accogliere, di accettare che questa alleanza si compia nella sua vita. Accettare dunque di non essere il Salvatore della propria vita - quando diciamo non ho tempo per restare nella relazione con Dio in pratica diciamo “io basto a me stesso” -  ma riconoscere in Cristo il proprio Salvatore, perché è qui, in Gesù che la storia d'amore tra Dio e l'uomo si compie: Gesù  significa “Dio salva”.

Vivere costantemente alla presenza di Dio, fare della nostra vita una preghiera e delle preghiera la nostra vita vuol dire innanzitutto restare in questa relazione di alleanza in cui mi ricevo da Dio ogni giorno e ogni giorno ricevo da lui le relazioni con gli altri, la mia famiglia, i colleghi, gli amici, il mio lavoro e anche il mio tempo libero, il mio divertimento.

Restare nella relazione di alleanza, vigilare da parte nostra su questo, ricevere tutto da Dio vuol dire ancora una volta accogliere nella nostra vita che si realizzi la parola su cui Dio veglia per noi: Gesù.

Vegliare è seguire Gesù, scegliere ciò che Gesù ha scelto, amare ciò che Lui ha amato, conformare la propria vita al modello della sua; vigilare è avere la percezione di vivere ogni attimo del tempo nell'orizzonte dell'amore con cui Dio ci ama in Gesù e vuole essere amato da noi in Lui e con Lui. Questo è vivere costantemente alla sua presenza, pregare senza stancarsi, pregare incessantemente. E' attraverso la vita: così svolgere il mio lavoro è una preghiera, ascoltare mio figlio è una preghiera, preparare la cena per tutti è una preghiera, aspettare l'autobus o mettermi in fila alla cassa del supermercato è una preghiera. E' una questione di cuore: dove sta il tuo cuore in quel momento? Nel sopportare la routine... oppure? Oppure, posso vivere il tempo che ogni giorno il Signore mi dà per vivere attraverso e non malgrado o nonostante, quella situazione alla sua presenza.

Scrive p. Pierre-Marie Delfieux: ripercorriamo le vie e le piazze delle nostre città. Se non prestiamo attenzione (vigiliamo) a questa presenza ogni cosa può distoglierci da Dio. Ma se rimaniamo attenti, (vigiliamo) tutto può diventare occasione per rivolgerci a Lui. Può nascere la lode per un sguardo trasparente appena incrociato, per un gesto di carità intravisto, per la bellezza contemplata di un'architettura, di una scultura.. Può elevarsi la supplica per un volto sfigurato, per un manifesto offensivo, per una situazione di miseria poco distante da noi, per l'ostentazione inutile e scioccante di spreco e di sensualità...

Davvero si può vivere nel cuore della città vivendo incessantemente alla presenza di Dio.  

Custode del fratello

Vivere il nostro quotidiano costantemente alla presenza di Dio ci porta ad avere occhi nuovi, ci porta ad avere il suo stesso sguardo sulla realtà che noi viviamo, ci porta innanzitutto a vigilare sul nostro fratello. Particolarmente evidente mi sembra, nel centro di Firenze - ma di ogni città caratterizzata da presenze occasionali, per il turismo, per il divertimento, per il commercio - la povertà relazionale, solitudini, indifferenze, chiusure. Il centro ascolto Caritas segnala un aumento di richieste di ascolto non tanto da parte di stranieri che in ogni caso sono nostri fratelli, ma anche di italiani che si rivolgono a loro per necessità che rilevano, più che un bisogno materiale, un disagio, un malessere di vita. Consapevoli della cura che Dio si prende di noi, siamo chiamati a prenderci cura, a vigilare sulla qualità di vita, di relazione nelle nostre città, permeando di cura, di presenza di umanità le situazioni che la nostra città vive. Vigilare non vuol dire necessariamente eliminare i problemi: ci sono caratteristiche tipiche che fanno il volto di una città, ma la qualità di vita che io ci metto fa sì che quelle stesse caratteristiche la degradino, la consumino oppure l'arricchiscano in umanità, in solidarietà. Il cittadino tuo fratello, che sia residente o che sia di passaggio per turismo, per altri servizi, deve sapere anche attraverso il tuo modo di vivere la città che Dio è qui e di lui si prende cura, su di lui vigila e lo ama, gli appartiene.

Un’attenzione particolare all'aspetto delle relazioni con gli altri nella vigilanza che dobbiamo avere è rispetto a quel luogo dove particolarmente si impara, si custodisce, si cresce nella relazione con gli altri. Penso alla famiglia e ci penso dal punto di vista dei giovani, di chi si affaccia alla vita. Su questi è urgente la vostra vigilanza.

Sento spesso giovani che cercano come essere aiutati a vivere il loro desiderio di famiglia; giovani che nei primi mesi e primi anni di matrimonio si sentono soli nell'affrontare le normali difficoltà, ma che da soli diventano montagne. Conosco giovani che hanno perso la strada della verità e della bellezza dell'affettività ancora prima di giungere al desiderio di costruire qualcosa insieme.

La famiglia, intima comunità di vita e di amore ha come particolare missione quella di vigilare, custodire, rivelare e comunicare l'amore, sotto il particolare aspetto di essere segno dell'amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa attraverso l'amore coniugale e familiare.

Se non siamo noi a vigilare in questo con la cura, la sollecitudine e l'autorità che ci viene da Dio, proprio perché ci ha costituito famiglia qualcun altro metterà la mano su questo valore distorcendolo, deturpandolo, deviandolo e sovvertire i valori vuol dire sovvertire la coscienza, sovvertire la coscienza vuol dire sovvertire la persona.

La famiglia vigila sulla verità dell'amore coniugale che è comunione e fecondità vivendo il suo compito profetico, sacerdotale e regale come Gesù è profeta, sacerdote e re. 

La famiglia è profetica quando vigila e  annuncia la verità dell'amore coniugale, come è nel progetto di Dio.

La famiglia esercita il suo compito sacerdotale quando vigila sulla verità del sacramento coniugale, non tanto la verità che il sacramento ha in sé, ma la verità con cui gli sposi lo vivono e lo trasmettono: comunicazione di grazia da parte del Signore che accompagna gli sposi ogni giorno della loro esistenza, con una grazia che è propria alla vita sponsale e a nessun altro.

La famiglia esercita il suo compito regale quando vigila e in questo senso governa, partecipando al governo di Dio sulla creazione, sovraintende, collabora vivendo il servizio ai fratelli, e questo particolarmente in difesa del valore della famiglia, promuovendo ciò che permette alla famiglia stessa di esistere, sussistere, crescere e penso qui all'ambito politico e sociale.

Il lavoro sarà per te luogo privilegiato dell'incontro con l'uomo-fratello

Ambito “cerniera” tra la vigilanza nella relazione con gli altri e la vigilanza sui beni del creato è il lavoro.

Dice il Libro di Vita “il lavoro sarà per te luogo privilegiato dell'incontro con l'uomo-fratello là dove si trova e servizio vissuto nel cuore della città” LV § 25.

Il lavoro è luogo privilegiato dell'incontro con l'uomo-fratello.

Scelte economiche e politiche, globalizzazione e multinazionalità delle imprese fanno sì che spesso lo scopo di un'attività lavorativa sia quella di massimizzare il profitto senza che il lavoratore lo sappia. Dobbiamo dunque vigilare sul senso e il valore dell'attività umana. Dobbiamo chiederci come va usata questa realtà, come portare nel nostro luogo di lavoro la cura e la vigilanza di cui Dio ci fa parte?

Una cosa è certa: l'attività umana, individuale e collettiva corrisponde al disegno di Dio.

L'uomo infatti ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e di riportare a Dio se stesso e l'universo intero riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose: ciò vale anche per gli ordinari lavori quotidiani. Mentre si lavora per il necessario sostentamento, se si cerca al tempo stesso di servire la società si prolunga l'opera del Creatore e si dà un contributo personale al progetto di Dio sulla storia. Un primo dato è dunque certo: l'attività umana fa parte della risposta libera e di fede alla chiamata di ciascun essere umano.

Ma Un altro dato è importante: l'uomo quando lavora, non soltanto modifica il cosmo e la società, ma anche perfeziona se stesso, sviluppa le sue facoltà, è portato ad uscire da sé e a superarsi.

Tale sviluppo vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare.

L'uomo vale di più per quello che è che per quello che ha.

Due componenti essenziali dunque del valore dell'attività umana: il servizio alla storia dell'umanità (la società) e lo sviluppo delle capacità del singolo perché possa rispondere meglio alla sua vocazione. Pertanto la Gaudium et spes ci dice che la norma dell'attività umana è che secondo il disegno di Dio e la sua volontà essa corrisponda al vero bene dell'umanità, e permetta all'uomo singolo o posto entro la società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione.

Due conseguenze di questo modo di intendere il lavoro su cui siamo chiamati a vigilare perché la dimensione dell'alleanza “Io sono il tuo Dio e tu mi appartieni” permei anche la quotidiana attività dell'uomo:

²     vi è una crescita di umanità in ogni cooperazione: operare insieme è valore in sé, e offerta reciproca del proprio contributo a un fine comune e da perseguire in comune.

²     non vi deve essere arricchimento di sé stesso, per l'uomo, se non nella carità; né l'inserirsi nella società e nella storia ha altro senso che la ricerca del regno e della giustizia di Dio, la ricerca di quella pace che -come abbiamo ricordato- è effetto/frutto della pace di Cristo e cammina verso la Gerusalemme celeste.

Vigilando dunque sul nostro modo di vivere il lavoro facciamo sì che le nostre Gerusalemme di quaggiù siano un po' più simili alla Gerusalemme di lassù.

L'unica ricchezza è il Signore

Se vigilare nel nostro lavoro conduce alla carità e alla giustizia del regno di Dio, questo  suggerisce un'altra vigilanza che siamo chiamati ad avere. Qui mettiamo in gioco la nostra relazione con i beni della terra.

I beni della terra, le ricchezze, per intenderci non hanno alcun valore in sé per il discepolo di Cristo.

