Biblioteca digitale

delle Fraternità

di Gerusalemme

di Firenze                        

 

     laboratorio di traduzione delle Omelie di fr.Pierre-Marie in italiano

 

 

 

 

 

Presentazione del laboratorio di traduzione delle Omelie di fr.Pierre-Marie in italiano

Con l’inizio del nuovo anno liturgico abbiamo voluto cominciare a rendere fattivo un progetto ambizioso che ci sta molto a cuore: far conoscere il carisma e gli scritti di fr. Pierre-Marie Delfieux in Italia. Diverse persone si sono messe al lavoro per tradurre le sue omelie dal francese. A partire dalla prima domenica di Avvento dell’anno B le omelie verranno progressivamente inserite nella pagina del nostro sito in italiano. Così domenica dopo domenica, (con l’aggiunta delle omelie per la novena di Natale, le Solennità e la Settimana Santa) potremo avviarci a conoscere il tesoro che fr. Pierre-Marie con la sua predicazione scaturita dalla vita ci ha lasciato in eredità.

01 12.2017

 

INDICE

 

Presentazione del laboratorio

I Domenica di Avvento . anno B

II Domenica di Avvento - anno B

IV Domenica di Avvento - anno B

Feria d'Avvento: annuncio a Giuseppe - 18 dicembre

Feria d'Avvento: annuncio a Zaccaria - 19 dicembre

Feria d'Avvento: annuncio a Maria - 20 dicembre

Feria d'Avvento:  messaggio di AinKarim - 21 dicembre

Feria d'Avvento: Omelia 22 dicembre

Feria d'Avvento: Omelia 23 dicembre

Triplice nascita

2° Domenica T. O. B

3° Domenica T.O. B

4° Domenica T.O. B

DAL NO ALL'ASSURDO AL SI' AL MISTERO

6° Domenica T.O. B

Celebrazione del mercoledì delle ceneri

1° Domenica di Quaresima B

2° Domenica di Quaresima B

3° Domenica di Quaresima B

4° Domenica di Quaresima B

5° Domenica di Quaresima B

Domenica delle Palme B

Sabato della settimana Santa B

Veglia Pasquale B

Pasqua B

II° Domenica Tempo Pasquale B

III° Domenica Tempo Pasquale B

IV° Domenica Tempo Pasquale B

V° Domenica Tempo Pasquale B

VI° Domenica Tempo Pasquale B

Ascensione

Pentecoste

SS. Trinità

Corpus Domini - anno B

Sacro Cuore - anno B

X° Domenica T.O. B

XI Domenica T.O. B

S.Giovanni Battista - anno B

XIII Domenica Tempo Ordinario B

Festa del Battesimo del Signore

II Domenica Tempo Ordinario C

III Domenica Tempo Ordinario C

IV Domenica Tempo Ordinario C

V Domenica Tempo Ordinario C

VI Domenica Tempo Ordinario C

VII Domenica Tempo Ordinario C

VIII Domenica Tempo Ordinario C

IA Domenica Quaresima, anno C

IIa Domenica di Quaresima anno C

III Domenica di Quaresima anno C

IV Domenica di Quaresima anno C

V Domenica di Quaresima anno C

Domenica delle Palme anno C

Veglia Pasquale anno C

II Domenica di Pasqua anno C

 

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

II Domenica Pasqua C - At 5, 12-16; Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31


 

Il corpo mostrato, la pace donata e la fede richiesta

 

Il corpo, la pace, la fede, tutto è corporeo in questo vangelo. Ma, allo stesso tempo, attraverso questo che lezione spirituale! La paura sembra tormentare le anime ed il timore oscura gli spiriti. Ma anche che pace è donata qui a tutti i cuori! Il dubbio e l’incredulità sembrano molto pesanti da sollevare. Ma quale gioia è vedere tutto quello che la fede promette!

Il corpo prima. Il corpo, ovunque presentato in questa pagina di vangelo, è qui il primo a testimoniare. Gesù “viene” in persona. “Lui sta lì in mezzo a loro” (Gv 20,19.26). “Mostra le sue mani, poi i suoi piedi” (Lc 24,40), “poi il suo costato” (Gv 20,20). Dice a Tommaso “di mettere le sue dita sulle ferite ancora visibili, di portare la sua mano nel suo costato aperto” (Gv 20,27). Lo vedono chiaramente; parla chiaramente; mangia anche con loro (Lc 24,43; Gv 21,9,13). Siamo davvero non alla presenza di uno “spirito”, ma di un essere “in carne ed ossa”, come a Gesù piace mostrarsi (Lc 24,39).

È attraverso il suo vero corpo che ci ha salvati. È nel suo corpo incarnato che anche Lui è risorto. È “questo stesso Gesù, quest’uomo che è stato liberato,” come dirà l’apostolo Pietro, è lui,” il crocifisso”, che è risorto. “Non abbiate paura, io sono il primo e l’ultimo, io sono il vivente,” ci ha detto il Cristo dell’Apocalisse. “Ero morto, ma eccomi vivo per sempre” ( Ap 1,19).

Tuttavia, e questo non sorprende, lo stesso corpo che appare così, non viene riconosciuto spontaneamente. Maria Maddalena lo scambia per il “giardiniere” (Gv 20,15). I viaggiatori di Emmaus, per un semplice “compagno di viaggio” (Lc 24,15-16). I discepoli di Galilea, per un pescatore sulla riva del lago (Gv 21,15). È che questo è, si, il corpo di Cristo risorto,

ma resta tuttavia diverso da quello di Gesù di Nazaret. È sempre il suo, senza essere esattamente lo stesso. Eccolo oggi trasfigurato, trasformato, da un altro mondo. Ovviamente, questo corpo di Cristo, vincitore della morte, sfugge a tutte le leggi dello spazio e del tempo. Appartiene ad un nuovo stato. È quello del vivente ritornato presso il Padre (Ef 2,6) “in cui dimora corporalmente la pienezza della divinità” (Col 2,9).

Porta per noi una meravigliosa promessa di speranza. Si, anche noi, come Cristo risusciteremo nel nostro corpo. Questo stesso corpo che Dio ci ha già donato come compagno di viaggio, ci sarà dato domani come compagno per l’eternità. Sarà il mio corpo, che mi rende “me”. Ma questo sarà un corpo rinnovato, trasfigurato, trasformato ( Fil 3,20-21). Questo corpo oggi sottoposto alla fatica, all’usura, alla pesantezza, che già conosce o conoscerà senza dubbio, vecchiaia, malattia, imperfezioni e infine, sepoltura, questo stesso corpo, Dio, mio Dio, lo resusciterà!

Che onore per la nostra razza umana ( At 17, 28-29)! E “quale speranza ci apre questa chiamata” (Ef 2,18)! Già “partecipi della natura divina” (2P 1,4), attraverso la creazione e l’incarnazione della Sua parola, saremo pienamente associati alla Sua “pienezza” ( Ef 3,18-19) da “una resurrezione simile alla Sua” ( Rm 6). Quanto dobbiamo quindi rispettarlo ed amarlo questo corpo umano promesso alla luce ed alla felicità di una vita nuova ed eterna! Come scrive magnificamente l’apostolo Paolo, “se lo spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo Gesù dai morti, vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Or dunque fratelli e sorelle, “glorifichiamo dunque Dio nei nostri corpi” (1Co 6,20).

Subito dopo il corpo che testimonia la speranza, viene il dono della pace che raccoglie nella carità. Colpisce nel testo: fin dall’inizio Gesù annuncia, dona e proclama la pace. Per tre volte, dice, ridice, e ripete di nuovo : “la pace sia con voi!” (Gv 20,19,21.26). Eppure tutti l’avevano tradito, abbandonato, lasciato solo. Nessuna vendetta, nessuna amarezza, nessun rancore tuttavia, da parte del crocifisso. Oggi la grande assoluzione del cielo è data da colui che sale dagli inferi, alla terra dell’umanità tutta intera. Ma in questo dono della pace e questa effusione dello spirito, quale dignità e solennità! Lo stesso respiro di Dio è donato all’umanità! Il figlio stesso del Padre trasmette lo spirito alla Chiesa nascente. Una vera ri-creazione inizia in questo giorno. Illuminazione interiore delle anime restituite alla vita. Il coraggio dei cuori si riempì improvvisamente di sicurezza. Tutto un divenire è aperto fino a far esplodere i muri chiusi e le porte sprangate. Una nuova missione è affidata a questa giovane comunità di discepoli.

È lei che ora diventa l’estensione vivente di Gesù Cristo. Letteralmente: “il corpo di Cristo” (1Co 12,27). Il modello sempre vivo di tutte le comunità cristiane, familiari, religiose, monastiche, parrocchiali, che avranno per missione di trasmettere la buona novella della salvezza attraverso un amore che le anima dall’interno.

D’ora in poi, se lo desideriamo, come dice l’apostolo Paolo (Ga 3,28) , non c’è più da opporre “i credenti ai non credenti, i ricchi ai poveri, gli uomini alle donne. Diventiamo tutti i beneamati di Dio”,i figli del Padre, “per la fede in Cristo Gesù”, il figlio unigenito (Gal 3,26). E la terra vede la salvezza del nostro Dio. La resurrezione di Cristo è veramente compiuta perché i figli di Adamo vivono fraternamente. Allora il mondo potrà “credere che il Padre ha mandato Suo figlio” (Gv 17,23) perché quello che sta realmente accadendo in queste comunità ecclesiali, “assidue nella preghiera” e che vivono la condivisione fraterna (At 2,42), mostra che Cristo è veramente risorto poiché la Sua presenza reale si estende nel Suo corpo mistico. “Nell’unità dello spirito attraverso questo legame che è la pace” (Ef 4,3).

La fede può finalmente costruire tutto nella verità e nella forza. È qui che l’esempio di Tommaso diventa così istruttivo per ognuna delle nostre vite. Non perché sarebbe diventato il modello dell’incredulità guarita o della rivendicazione di prove soddisfatte. Ma perché diventa, in qualche modo, per ognuno di noi, una chiamata viva ad un vero atteggiamento di fede. Prima di tutto impariamo che non è sufficiente credere nella resurrezione in sé. È ancora più importante dare tutta la propria fede alla persona del risorto. “Quello che noi abbiamo ascoltato,” dirà San Giovanni, “quello che noi abbiamo visto coi nostri occhi, quello che noi abbiamo contemplato, quello che le nostre mani hanno toccato della parola di vita” (1Gv 1,1), questo è quello in cui crediamo ed annunciamo. Perciò anche per noi, Cristo Gesù in persona diventa Qualcuno. Non si dona la propria vita per un’ idea, fosse la più vera del mondo; e nemmeno a un ideale, fosse il più santo sulla terra. Ma si può donare la propria vita a Qualcuno. Qualcuno di cui si sa che “ha le parole di vita eterna” (Gv 6,68) perché Lui stesso è “la Resurrezione e la Vita” (Gv 11,25-26).

Noi apprendiamo anche, da questa pagina del vangelo che, se la fede si basa sull’adesione alla persona del Cristo, si trasmette anche attraverso la testimonianza ricevuta. Cristo è talmente identificato con la Sua Chiesa, messo in essa, che oggi e per sempre è annunciato e condiviso a tutti attraverso la Chiesa. Che fiducia il Signore mette negli uomini agendo così! Ma quale impegno per tutti noi in cambio, quando comprendiamo come è scritto, che “la fede passa attraverso la predicazione” ( At 15,7; 22,10; Rm 10,14), che essa si trasmette in verità attraverso la testimonianza; e quando vediamo come, se restiamo fedeli al vangelo, questo cammino di fede è capace di attraversare i secoli; e come Dio ci dona talvolta di sentirla passare, questa fede cristiana , quando la viviamo insieme, la cantiamo e la proclamiamo nelle nostre assemblee, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità laiche o monastiche.