Leggendo il NT ci accorgiamo che Gesù e gli apostoli hanno avuto amici e seguaci ricchi, o almeno non poveri. Ricco era  Giuseppe di Arimatea, discepolo di Gesù; ricco era ed è rimasto Zaccheo, anche dopo aver dato la metà dei suoi beni ai poveri. Certamente benestante era Lazzaro di Betania e la sua famiglia: alla sua morte infatti accorre tutta la Gerusalemme “bene”. Questi indizi ci fanno capire che l'alternativa di fondo del NT sulla quale dobbiamo vigilare non è fra ricchezza e povertà, ma fra la ricchezza e il Signore. L'unica ricchezza è il Signore, l'unica gioia è l'appartenere al Regno e compiere la giustizia di Dio, che è carità, dono di sé, vivere per gli altri. “L'uomo non può ritrovare pienamente se stesso se non in un sincero dono di sè” GS 24.

Perciò il rapporto dell'uomo con i beni terreni un rapporto di pura strumentalità in vista di un fine preciso: i beni terreni hanno valore solo se e in quanto sono strumenti del servizio ai fratelli. Se li cerco lo faccio solo quando ciò sia utile a un migliore servizio, come strumento di carità e di servizio a Dio e al prossimo.

Un criterio che ci aiuta a vigilare nel nostro rapporto con i beni lo abbiamo nelle parole stesse del Signore: “non cerca tesori per sé, ma arricchire davanti a Dio”  Lc 12,21.

La morale cristiana specifica questo criterio in due principi generali che ci chiariscono ulteriormente la questione:

²     Non cercare di arricchirti, di avere di più perché è di più.

 

²     Se hai, hai per dare, o in generale per meglio servire.

Questi due precetti generali, che sono le due facce dell'arricchire davanti a Dio, sono in forte contrasto con la realtà economico attuale e con la cultura che respiriamo a pieni polmoni nelle nostre città. Abbiamo dunque una urgente necessità di vigilare su questo aspetto.

Non cercare di arricchirti vuole rendere vigilanti sulla malizia di scelte esclusivamente speculative che contrastano fortemente con la giustizia del Regno perché portano a fare scelte che non tengono conto dei bisogni delle persone o del bene comune, non vigilano sulle persone, ma sul vantaggio economico.

Se hai , hai per dare porta ad essere vigilanti sui beni che sono nostri, giustamente nostri e ciò che non è più nostro perché l'abbiamo per darlo agli altri.

La morale economica cristiana riconosce che vi è una proprietà e una disponibilità di beni che chiunque è tenuto moralmente ad avere per condurre una vita umana.

Ma c'è un'area di beni non-più-nostri, almeno finché sulla terra esiste chi manca del minimo necessario.

Il confine tra il necessario e il non-più-mio è lasciato al vigile discernimento del singolo sapendo che una volta che ho potuto valutare con sapienza il giusto da mantenere, il resto non deve essere considerato “mio”, ma ricchezza per i poveri della terra: deve quindi inesorabilmente essere dato.

La vigilanza sul possesso dei beni che il singolo può attuare sappiamo bene che concretamente non cambia l'assetto economico, ma sappiamo che questa vigilanza porta a porre dei gesti profetici. Gesti profetici che dicono a chi appartiene la tua vita, dov'è il tuo cuore, che creano una mentalità, edificano il Regno che cresce proprio con i gesti profetici quotidiani.

Vigilare per contrastare la cultura dell'avere con la cultura dell'essere e dell'essere secondo la logica di Dio è ancora una volta una risposta alla relazione di alleanza che Dio ci fa.

La vigilanza è la virtù tipica del pellegrino

attenzione alla scelta del cammino, cura di non attardarsi, prontezza nel riprendersi dopo le soste, sguardo interiore verso la meta.

Il pellegrino cristiano è colui che veglia nell'attesa dello Sposo, nella continua conversione e nella gioia, per ciò che attende, anzi per chi attende perché per noi vigilare è sempre l'attesa di Qualcuno. Questo qualcuno è il Signore, che abbiamo contemplato nella sua vigilanza su di noi, che abbiamo incontrato nella sua Parola, che abbiamo riconosciuto nella vigilanza piena d'amore che il fratello ha per noi, ma anche abbiamo gustato nel sacramento dell'Eucarestia “viatico” del pellegrino, fino al ritorno del Signore.

Forse celebrare l'Eucarestia come attesa del Signore è un aspetto che sottolineiamo di rado, ma S. Paolo ce lo ricorda “ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”

Vivere l'eucarestia come attesa vigilante della sua venuta piena e definitiva risveglia in noi due atteggiamenti:

²     l'eucarestia ci plasma e ci dà la forma del vigilante e questa forma è Cristo stesso: il vigilante cristiano è totalmente rivolto a Cristo, totalmente relativo a lui, i suoi gesti, le sue parole, le sue scelte dicono a chi appartiene. Dicono l'alleanza : “Io sono il tuo Dio, tu mi appartieni”

²      l'eucarestia ci fa essere un amore che vigila, che vigila soffrendo e offrendo se stesso come custode del fratello

“Fate questo in memoria di me” unisce la celebrazione con la vita quotidiana. La vita quotidiana è quella mangiatoia, quell'altare dove il fratello ci aspetta perché lo amiamo sino alla fine.

 

sabato 3 aprile 2010 - Sabato Santo - Ora media - sr. Grazia FMJ

    

Oggi  la Chiesa sosta presso il Sepolcro del Signore in silenzio.

Quando muore una persona amata diciamo che ci ha lasciato un vuoto incolmabile, la casa è vuota.

 

La pietra del Sepolcro nuovo ci separa dall'AMATO.

La fede sembra essere stata smascherata

Cosa resta?

Si è voltata l'ultima pagina, resta un foglio bianco.

 

Il Sabato santo ci fa entrare nel mistero più oscuro della fede, ma al contempo diventa il segno chiaro di una speranza che perde ogni confine.

 

Oggi capiamo meglio chi è il nostro Signore.

Il silenzio ci permette di percepire l'abisso insondabile della sua grandezza.

 

Gesù è realmente morto, ha partecipato al nostro destino di morte.

 

Si è addormentato per poter svegliare coloro che dormono prigionieri dell'inferno.

 

E' disceso nella profondità della morte affinché i morti odano la voce del Figlio di Dio e, ascoltandola, vivano.

 

E' disceso in quel fondale irraggiungibile della nostra condizione di solitudine.

 

C'è una parola del salmista che oggi diventa realtà: "Se scendo negli inferi, eccoti".

 

L'amore è entrato nel Regno del non-amore e lo ha vinto.

 

Nella morte penetra la vita e la rende inoffensiva.

 

La morte non è più mortale.

 

 

Prega per noi Maria

Vergine del silenzio

nella notte delle tua fede umile

hai custodito un'attesa paziente e amante

Prega con noi

Sposa e Regina dell'Ottavo Giorno

quel giorno radioso

che in te risplende

e che con te ci attente

 

 

 sabato 23 maggio 2009 - Lectio Divina - Il Regno dei cieli è simile…ad un tesoro nascosto in un campo…ad una perla preziosa …ad una rete gettati nel mare…(Mt 13, 44-52) - a Gamogna - sr. Sarah FMJ

 

Queste “piccole” parabole che concludono il discorso parabolico di Gesù nel Vangelo di Matteo seguite dall’immagine dello scriba-discepolo che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche ci aiutano ad entrare nella dinamica della rivelazione del Regno di Dio.

 

In particolare vi invito a leggerle in rapporto alla festa dell’Ascensione del Signore Gesù che ci prepariamo a festeggiare domani: entriamo nella gioia del nostro Signore che Risorto, sale al Padre portando la nostra umanità con Lui per l’eternità

 

La fede ci fa uno con Cristo e Cristo assiso alla destra del Padre ci attende nella dimora eterna pur continuando a vivere in noi e con noi sulle vie della nostra umanità in virtù dello Spirito che ci ha donato.

 

Il presente sfocia nell’Eterno così come l’eterno ha scelto di abitare il tempo facendo del  cuore degli uomini il  suo tempio.

 

Questa è la scelta di Dio che interpella la libertà e la gioia di ogni uomo.

 

Con le parabole Gesù si rivolge alle folle, ad ogni uomo dunque, che già per natura è disponibile ad incontrare e conoscere il suo Creatore.

 

La via delle parabole aiuta colui che le ascolta  a cogliere nei simboli le realtà che stuzzicano la sua conoscenza di fede e lo aiutano a non fermarsi intrappolato dalla rete delle regole, dei doveri, delle definizioni, ma a riflettere sulla dinamica di una proposta di Vita che lo può mettere personalmente in movimento verso COLUI CHE GLI PARLA.

 

In particolare le due prime parabole del tesoro e della perla preziosa sono strutturalmente simmetriche e sottolineano due atteggiamenti propri all’incontro con il Regno dei Cieli:  la scoperta occasionale, casuale potremmo arrivare a dire, offerta a tutti  del contadino e la ricerca sapiente dell’intenditore. Entrambi i percorsi conducono alla GIOIA e richiedono una DECISIONE che risulta comune: vendere tutto per acquistare il Regno. Questa è la novità che cambia la vita.

 

Non basta incontrare il Regno o apprezzarne il valore, occorre impossessarsene fin d’ora senza badare a spese.

 

Che ve ne pare?

 

Identificare meglio il Regno dei Cieli nella persona di Gesù può aiutare la comprensione, ma quel che conta è la nostra parte, personale, unica e urgente: decidersi per il Regno.

 

Possiamo chiederci: come ho incontrato il Regno di Dio nella mia vita?

Ne ho riconosciuto il valore?

Come ho risposto nei fatti, ho deciso di comprarlo?

 

Gesù lancia un’altra immagine cara ai suoi discepoli e alla gente a cui stava parlando: Il Regno dei cieli è come una rete gettata in mare…poi il lavoro della cernita del pesce, la calma rovente della spiaggia…ecco tracciata a brevi tratti la realtà della fine dei tempi.

 

Che salto di prospettiva, potremmo dire…

 

Eppure l’oggi lo possiamo vivere più intensamente se ci mettiamo in questa prospettiva: acquista senso ogni scelta e la fede vissuta con responsabilità ci pone di fronte all’urgenza di tradurre nella quotidianità quello che abbiamo ricevuto nella fede. Vivere il comandamento dell’amore oggi per essere trovati “commestibili “ nella rete della Chiesa alla fine dei tempi

 

Agli Angeli la cernita tra il pesce buono e quello cattivo. Ai discepoli che comprendono, prendono con sé le parole di Gesù, il compito prezioso e appassionante di offrire dal loro tesoro, quello che hanno deciso di acquistare,”cose antiche e cose nuove”. Matteo rivolgendosi ai discepoli ebrei fa riferimento al tesoro che è l’Antica o Prima Alleanza che prepara e trova compimento nella Nuova Alleanza di Gesù Signore.

 

Anche a me,anche a te Gesù rivolge l’invito a seguirlo come questo scriba ricco di tutto ciò che ha voluto vendere per acquistare il Regno ed ora fatto intendente del dono di Cristo nella Chiesa secondo la personale vocazione ricevuta.

 

Far fruttare il Regno di Dio in mezzo a questo nostro amato mondo, ecco la chiamata che possiamo intendere: ciascuno nella libertà del figlio amato risponda a Gesù che gli chiede con premura: “Hai capito quello che ho detto?”

 

 

 

ESORTAZIONE ALLA VIGILANZA

di San Pier Damiani all’XI secolo

 

       Lo sapete bene, fratelli, è proprio là dove resta una scintilla di fuoco che si avvicina la paglia. Perché si dovrebbe soffiare là dove il calore si è spento? Se io non avessi fiducia nel fatto che da voi sta per realizzarsi un rinnovamento per grazia di Cristo, troverei superfluo continuare ad esortarvi… Dunque, carissimi, riprendete forza con l’aiuto di Cristo e fedeli all’impegno che avete preso con Lui, combattete con le sue armi, non con mollezza, debolmente, ma con fervore e audacia…

 

 

       Poiché lo spirito umano non può astenersi dall’amare qualche cosa, se lo si circonda con la muraglia delle virtù, non potendosi in nessun modo dilatare all’intorno, è necessariamente attratto al di sopra di sé. Quando il nostro spirito comincia a riposare in tal modo nel suo Autore e a gustare la soavità delle delizie interiori, subito vomita tutto ciò che giudica contrario alla legge divina, aborrisce tutto ciò che stona con la regola della giustizia celeste.

 

       Se la parola dell’apostolo vivesse in noi quando dice “portiamo sempre nel nostro corpo il morire di Gesù”, nel momento in cui l’amore carnale non trovasse più spazio per spandersi, necessariamente la nostra gioia sarebbe trasportata e sospesa in Dio e il nostro fuoco brucerebbe ardente perché non avrebbe più lo spazio per disperdersi.

  

  sabato 11 aprile 2009 – Ufficio della discesa agli inferi - Mt.27, 57.66 – commento di fr. Pierre-Emanuel FMJ

 

            Quale contrasto nel brano del Vangelo in questo Sabato Santo. Contrasto tra il silenzio che avvolge il sepolcro, silenzio ritmato dai pianti e gemiti dei discepoli, degli amici. Contrasto quindi tra un silenzio colmo di rispetto e di afflizione per l’incomprensione, e l’estrema agitazione, effervescenza, “febbrilità” da parte dei capi dei sacerdoti e dei farisei.

            Per i primi, per quelli che hanno amato il Maestro, ritornano in mente il volto dell’amico, il tono della sua voce, il calore delle sue mani che hanno consolato, guarito, benedetto…

            Non possono distogliere gli occhi dai suoi occhi che misteriosamente continuano a parlare e prodigare forza e speranza.

            Ma, in modo particolare, con una novità e potenza sfolgoranti, risuonano le sue Parole. E la verità che è questa Parola che fa fremere il cuore del discepolo che ora, ancora in maniera velata, inizia a capire.

            Capire che queste Parole sono Verità e Vita, perché attirano il discepolo che le ha accolte, in una dimensione nuova. Si apre nel cuore del discepolo un sentiero sconosciuto, nella notte di questo mondo e le Parole del Maestro sono come raggi di luce splendente che illuminano questo sentiero e lo rendono sicuro.

            Nella sofferenza del lutto, già in modo indubitabile, il discepolo fa l’esperienza di un nuovo incontro con il Signore Gesù Cristo.

            Allora il discepolo sa che Egli è Figlio di Dio, che Egli è Dio, si apre un orizzonte infinito.

Per i secondi, cioè i capi dei sacerdoti e i farisei, la stessa Parola non è più Parola di Verità, ma menzogna, inganno. La stessa Parola diventa pietra di inciampo. La stessa Luce adesso acceca gli occhi di chi non vuole vedere, di chi si rifiuta di credere.

            Ancora oggi, la fede nella risurrezione, costituisce lo scandalo più grande e intollerabile per chi rifiuta di riconoscere Dio e la Sua Potenza.

            I capi dei sacerdoti e i farisei, intuiscono la sconfitta ma rifiutano di cedere, si ostinano e rendono il loro cuore duro come pietra.

            Si illudono perché vogliono conservare questo potere temporale. La menzogna e la malizia, l’orgoglio e la superbia sono entrati nel loro cuore come una malattia che contamina e distrugge fino alla morte.

            Vogliamo, oggi, in modo particolare, portati dal silenzio di tutta la Chiesa, riascoltare e meditare le Parole con le quali il Signore Gesù ci ha personalmente aperto il cuore.

            Preghiamo anche affinché la nostra conoscenza e il nostro amore per la Sacra Scrittura, luogo privilegiato dell’incontro con il Signore Gesù possa crescere sempre di più.

            Così disse papa Benedetto XVI: “I discepoli vengono quindi tirati nell’intimo di Dio mediante l’essere immersi nella Parola di Dio. La Parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell’essere di Dio”.

 

 

 

 aprile 2009 - San Paolo, Lettera agli Efesini - commento di Fr. Nicola-Marie FMJ sul Mail Ange - trad. a.c. di Rosaria (FEG Assunta)

     Paolo, Sila e Timoteo fondano la prima comunità cristiana europea a Filippi negli anni 49-50. Paolo è in prigione probabilmente a Efeso quando scrive questa lettera verso il 53-55 indirizzata a "tutti i Santi" di Filippi, non in ragione della loro perfezione morale ma a coloro che sono chiamati da Gesù a una comunione con Dio.
     Qua si trova la figura del servitore.
     Paolo non parla di sé in quanto Apostolo, ma si presenta come servitore di Cristo. Imprigionato, riprende anche lui l'immagine del servitore sofferente destinato a essere Luce delle nazioni.
     Paolo ringrazia  a distanza per la presenza dei fratelli, nel ricordo della comunità per la quale intercede con gioia. La ragione di questa gioia si trova nella comunione nel e col Vangelo, che unisce Paolo e i Filippesi che partecipano così alla grazia della sue catene e all'annuncio del Vangelo. La prigione che sembrerebbe una sconfitta e' vissuta come una grazia condivisa. Se i cristiani di Filippi partecipano così alla sorte dell'Apostolo per mezzo del legame della preghiera, Paolo ricerca ardentemente i Filippesi letteralmente "nelle viscere di Gesù Cristo" con l'immagine delle viscere materne chiamate per mezzo dell'amore a partorire un'altra vita che cresce nel discernimento, nell'attitudine pronta e vigilante a vedere, pensare, comprendere e scegliere il meglio in tutte le situazioni.
     Questa e' per Paolo l'occasione di proclamare con più forza il Vangelo e ricordare che se lui è prigioniero il Vangelo non lo è. Le catene di Paolo risplendono del Cristo. Qualunque sia la sua sorte Paolo spera che Cristo sarà esaltato in verità nel suo corpo. "Per me il vivere e' Cristo e il morire un guadagno" dice, ma Paolo si trova nel dilemma tra la morte che è per lui un vantaggio per una comunione più' profonda col Cristo e la vita che porta i suoi frutti. L'Apostolo, nella pace non si preoccupa di risolvere questo dilemma, egli è pronto a tutto; sia che egli viva sia che muoia, purché' il Cristo sia glorificato in lui. Paolo ricorda anche coloro che proclamano il Vangelo per invidia o per spirito di contesa perché la vita cristiana è un combattimento che ha come arma solo una via conforme al Vangelo. E' anche assumere uno stile di vita diverso dagli altri uomini, una differenza cristiana, umile e radicale.
     Paolo esorta uno stile di vita conforme ai sentimenti di Cristo Gesù, in particolare all'inno ai Filippesi che presenta un movimento di abbassamento, poi un movimento di esaltazione. Cristo si e' abbassato facendosi uomo per rendere l'umanità partecipe della vita divina fino a svuotarsi di se stesso in una totale spogliazione perché nessun uomo ne sia escluso. Cristo umiliò se stesso, facendosi ubbidiente con l'ascolto e la sottomissione che testimoniano la Sua fede totale in Dio.
     Dal più profondo di questo abbassamento si trova il più alto gradino dell'obbedienza da dove scaturisce l'esaltazione dell'amore che si traduce nella Resurrezione e nell'Ascensione, fino al Nome nuovo, al di sopra di ogni nome.
     Paolo invita ad avere in noi e tra noi gli stessi sentimenti del Cristo Gesù, ad abbassarsi secondo il suo esempio, a discernere e valutare ciascuna delle nostre decisioni basandosi sul linguaggio della Croce, diventando noi stessi ubbidienti.
     Paolo poi intravede il suo martirio restituendo a Dio, in ostia vivente e nell'obbedienza, la vita ricevuta da Lui. Questa prospettiva è per Paolo sorgente di una gioia che testimonia la profondità della sua relazione col Cristo. Si tratta di diventare una creatura nuova che conosce il Cristo e la potenza della sua Resurrezione che passa attraverso la Passione senza riporre nella carne la propria fiducia a proposito della polemica di un gruppo di cristiani giudeizzanti.
     Assumendo la "forma" della morte di Gesù, l'Apostolo sa che può prendere parte alla sua Resurrezione.
     Nella speranza, ma Paolo corre a conquistare questa Resurrezione, perché anche lui è stato conquistato dal Cristo.
     Rispettando il percorso e il passato di ognuno, Paolo invita i Filippesi a discernere essi stessi ciò che è conforme ai sentimenti del Cristo con la costanza di una gioia ancorata nella certezza e la potenza di questo movimento del Cristo resuscitato, che fonda la comunità', l'unifica in un solo spirito, la preserva irreprensibile e pura per il giorno di Cristo Gesù.                             
 

sabato 28 marzo 2009 - Lectio divina:  “Il seminatore uscì a seminare” (Mc 4,1-20) - a Gamogna - Sr. Petra FMG

 

    Gesù riunisce attorno a sé una folla. La gente non viene più solo per i miracoli, ma sente la necessità di essere istruita. Riconosce in Gesù una parola autorevole, importante per la loro vita. Così è anche è noi oggi: ci disponiamo a lasciarci interpellare dalla Parola di Dio.