Tuttavia, la fede rimane una grazia ed un dono. Una grazia offerta e un dono gratuito. Noi crediamo perché vediamo. Non ci crediamo perché ci conviene. Non crediamo perché è provato o ovvio. Crediamo in ciò che non vediamo. Crediamo in ciò che ci oltrepassa e ci spinge in avanti. Noi crediamo aldilà delle evidenze, delle dimostrazioni e delle prove. Crediamo a quello che la Scrittura ci dice, perché è luce e vita; e a quello che la Chiesa del Cristo ci insegna perché è messaggera di verità.

Allora sale in noi la gioia profonda della vita nella fede “Beati quelli che crederanno senza aver visto!” ( Gv 20,29). Si, si è felici di accogliere, di ricevere, di lasciarsi afferrare, di accettare l’abbagliamento divino che diventa per noi cammino di esultanza e di pace, di serenità profonda e di filiale abbandono. Camminiamo accanto a Cristo risorto. Sentiamo la dolcezza delle Sue parole di luce salire nel Suo cuore, cantare nella Sua anima la leggerezza del Suo messaggio di pace. Ed è credere così, “senza aver visto” , si, questo ci rende “felici”, come ha detto Gesù! “Senza aver visto il Cristo, voi l’amate,” osserva l’apostolo Pietro. “Senza vederlo ancora, ma credendo , voi sussultate di una gioia ineffabile e piena di gloria;” e aggiunge: “sicuri di ottenere l’oggetto della vostra fede, la salvezza delle vostre anime” ( 1Pt 1,8-9).

Fratelli e sorelle , possiamo tutti farne esperienza: quest’ultima beatitudine del Cristo nel vangelo ha qualcosa di infallibile. La fede non può mai angosciarci!

La fede veramente vissuta non può che rallegrarci sempre. E, se essa è vissuta, vincolata sino al dono effettivo della nostra vita al Signore, allora Lui con la forza del Suo Spirito ci riempie di pace e di gioia. “Una gioia”, come promesso, “che nessuno può toglierci” (Gv 16,22). Ed una pace, “non come quella che da il mondo”, ma che toglie definitivamente tutti i cattivi disturbi dal nostro cuore (Gv 14,27). No, il vangelo non mente! Non siamo tutti testimoni viventi?

Signore, fa che dopo essere stati felici qui in terra, di credere senza aver visto, siamo felici di vederti eternamente, per aver creduto in te!

 

©FMG trad. omelia manoscritta il 18 aprile 2004 a Saint Gervais - Parigi


 

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Solennità della Risurrezione del Signore - Veglia Pasquale


 

La Risurrezione di Cristo e la nostra risurrezione in lui


 

Quando la vita di un uomo termina sulla terra,

appare chiaramente ai nostri occhi il bilancio della sua esistenza.

Dalla sua Nascita, a Betlemme, alla sepoltura, a Gerusalemme,

Gesù di Nazareth ha vissuto,” i giorni della sua carne” tra di noi.

E noi lo sentiamo ancora ridire, nella sua ultima preghiera:

“Adesso, Padre, glorificami della gloria che avevo presso di te,

prima della creazione del mondo” (Gv 17,8).

Chi dunque è colui di cui celebriamo ancora una volta,

in questa notte benedetta, non la memoria del passato,

ma la presenza sempre viva (Ap 1,17-19)?

In verità nessuno è vissuto più santamente di Gesù,

nessuno ha parlato con altrettanta saggezza e verità come lui,

nessuno è morto più degnamente e liberamente di lui.

Nessuno ha amato in modo così intenso e puro come lui.

E nessun uomo, se non lui, si è rialzato dalla tomba

vincitore del peccato e della morte!

Così la Resurrezione del nostro grande Dio e Signore Gesù Cristo

è diventata, non solo la nostra “felice speranza” (Tt 2,13),

ma anche il punto di partenza di tutto il vangelo della salvezza (Ef 1,13).

E' dunque altrettanto meraviglioso credere alla Resurrezione del Salvatore

e sapere che ciò ci consente di parteciparvi a nostra volta.

Ma come credere alla Sua Resurrezione, il terzo giorno,

e in quella di tutti noi, l'ultimo giorno?

*

Non c’é modo migliore , fratelli e sorelle,

che ascoltare le Sante Scritture.

Che ci dice dunque la pagina del Vangelo di Luca (24,1-12),

sul fatto della Resurrezione di Cristo a partire dal sepolcro vuoto?

E in seguito la pagina della lettera di Paolo ai Romani (6,3-11),

sulla realtà della Resurrezione che ci è promessa a tutti?

Il Vangelo di Luca, se lo seguiamo, passo passo,

ci precisa inizialmente che tutto comincia

il primo giorno della settimana (24,1) e l'indomani dello shabat (Mt 28,1).

Questo ottavo giorno che, pur essendo l'ultimo,

diventa il primo di tutti i giorni, segnerà così profondamente i cuori

che i primi giudeo-cristiani non esitano

ad abbandonare il sacrosanto shabat per ciò che è diventato

il giorno del Signore, questa domenica, testimone per sempre

della Resurrezione del Figlio dell'uomo.

“Le donne si recano al sepolcro”, ci viene detto,

“allo spuntare dell'aurora” (Lc 24,1), quando fa ancora buio (Gv 20,1).

“Dio che è luce” (1Gv 1,5) per il mondo e per l'uomo,

agisce sempre di notte, per scacciare le tenebre:

Tenebre che coprono l'abisso, il primo giorno della creazione (Gen 1,2).

Tenebre della schiavitù nella notte dell'esodo liberatore (Es 12,42).

 

Notte di Betlemme (Lc 2,8) annunciante la venuta del Salvatore del mondo.

E notte del sepolcro da cui sorgerà il Redentore dell'uomo.

“Io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà

nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).

Spinte dall'amore per il Cristo e dalla venerazione per il Giusto sepolto (At 2),

le donne si recano al sepolcro con degli aromi.

La loro devozione e la loro ricettività per la Parola di Dio

ci mostrano che “l'amore è più forte della morte” (Ct 8,6).

E che, qualunque cosa accada, “l’amore non passerà mai” (1Co 13,8)!

Sì l'amore è sempre vincente.

Sarà da Dio sempre ricompensato (Mt 25,34-40; Gv 15,9-17).

“Esse trovano la pietra rotolata davanti al sepolcro” (Lc 24,2).

Eppure era ben grande (Mc 16,4) ed era stata sigillata (Mt 27,66).

Da quale forza, da quale potenza è stata dunque rimossa?

Ma non è né rovesciata né spezzata!

La Resurrezione del Signore onnipotente si è fatta

senza violenza, senza clamore e senza rumore.

Persino nel suo trionfo Dio rispetta la nostra libertà e agisce umilmente.

La Resurrezione del Principe della Vita è anche quella del Principe della Pace.

Essendo entrate, le donne non trovano il corpo del Signore

e non sanno cosa pensare

è che dobbiamo tutti, adesso, cambiare prospettiva.

La morte non è più la fine della nostra vita.

Il sepolcro non è più una prigione, ma una porta che si apre sull'eternità.

La morte è morta il giorno in cui Gesù l'ha afferrata .

E anche se dobbiamo ancora subirla, essa rimane per noi pasqua verso il cielo!

“Ecco che due uomini appaiono loro in abiti splendenti” (Lc 24,3).

Per attestare un tale evento che nessun occhio umano può vedere,

poiché segna il passaggio impercettibile dal tempo all'eternità

e dalla condizione umana alla gloria divina,

è ben necessario avere due testimoni (Dt 17,6.34)!

Due uomini vestiti di abiti splendenti possono evocare

Mosè ed Elia, già apparsi accanto a Gesù trasfigurato sulla montagna (Lc 9,28.32).

Tuttora, se sappiamo leggerli,

la Legge e i profeti testimoniano ancor più di lui (24,44.45).

Solo un Dio onnipotente può ispirare a tal punto

le Scritture, compierle e illuminarle alla luce della sua Vita.

Che non si dica che la fede sull'aldilà

sia fondata sulla paura della morte!

Ma, tutto al contrario, essa si radica

sulla certezza della resurrezione.

La domanda posta alle donne vale dunque sempre per noi:

“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”

“Non è qui. E' resuscitato!”(Lc 24,6).

Cristo non appartiene allo spazio e al tempo.

Egli vive in pienezza nell'eterno presente di Dio.

Ma altresì, invisibilmente e così realmente,

nell'anima e in mezzo ai credenti (Mt 28,20;Lc 17,21).

E là, nel più profondo del nostro cuore, possiamo

come loro ogni giorno, far memoria delle sue parole e meditarle (Lc 2,4.8319).

Al loro ritorno dal sepolcro, le donne riferiscono tutto ciò

agli Undici così come a tutti gli altri. E Luca le nomina:

Maria di Magdala, Giovanna, Maria madre di Giacomo,

e anche le altre che sono con loro.

Ma le parole delle donne sembrano a loro puro vaneggiamento e non ci credono!(24,9-11)

Lo scetticismo e il dubbio dei discepoli sono in un certo senso rassicuranti.

Poiché dimostrano che se tutti hanno finito per credere alla Resurrezione di Cristo,

non è per un segreto desiderio del loro cuore.

Ma perché quel fatto è stato confermato da “testimonianze e apparizioni”,

durante quaranta giorni, che sono, diventati per loro, dice il libro degli Atti,

“numerose prove di Gesù che si è mostrato vivo dopo la sua passione” (At 1,3).

Ma le sante donne, loro, sono là

nel punto più cruciale del Vangelo,

nell'ora in cui tutti gli apostoli sono fuggiti, si sono dispersi,

restando spaventati e rinchiusi, a porte serrate, loro sono là!

Si può dire che in quell'ora, il Vangelo di Cristo

che sembra aver perso i suoi primi testimoni,

è affidato a loro. Ed esse ne assumono la responsabilità.

Un esempio da non dimenticare!

Pietro intanto corre al sepolcro.

L'amore non permette all'apostolo che ha più amato Gesù di restare fermo!

Come non fare tutto per credere al Figlio del Dio vivente!

Egli vede solo le bende. Il corpo del crocifisso se ne è liberato da solo.

E il sudario è là, così posato, così simbolicamente arrotolato a parte,

nota il Vangelo di Giovanni. Come un rotolo della Torah!

E' dunque vero ciò che era annunciato!

Fratelli e sorelle, se crediamo, non è anche per la grazia delle Scritture?

*

Ma cosa sarebbe per noi la Resurrezione di Cristo

se non trascinasse le nostre vite al suo seguito verso la felicità eterna?

E' l'apostolo Paolo che ci indica, nella sua lettera ai Romani,

da dove passa quel cammino che conduce alla nuova vita (Rm 6,1-11).

“Noi tutti che siamo stati battezzati nel Cristo Gesù”, scrive l'apostolo,

“è nella sua morte che siamo stati battezzati” (6,2).

Il vero battesimo di Gesù infatti non è nel Giordano, ma sul Calvario.

La discesa nelle acque del Giordano dell'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo,

prefigura l'immersione nella morte di Colui che riscatta i peccati degli uomini.

E come, lui che non era peccatore, Dio l'ha fatto peccato per noi,

è con la sua Passione redentrice che egli si è immerso nelle acque della morte.

Sconvolgente follia d'amore che confonde la saggezza umana!

Ma ne è risalito. Ne ha trionfato.

E' solo il nostro peccato che vi è stato inghiottito.

La morte è “il salario del peccato” (Rm 6,23),

e Cristo, annegando il peccato nella sua morte, ce ne ha liberati.