 

    Gesù insegna in parabole. Usa,cioè, dei racconti che riprendono fatti della vita quotidiana, ben conosciuti da tutti, proprio per poter raggiungere il cuore di ognuno. Possiamo pensare che quello che Egli dice vale per la Chiesa primitiva, ma anche per quella odierna, quindi in modo diretto anche per noi.

 

    La prima parola di Gesù è: “Ascoltate”. Il richiamo al primo comandamento che Dio da al suo popolo (“Ascolta, Israele”) è chiaro. Gesù si presenta chiaramente come Figlio di Dio, come colui che è mandato dal Padre; come la Parola che deve essere ascoltata. È un chiaro invito anche per noi a metterci in ascolto e a lasciarci vedere dalla potenza di questa Parola.

 

    “Uscì il seminatore a seminare…”: all’epoca, in quelle regioni, si seminava prima di arare il campo. Era poi l’aratro che consentiva al seme di penetrare nel terreno e di germogliare. Da questo esempio concreto, Gesù vuole arrivare a parlare di un evento spirituale più profondo, in relazione col regno di Dio. Egli stesso si può considerare come il seminatore: viene a portare l’annuncio del regno, seminando il buon grano della parola. Questa semina, tuttavia, comporta delle difficoltà: sono i terreni “cattivi”. È facile per noi soffermarci sull’apparente spreco di semente che ne deriva. In realtà, se ci pensiamo bene, l’abbondanza del raccolto (“cento, sessanta, trenta per uno”) è molto superiore a ciò che è andato perduto. Questo ci da fiducia: la predicazione del regno di Dio raggiungerà pieno successo, nonostante le opposizioni. Non sappiamo quando questo si compirà, ma il regno di Dio un giorno arriverà alla sua pienezza. Questa “semina” continua anche oggi nella Chiesa: anche noi, come Gesù, siamo seminatori della Parola. Il messaggio del Vangelo continua a diffondersi anche per mezzo nostro.

 

    Il seminatore sparge il seme pur sapendo che una parte andrà perduta. Egli non si trattiene dal seminare. Questo ci fa pensare a tutte quelle situazioni in cui siamo chiamati a portare la nostra testimonianza cristiana anche laddove sappiamo che non sarà facilmente accolta: non dobbiamo trattenerci! Il seme va gettato comunque!

Sta agli uditori rendersi accoglienti all’annuncio e aderirvi con fede. Devono, cioè, diventare “terreno buono”. Gesù ci esorta a questo quando dice: “Chi ha orecchi per intendere, intenda!”. Significa avere fiducia nel regno di Dio che viene annunciato, nella sua forza e nella sua realizzazione.

 

    In seguito, i discepoli le persone più vicina a Gesù gli chiedono chiarimenti sul suo discorso. Anche noi siamo qui oggi un po’ per lo stesso motivo: desideriamo capire bene quello che il Signore vuole dire alla nostra vita e come la sua Parola si può attuare in noi.

Come per i discepoli, anche per noi Gesù parla in parabole, con un linguaggio accessibile, mentre per “quelli di fuori”, le parole di Gesù risultano degli enigmi, cioè qualcosa di incomprensibile e difficile da accettare. Essi sono coloro che non credono, nonostante l’evidenza. Quello che Gesù predica è già presente e lo testimoniano i miracoli e i segni che Egli compie. Solo che crede, però, può riconoscere questo segni come prova della potenza di dio. Per fare questo, però, è necessario farsi “piccoli” e guardare la realtà con occhi semplici. Gesù fa riferimento ad un brano di Isaia, che mette in evidenza una certa ostinazione del popolo di Israele nel distaccarsi dal Signore. È un mettere in guardia il popolo di fronte alla possibilità del castigo divino, come quando un padre ammonisce il figlio, per impedirgli di farsi dl male. Anche Gesù sprona in questo senso chi lo ascolta: bisogna avere sempre occhi e orecchi aperti, perché con la salvezza non si scherza!

    L’effetto di una parabola è anche quello di suscitare una certa “crisi interiore”, che mette in luce la nostra fede o la nostra incredulità. Gesù, tuttavia, non si ferma nemmeno di fronte alla nostra poca fede.

 

    Chi accoglie in sé la Parola, diventa a sua volta “seme”, che va sparso nel campo del mondo. Come Gesù è quel “chicco di grano” che morendo porta molto frutto, così anche noi siamo chiamati a mettere tutta la nostra vita a servizio del Vangelo. Naturalmente, ci possono essere degli ostacoli nella nostra vita di fede. Ad esempio, dei “nemici esterni” che la possono far venir meno, oppure ci possono essere delle debolezze da parte nostra o la mancanza di costanza, soprattutto quando l’essere testimoni ci mette alla prova. Possiamo anche lasciarci trascinare dalle nostre ricchezze, che ci fanno credere di essere autosufficienti (abbiamo messo radici!) e di non aver più bisogno di Dio.

 

    Quello che conforta è il fatto di sapere che Dio non ha gettato invano il suo seme! Certamente, ne verrà un buon raccolto. Dobbiamo inoltre immaginare il nostro cuore come questo campo da coltivare: anche se, a causa del nostro peccato, ci sembra di essere stati “derubati” della semente che il Signore ha gettato, in realtà quello che è stato seminato porterà frutto a suo tempo in abbondanza. Questo tempo di Quaresima è proprio ciò che il Signore ci offre per «scacciare gli uccelli», «togliere le pietre» ed «estirpare i rovi», togliere cioè tutto quello che rovina o impedisce al seme della Parola di penetrare e di germogliare in noi.

 

Qualche domanda per la riflessione personale…

 

ü      Come reagisco di fronte a Gesù che parla in parabole?

ü      Che “terreno” sono io? Il seme che il Signore getta in me trova buona terra oppure ci sono delle zone della mia vita da “bonificare”?

ü      Mi sento anche “seminatore” nel campo del mondo? Mi lascio frenare nell’annuncio della Parola?

ü      Chi sono per me “quelli di fuori”? Li sento come irrecuperabili?

ü      Ho fiducia nel regno di Dio?

 

Cibarsi delle Sacre Scritture, di S. Pier Damiani

 

Usciamo per i campi fioriti delle divine scritture, camminiamo per queste parti, in questi spaziamo a nostro piacere. Qui possiamo percorrere sicuramente i piani delle storie sante; possiamo anche, addentrandoci nei sensi mistici, arrampicarci fino alla vetta delle montagne scoscese. Qui ci diletteremo nei dolci colloqui degli amici fedeli; qui troveremo il continuo banchetto di vivande celesti. Intenta a questi cibi, l’anima fedele si rafforzi con l’alimento dell’assidua lettura e s’ingrassi con l’adipe dell’orazione sostanziosa. Si lasci la fame del secolo ai satolli del secolo: noi abbiamo appreso ad aver fame e a gustare cibi i quali, a chi ha fame, danno sazietà con diletto e, a chi è sazio, non generano fastidio e diffondendosi per tutte le vene e nel segreto delle viscere riempiono di forza. L’anima tenda insaziata a queste celesti vivande; il suo sguardo vigili a queste; la lingua articoli le parole; il cuore intenda e mediti le verità dei misteri nascosti.

 

(Op. XII, cap. XXXIII)

 

 

Domenica 1 marzo 2009 - Domenica con Dio in Badia sul tema: "La vita di fede: un bene prezioso in un vaso di creta" - Insegnamento di Sr. Grazia FMG

 

Si può parlare di vita di fede, partendo da svariate angolature. L’argomento è vasto. Faremo una scelta: diremo che la nostra vita di fede è il nostro “tesoro”.

 

Cristo è morto e risorto per essere

 il Signore dei vivi e dei morti (Rm.14,9)

 

La vita di fede è questa Signoria di Cristo.

Cristo Signore della nostra vita.

Il tesoro di cui parleremo

È Cristo risorto in noi.                                                     Ripercorreremo alcune pagine

                                                                                     Di San Paolo.

IL VASO DI CRETA che contiene questo

tesoro siamo noi.

Questa immagine usata da San Paolo

(2Cor 4,7) dice la nostra creaturalità, il nostro

legame con la materia, la nostra corporeità

e fragilità.

                                                                                    Questo tesoro non è così visibile

                                                                                    Ciò che appare subito è il vaso.

Ma il vaso è fatto

per contenere qualcosa e qualcosa di

prezioso…vale a dire:

   la vita di Dio

   la vita in te

   la vita di fede

                                                                                   Santa Teresa di Lisieux: le sorelle la vedevano

                                                                                   Come una buona a nulla….ma insignificante…

                                                                                   Eppure quale tesoro lei portava in sé.

 

Cristo è stato messo a morte per i nostri

Peccati ed è stato risuscitato per la nostra

Giustificazione                                                          nucleo centrale del Kerigma

 

Cristo è risorto per la nostra salvezza

E la salvezza si ha mediante la fede

E si parte da CRISTO RISORTO perché

La risurrezione è come una nuova creazione.           La risurrezione di Cristo è per l’universo dello

                                                                            Spirito quello che, secondo una teoria recente,

                                                                            fu, per l’universo fisico la “grande esplosione”

                                                                            iniziale che diede avvio a tutto il movimento di

                                                                            espansione dell’universo che ancora continua

                                                                            dopo miliardi di anni. Tutto ciò che esiste e si

                                                                            muove nella Chiesa, trae la propria forza dalla

                                                                            risurrezione di Cristo. Essa è l’attimo in cui la

                                                                            morte di trasformò in vita e la storia in

                                                                            escatologia.

                                                                            (p.Raniero Cantalamessa OFM, da “La vita in Cristo)

 

Ricordate l’episodio di Tommaso che vuole

toccare il Risorto.

Lui ha visto e ha toccato ed è rimasto folgorato…

Ha subito creduto                                                    ------->   è stato come “ri-creato”

 

Ma Gesù gli dice che c’è un modo più beato

di toccarlo. E’ la fede.                                                             “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”

                                                                                                                                        |

                                                                                                                                 siamo noi

La fede è il dito con cui possiamo

toccare il Risorto.

Dalla fede nella risurrezione dipende

la salvezza

 

                                                San Paolo dice che l’uomo  “quando crede nella potenza di Dio che ha risuscitato

                                                                                              Gesù dai morti” è come se risorgesse anche lui (Col 2,12)

 

Credere per capire

 

Davanti all’annuncio della risurrezione ci possono

Essere due atteggiamenti:

1-       capire per credere

2-       credere per capire

Non sono inconciliabili tra loro  --------------------------> vedi “fides et ratio” (fede e ragione) di Giovanni Paolo II

                                                                                             Fede e ragione devono poter collaborare.

ma  sono diversi e possono portarci

su strade opposte.

 

1)       è importante capire per credere, è uno sforzo che

se fatto con umiltà ha un grande valore, ma c’è un

rischio: di non fare mai il salto della fede    ------->   se pretendo sempre di capire per credere, siccome non

                                                                                      potrò mai capire del tutto, rimanderò all’infinito e non

                                                                                      crederò mai.

2)       credere per capire è la via più

       sicura e profonda                                          -->   alla fine del Vangelo di Giovanni è scritto:

                                                                                       “Questi segni sono stati scritti perché crediate”

                                                                                        La Chiesa è nata così.

Per capire cosa? Che non si può capire tutto.

 

Nel cammino di fede bisogna imparare a fare dei tuffi dal trampolino; e ad occhi chiusi.

 

La prima conversione è la fede

 

                Bisogna convertirsi ad avere fede

                Bisogna passare per la porta della fede                   “Convertitevi e credete….”  Dice Gesù nel Vangelo

 

Quando San Paolo parla di essere giustificati mediante

la fede, di che tipo di fede si tratta?

 

                E’ la fede-appropriazione

 

“Immagina che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e con immane fatica e sofferenza lo ha vinto.

Tu non hai combattuto, non hai né faticato, né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, (….) insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come TUA la SUA vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.

Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri più di ogni altra cosa vedere onorato il suo fautore e consideri come premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico. In tale caso quell’uomo non otterrà forse la corona? Certo che l’otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi.”  (S.Giovanni Crisostomo, dal De coemeterio)

 

Succede come per i “fans”….

Bisogna che arriviamo a fare il “tifo” per Gesù.

 

                “Davvero non si pensa mai alla cosa più semplice! E’ la scoperta che si fa di solito al termine e non all’inizio della vita spirituale. (…) Si tratta di dire semplicemente un “sì” a Dio. Dio aveva creato l’uomo libero, perché potesse accettare liberamente la vita e la grazia: accettarsi come creatura beneficata da Dio. Aspettava solo il suo “sì”; e invece ricevette da lui un “no”! Ora Dio offre all’uomo una seconda possibilità, come una seconda creazione; gli presenta Cristo come espiazione e gli chiede: “Vuoi vivere in grazia di Lui, in Lui?” Credere significa dirgli: “Sì, lo voglio”. E subito sei una creatura nuova; sei “creato in Cristo Gesù”(Ef.2,10)

( P.Raniero Cantalamessa, da La vita in te)

 

Vita di fede: Potenza di Dio nella debolezza dell’uomo

 

                Come per San Paolo, anche per noi: tante qualità, tanti doni e tanti difetti.

 

                Ci rendiamo conto, per esempio, della delicatezza delle missione che ci è affidata e nello stesso tempo siamo consapevoli della nostra inadeguatezza.

 

Paolo ha avuto dal Signore questa rivelazione                 “ti basta la mia grazia, non preoccuparti….la mia potenza si

                                                                                           mostra proprio nella tua debolezza” (2Cor. 12, 7-9)

cioè la tua imperfezione non è un ostacolo

a quello che ti chiedo.

 

Quando Paolo capisce questo, tutto quello che poteva

Portarlo a dubitare di se stesso o della sua missione

Diventa un motivo in più di fiducia in Dio.

                                                                                         (se è così)”mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze” dice

                                                                                                                                                                 (2Cor. 12, 9-10)

 

n.b. (qui Paolo per debolezze intende anche tutte le

varie tribolazioni che incontra nel suo ministero)

 

Nella vita di fede noi collaboriamo, attivamente,

ad un’opera che va al di là della nostra persona             -->[con la sua storia con le sue caratteristiche, problemi,

                                                                                                debolezze ecc.]

Siamo portatori di un messaggio di una VITA

che ci supera largamente.                                               Il Signore usa strumenti poveri per fare cose eccelse. In questo

                                                                                        senso è un grande ARTISTA.

Ecco perché non è un problema che il tesoro

sia messo in vasi fragili…, anzi…

                così si vede meglio chi è l’autore.

 

Per collaborare realmente all’opera di Dio

con tutto noi stessi, ci servono due cose

e queste due cose devono essere tra loro

in giusto equilibrio.

 

                - umiltà-------------------------------------->  - conoscere chi siamo

                                                                                    - non farci delle illusioni su noi stessi

 

                - audacia------------------------------------>   - poter realmente dire “tutto posso in colui che mi dà forza”

                                                                                       ed esserne proprio convinti.

 

                Occorre saper atterrare…toccare terra, ma anche decollare… slanciarsi nel cielo, puntare in alto e a volte sperare contro ogni speranza.

 

Che la potenza di Dio si manifesti nella debolezza

è lo stile dell’Incarnazione.

E’ lo stile di Gesù --------------------------------->   Chi era più debole di Gesù sulla croce?

                                                                                 Eppure lì agiva la potenza di Dio.

E’ lo stile dell’Eucarestia

e deve essere lo stile del discepolo.

 

Vita di fede è ---à accettare che ci succeda qualcosa di ben più grande di quello che possiamo prevedere o ipotizzare.

Il Signore sa quello che fa. Ci dobbiamo fidare.

 

Parliamo ora un po’ del VASO DI CRETA

 

“noi sembriamo della gente che porta un tesoro

dentro delle ceramiche senza valore”

 (2Cor.4,7 – dalla traduzione francese)   -----------------> sì, va bene il vaso fragile, però… siamo pezzi unici..

                                                                                            (ed è vero!); però pensarmi un volgare piatto senza

                                                                                            valore… come tanti altri…

 

                             Questo mi dice che forse ci tengo tanto al vaso; ci tengo che si veda il vaso e dopo

                             magari….. il tesoro.  Che si veda che sono stata proprio io a fare quel bel gesto,

                             ad essere generosa ecc….

evidentemente, quando è così, non siamo ancora molto coscienti della natura del vaso.

                Per questo “l’umiltà è verità” (S.Teresa d’Avila) perché ci mostra chi siamo realmente.

 

Bisognerebbe. Invece, quando facciamo qualcosa di buono, desiderare che si veda Lui, che si veda  la Sorgente.

 

 

Ricordate l’episodio di Tommaso che vuole

toccare il Risorto.

Lui ha visto e ha toccato ed è rimasto folgorato…

Ha subito creduto                                                    -------à   è stato come “ri-creato”

 

Ma Gesù gli dice che c’è un modo più beato

di toccarlo. E’ la fede.                                                             “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”

                                                                                                                                        |

                                                                                                                                 siamo noi

La fede è il dito con cui possiamo

toccare il Risorto.

Dalla fede nella risurrezione dipende

la salvezza

 

                                                San Paolo dice che l’uomo  “quando crede nella potenza di Dio che ha risuscitato

                                                                                              Gesù dai morti” è come se risorgesse anche lui (Col 2,12)

 

Credere per capire

 

Davanti all’annuncio della risurrezione ci possono

Essere due atteggiamenti:

1-       capire per credere

2-       credere per capire

Non sono inconciliabili tra loro  --------------------------à vedi “fides et ratio” (fede e ragione) di Giovanni Paolo II

                                                                                             Fede e ragione devono poter collaborare.

ma  sono diversi e possono portarci

su strade opposte.

 

1)       è importante capire per credere, è uno sforzo che

se fatto con umiltà ha un grande valore, ma c’è un

rischio: di non fare mai il salto della fede            -------à   se pretendo sempre di capire per credere, siccome non

                                                                                      potrò mai capire del tutto, rimanderò all’infinito e non

                                                                                      crederò mai.

2)       credere per capire è la via più

       sicura e profonda                                            --à   alla fine del Vangelo di Giovanni è scritto:

                                                                                     “Questi segni sono stati scritti perché crediate”

                                                                                      La Chiesa è nata così.

Per capire cosa? Che non si può capire tutto.

 

Nel cammino di fede bisogna imparare a fare dei tuffi dal trampolino; e ad occhi chiusi.

 

La prima conversione è la fede

                Bisogna convertirsi ad avere fede

                Bisogna passare per la porta della fede                   “Convertitevi e credete….”  Dice Gesù nel Vangelo

 

Quando San Paolo parla di essere giustificati mediante

la fede, di che tipo di fede si tratta?

 

                E’ la fede-appropriazione

 

“Immagina che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e con immane fatica e sofferenza lo ha vinto.

Tu non hai combattuto, non hai né faticato, né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, (….) insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come TUA la SUA vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.

Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri più di ogni altra cosa vedere onorato il suo fautore e consideri come premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico. In tale caso quell’uomo non otterrà forse la corona? Certo che l’otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi.”  (S.Giovanni Crisostomo, dal De coemeterio)

 

Succede come per i “fans”….

Bisogna che arriviamo a fare il “tifo” per Gesù.

 

                “Davvero non si pensa mai alla cosa più semplice! E’ la scoperta che si fa di solito al termine e non all’inizio della vita spirituale. (…) Si tratta di dire semplicemente un “sì” a Dio. Dio aveva creato l’uomo libero, perché potesse accettare liberamente la vita e la grazia: accettarsi come creatura beneficata da Dio. Aspettava solo il suo “sì”; e invece ricevette da lui un “no”! Ora Dio offre all’uomo una seconda possibilità, come una seconda creazione; gli presenta Cristo come espiazione e gli chiede: “Vuoi vivere in grazia di Lui, in Lui?” Credere significa dirgli: “Sì, lo voglio”. E subito sei una creatura nuova; sei “creato in Cristo Gesù”(Ef.2,10)

( P.Raniero Cantalamessa, da La vita in te)

 

Vita di fede: Potenza di Dio nella debolezza dell’uomo

 

                Come per San Paolo, anche per noi: tante qualità, tanti doni e tanti difetti.

 

                Ci rendiamo conto, per esempio, della delicatezza delle missione che ci è affidata e nello stesso tempo siamo consapevoli della nostra inadeguatezza.