Insondabile mistero dell'amore infinito di Dio per noi!

Come il Cristo si è rialzato dai morti,

così noi che siamo battezzati,

(a cominciare dai cinque tra di noi che lo saranno tra poco),

tramite il battesimo siamo riportati “dalla morte dell'uomo vecchio

ad una vita nuova” che fa di noi uomini nuovi (Rm 6,4-6).

“Poichè se siamo già in comunione con lui”, confida San Paolo,

“con una morte che assomiglia alla sua,

lo saremo ancora di più con una resurrezione che assomiglia alla sua” (6,5).

Ma cos'è dunque questa morte che assomiglia alla sua?

E' la morte all'uomo vecchio che trascina con sé

ciò che non può ereditare dal Regno dei cieli (1Cor 6,9-11).

Poiché vi è posto solo per la verità, la dolcezza, la purezza, la misericordia, la giustizia.

In una parola: la santità, piena d'amore, di vita, di luce e di gioia.

“Se dunque”, continua Paolo, “siamo passati attraverso la morte con Cristo,

noi crediamo che vivremo anche con lui” (6,6).

“ Cristo risuscitato dai morti infatti non muore più.

Su di lui la morte non ha più potere” (6,9).

Non ne mai avuto, a dire il vero.

“Poiché la sua morte fu una morte al peccato una volta per tutte

e la sua vita è una vita nella gloria di Dio per sempre” (6,20; Gv 17,5.24).

“Ugualmente anche voi, consideratevi come morti al peccato

e viventi per Dio nel Cristo” (6,11).

Si potrebbe, pensare che Paolo, preso dal suo entusiasmo,

esageri o idealizzi quando dice che noi siamo ormai morti al peccato.

Ma no! Poichè Dio ha consegnato nelle nostre mani

quell'immenso potere di attirare continuamente su di noi il suo perdono.

Allora instancabilmente, all'istante,

il Dio onnipotente e “onni-amante” accorre verso di noi (Lc 15),

ci lava e ci rilava ancora, ci alza e ci rialza sempre (Rm 5,20).

E così procediamo, da piccole morti a piccole resurrezioni

verso la grande Resurrezione quando saremo tutti viventi in Dio per sempre!

Che grazia e che gioia per le nostre anime, fratelli e sorelle,

poterci offrire già a Dio,

come viventi reduci dalla morte (6,17)!

 

©FMG trad. omelia manoscritta il 4 aprile 2010 a Saint Gervais - Parigi

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Domenica delle Palme C

Is 50, 4-7; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56

 

Il ladrone e Gesù

 

Nessuno è morto come quest'uomo.

“Si, veramente, quest'uomo era figlio di Dio”.

Il centurione del Vangelo l'ha capito bene (Mc 15,39).

 

Ascoltando il racconto della Passione che abbiamo appena letto,

capiamo che siamo richiamati ogni anno, a radunarci per contemplare

colui che è stato trafitto (Gv 19,37).

Poiché, di fronte alla nostra morte, che ci lascia tutti umanamente senza spiegazione

e senza voce, Gesù ha, e lui solo, “le parole della vita eterna” (6,63).

E più ancora le chiavi della porta stretta che conduce alla vita (Mt 7,14; Gio 10, 9-10),

di quel passaggio unico che sfocia in un cielo di gloria.

Certo, il Cristo, nostra pasqua, è stato immolato così dolorosamente .

Ma vivendo la nostra morte carnale, il suo lievito

immortale ha fatto lievitare tutta la nostra pasta umana (1 Co 5,6-7).

 

Fratelli e sorelle, lo sappiamo fin troppo bene: lo scandalo del male

e della morte resta intollerabile e incomprensibile dall'uomo che deve subirla.

Ma resta, e ciò è ancora piu' scandaloso e inaccettabile, per Dio

che ha scelto di farsene carico al nostro fianco.

E più ancora, quando noi vediamo quanto abbiamo

fatto soffrire nella carne il Signore della gloria (1 Co 2,8).

Eppure, se i nostri cuori restano muti, sconvolti, noi non siamo né

sopraffatti né abbattuti. Poiché questa croce è la croce della nostra

salvezza. Una croce che Gesu' Cristo ha voluto assumere su se stesso liberamente.

La piu' bella prova d'amore mai data agli uomini (Gv 15,13).

Nel racconto della Passione che abbiamo appena ascoltato, c'è un breve

passaggio, tipico di san Luca, che è uno dei più illuminanti e

consolanti del Vangelo: il breve scambio di parole tra Gesù e il buon ladrone (23,42-43). Conferisce a questa morte ignominiosa una dimensione sublime.

 

Solo un Dio onnipotente e d'amore universale poteva rispondere così ad un brigante

(Mt 27,44): "in verità, ti dico, oggi stesso tu sarai con me in Paradiso".

Cosa ci rivela dunque questo colloquio inaudito che Luca, che lo ha sentito da Maria

presente ai piedi della croce, ci ha magnificamente trasmesso?

Innanzitutto che Dio solo puo' aprire all'uomo il Regno di cieli e

condividerlo con lui. “Voi, voi siete di quaggiù, io sono di lassu'.

 

Voi siete di questo mondo; io non sono di questo mondo” (Gv 8,23).

Ma Gesù è disceso fin quaggiù e ha dato la sua vita per il mondo intero.

Non è dunque senza senso se, fra i due ladroni si trova il Salvatore.

Nell'ora stessa in cui questo povero condannato agonizza sul Calvario,

il Figlio di Dio, diventato Figlio dell'uomo (Gv 8,27; 10,36)

introduce quest'uomo nel Regno di Dio.

 

Quale speranza per le nostre vite, fratelli e sorelle,

quando noi vediamo con quale misericordia e

quale potenza questo Gesù, che è stato appena inchiodato sulla croce,

inizia a risollevare questo ladrone caduto in basso. Ciò che aveva

promesso si sta già realizzando: "E io, sollevato da terra, attirerò

a me tutti gli uomini " (Gv 12,32). La morte soccombe , di fatto,

nell'ora in cui il Cristo la annienta con il fuoco del suo amore

divino; poiché è attraverso di essa che ci chiama tutti alla vita eterna.

E anche questo Gesù l'aveva detto. "Padre, è giunta l'ora,

glorifica tuo Figlio affinché tuo Figlio ti glorifichi e attraverso il

potere su ogni creatura, che tu gli hai conferito, conceda la vita

eterna a coloro che tu gli hai affidato (Gv 17, 1-2).Aprendo il suo

cuore, il buon ladrone si è consegnato a Gesù.

 

E Gesu' Cristo l'ha subito ammesso nella casa del Padre.

Come non ridirgli, a nostra volta: " Ricordati di me quando entrerai nel Regno."

Il Signore è sempre là che ci aspetta sulla porta di ciò che, come nel primo

giorno della creazione, il Cristo, nuovo Adamo, chiama il paradiso (23,45; 1 Co 15,45 - 49).

 

Nella sua risposta al malfattore sospeso sulla croce (23,59),

che si rifiuta di insultarlo, Gesù ci insegna ancora una bella e grande

verità: la forza e la grazia dell'umiltà e del pentimento.

Attraverso una semplice parola di pentimento e di toccante umiltà, la salvezza

scende direttamente nell'anima di questo peccatore che, attraverso di essa, si sente graziato.

Ma quale contrizione nel suo animo al momento della sua morte.

"Non temi neppure Dio, tu che subisci la stessa condanna"

dice al suo compagno che si fa gioco di Gesu'.

"Per noi giustizia è fatta, noi paghiamo per le nostre malefatte; ma lui, non

ha fatto nulla di male" (Lc 23, 41).

Allora, pieno d'amore e di fede, dichiara al Signore :

"Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno."

 

Il salmista aveva già ben capito come l'umile e sincera contrizione

tocca il cuore di Dio. "Conosco il mio peccato, il mio errore è senza

tregua davanti a me.....Ma tu ami la verità dal profondo del cuore.

Lavami, sarò candido come la neve. Un cuore spezzato, trapassato

(come le gambe dei crocifissi, Gv 19,32) tu non disprezzi”. (Sal 51,5s).

E Gesu' ci aveva anche insegnato che, grazie alla sua umiltà,

il pubblicano che pregava in fondo al Tempio, era ripartito graziato. (Lc 18, 13-14).

 

Ed ecco che, attraverso una sola parola di umile pentimento,

quest'uomo condannato alla maledizione del patibolo, si trova assolto

e letteralmente canonizzato attraverso l'inviato del Padre di

misericordia (2 Co 1,3).

 

Quale incoraggiamento, anche qui, per le nostre vite costellate di

peccati. Chiunque si autoaccusa dei propri errori incontra lo sguardo

di tenerezza e di pietà di Dio amico degli uomini. E sente ancora

risuonare la voce del Salvatore del mondo: "Se veramente, in fede ed

umiltà, desideri ancora entrare nel mio Regno, alla fine della tua

vita, tu sarai con me in Paradiso."

 

Essenzialmente, questo dialogo sconvolgente tra colui che è l'immagine

di Dio invisibile (Col 1,15), lo splendore della sua gloria (Eb 1,3) e

questo uomo che ha toccato gli estremi del crimine e della violenza,

ci rivela come il Signore ha voluto farsi prossimo delle peggiori

nefandezze umane. Erano tre, in quel mezzogiorno, crocifissi sul

Golgota. Nel mezzo il più santo fra i giusti e il più' puro degli

innocenti. E al suo fianco coloro che gli uomini avevano giudicato

come i peggiori degli i scellerati.

 

Che simbolo e quale realtà per la nostra umanità che non potrà più

dire senza bestemmiare, che Dio l'avrebbe abbandonato al potere del

male e della morte. No, il figlio di Dio, come il Padre onnipotente e

misericordioso, si è abbassato, spogliato di se stesso, assumendo la

condizione di servo. E Paolo aggiunge: "diventando simile agli uomini

si è umiliato ancora di più, obbedendo fino alla morte e la morte in

croce (Fil 2,6-8).

 

Fratelli e sorelle, ci sarebbe di che ribellarsi. Restare schiacciati

dalla vergogna. Gridare allo scandalo. Ma no,noi non possiamo

soccombere alla disperazione. Questa morte sul Calvario, anche se

abominevole, ci rivela l'amore infinito di Dio per noi.E la sua

vittoria sul peccato e il costo del peccato che è la morte (Rm 6,23),

"poichè cio' che è follia di Dio è piu' saggio degli uomini, e cio'

che è debolezza di Dio è piu' forte degli uomini (1 Co 1,25).

 

Cosi la croce di Cristo è finalmente gloriosa. Ed è il buon ladrone il

primo ad avere la rivelazione. "Stasera stessa tu sarai con me in

Paradiso".

 

Alla lunga notte del Golgota non poteva che succedere la luce del

mattino di Pasqua.


 

©FMG omelia manoscritta il 28 marzo 2010 - Parigi

 

V domenica di Quaresima anno C

Omelia di Fr. Pierre-Marie

(Is 43,16-21; Fil 3, 8-14; Gv 8, 1-119 )

  1. Dal passato perdonato al futuro di gloria

 

Se si dovesse cercare un’idea-guida per le letture della liturgia di questa domenica, che cosa si potrebbe dire?

Senza dubbio questo: che il futuro ci rimane aperto.

La nostra esistenza è un cammino in salita.

Qualunque sia il nostro passato, le nostre difficoltà, i nostri limiti attuali,

quelli che avrebbero potuto essere i nostri torti, i nostri errori, le nostre colpe di un tempo,

la santità continua a chiamarci ancora, sempre.

La nostra vita va avanti e non torna indietro.

La misericordia di Dio, se sappiamo aprirci ad essa,

può lavare tutto e ricostruire ogni cosa.

Sempre e ogni giorno, il perdono del Signore può cancellare tutto.

Questa linea di forza, carica di speranza, attraversa le tre letture: la profezia di Isaia (43, 16-21),

la lettera apostolica di Paolo ai cristiani di Filippi (3, 8-14),

il racconto dell’adultera nel Vangelo di Giovanni (8, 1-11).

 

Il profeta Isaia, per primo, ci colloca in questo orientamento essenziale:

Così parla il Signore, ci dice,

il Signore che, già una volta, ha aperto per il suo popolo una strada

attraverso il mare e nel deserto!

Ora, non c’è nulla di più difficile che fare attraversare il mare a piedi asciutti

e di fare attraversare le terre aride di un deserto ostile (43,20).

Ed è proprio lo stesso Dio che oggi dichiara:

Dimenticate ciò che è avvenuto una volta, non rimpiangete il passato,

ecco, io faccio nuove tutte le cose, non vene accorgete? (43,19)

Il Signore, in modo evidente, non vuole ritornare sui peccati, le ribellioni,

i fatti del passato, pur gravi e riprovevoli:

il peccato di Adamo, l’omicidio di Abele da parte del fratello Caino,

l’orgoglio della torre di Babele, l’idolatria per il vitello d’oro,

le protesta di Massa e Meriba,

Giuseppe venduto dai suoi fratelli,

l’adulterio omicida di Davide,

e ogni altra infedeltà del popolo al Dio unico e santo.

 

Meno male che Dio non è un giustiziere vendicatore,

ma - è lui stesso a dirlo – un Dio di tenerezza e di misericordia,

lento all’ira e sempre pronto al perdono (Es 34,6),

cosa che non toglie nulla alla sua esigenza di santità.

Questa però progredisce solo sul cammino della misericordia.

Ogni uomo, in ogni caso, è peccatore, e anche lui, dice la Scrittura,

pecca sette volte al giorno (Pr 24,16).

E noi, allora? Se dovessimo, per questo, tornare in continuazione al ricordo

schiacciante delle nostre colpe passate, ci sarebbe di che perdere la speranza.

 

Al contrario di noi, è estranea a Dio l’idea di far male: Io non voglio la morte del peccatore,

ma che si converta e viva!

Se noi siamo capaci di fare delle nostre colpe un cammino di conversione,

cioè, di ritorno a Dio che ci aspetta – sempre – come padre,

le nostre stesse colpe possono trasformarsi in un cammino di grazia e di luce.

E attraverso i soprassalti delle nostre imperfezioni

che noi possiamo inerpicarci sul cammino di perfezione.

Il rimorso ci fa girare su noi stessi, ci rattrista

e ci fa sprofondare nel passato.

Al contrario, il pentimento ci fa ravvedere, cioè, ci innalza verso Dio,

ci orienta verso il futuro, ci libera e ci rallegra.

 

Fratelli e sorelle, che Dio, con la voce del suo profeta,

ci faccia capire la grazia che troviamo nel riconoscerci peccatori

per essere ininterrottamente risollevati, liberati, illuminati,

e addirittura rallegrati dalla forza e dalla dolcezza del suo instancabile perdono!

Il suo volto è infatti proprio quello della misericordia e della tenerezza (Lc 6,3).

*

A sua volta, l’apostolo Paolo, nella lettera ai Filippesi, ci offre

la sconvolgente e consolante testimonianza del suo personale stravolgimento (3, 8-11).

Il suo passato, a lui stesso, non sembrava certo brillante:

    1. Da Saulo trasparivano solamente minacce e strage

nei riguardi dei discepoli del Signore (At 9,1).

Ed egli stesso confessa: Conducevo contro la Chiesa di Dio

Una sfrenata persecuzione e le procuravo danni… come accanito sostenitore

delle tradizioni dei padri (Gal 1, 13-14).

 

Ecco com’era stata tutta una parte della sua vita precedente.

Il suo passato, tuttavia, comprendeva numerosi vantaggi,

grazie all’impareggiabile formazione alla prestigiosa scuola di Gamaliele,

che lo aveva guidato a divenire un uomo irreprensibile quanto alla giustizia

che può essere data da una perfetta obbedienza alla legge (3,6).

Ma, spinto e illuminato dalla grazia di Cristo,

Paolo non si è limitato a glorificarsi quanto a dispiacersi per il suo passato.

    1. Tutti questi privilegi di cui ero fornito, li ho considerati uno svantaggio a causa di Cristo…

Per lui ho accettato di perdere tutto e considero tutto come immondizia

per raggiungere Cristo (3,8).

Allora, senza più sterili rimpianti né rimorsi opprimenti,

determinato ed entusiasta esclama:

Dimenticando il cammino percorso, avanzo risolutamente,

preso con tutto il mio essere e corro verso la meta,

in vista del premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (3,13-14).

 

Ecco la tempera dell’oro passato attraverso il crogiolo da cui il fuoco dello Spirito Santo

è capace di plasmare i santi!

Che l’apostolo Paolo, a sua volta, ci aiuti a credere come lui che,

per quanto grande sia stata la nostra debolezza,

a ognuno di noi Gesù dice ancora: Ti basti la mia grazia

perché la mia forza si manifesta nella tua debolezza (2Cor 12,9).

 

*

La stessa luce che orienta il nostro sguardo verso l’avvenire,

là dove la santità ci rimane sempre promessa,

ci viene rivelata da Gesù nel Vangelo.

E questo, nel suo incontro con la donna adultera:

La misericordia di fronte alla sventura (S. Agostino, Commento a Gv 8, ).

 

Come una tenaglia, il cerchio degli accusatori si è richiuso su Gesù e la peccatrice.

Un flagrante reato di adulterio. E non mancano certo i testimoni!

Mosè ha comandato… e tu che cosa dici? (Gv 8,5).

L’insidia è al tempo stesso politica, giuridica e religiosa.

Sul piano politico, i Romani hanno appena vietato la lapidazione per l’adulterio,

pena considerata eccessiva e disumana;

sul piano giuridico, il Deuteronomio (22, 24s) e il Levitico (20,10) prescrivono di

lapidare quelle donne là.

Sul piano religioso, c’è un conflitto insolubile fra ciò che la giustizia comanda

e ciò che la misericordia richiede.

 

Ora, Gesù predica dovunque perdono e misericordia (Lc 6, 36; 7, 44-50).

E dice, d’altra parte, di non volere abolire la legge, ma darle compimento (Mt 5,17).

E inoltre, come potrebbe pronunciarsi sia contro la legge di Cesare che contro quella di Mosè?

O infrange queste leggi religiose, giuridiche e politiche

Oppure cambia idea e contraddice la sua legge dell’amore, di cui dichiara

che comprende e supera tutto ( Mt 22,40; Lc 10,27; Gv 5,14).

 

E tu, che cosa ne dici?

Gesù non dice nulla, perché non ha nulla a cui rispondere.

Non si lascerà trascinare nei vicoli tortuosi della casistica.

Semplicemente, si china e traccia dei segni con un dito in terra ( 8,6).

Questo silenzio frena la collera.

Questo gesto incuriosisce e fa calmare gli arrabbiati.

Questo abbassarsi del Maestro ( 8,4) è come una chiamata all’umiltà..

Il suo scrivere sulla sabbia è un invito a riflettere.

Che valore può avere una legge che spinge ad uccidere?

E dov’è l’uomo con il quale questa donna ha peccato?

 

Lentamente, con calma ma con gravità, Gesù si rialza.

Guardando allora dritto negli occhi ognuno dei suoi accusatori,

getta verso di loro questa espressione inimmaginabile e, in una sola parola, divina,

perché pur citando la legge la trascende,

Una legge, rispetto alla quale soltanto l’Autore della legge può permettersi di

andare oltre.

La legge, infatti prescriveva che i primi testimoni lancino le prime pietre (Dt 17,17).

E Gesù dice: Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra (8,7).

 

Segue un momento di silenzio, grave e pesante, durante il quale, all’improvviso,

tutto si ferma.

Le grida di accusa ora si rivolgono verso la propria coscienza:

non guardano più all’indietro il passato della legge antica,

ma verso il futuro della nuova legge che diviene quella dell’amore misericordioso

e della santa libertà dei figli di Dio.

 

Soltanto Gesù e la donna sono ora una di fronte all’altro:

l’umanità peccatrice davanti al divino Redentore.

 

Mettendosi ora in uno stato di umiltà sconvolgente,

dietro a quella che uno alla volta, hanno tutti finito col perdonare (8,9),

il Signore pronuncia allora questa parola sublime:

Neanch’io ti condanno;

va e d’ora in poi, non peccare più.

Detto questo, se il passato è cancellato, perdonato, dimenticato,

ne deriva un futuro intessuto di una esigenza nuova:

Va, e d’ora in poi non peccare più. (8,11).

 

Così nostro Signore Gesù Cristo, facendo volutamente volgere i nostri sguardi

Verso quel futuro assoluto della nostra via, che può esistere solo in Dio,

ci insegna che c’è qualcosa di ancor più grande di un’anima fedele:

è un’anima pentita decisa a recuperare;

e una cosa ancora più bella di un cuore puro,

è un cuore purificato, stracolmo di luce divina!

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

per IV Dom. Quaresima C - Gs 5,9.10-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15, 1-3.11-32

 

L’ amore del Padre in quattro dimensioni


Perché la parabola che abbiamo appena ascoltato è la più preziosa e la più bella?

Perché questa Rivelazione, direttamente portata a noi

da Colui che è disceso dal cielo (Gv 3,13),

è il cuore più intimo che Dio ci ha mostrato.

Ci trasmette la luce piena sull’amore del Padre.

Ci manifesta la tenerezza di Dio in azione.

Qual’è l’Amore di cui Gesù ci mostra il Volto?

Il Volto di un Dio di cui è detto che nessuno ha mai udito la voce e visto la faccia (Gv 5,37).

Si tratta di un amore che si declina in quattro dimensioni, a ben ascoltare la parabola. Cosa ci viene rivelato in effetti?

Innanzitutto che Dio dona senza calcolo.

Poi che Dio ci attende pazientemente.

In seguito che Dio ci accoglie con tenerezza e infine che ci perdona senza limiti.

*

La prima cosa che colpisce effettivamente nella parabola , è il modo con cui il Padre dona. Dona senza esitazione, senza calcolo, senza misura.

Dona senza gravare con raccomandazioni o divieti.

Dona in silenzio: come senza stati d’animo. Ma si percepisce bene che questo dono viene fatto con profonda attenzione, non senza emozione e con infinito rispetto.

Dio dona, insomma, per puro amore.

Fratelli e sorelle, ci siamo mai fermati, una sola volta nella nostra vita, per meditare, un pò in profondità, al dono che Dio ci ha fatto?

Cosa abbiamo di nostro che non provenga da lui?

Ci ha donato la vita che proviene solo da lui.

Ci ha donato la terra che ci porta con le sue bellezze e le sue ricchezze.

Il nostro corpo con le sue meraviglie; la nostra intelligenza con le sue capacità; la nostra anima promessa all’immortalità; il nostro cuore, capace di amare senza misura; e il nostro spirito, che è in noi come una scintilla della sua divinità.

Ci ha offerto, con una fiducia totale, il dono supremo di una libertà assoluta (Ga 5,1).

La condivisione della sua pace, della sua luce e della sua gioia.

Le grazie della fede, della speranza e dell’amore.

Il Padre ci ha fatto anche il dono di suo Figlio,

consegnato per la salvezza del mondo (Gv 3,16).

E il dono del suo Spirito effuso a profusione nei nostri cuori (Rm 5,5).

Se sapessimo vedere, riconoscere e contemplare questi doni che Dio di fa:

il dono di sé stesso che ci fa; quanto ne saremmo rallegrati!

“Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta.

E il Padre divise tra loro le sue sostanze”. (Lc 15,12).

“Che cosa hai che tu non abbia ricevuto”, domanda l’apostolo (1 Co 4,7).

E tu, Signore, cosa hai creato che tu non abbia donato?

*

La seconda realtà che colpisce nella parabola è l’attesa paziente del Padre.

Se Dio tace non è perchè ci dimentica: lo fa perché ci rispetta.

Non ci sorveglia: Egli veglia su di noi.

Non spia le nostre fughe, scruta il nostro ritorno.

Il salmo canta: Il mio giudice è il Signore. Ma il Signore è la misericordia, precisa il libro dell’Esodo.

Dio ci attende dunque con una pazienza infinita.

Non rimproveriamogli di tacere o di non intervenire abbastanza.

Questa attesa sigilla il suo rispetto della nostra libertà.

Ci dona il tempo, tutto il tempo, per crescere personalmente durante tutta la durata della nostra esistenza.

Di lasciare crescere in noi il desiderio della conversione,

del pentimento, della salita verso la santità, del ritorno.

Sapere che il Padre ci aspetta durante tutta la strada che sale verso di lui ci dà un forza, una speranza e una gioia incredibili!

*

In questa parabola, Gesù ci rivela una terza certezza, cioè il fatto che Dio ci accoglie sempre con tenerezza.

Questo figlio perduto che si trascina sul cammino del ritorno, chiaramente non è un santo! Ora, cosa vediamo all’orizzonte, in cima alla strada?

Mentre il figlio era ancora lontano, suo Padre lo vide e fu preso da compassione.

E Gesù ci confida: corse a gettarsi al suo collo e a coprirlo di baci.

Che scandalo sublime!

Non il figlio accelera il passo, ma il Padre gli corre incontro

nello slancio della sua tenerezza!

Il peccatore pentito non si prosterna, è il Padre che lo prende tra le braccia spinto dalla gioia!

Nessuna domanda, nessun sospiro, nessun rimprovero.

Neanche quelle lacrime d’emozione che spesso non sono altro che un’espressione di sensibilità esteriore o di paura repressa.

Invece quale esuberanza nella tenerezza e eloquente sobrietà in questa discrezione!

Ecco l’immagine del nostro Dio,

il Padre dei cieli, di cui Gesù, il Figlio unico, ha potuto dirci,

lui che era venuto da Dio e a Dio ritornava (Gv 13,3),

quanto Egli stesso ci ama (16,27).

Non un Dio di minaccia, di vendetta, di giudizio, di castigo,

ma di misericordia, di pietà e di perdono (Es 34,6).

Un Dio di cui noi conosciamo la pienezza del Nome

e a cui osiamo dire: “Abba, Padre”, come dei veri figli (Rm 8,15).

*

L’ultimo tratto del suo amore paterno

consiste in un perdono senza limite.

Il perdono oltremisura, realizzato nell’incarnazione redentrice,

e più ancora la follia del messaggio della morte sulla croce!

L’apostolo Paolo ce ne ricorda l’insondabile mistero in una formula sconvolgente.

Colui che non aveva commesso peccato, Gesù, il Padre l’ha identificato al peccato degli uomini perchè, attraverso di lui, noi siamo identificati alla santità di Dio (2 Co 5,21).

Da questo momento che grazia l’incontro tra gli uomini e Dio

che l’apostolo chiama riconciliazione (5,17-20).

Un semplice movimento del nostro cuore e tutto è lavato, dimenticato, ricostruito.

Tutto ci viene ridonato ancora più meravigliosamente.

“Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare,

mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi” (Lc 15,21).

Ed ecco che l’indegno prodigo ritrova la gioia tripla

della nuzialità, del diritto di proprietà e della santa libertà dei figli di Dio.

Ed ecco noi tutti peccatori, con lui,

che siamo letteralmente diventati eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rm 8,17.21).

Attraverso questo perdono che supera tutti i doni perché li ridona tutti con un’aggiunta di grazia, il Padre ci rigenera realmente come figli.

“Perchè mio figlio era morto ed è ritornato alla vita;

era perduto ed è stato ritrovato”

Si tratta veramente di una rinascita. L’abbiamo appena ascoltato:

“Se uno è in Cristo, è una nuova creatura;

le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Co 5,17).

*

Fratelli e sorelle, non c’è più bisogno che cada la manna (Gios 5, 10-12).

Sulla Terra Nuova, che non è solamente promessa,

ma già conquistata da Cristo, nuovo Giosué,

la Terra dove scorre ormai la grazia della salvezza,

Colui che discende dal cielo (Gv 6, 33-58) ci ha donato il pane della vita eterna.

Il Figlio prodigo è proprio lui, Gesù Cristo!

E’ venuto a perdere la sua vita sulla terra

per ricondurci tutti alla Casa del Padre (Gv 14,1-3).

Divenuto anche “il primogenito di una moltitudine di fratelli” (Rm 8,29),

è lui che, ormai, risponde a nome nostro

al Padre del cielo: “ Coloro che mi hai dato sono tuoi.

Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie,

e io sono glorificato in loro”(Gv 17,9-10).

Adesso cominciamo a comprendere la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo, anch’esso in quattro dimensioni.

Di questo Amore che fa di Dio un cuore in espansione.

“Padre, trattami come uno dei tuoi salariati! (Lc 15,19).

 

©FMG omelia manoscritta il 18 marzo 2007 a Saint Gervais a Parigi

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

III Dom . Quaresima C _ Es 3, 1. 8a.13.15; Sal 102; 1Cor 10, 1-6.10.12; Lc 13,1-9


 

L'appello a convertirci Il Cristo


 

Il Cristo - di cui il Vangelo di Luca è il solo a riferirci a questo proposito -

affronta oggi uno dei problemi tra i più difficili da vivere

e persino da comprendere: il problema del male e della disgrazia

con i loro corollari che si potrebbero chiamare la catastrofe e il crimine.

Ora, il dramma dell'oppressione che sfocia in omicidi;

ora, il dramma delle catastrofi, che si quantificano in vittime.

La Bibbia stessa, come nei libri di Giobbe o dei Salmi,

vi ritorna continuamente, senza giungere tuttavia a dare una risposta adeguata e soddisfacente. Poichè il male è in ultima analisi, inintellegibile.

Paolo arriva persino a parlare di mistero dell'iniquità (2 Ts 2,7).

Di fronte a questo, Cristo non cerca di evitare la realtà scandalosa dei fatti.

A coloro che evocano davanti a lui il massacro dei Galilei compiuto da Pilato (Lc 13,1), egli ricorda anche il crollo della torre di Siloe.

Gesù non si copre gli occhi di fronte alle prove della nostra esistenza: egli se ne rende persino profondamente solidale, accettando, per primo, di diventare, un giorno,

lui, il Galileo, la vittima di Pilato (Mc 15,15) ed il Crocifisso di Gerusalemme (Lc 13,33). Egli non si contenta neanche di proporre una spiegazione teologica,

una consolazione spirituale al dramma del male del quale, ogni giorno,

noi percepiamo l'eco e di cui subiamo in qualche modo le conseguenze.

Egli giunge fino a dirci dove è la causa di ogni male

e il mezzo più vero per superarlo e poterlo sopportare.

Ed è in questo senso che il Vangelo di oggi diventa per noi,

in mezzo a tutte le nostre nebbie, una fonte di speranza e di luce.

*

La prima luce che Cristo proietta su questo dramma

che mette in discussione così fortemente le nostre esistenze quotidiane,

è per ricordarci che Dio non provoca mai il male.

Orbene questa idea che Dio è più o meno compromesso

nella causa di tutte le nostre “disgrazie” è fortemente radicata nello spirito dell'uomo.

Più fortemente ancora di quanto sembri!

Ma è una idea falsa . E' un'idea “pagana”.

E' persino l'idea di base di tutto un ateismo che fonda su questa visione delle cose il proprio rifiuto di Dio, o piuttosto la sua dolorosa incomprensione di un tale mistero.

La peggiore tentazione del diavolo consiste in questo: che dopo aver provocato il male, riesce a farci credere che è Dio che l'ha provocato!

E' proprio in questo senso che Cristo lo qualifica padre della menzogna (Gv 8,44).

“Se Dio esistesse, non provocherebbe tutto ciò”, si dice allora...........

“Se Dio è buono perchè ci sottopone a tante sofferenze?” si rincara.

A fronte di tali domande, rudi, pregnanti, apparentemente spesso scusabili e comprensibili, la risposta non è facile.

Cosa si può, nonostante tutto, cercare di dire?

Dio è Dio! In lui è la Vita, l'Amore, la Bellezza, la Pace.

Se Dio è Dio, egli è, per definizione, la Fonte di tutto ciò che vi è nell'universo di bello,

di buono, di vero, di vivente, di gioioso.

Tutto ciò che è dunque all'opposto di ciò che egli è - la tristezza, la bruttezza, la discordia, la sofferenza, la morte - non solo non può venire da lui,

ma arriva ad essere rifiutato da lui.

Il Cristo ha combattuto il male fino a prenderlo su di lui e ad inchiodarlo con lui sulla croce, al punto di essere diventato lui stesso maledizione per noi,

come osa scrivere l'apostolo Paolo (Gal 3,13).

Non è dunque Dio che provoca l'infelicità e il castigo.

Un tale essere, vendicativo e giustiziere, non sarebbe Dio.

Si può dire che quel “Dio” là è “morto” poiché non è mai esistito se non nelle nostre maniere umane di parlare di lui o di disprezzarlo dagli uomini!

Ma il vero Dio esiste, lui che ci dice, ci spiega, ci avverte e, se necessario, fino al rimprovero forte, pregnante, persino viscerale, tanto ci ama (Eb 12,8-13),

che è perchè abbiamo fatto questo, che subiamo quello; o che se facciamo questo, ci accadrà quello.

Ma non è mai lui che colpisce, persino quando lo si colpisce.

“Saulo, perchè mi perseguiti?”

Dio stesso, per primo, soffre di questo male, soffre per tutto questo male!

Come un padre, come una madre, come un fratello, come uno sposo, come un amico, egli soffre, nel suo amore, di vedere affondare noi verso le conseguenze del nostro stesso rifiuto. Questo Dio, che avverte, supplica, minaccia, piange, tuona, sospira, grida, è un Dio d'amore che parla agli uomini come un uomo

per essere finalmente ascoltato, compreso, amato (Es 34,6;Gv 3,16;15,9;1Gv4,8).

E questo perché i suoi figli così avvertiti, illuminati, istruiti (Gv 6,45),

siano veramente e finalmente liberati e salvati!

E che non restino piantati là, come un fico sterile,

ma come un albero buono che dà buoni frutti (Lc 13,6-9).

Credete voi che quei Galilei fossero più peccatori di tutti gli altri Galilei per aver subito una tale sorte? Ebbene no, io ve lo dico...

Ed è Gesù, Figlio del Dio vivente, che ce lo dice!

*

La seconda luce che ci dà oggi Gesù sul dramma che ottenebra le nostre vite

è per rivelarci che l'origine di ogni male ha un nome e che questa origine, è il peccato.

E dunque la tentazione che lo ha provocato (Gen 3,2).

Malgrado Dio e contro Dio, il peccato è entrato nel mondo, ci dice Paolo,

e, attraverso il peccato, la morte, poiché tutti hanno peccato (Rm 5,12).

Tale è il prezzo del dono meraviglioso, ma terribile, della nostra libertà (Dt 30,15-20).

Sì, tutti gli uomini hanno peccato e noi restiamo vittime di questo male che prolifera. Pecchiamo ancora e siamo colpevoli di questo male che si perpetua.