 

Paolo ha avuto dal Signore questa rivelazione                 “ti basta la mia grazia, non preoccuparti….la mia potenza si

                                                                                           mostra proprio nella tua debolezza” (2Cor. 12, 7-9)

cioè la tua imperfezione non è un ostacolo

a quello che ti chiedo.

 

Quando Paolo capisce questo, tutto quello che poteva

Portarlo a dubitare di se stesso o della sua missione

Diventa un motivo in più di fiducia in Dio.

                                                                                         (se è così)”mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze” dice

                                                                                                                                                                 (2Cor. 12, 9-10)

 

n.b. (qui Paolo per debolezze intende anche tutte le

varie tribolazioni che incontra nel suo ministero)

 

Nella vita di fede noi collaboriamo, attivamente,

ad un’opera che va al di là della nostra persona             --à[con la sua storia con le sue caratteristiche, problemi,

                                                                                                debolezze ecc.]

Siamo portatori di un messaggio di una VITA

che ci supera largamente.                                               Il Signore usa strumenti poveri per fare cose eccelse. In questo

                                                                                        senso è un grande ARTISTA.

Ecco perché non è un problema che il tesoro

sia messo in vasi fragili…, anzi…

                così si vede meglio chi è l’autore.

 

Per collaborare realmente all’opera di Dio

con tutto noi stessi, ci servono due cose

e queste due cose devono essere tra loro

in giusto equilibrio.

 

                - umiltà--------------------------------------à  - conoscere chi siamo

                                                                              - non farci delle illusioni su noi stessi

 

                - audacia------------------------------------à   - poter realmente dire “tutto posso in colui che mi dà forza”

                                                                                 ed esserne proprio convinti.

 

                Occorre saper atterrare…toccare terra, ma anche decollare… slanciarsi nel cielo, puntare in alto e a volte sperare contro ogni speranza.

 

Che la potenza di Dio si manifesti nella debolezza

è lo stile dell’Incarnazione.

E’ lo stile di Gesù ---------------------------------------à   Chi era più debole di Gesù sulla croce?

                                                                                 Eppure lì agiva la potenza di Dio.

E’ lo stile dell’Eucarestia

e deve essere lo stile del discepolo.

 

Vita di fede è ---à accettare che ci succeda qualcosa di ben più grande di quello che possiamo prevedere o ipotizzare.

Il Signore sa quello che fa. Ci dobbiamo fidare.

 

Parliamo ora un po’ del VASO DI CRETA

 

“noi sembriamo della gente che porta un tesoro

dentro delle ceramiche senza valore”

 (2Cor.4,7 – dalla traduzione francese)   -----------------à sì, va bene il vaso fragile, però… siamo pezzi unici..

                                                                                    (ed è vero!); però pensarmi un volgare piatto senza

                                                                                     valore… come tanti altri…

 

                             Questo mi dice che forse ci tengo tanto al vaso; ci tengo che si veda il vaso e dopo

                             magari….. il tesoro.  Che si veda che sono stata proprio io a fare quel bel gesto,

                             ad essere generosa ecc….

evidentemente, quando è così, non siamo ancora molto coscienti della natura del vaso.

                Per questo “l’umiltà è verità” (S.Teresa d’Avila) perché ci mostra chi siamo realmente.

 

Bisognerebbe. Invece, quando facciamo qualcosa di buono, desiderare che si veda Lui, che si veda  la Sorgente.

  

                L’umiltà ti deve ricordare che tu sei solo una creatura. Non dimenticarti che il Signore ti dona la sua forza. Come Pietro, riconosci che anche tu non sei che un uomo. Un uomo mortale, simile e tutti gli altri; e più sei grande, più devi umiliarti per trovare grazia davanti al Signore perché, nonostante sia grande la sua potenza, egli riceve gloria dagli umili. Così, dunque, accetta di riconoscerti umile creatura di fronte a Dio e, in virtù di questo timore, ti farà partecipe dei tuoi segreti.

                Inoltre l’umiltà ti deve ricordare che tu rimani un peccatore.

                Soltanto per grazia di Dio sei quello che sei. Tu sai che nessun bene abita in te, intendo dire nella tua carne; infatti puoi volere il bene, ma non avere la capacità di attuarlo. Avendo sempre presente questa tua insufficienza radicale che ti porta a sussurrare senza posa: “Signore Gesù, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore”, bandisci dalla tua vita ogni specie di orgoglio. Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori. Puoi essere giustificato soltanto mediante un umile pentimento. Il tuo tesoro, lo porti in un vaso d’argilla perché si veda bene che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da te.

                Insieme con il pubblicano e con il centurione del Vangelo ripetigli continuamente: “Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto”; “Gesù abbi pietà di me peccatore”. Conta di più vedere i propri peccati che risuscitare i morti con la preghiera; chi riconosce le proprie debolezze è più grande di chi vede gli angeli. (Isacco il Siriano)

[Libro di Vita, § 119, ed. Piemme 1987]

 

Da dove vengono questa nostra fragilità e grandezza?(dignità)---------------> poiché siamo creati a immagine di Dio.

 

                “allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo” (Gn 2,7)

 

Nella creazione l’uomo prende consistenza dalla terra, meglio, dalla polvere.

 

                L’uomo si chiama ADAM

                E in ebraico terra si dice ADAMAH

 

Dio plasma l’uomo --------------------------------------------> questo verbo descrive proprio l’operazione del vasaio

                                                                                                 che lavora la creta.

Il testo biblico vuole dirci che l’uomo è strettamente

imparentato  con la materia.

Abbiamo un legame stretto con la terra.

 

                                                                                      es. “tu fai ritornare l’uomo in polvere” Sal.90

                                                                                           “il Signore ricorda che noi siamo polvere” Sal.103

 

nb----> l’essere troppo angelici, troppo spirituali – “solo testa”

            è andare fuori da questa coscienza biblica

            da questa verità sull’uomo.

 

La Bibbia guarda l’uomo con molto realismo.

Ne vede la fragilità, la finitezza, il limite.

 

Questo vaso, se cade si rompe, può avere delle scalfitture,

delle imperfezioni                                                                      possiamo avere in noi delle ferite

                                                                                                    che ci dobbiamo tenere.

  

Alle ceneri ci viene detto: “ricordati che sei polvere…. e polvere tornerai”

 

Ma…se ci fermassimo qui sarebbe ben triste….

dentro questo “vaso” Dio mette “qualcosa”

 

Gn.2,7 …… (Dio) soffiò nelle sue narici un alito di vita

                     e l’uomo divenne un essere vivente.

                                                                                               l’uomo riceve l’alito di vita: la neshamah

Pr.20,27……Lo spirito dell’uomo [la neshamah]

                     è una fiaccola del Signore che scruta

                     tutti i recessi segreti del cuore.

 

Questo soffio è come una lampada che entra nell’uomo e penetrando sempre più in profondità nel suo IO, lo illumina. Ed è un dono di Dio che solo l’uomo possiede.

 

Traduzione Francese----------> conoscersi e giudicarsi

Traduzione Tedesca-----------> l’autocoscienza

 

Questo soffio è qualcosa che ci rende superiori alle altre realtà create:

 

                cfr. Sal.8 ------> Tu l’hai fatto veramente di poco inferiore a Elohim,

                                         di poco inferiore a Dio stesso.

                                                                                   [dalla traduzione originale]

Ecco l’immagine e somiglianza di Dio.

 

Siamo polvere, siamo ossa inaridite

ma il soffio di Dio, lo Spirito di Dio

ci rende “VIVENTI”

 

Altra origine e causa della nostra fragilità: il peccato.

 

A causa del peccato

Noi nasciamo con una volontà  deviata da Dio

                                             debole per il bene

                                             inclinata al male.

nasciamo con una ragione portata all’errore

                con una sensibilità inclinata ai desideri disordinati.

 

è vero che il Battesimo ci rimette il peccato originale

ci dona la grazia

ma resta in noi come una debolezza spirituale

ed è per questo che c’è una lotta da fare.

 

                Rm.7, 14s. c’è in me il desiderio del bene

                                 ma non la capacità di attuarlo.

                                …il peccato abita in me.

 

San Paolo arriverà a dire: Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?

 

ma:

              Con l’aiuto dello Spirito, che ci è stato dato

              noi possiamo far morire i disordini dell’uomo peccatore.

                                                                              (Rm.8,13)

contro il peccato, dovremo lottare fino all’ultimo respiro.

ma abbiamo gli strumenti per farlo.

 

Occorre lottare contro la debolezza negativa,

quella che ci fa intiepidire --------------------------------> es. non è bene prendere come regola il minimo sforzo,

                                                                                    ho cinque talenti e agisco come se ne avessi due;

                                                                                    così invece di salire, si scende.

                                                                               es. sono convinto di cosa devo fare, ma non lo faccio.

                                                                                    così costruisco sulla sabbia, alimento una debolezza

                                                                                    negativa. Metto il vaso in bilico, al primo scossone

                                                                                    cade.

La vita di fede, la vita nuova in Cristo

non è così visibile.

Sembra che il vaso, per certe sue caratteristiche

gli faccia un po’ da schermo.

 

                               La vita nuova in Cristo, ora noi la portiamo in vasi di Creta.

                               Adesso o ancora nascosta con Cristo in Dio. (Col.3,3)

 

Perché il tesoro è nascosto?

Il tesoro è nascosto perché ha bisogno di un posto dove poter germinare. Questo posto è la fede. E’ nascosto come un granello di senapa, come il lievito, come il tesoro sotterrato nel campo.

Questo “semino” si schiuderà completamente quando saremo in cielo. Lì finisce la fede e inizia la visione. Ma la vita in Dio, la vita della grazia è già da ora un principio di vita eterna. Abbiamo in noi un principio di eternità.

 

Gratia est semen gloriæ  La grazia è germe della gloria.

 

Coltivare la vita di fede è permettere a questo germe di svilupparsi e crescere.

 

In questa crescita cosa capita?  San Paolo dice --------------> il nostro uomo esteriore si disfa [torna alla terra]

                                                                                       ma quello interiore si rinnova di giorno in giorno.

                                                                                                                                                (2Cor.4,16s)

 

Si rinnova secondo l’immagine di Dio che non conosce invecchiamento, perché la vita di Dio è al di sopra di passato, presente e futuro. E’ la vita di Cristo risorto.

 

Questa vita, questo germe è l’unica cosa necessaria di cui parla il Vangelo. A cosa ci serve guadagnare il mondo intero, o vivere fino a cento anni, se poi perdiamo questa vita?