Se vogliamo dunque sottrarci al male, bisogna prima estraniarci e guardarci dal peccato. In questo non c’è nessun moralismo! Quando la Scrittura ci chiama ad evitarlo(Gb28,28), a lasciarlo (Si 17,14), a rinunciarvi, a morire a lui (Rm 6,2;Eb 12,4);

quando Gesù stesso ci chiede di spingerci fino ad odiarlo (Gv 12,25),

è Dio che ci grida così il suo più grande amore!

Egli vuole allora, con tutte le sue forze, restituirci alla libertà della nostra anima.

Il giorno in cui avremo veramente capito che chiamandoci a tale frattura, a tale rinuncia, Dio e la sua Chiesa non vogliono annoiarci, ma salvarci,

faremo dei passi immensi su una via di leggerezza, di gioia e di pacifica luce. Scopriamo infine la vita e la libertà: se osserverete i miei comandamenti, conoscerete allora la verità e la verità vi renderà liberi (Gv 8,22).

La storia dei nostri padri dubitanti e mormoranti nel deserto, ci dice Paolo, resta lì per servire da esempio e avvertirci (1Co 10,11).

E quelle diciotto persone uccise dal crollo della torre di Siloe,

pensate voi che fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme? Ebbene no, ve lo dico..... Ed è ancora il Signore che parla così.

*

Dove ci conduce quindi, alla fine, la piena luce del Cristo, nel Vangelo di oggi?

Essa ci conduce fino a quel pressante appello a convertirci a Dio,

vale a dire a rifugiarci nella sua grazia.

A cosa servirebbe infatti distoglierci dal peccato e dal male,

se non per rivolgerci verso il Bene e verso la Vita (Rm 12,21)?

Per essersi sottratto alla tentazione della pianura, con i suoi mormorii e il suo vitello d'oro, Mosè ha gustato la gioia indicibile di intravedere la Bellezza di Dio sulla montagna e di conoscere persino il segreto del suo Nome (Es 3,13-15).

Colui che si crede giusto non incontra Dio.

Ma colui che si riconosce peccatore cade direttamente nelle braccia del Padre.

E per questo che si è potuto parlare della “fortuna di essere peccatore annunciata per tutto il Vangelo” (P. Victor Sion).

Sì, colui che si rivolge umilmente e decisamente verso Dio

entra nella gioia del Regno dei cieli.

*

Fratelli e sorelle, oggi, a sua volta, ecco che Dio si avvicina a noi.

Come un fico su una Terra santa, novello Israele di Dio (Ga 6,16),

ci ha piantati nel cuore di questa vita affinchè portiamo frutto (Gv 15,8).

E che noi illuminiamo le nostre vite sotto il fico (Gv 1,48),

vale a dire nella meditazione delle Scritture.

Da venti anni, quaranta anni, sessanta anni, e forse più,

che la nostra esistenza è stata piantata su questa terra, cosa diventiamo?

In mezzo a tutto ciò che succederà, quale frutto di eternità, già, portiamo?

Nel cuore di questo tempo di grazia della Quaresima,

ecco che il Cristo si avvicina ad ognuno di noi e ci domanda:

cosa c'è sull'albero della tua vita?

E davanti ad ognuno di noi, il Padrone e il Vignaiolo,

cioè il Padre e il Figlio, nella luce dello Spirito, si interrogano e mutualmente,

nella loro tenerezza, intercedono per noi:

lascialo ancora quest'anno, il tempo che io vi scavi intorno (Lc 13,8).

Forse nel corso di questa Quaresima si convertirà un poco?

Forse porterà frutti in avvenire (13,9).

Cari fratelli e sorelle, se sapessimo la gioia di Dio,

Gesù arriva persino a dire: la gloria di mio Padre (Gv 15,8),

quando può contemplare dei buoni frutti prodotti dall'albero della nostra vita!

 

©FMG omelia manoscritta il 7 marzo 2010 a Saint Gervais a Parigi

 

 

IIa Domenica di Quaresima C - Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux - Gen 15,5-12.15-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36
 

Bellezza trasfigurante e trasfigurata

 

 

Se si dovesse ricordare e qualificare in qualche modo la festa di questo giorno, si potrebbe dire che è luminosa e bella.

La Trasfigurazione, che evochiamo ogni seconda domenica di Quaresima, è infatti intrisa di luce e di bellezza. Bellezza della luce di Dio che essa ci rivela. Bellezza della speranza dell'aldilà che essa ci annuncia. Bellezza della grazia presente nelle nostre anime che essa ci invita a lasciar irradiare.

Fratelli e sorelle, con Pietro, Giacomo e Giovanni, possiamo contemplare questa triplice meraviglia!

*

La bellezza della luce divina è certamente ciò che inizialmente ci appare. Già tutto circonfuso dallo splendore della sua intima preghiera, ecco che, improvvisamente, sulla montagna (Lc 9,18), Gesù è letteralmente trasfigurato davanti ai suoi apostoli. Il Vangelo si limita a menzionare che il suo volto splende come il sole e i suoi vestiti diventano accecanti come la luce (Mt 17,2).

Ma, tramite queste poche parole, quale rivelazione! Si può senz'altro pensare che viene allora concesso ai tre apostoli di intravedere per un istante, come Mosè sul Sinai o il profeta Daniele nella sua visione del Figlio dell'Uomo (10,13-14), qualcosa dello splendore divino. Gesù, Verbo incarnato, non è in effetti l'immagine del Dio invisibile?

Ma è anche detto, noi ben lo sappiamo, che non si può vedere Dio senza morire (Es 33,20). Orbene, Pietro, Giacomo e Giovanni, vedendo Gesù trasfigurato, non si trovano affatto sul punto di rendere l'anima! Come dunque spiegare che siano rimasti nella vita di quaggiù? La risposta non sarebbe forse da ricercare nel fatto che la luce che essi contemplano sul volto di Cristo, non è tanto, o perlomeno non ancora totalmente, quella dello splendore infinito del Dio di ogni maestà? Ma è quella della bellezza originale dell'uomo! Poichè colui che appare così trasfigurato, è colui che chiama se stesso così misteriosamente, luminosamente, il Figlio dell'uomo (Mt 8,20;26,44;Gv 1,51).

La luminosità risplendente che irradia sul suo volto e dà alle sue vesti l'aspetto della luce,

è dunque anche la bellezza data all'uomo il primo giorno del mondo, nella piena luce del paradiso. Lo hai fatto poco meno di un Dio, canta il salmo, coronandolo di gloria e di splendore!(Sal 8) Allora, il primo Adamo era tutto radioso d'innocenza, veramente immagine e rassomiglianza di Dio. Non era ancora vestito di tuniche di pelle, come ci rivela il libro della Genesi. Ma, letteralmente, di un mantello di luce. Poichè Dio è luce! (1Gv 1,5).

Ed ecco che oggi, lo stesso Figlio di Dio, risplendente della gloria dall'alto (Eb 1,3), sì, ecco che oggi, il Cristo, nuovo Adamo (1Cor 15,45) ci consente di intravedere per un istante, tramite lo splendore della Sua divinità, qualcosa della luce originaria della nostra stessa umanità!

Come dunque era bello l'uomo quando Dio lo ha modellato! E quale luminoso splendore irradiava dal suo essere quando era tutto intero abitato dalla santità divina! Oggi, il primo nato di ogni creatura lo rivela agli occhi di tutta la creazione (Col 1,15-18).

Ecco già, fratelli e sorelle, la prima bellezza che possiamo contemplare in quel riflesso zampillato per noi, su questa alta montagna. Dio si è fatto uomo per rivelarci che noi siamo figli di Dio (Rm 8,14.17; 1Gv 3,1). Cerchiamo quindi al nostro interno il riflesso di questa luce originaria. E là nel più profondo del nostro cuore, alla giuntura dell'anima e dello spirito, come dice la Scrittura, scopriremo, ritroveremo la traccia, indelebile, di questa luminosità primaria. Questa “scintilla di divino” nascosta nel cuore del nostro cuore! Ecco quello che la vita monastica si sforza di lasciar trasparire. “Signore, faccio voto di non formare altro che uno con te”, prometteranno tra poco le sorelle Marie-Fleur e Anne-Emmanuel.

*

Ciò che ci lascia intravedere il Cristo trasfigurato supera tuttavia ancora questa bellezza primaria. Parlando con Mosè e con Elia, Gesù si intrattiene, infatti, sul suo Esodo; vale a dire sulla sua uscita da questo mondo (Lc 9,31). Più ancora che verso il ricordo dell'inizio, è dunque egualmente verso la speranza del termine che questa visione ci orienta. E la Bellezza che ci viene dato di intravedere così, supera ancora in splendore ciò che il Cristo nuovo Adamo poteva ricordarci della luce originaria.

Sì, un giorno, con lui, condivideremo la gloria divina e la luce eterna. Quaggiù, vediamo come in uno specchio.

Allora, sarà faccia a faccia! Profetizza l'apostolo Paolo (1Cor 13,11). Finchè avete la luce, credete nella luce, ci dice il Cristo, e diventerete figli di luce! (Gv 12,36). Ecco il vero richiamo a salire verso la montagna del Signore (Sal 84). Questo richiamo al quale si sforza di rispondere la vita contemplativa ritornando verso le realtà di lassù (Col 3,1-3).

Se noi lo vogliamo dunque, tutta la nostra vita non è più una discesa inesorabile verso la notte della tomba, ma una salita verso il chiarore di quel giorno che non avrà più fine! Egli trasfigurerà il nostro corpo di miseria per conformarlo al suo corpo di gloria (Fil 2,21).

Che prospettiva, fratelli e sorelle! Che promessa agli occhi della nostra fede! Che ammirabile speranza ci apre questa chiamata”! (Ef 1,18) Con un corpo glorioso, liberato da ogni vincolo di tempo e di spazio, sgombrato da tutti i pesi della fatica e della malattia, delle prove della sofferenza, delle costrizioni della vecchiaia, vivremo, felici di vedere la gloria di Dio, in una giovinezza eterna e una felicità totale. Sì, possiamo rendergli grazia di averci così rivelato a quale gioia, non solo le nostre anime, i nostri spiriti e i nostri cuori, ma anche i nostri stessi corpi sono convitati nel Regno dei cieli! Sì, possiamo glorificare Dio nel suo stesso corpo. Poichè, come dice l'Apostolo, il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo. Ciò ci sarà ricordato anche più tardi.

*

Che questo ricordo originale e questa prospettiva ultima il cui doppio mistero è rivelato nella trasfigurazione del Cristo, ci aiuti dunque a ritrovare ancora ed infine le tracce vive di questa Bellezza divina nel quotidiano delle nostre vite. Dietro il velo del nostro corpo di carne infatti, vi è la trasparenza di un'anima immortale. Aldilà delle percezioni e delle realizzazioni della nostra intelligenza umana, vi è la presenza dello Spirito che scruta in noi fino alle profondità divine (1Cor 2,10).

Dobbiamo saper ritrovare dappertutto i segni dell'Invisibile che si possono percepire con gli occhi della Fede . Il cristiano è un nato cieco che il battesimo ha guarito. Trasfigurato, ecco che diventa trasfigurante. Là dove vi è indifferenza o odio, vuole mettere attenzione e amore! Là dove è tristezza e dubbio, vuole dare gioia e fede!

Convertiamo dunque il nostro ascolto e il nostro sguardo: non sono solo un uomo della terra, la mia patria è nei cieli.

Quei figli non sono solo “miei figli”, sono figli di Dio. Quegli esseri sposati non sono solo “mia moglie” o “mio marito” sono degli altri Cristo. Quei fratelli e sorelle non sono “mia comunità”; formiamo insieme il Corpo di Cristo. La terra non è che un trampolino verso il cielo. Gli amori di quaggiù sono solo un'anticipazione delle nozze eterne. La morte dei nostri corpi non è che una porta aperta sulla Vita. Care sorelle Anne-Emmanuel e Marie-Fleur, i voti di povertà si pronunciano in vista del tesoro del cielo. Il voto di castità è per un amore ancora più ampio. E il voto di obbedienza mira all'ingresso nella vera libertà.

Fratelli e sorelle, è per contemplare insieme questa triplice bellezza: bellezza presente, bellezza originaria e bellezza del cielo che verrà che siamo qui riuniti, a Saint Jean de Strasbourg, in questo giorno del Signore. Che Egli riempia di luce e di gioia le nostre anime e i nostri cuori.


©FMG omelia manoscritta il 4 marzo 2007 a Saint Jean di Strasburgo

 

Ia Domenica di Quaresima anno C. - Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux - Dt 26,4-10; Rm10,8-13;Lc4,1-13

 

Le tre tentazioni di Cristo Salvatore

 

Questa lettura, così ricca di senso delle tre tentazioni di Gesù è una di quelle che ci rivelano più profondamente il mistero di Cristo, “figlio dell’uomo e figlio di Dio”.

Il mistero di colui che è disceso fino a noi, sulla terra, per farci risalire con Lui fino al cielo (Ef 4 ,7-10). Ed ecco accettando e scegliendo, condotto dallo Spirito (Lc 4,1) di essere nella sua umanità, “tentato in tutto” (Eb 4,15) per folle solidarietà d’amore con noi. E più ancora, trionfando per la potenza della sua Divinità sulle peggiori trappole del tentatore, per renderci “alla fine liberi” (Ef 5,1) alla gioia della salvezza. Questa luce di Pasqua verso la quale ci conduce già il tempo della Quaresima.

Ma ritorniamo all’ascolto di ciascuna di queste tre tentazioni. La prima si colloca nel deserto. La seconda su un’alta montagna. E la terza sul pinnacolo del tempio (Lc 4,1-12). Fratelli e sorelle è ciascuno di noi e l’umanità intera che Cristo ha portato nel suo cuore in questo combattimento supremo. Nessuno potrà dire che questo non lo riguarda!

La prima tentazione avviene al termine di quaranta giorni di digiuno dove Gesù prova una fame che noi non possiamo comprendere. Nella tradizione biblica, questo evoca i 40 giorni di digiuno di Mosè sul Sinai dove ricevette le tavole della legge (Es 24,18; Dt 9,9), i 40 giorni di cammino di Elia verso la rivelazione di Dio sul monte Oreb (1Re 19,8), i 40 anni passati passati dal popolo nel deserto per l’Esodo (Num 14,34; Gios 5,6;). certi padri vanno anche a vedere nel numero 40 la cifra cosmica del mondo nel suo insieme.(1) ____________________________________________________________________

(1) I 4 punti cardinali che lo delimitano per i dieci comandamenti che lo conducono.

 

D’un tratto ci è anche ricordato che Cristo Gesù che oggi è tentato nel deserto si rivela come il Salvatore del mondo e del popolo biblico. Il nuovo Mosè ed il nuovo Elia realizza quello che annunciavano la legge ed i profeti (Lc 9,30; 24,27) ll demonio gli disse allora: “Se tu sei il Figlio di Dio, ordina a queste pietre che si trasformino in pane” (Lc 4,3). E’ la tentazione più sottile di tutte, di servirsi della potenza della sua parola per dimostrare in qualche modo che egli è veramente il Figlio di Dio.

Or dunque egli è questo Figlio del padre onnipotente e questa parola di Dio. “La parola piena di grazia e di verità che è anche luce e vita” (Gv 1,1.16). Di fatto Gesù non esita a parlare con autorità ed a manifestare la sua divinità tramite la potenza della sua parola. Con una parola libera l’indemoniato: “Taci, esci da quest’uomo!” Guarisce i malati: “Lo voglio, sii purificato.” Perdona i peccati : “Amico mio, i tuoi peccati sono rimessi.” Placa la tempesta del mare: “Silenzio, taci!” Resuscita i morti: “Fanciullo, io ti ordino alzati!” E va infine a proclamare: “Se qualcuno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). Tutto questo non è chiaramente più forte e più convincente che domandare a una pietra di diventare pane?

Si, ma Gesù non fa mai una cosa che sia in risposta ad una rivendicazione, riconoscendo a Dio, senza l’ombra di un atteggiamento di fede, di speranza e di amore, “un segno che viene dal cielo” (Mt 8,10). “Se tu sei il figlio di Dio” . Soldati ed avversari di Cristo getteranno questo stesso sarcasmo al calvario. Ma Gesù non scenderà dalla croce, perché è precisamente attraverso questa che vuole dimostrare al mondo non la sua potenza, ma il suo amore (Gv. 15,12). Allo stesso modo, egli non soddisfaceva in niente la rivendicazione trappola del demonio. Ma egli risponde attraverso una citazione della scrittura: “l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.”

Questo pane, dunque , che Gesù all’inizio, portando nel deserto la nostra fame con Lui, non è dunque per lui stesso che lo donerà. Ma è per tutti questi che l’hanno seguito e, più precisamente ancora, per mettersi all’ascolto della sua parola, che egli lo moltiplicherà (Lc 9,10-17). E con “gli occhi levati al cielo” (Mt 14,19) e “dopo aver reso grazie” (Gv 6,11) che egli chiederà al padre di donarlo a loro e, ai suoi discepoli, “di distribuirlo”. Meglio ancora, all’ultima cena e davanti ai suoi discepoli, sempre desiderosi di vivere all’ascolto della sua parola, si donerà lui stesso “in vero nutrimento” (Gv 6,56). “Come il chicco di grano gettato in terra” ( Gv 12,24), egli si è fatto “pane vivo per la vita del mondo” (Gv 6,51). E questo “pane di vita” resta offerto di una maniera inesauribile. Chiunque vuole “ascoltare la sua parola e credere in lui” ( Gv.5,24; 6,34) è allora già condotto a gustare la “vita eterna” aspettando di essere “resuscitato da lui nell’ultimo giorno.” (Gv 6,54) E più saremo portati ed illuminati dalla parola di Dio, più noi sapremo trovare i modi giusti per rispondere alle grida della fame nel mondo.

La seconda tentazione del diavolo, molto esplicita in San Luca, si situa su una grande altitudine dominante l’universo. “Ti donerò tutta questa potenza e la gloria di questi regni perché essa mi è stata data ed io la dono a chi voglio. Tu, se ti prostrerai davanti a me, avrai tutto questo” (Lc 4,5-7).

Questo ci può apparire oltraggiosamente pretenzioso e blasfemo da parte del tentatore. E lo è effettivamente. Ma resta vero, Gesù stesso lo dice che il diavolo è “principe di questo mondo”. San Giovanni arriva fino a scrivere che “il mondo intero geme sotto il potere del male” (1Gv 5,19)! È sufficiente percorrere la storia vedendo quale straordinaria potenze può prendere il male quando si scatena, per convincersene. Ma la missione di Cristo buon pastore è anche di radunare intorno a lui, in un solo ovile, tutti i popoli della terra (Gv 10,16; 11,52). Egli possiede anche per questo in condivisione l’onnipotenza di Dio. “Ogni potere mi è stato dato nei cieli e sulla terra” (Mt 28,18). C’è dunque da scegliere tra due messianismi. Tra due “bandiere”, come dice Sant’Ignazio di Loyola. Il modo in cui Gesù resiste alla tentazione ci mostra la via da seguire.

Certo il potere del maligno è forte. Ma il Signore è più forte ancora. “Il principe di questo mondo viene, ma contro di me non può niente” (Gv 14,50). Non è dominando il mondo che Gesù vuole salvarlo. Ma è servendolo e dall’ altezza del monte Calvario lo riscatterà! Ecco l’ora che il diavolo voleva evitare a tutti i costi di veder venire! “È adesso il giudizio di questo mondo. Adesso il principe di questo mondo viene gettato giù ed io, elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini” (Gv 12,31).

Sta a noi dunque vegliare su “la gloria che viene dagli uomini”. Perché essa è sia sgargiante che fragile, sia attraente che illusoria. “Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno era di questo mondo, la mia gente avrebbe combattuto. Ma il mio regno non è di quaggiù”. (Gv 18,36). Più precisamente ancora, ci dice, “la venuta del regno di Dio non si lascia notare”. Ma egli è venuto. Egli è “anche vicino” (Mc 1,15). Ha germinato nel cuore dei credenti la mattina della resurrezione ed ha abbracciato il cuore della sua chiesa il giorno di pentecoste. Ora, “sappiatelo, il regno di Dio è dentro di voi” (Lc 17,4). Là dove sono “i veri adoratori tali come li vuole il Padre” (Gv 4,23). Ecco perché c’è ancora scritto : “tu ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio ed è solo a Lui che tu renderai culto” (Lc 4,8).

La terza tentazione si situa a “Gerusalemme, sulla sommità del tempio”. Il tempio dove Zaccaria ha ricevuto l’annuncio della nascita di Giovanni. Il tempio dove Gesù è stato presentato e dove Simeone ha riconosciuto in Lui “la luce delle nazioni”. Il tempio dove, a dodici anni, Gesù abbagliò i dottori “per la saggezza e la scienza delle sue risposte”. Il tempio verso il quale tutta la sua vita pubblica diventa una salita. Il tempio, al cuore di Gerusalemme , dove egli offrirà la sua vita per “resuscitare il terzo giorno”.

Eccoci dunque alla sommità del tempio dove Gesù poteva in effetti sentirsi dire che un bel miracolo, ben in vista, potrebbe attirare l’adesione di tutto un popolo e dispensarlo dai tormenti della passione. “Se tu sei il figlio di Dio, gettati giù; perché è scritto: egli darà l’ordine per te ai suoi angeli di proteggerti. Ed ancora: essi ti porteranno nelle loro mani evitando che il tuo piede urti una pietra” (Lc 4,9-11). Citando la scrittura a sua volta allora Gesù replica: “Tu non tenterai il Signore tuo Dio!” (Dt. 6,16; Lc 4,12).

Ci si trova in una sorta di disputa teologica tra il diavolo e Gesù. Il demonio parla in effetti ”come un teologo sapiente”, ciò che fa dire a Vladimir Soloviev che l’interpretazione fallace della Bibbia, può diventare uno strumento dell’avversario. Papa Benedetto XVI non esita a dichiarare da parte sua: “i peggiori libri che distruggono la figura di Gesù, che demoliscono la fede, sono stati scritti con dei sedicenti risultati dell’esegesi”.(2) Non lo si contraddirà!

Aldilà della sua replica perentoria nel deserto, Gesù dunque risponderà,”l’ora venuta” (Mt 17), per la testimonianza, finalmente trionfale, del dono della sua vita sulla croce sorgente della salvezza degli uomini. No, egli non si getta dal pinnacolo, nell’abisso del vuoto. Ma si pianterà nell’abisso della nostra morte e nel vuoto del sentimento di abbandono, assunto in nostro nome. Questo per raggiungere il più basso, il più perduto, il più disperato dei suoi fratelli. È così che egli è caduto, o piuttosto risalito tra le braccia del Padre (Ef 4,10). Cosa ci resta da fare fratelli e sorelle? Forse semplicemente di ridire a qualcuno, con l’apostolo Paolo, in riconoscenza per questo Cristo Signore, venuto sulla terra ad affrontare le nostre tentazioni per vincerle in nome nostro:

 

(2) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, p.55.

“Se le mie labbra confessano che Gesù è il Salvatore e se il mio cuore crede che Dio l’ha resuscitato dai morti, io sarò salvato! Perché la fede del cuore ottiene la giustizia e la confessione delle labbra, la salvezza.” (Rm 10,9-10).