 

Dicevamo che è necessario essere audaci….

                e allora bisogna puntare al TOP, la santità.

 

qualcuno pensa: non sarò mai un santo, a me basta salvarmi….

 

                Ma in cielo non ci sono che dei santi! I salvati sono dei santi! Non c’è un’alternativa alla santità.

                Dio non ci chiede mica l’impossibile!

Tu fai il possibile e quello che non ti è possibile, chiedilo diceva Sant’Agostino.

 

Conclusione: Ma si può vedere qualcosa di questo tesoro?

                                                                               |--------------> Sapienza nascosta e tesoro invisibile:

                                                                                                    a che servono? (Sir.20,30)

 

Non spegnete lo Spirito (1Ts.5,19) ci dice San Paolo

 

                Vuol dire che lo Spirito è qualcosa di acceso. Qualcosa che splende, che emana luce.

                                               Ricordate la lampada

                                                              la nashamah?

 

                L’anima che possiede la Sapienza porta in sé lo splendore della luce eterna e il riflesso della maestà di Dio; e, come è penetrata interiormente dalla grazia  di Dio, così irradia il suo splendore e il suo amore… Così gli amici di Dio partecipano già in questa vita della glorificazione che otterranno pienamente lassù.

[Guglielmo di Saint Thierry, Traitè de l’amour de Dieu, ed. M.M. Davy, Paris 1953, pp.131.133, citato nel Libro di Vita § 60.]

 

Chi è illuminato dallo Spirito in qualche modo lo riflette.

Quando una persona è veramente pacificata e vive in Dio… c’è qualcosa anche di visibile. Diciamo che il vaso diventa trasparente.

E’ l’esempio di tanti santi che attiravano le folle, pur nella loro estrema semplicità. (es. Padre Pio, Giovanni Paolo II, Madre Teresa).

 

    Abbiamo usato la metafora del vaso per dire alcune cose riguardo la vita di fede.

    Ma cos'è un vaso?

            E' una sottile parete

            con dentro un grande vuoto.

 

    Il cammino di fede

    deve farci diventare un umile vuoto

                        che Dio può riempire.

        Meno c'è di me stesso

        più c'è posto per Dio.

 

    Immaginiamo che il vaso finito, decorato ecc. sia....come Dio ci vuole. Il Santo che Dio vede già in noi. Quello che siamo chiamati a diventare. L'opera compiuta.

 

    Per arrivare qua, c'è un cammino, c'è un lavoro;

        questo lavoro     - è l'opera dello Spirito Santo in noi

                                - è da un lato la mano del vasaio e dall'altro il nostro acconsentimento all'opera.

 

            Su questo lavoro si va per tappe, per fasi.

            Nella vita spirituale c'è un'evoluzione.

 

    Io ora vorrei che entrassimo nella bottega del vasaio, per seguire questo lavoro.

                                E vedrete che ognuno può ritrovarsi in un punto o nell'altro della lavorazione.

 

1) All'inizio il vasaio prepara l'argilla,

    la umidifica

    e la impasta                                                                    - C'è sempre un tempo in cui Dio prepara in noi il terreno per poter operare.

                                                                                            Per renderci atti a rispondergli.

    Poi la sbatte ripetutamente

    per togliere tutte le bolle d'aria:

    durante la cottura

    esse rovinerebbero il vaso.

                                                                                        - Dio si serve delle prove della vita perché se ne vadano da noi

                                                                                          gli egocentrismi, perché non possiamo arrivare al faccia a faccia

                                                                                          con Lui se siamo pieni di egocentrismo.

2) Liberata dalle bolle

    l'argilla viene messa sul tornio

    per vedere se vi aderisce bene.

                                                                                        - C'è un momento in cui il Signore ci chiede:

                                                                                          "Sei Pronto?  Vuoi aderire a me?

                                                                                          Vuoi seguirmi sul serio?"

    Se scivola via

    non si può proseguire col lavoro.

                                                                                       - Può succedere che noi non siamo pronti.

                                                                                         Allora Lui pazienta. E ci riprepara

                                                                                         (Forse si è riformata qualche bolla).

                                                                                         Dio non può dire "sì" al nostro posto.

                                                                                         Se bisogna partire con il tornio

                                                                                         bisogna che noi acconsentiamo.

3) Altra fase: la massa di argilla,

    ora che aderisce bene,

    viene posizionata bene al centro del tornio.

                                                                                        - Detto il "sì",

                                                                                          bisogna che siamo veramente presenti

                                                                                          là dove Dio ci ha posti.

    Perché se non è bene al centro,

    quando il tornio gira,

    l'argilla se ne parte di traverso.

                                                                                       - Se iniziamo a sognare "altro"

                                                                                         viviamo come "scentrati".

 

                                                                                         Come fa Dio a plasmarci?

4) Ora il vasaio

    fa girare il tornio e inizia

    a modellare con le mani.

                                                                                       - Dio mi forma a sua immagine

                                                                                              *nelle opere d'arte, l'opera riproduce

                                                                                                sempre qualcosa dell'artista.

                                                                                         vuole ridarmi quella somiglianza con Lui,

                                                                                         che il peccato ha offuscato.

                                                                                         Dio mi RI-CREA.

    Spinge all'interno con le dita

    per dare forma

                                                                                      - è l'opera del Dito di Dio

                                                                                        dello Spirito Santo.

5) Poi prende il vaso, ancora grezzo,

    e lo pone in un luogo all'ombra

    e all'umidità.

                                                                                        - Che cosa succede?

                                                                                        Questo povero vaso si sente

                                                                                        incompleto e abbandonato.

    Il vaso deve asciugare un po'

    ma non troppo velocemente.

                                                                                        Il silenzio di Dio.

6) Dopo un po' di tempo

    il vaso viene rimesso sul tornio

    e con una lama

    viene tolto ciò che è in eccesso.

                                                                                      - Ancora le prove

                                                                                        questa volta taglienti.

                                                                                        Dio toglie ciò che è di troppo,

                                                                                        il superfluo.

7) L'artista incide il suo nome sul vaso

                                                                                     - Noi siamo suoi.

                                                                                       Gli apparteniamo.

                                                                                       Il suo nome è inciso in noi.

8) Il vaso è messo ancora a seccare

    in un luogo buio e ogni tanto il vasaio

    viene a verificare lo stato di umidità.

    Lo fa appoggiando il vaso

    contro la sua guancia

                                                                                    - Che strano!

                                                                                      Cosa sono queste alternanze?

                                                                                      Prima mi mette da parte e poi

                                                                                      viene e mi mostra affetto....

                                                                                      Incomprensibile! (per me)

                                                                                      (v. Osea, 11,4)

                                                                                      Ma Lui sa quello che fa.

                                                                                      Se non sono ben secco

                                                                                      Non terrò alla prova del fuoco.

9) Finalmente arriva il giorno

    in cui il vaso viene messo nel forno

    per la cottura.

                                                                                      - L'amore di Dio

                                                                                      è un fuoco divorante.

                                                                                      Questa è l'esperienza dello Spirito

                                                                                      che penetra tutto quello che sono.

                                                                                      L'Amore mi rende Amore.

                                                                                      "La tua anima. giorno e notte,

                                                                                      sia ricolma della presenza amorosa

                                                                                      del Signore, e avrai vita". (Libro di Vita, paragr. 1)

 

Adesso la massa di argilla

è proprio un vaso.

L'opera è compiuta.

                                                                                      Sono diventato quello che sono,

                                                                                      quello per cui sono stato creato.

 

Notare che:

    - Su qualunque fase, l'artigiano ha un rapporto

      diretto con il lavoro stesso.

      Lo segue sempre

                                                                                      - Il Signore non mi molla.

                                                                                         Sa il suo mestiere e vuole fare un bel vaso.

   

    - In qualunque fase di questo lavoro io mi trovi oggi,

      la cosa importante è che io corrisponda a quello che Lui vuole fare

      che io mi OFFRA interamente all'azione dello Spirito, facendo la mia parte.

 

    . Il resto: è il segreto di Dio.

 

Per questo cammino quaresimale:

        oggi, a che punto sono nelle mani di questo artigiano?

        mi lascio davvero plasmare?

        gli permetto di avanzare nel lavoro o lo costringo sempre a ricominciare da parte?

 

        Sono capace di stare un po' fermo mentre Lui lavora, di "perseverare", oppure gli scappo dalle mani, cercando altre vie: fare di testa mia, scansare le difficoltà, ecc. ecc.?

 

 

Domenica 23 novembre 2008 - Domenica con Dio in Badia sul tema: "La speranza in San Paolo"  Insegnanento di Mons. Dante Carolla

      In materia di speranza il mondo di oggi mi sembra molto malato. Il nostro mi sembra un mondo povero di speranza, talvolta privo di speranza e spesso addirittura disperato.

    Mi sembra che ci vorrebbe poco a dimostrarlo. Basterebbero poche citazioni di autore o come si dice oggi di opinions leaders  per averne una preoccupante conferma. Mi limito solo a ricordare quella espressione terribile di Sartre:” L'uomo, una passione inutile”! L'uomo tende a qualcosa, desidera qualcosa, aspira a qualcosa, ma inutilmente. L'uomo è frustrato da una realtà frustrante. L'uomo è un treno senza meta, che vaga non si sa dove né perché. In altre parole l'uomo è assurdo, non ha un senso in se stesso, è una realtà illogica e quindi insensata.

    Un'altra testimonianza di questo potrebbe essere quella notizia apparsa sui giornali di recente secondo la quale in una località vicina ad Oxford è stato deciso di proibire qualunque riferimento al Natale sempre per rispettare tutti(!) e promuovere in sua vece la festa delle luci d'inverno.

    Di fronte a questa notizia mi limito a riportare una riflessione del Card. Biffi:” Ciò che mi pare senza avvenire è la cultura del niente, della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale che sembra essere l'atteggiamento dominante nei popoli europei più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità”. (“La città di S. Petronio nel terzo millennio”)

     Un mondo di questo tipo è un mondo senza speranza e senza futuro. Ma non è un caso. E' un mondo senza speranza perché senza sicurezze,senza prospettive, senza meta, un mondo che non aspetta più nulla. “La lunghezza dell'ora è insopportabile per chi non aspetta più nulla”, ha scritto Pavese. E' un mondo che non aspetta più nulla perché non crede più a nulla e a nessuno e questo perché l'uomo moderno e postmoderno non ha risolto il problema più arduo, più insolubile e più terribile, quello della morte. L'esito inevitabile di fronte a questa situazione è l'evasione e l'alienazione. Si comprende bene come in un mondo in cui non c'è più posto per la speranza l'uomo si difende con la e nella fuga dalla realtà, creandosi un mondo, una realtà che non esiste in cui si rifugia, per dimenticare, illudendosi di non soffrire o di soffrire meno. Ecco allora la droga, non solo quella classica. Ci sono tante “droghe” che sembrano innocenti e innocue, ma sono ugualmente pericolose e distruttive, per esempio il lavoro.

    E' interessante scoprire che certi pericoli e certi problemi, in fondo, non sono esclusivi del nostro tempo, con queste problematiche si è scontrato, e così entriamo nel vivo del nostro tema, anche S. Paolo.  Mi riferisco all'episodio riportato da Atti 17 quando S. Paolo “fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli” (At. 17,16) e, dopo aver annunziato Gesù e la sua risurrezione davanti all'Areopago, dovette registrare lo scetticismo e la derisione degli ateniesi:” Ti sentiremo su questo un'altra volta”. (At.17, 32). Anzi S. Paolo stesso definisce i non credenti, “quelli che non hanno speranza”: “Non vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”.(1 Ts. 4,13) Questo passo ribadisce che è proprio la morte che priva gli uomini di qualsiasi speranza e proprio di fronte ad essa il credente ha motivo per sperare.

    S. Paolo diventa ancora più esplicito in Ef. 2,11-12:” Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo”.

    Ai cristiani di Efeso provenienti dal paganesimo egli ricorda il loro passato: essi erano pagani, senza Cristo, senza la promessa messianica e quindi senza speranza e senza Dio. Da notare che per Paolo essere senza Cristo, senza Dio, privi delle promesse messianiche vuol dire essere senza speranza. Dunque essere privi della fede nell'unico Dio vivo e vero, rimanere schiavi del paganesimo e dell'idolatria vuol dire rimanere senza speranza.

 

La speranza di Paolo è nella risurrezione di Gesù.

 

    Prendiamo il cap. 15 della prima lettera ai Corinti. “Vi ho trasmesso, dice l'Apostolo, anzitutto quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”.(1 Cor. 15, 3)

Questo è il nucleo dell'annuncio: Cristo morto e risorto. Egli, dopo la sua risurrezione, è apparso a Cefa e poi ai dodici, a più di 500 fratelli in una sola volta, a Giacomo e poi a lui stesso. Paolo insiste sulla realtà della risurrezione fino a dire di fronte a quelli che negano la risurrezione, che se questa non fosse vera sarebbe vana la sua predicazione e la fede dei Corinti. Ma aggiunge una frase che mi ha sempre molto colpito anche perché la trovo di una sorprendente attualità. “Se poi, dice Paolo, noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini”. (1 Cor. 15, 20) E' un'aggiunta decisiva che dice il fondamento della speranza di Paolo.

    Se Cristo non fosse risorto sarebbe sempre un grande uomo, un grande maestro, un grande eroe, un grande esempio per l'umanità di tutti i tempi, ma la nostra sarebbe una speranza limitata solo a questa vita e allora saremmo da compiangere più di tutti gli uomini. Ma Cristo è risorto per questo la nostra speranza è incrollabile e attendibile.

    Nella lettera ai Romani particolarmente al cap. 5 troviamo un'ulteriore testimonianza di questa speranza in Paolo. Qui l'apostolo afferma chiaramente che la speranza del cristiano è fondata proprio sulla morte di Cristo fonte di vita e di risurrezione.

    “La speranza non delude perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rm.5, 5)La prova di questo amore e quindi il fondamento di questa speranza è che “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito”. Ora dice Paolo è già difficile trovare qualcuno che offra la sua vita per una persona dabbene, figuriamoci per un empio! “Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi”. Ma quello che vorrei sottolineare è che appunto da peccatori siamo stati, nonostante tutto, amati fino alla morte, a maggior ragione ora che siamo riconciliati dal suo sangue “siamo salvati  mediante la sua vita”.

    E' la sua vita, la sua risurrezione che ci salva e quindi costituisce il motivo più alto, il fondamento più solido della nostra speranza.

“Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita....laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”. (Rm. 5,17-18.20-21)

La risurrezione di Gesù è la caparra della nostra risurrezione.

 

     Al cap. 6 della lettera ai Romani Paolo fa con audacia un'affermazione sorprendente per non dire sbalorditiva: in realtà il battezzato è già risuscitato. “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti  per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione...Se siamo morti con Cristo crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”.(Rm.6,1-11)

    La risurrezione di cui parla S. Paolo non è una risurrezione spiritualista e astratta, è una vera risurrezione, voglio qui sottolinearlo con forza, della carne non semplicemente dell'anima.

    Nella prima ai Corinti S. Paolo, dopo aver messo in guardia i suoi fedeli dal pericolo di non credere alla risurrezione che toglierebbe ogni significato al vivere ( “se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” come diceva il poeta greco Menandro) afferma con solennità:

    ”Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. E' necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità, si compirà la parola della  Scrittura:”La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è o morte la tua vittoria? Dov'è o morte il tuo pungiglione? (1 Cor. 15,51-55)

    Questo è molto importante. Qui possiamo fondare davvero una speranza nuova la speranza che tutto di noi viene salvato per l'eternità ed è chiaro che se siamo liberati dalla corruzione della carne ciò vuol dire che in un certo senso tutto di noi partecipa della vita eterna e allora è importante e significativo anche un filo d'erba. Tutto rimane per la vita eterna. Allora la fede non è una fuga un rifugio in un al di là misterioso ed estraneo, al contrario è la valorizzazione eterna di ogni aspetto anche il più materiale della nostra esistenza terrena. Del resto la concezione dell'uomo come composto di anima e di corpo è di origine greca, vedi Platone, ma la concezione biblica è già molto diversa e certamente più vera e più giusta. L'uomo non anima e corpo ma si potrebbe dire un'anima carnale e una carne spirituale, è insomma una persona e tutti i fattori che lo compongono sono destinati alla pienezza dell'eternità.

     Nella lettera ai Romani S. Paolo arriva a dire perfino: ”La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere ma per volere di colui che l'ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se visto non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza”. (Rm. 8,19-25) Vorrei sottolineare di questa citazione due concetti: la redenzione del nostro corpo, quindi la liberazione dalla corruzione segno del potere della morte e il fatto che nella speranza noi anticipiamo già la salvezza. Noi siamo già risorti, come spesso affermano i santi, viviamo già la vita del cielo se accogliamo nella nostra carne il Mistero di Cristo risorto.

 

La speranza nella Grazia

 

    Un altro aspetto molto importante, secondo me, di questa speranza paolina è il fatto che essa si fonda sulla Grazia e non sulla legge.

    S. Paolo mi sembra ferocemente geloso di questo primato assoluto della Grazia sulla Legge, è uno dei suoi cavalli di battaglia.

    Nella lettera ai Galati insiste con forza nel dire che la salvezza non viene dalla carne, cioè dalla circoncisione, quindi dall'appartenenza etnica a un popolo, ma viene dalla fede che aderisce alla predicazione del vangelo e quindi, in ultima analisi dalla Grazia. “E' per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione? Siete così privi d'intelligenza che, dopo aver cominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne?...Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione”? (Gal. 3,2-5)

    La gratuità di questa salvezza, opera esclusiva dell'iniziativa di Dio è ancora più esplicitamente e chiaramente affermata nella lettera agli efesini:” Dio, ricco di misericordia, per il grande ( gr. pollén, lat. nimiam), amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua”. (Ef. 2, 4-10)

    Questo brano è particolarmente bello e toccante. S. Paolo dice che l'”eccessiva”, l'”esagerata” carità di Dio ci ha ridato la vita in Cristo e così ci ha salvato, anzi egli dice che con Cristo noi siamo già risuscitati, ci siamo già assisi nei cieli, insomma per sua grazia possediamo già i beni futuri, ma questo  non può essere che frutto di un dono divino e non conquista nostra.

    E' quella che Paolo chiama la speranza della gloria dove gloria in qualche modo coincide con la vita eterna, con la vita del cielo. Nella lettera ai Colossesi Paolo parla “del mistero nascosto da secoli ma ora manifestato ai suoi santi ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi speranza della gloria”. (Col. 1,26-27)

    Un ultima parola la potremmo dire sulla speranza dell'uomo Paolo, specialmente di fronte alle prove della sua vita fino a quella suprema della morte.

    Spesso S. Paolo fa riferimento nelle sue lettere alle sue vicende personali magari anche drammatiche che però non sono riuscite a piegare la sua speranza.

    E' il caso di 2 Cor.4,7-5,8. In questo brano l'apostolo parla chiaramente delle sue tribolazioni e persecuzioni ma ciò nonostante è convinto che la risurrezione di Gesù è più forte e in ultima analisi vincitrice, di tutte le sue contrarietà. “Siamo tribolati da ogi parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo”.

    Tutto il discorso prosegue fino a buona parte del cap. 5 incentrato tutto sul mistero della risurrezione nella speranza che “ciò che è mortale venga assorbito dalla vita”. (2 Cor. 5,4) Un altro passo molto interessante in cui Paolo dovendo in qualche modo giustificarsi, fa riferimento alla sua vita tumultuosa e avventurosa a servizio del vangelo è quello di 2 Cor. 11,21-12,10. In questo brano Paolo intende difendere la sua autorevolezza di apostolo e per far questo fa una specie si sintesi della sua vita spesa per il vangelo. Da questo racconto veniamo a conoscere momenti molto drammatici della sua vita: cinque volte i trentanove colpi, tre volte battuto con le verghe, una volta la lapidazione, tre volte naufragio, viaggi innumerevoli pericoli di briganti fame e sete digiuni freddo e nudità e in tutte queste avversità l'assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese. Segno che anche queste prove terribili non sono riuscite a estirpare la speranza dal suo cuore. Ma forse la spiegazione sta proprio nella conclusione del v. 10 del cap. 12: “Quando sono debole è allora che sono forte”!

    Infatti poco prima aveva raccontato la sua sofferta esperienza che lo aveva spinto a chiedere al Signore per tre volte di allontanare da lui “l'inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarlo” e il Signore gli aveva risposto:”Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”.

 

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