Padre Nostro che sei nei cieli, perdona i nostri peccati, e non ci abbandonare alla tentazione, ma liberaci dal male. Amen!

 

©FMG omelia manoscritta del 21 febbraio 2010

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

del 3 marzo 1992 - VIII Dom T. O. C -  Sir 27,5-8 (NV); Sal 91;- 1Cor 15,54-58; - Lc 6, 39-45

 

Tre brevi parabole

 

Tre piccole parabole.

Tre corte storie.

Tre immagini concrete degli insegnamenti del Maestro.

I “due ciechi” (Lc 6, 39).

“La pagliuzza e la trave” ( 6, 41).

“L'albero buono” e “l'albero cattivo” (6, 43).

Ogni volta,come possiamo ben vedere,

un bilanciamento fra i due termini ci indica l'alternativa.

In questo risiede l'opzione fra il bene e il male dove noi possiamo collocarci in completa libertà.

A noi dunque di scegliere fra : la luce e le tenebre; la verità o l'errore; la vita feconda o l'esistenza sterile. Cosi noi siamo “tutti istruiti da Dio” (Gv 6,45) e questo a diversi livelli dove il Cristo , passo dopo passo, ci invita: innanzitutto ad un livello piu' umano, in

seguito ad un livello cristiano, e, per concludere, ad un livello interiore e mistico.

A livello umano.

Gesu' facendo leva sul buon senso, parla in qualità di uomo di esperienza e

saggezza. Con dei riferimenti semplici, concreti, immaginati e attinti

dall'osservazione delle leggi della natura, delle attitudini del cuore e dei

comportamenti della vita, istruisce prima di tutto l'uomo nel suo insieme.

Ascoltiamo bene questo primo insegnamento.

Un cieco non puo' guidare un altro cieco. E, per meglio interpellarci, Gesu' ci

interroga: “Non cadrebbero, tutti e due, in un buco?” (Lc 6,39). La lezione è già

molto grande a livello umano. Dobbiamo restare umili, accettare i nostri limiti.

Accettarci complementari. Nessuno di noi ha tutti i carismi ;

e nessun gruppo, contando solo su se stesso, puo' sapere tutto e insegnare tutto.

Siamo chiamati ad essere realisti:

la vita presenta delle insidie e se non siamo sempre all'erta ,

protetti e ben guidati, prima o poi si vacilla.

Il male sommato al male non produce il bene, ma aumenta il male.

Per contro l'umile accettazione delle complementarietà puo' allargare tutto

e salvare tutto.

Bisogna sempre cercare la luce là dove risiede,

senza subito designarsi guida o proclamarci consigliere.

Ma attraverso il reciproco aiuto e l'umile carità tutto puo' essere illuminato e incanalato

verso la vita.

"Perchè guardi la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello?"

Siamo fatti tutti cosi, noi vediamo piu facilmente i difetti degli altri

che i nostri propri torti.

Perché mai allora giudicare, accusare, condannare?

Ognuno di noi potrebbe essere peggiore del proprio vicino.

Prima di propendere a commiserare gli altri,

è bene iniziare purificando il nostro cuore.

Non si puo' aiutare nessuno a guarire e a progredire se non quando siamo noi stessi un po' convertiti.

Solo l'ascesi intrapresa, innanzitutto verso noi stessi, dà credibilità e peso al nostro essere esigenti nei confronti degli altri.

La carità si fa strada attraverso l'umiltà.

"Togli prima di tutto la trave dal tuo occhio, " e allora tu potrai vedere chiaramente per togliere la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello" (Lc 6,42).

 

"Non c'è un albero buono che dà frutti cattivi

né, al contrario, un albero cattivo che dia frutti buoni” (6,43).

Non si giudica l'uomo per ciò che appare, ma per ciò che è; e vale di piu' per cio' che fa che per ciò che dice.

Il Saggio Ben Sirac notava già che "è il frutto che caratterizza la qualità dell'albero" (27,6).

Andiamo sempre oltre le apparenze;

e giudichiamo il valore delle nostre vite in base alle opere che ne scaturiscono;

al peso della verità delle parole che professano (27,7).

Al di là delle nostre promesse, delle nostre velleità, dei nostri progetti,

le nostre esistenze devono effettivamente "produrre dei buoni frutti".

Ed è piu ' importante la linfa nascosta che la corteccia esteriore.

“Rendete buono un albero, dice ancora Gesu', e il suo frutto sarà buono;

" rendetelo cattivo, e il suo frutto sarà cattivo" (Mt 12,33).

Il valore profondo dell'uomo risiede all'interno

e si situa prima di tutto nel "tesoro del suo cuore" profondo (Lc 6, 45).

A questo primo livello di lettura, colpisce come il vangelo di Cristo raggiunge tutta una parte della saggezza umana e di esperienza di vita.

 

Bisogna andare oltre.

Anche attraverso le parabole, il Vangelo è piu' di una morale umana,

o una saggezza sociale impregnata di spiritualità.

L'insegnamento di Gesu' si situa piu' propriamente a un livello cristiano.

Se noi rileggiamo con attenzione queste tre piccole parabole, noi vedremo apparire in ognuna di loro, tre diciture particolari che le configurano con una luce nuova:

"il discepolo", il "fratello" e il "cuore".

O, per meglio dire, il discepolo "del Maestro", il fratello che è “come un altro sé stesso”e il cuore che è “profondo”.

 

Se "il cieco che guida i ciechi" (Mt 15,149

puo' essere il fariseo ipocrita, lo scriba presuntuoso

o il consigliere cavilloso (Mt 23, 13-30; Lc 11, 39-52),

non deve essere così per il "vero discepolo" (Mt 10,24),

E' liberato dalla "legge che rinforza il peccato" (1 Co 15,56)

per procedere nella chiarezza liberatrice

dell'unica legge d'amore ( Ga 5,14).

"Colui che ama suo fratello dimora nella luce " dice san Giovanni;

"e non c'è in lui nessuna occasione di inciampo.

Ma colui che odia suo fratello è nelle tenebre

cammina nelle tenebre, non sa dove va perché le tenebre hanno

accecato i suoi occhi” ( 1 Gv 2,10-11).

 

Il vero discepolo non procede d'ora in poi seguendo il filo delle

proprie idee o dei suoi sentimenti, ma camminando nel solco del

Maestro.

Del Maestro che è là e del Cristo che ribadisce:

" Camminate finché siete nella luce per evitare che le tenebre vi raggiungano"

"Colui che procede nelle tenebre non sa dove va”. "Fintanto che siete

nella luce, credete alla luce, e voi diventerete figli della luce" (Gv

12, 35-36).

 

In altre parole, solo la fede e l'umiltà possono salvarci. E colui che

imita Cristo riferendosi a lui "come al suo Maestro", diventa il suo

riflesso.

E la presenza del Signore che rifulge in lui, diventa luce

condivisa per tutti coloro che camminano al suo fianco.

 

E cosi' succede , quando l'uomo guarda "l'altro" non come altro da se,

ma come fratello.

"Poiché voi siete tutti fratelli (Mt 23,8), ci dice Cristo.

Ecco lo sguardo reciproco che caratterizza il cristiano.

Non giudica, non sospetta,

non cerca di mettere a fuoco le lacune o gli errori

come tante "pagliuzze" nell'occhio altrui; ma a perdonare,

ad essere misericordioso, a chiudere gli occhi.

Si rammenta come gli apostoli Pietro e Paolo, che non è che un peccatore (Lc 5,5,8)

e anche "il primo dei peccatori" (1, Tm 1,15).

 

Allora piuttosto che volgere la propria attenzione agli altri, accetta

umilmente di far parte con loro. "Il ricordo dei miei errori mi umilia

", confessa Teresa di Lisieux, "mi porta a non fare affidamento sulla

mia forza, che non è altro che debolezza; "ma ancora di più, questo

ricordo mi parla di misericordia e d'amore". Questa umile solidarietà

fraterna libera a sua volta lo sguardo e rende leggera la mano. "

“E allora" confida Cristo "vedrai con chiarezza per potere togliere la

pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello" (Lc 6,42).

Poiché, al di sopra dell’invito ad abbandonare tutto, c'è l'esigenza di elevarsi alla

santità.

Il cristiano autentico è chiamato a trasformarsi in un buon albero,

per poter produrre buoni frutti nel corso della vita. Ma sa altresì

che al di là delle azioni e delle opere, c'è in lui la realtà di un

cuore profondo.

E' a questo livello piu' profondo che affonda le radici cio' che

si manifesta attraverso le azioni della vita intera.

Perché Dio ha messo in ciascuno di noi il tesoro inesauribile della sua presenza

divina.

 

E' una grazia zampillante e santificante e che produce dei frutti di

vita eterna (Gv 4,14).

Non c'è timore che questa sorgente si possa prosciugare.

La linfa che scorre in noi è qualcosa che viene dal di fuori di noi e se noi semplicemente la lasciamo correre, sarà tutta la nostra persona ad essere divinizzata.

“L'uomo buono, dal buon tesoro del suo cuore, attinge ciò che è buono, e colui che è cattivo, dalla sua cattiva fonte, attinge ciò che è cattivo" (Lc 6,45).

Liberiamo dunque il cuore da tutto ciò che lo opprime e lasciamo sgorgare dalle

viscere la vita divina (1Co 2,10).

Poiché è piu' intima in noi di noi medesimi.

"Ogni pianta che non sarà piantata da mio Padre celeste" ci avverte Gesu'

"sarà sradicata" (Mt. 15,13). Lasciamoci dunque piantare

"secondo la volontà del Padre", potare secondo il suo sapere (Gv 15, 2-3)

e vivificare attraverso la linfa della sua stessa vita (Gv 3,35-36; 17 2-3).

E glorificheremo il Padre portando molti frutti (Gv 15,8).

Una lettura cristiana di queste tre parabole ci illumina fino a qui e ci chiede di sforzarci di viverle.

Ed ora non ci resta che comprenderle nella loro dimensione piu' cristiana, più mistica. Contemplando , attraverso le parabole, il volto stesso del suo autore e del loro modello: Gesu' Cristo.

Questa volta il nostro sguardo si sposta dall'uomo in generale, o il cristiano in particolare, al Figlio di Dio in persona.

Lui solo è "la guida" capace di guidarci senza tentennamenti;

è “il Maestro" che ci istruisce per non commettere errori.

E' il solo capace di riportarci alla "Casa del Padre" perché è il suo inviato e

"ne conosce il cammino" (Gv 14, 1-6).

A confronto con l'uomo cieco, che procede “a tentoni” nella vita (Ac 17,27), alla ricerca di via e verità, ha fatto sgorgare "la Luce" (Gv 8,12)

"sul mondo" (12,46).

Siamo stati abbastanza folli per chiudergli gli occhi.

Questi occhi limpidi di innocenza e scintillanti di santità che "avevano il bagliore di una

fiamma ardente" (Ap 1,14).

Ma li ha riaperti per noi dopo le tenebre del sepolcro dove la nostra cecità l'aveva relegato (Gv 9 39-41).

Diventando così per puro amore "il primogenito fra i morti" (Col 1,8),

ci ha tratti dalle tenebre e dal pantano, innalzando i nostri piedi

sulla roccia e ha reso stabili i nostri passi (Salmo 40,3).

Da quel momento il nostro cammino non è più fatale e ci "conduce su una via

eterna".

Lo crediamo perchè cio' che in noi è perituro diverrà imperituro e cio' che è mortale diverrà immortale. (1 Co 15,54).

Di fronte ad ogni nostro giudizio e a ogni nostra infermità,

puo' davvero farci il dono di “vedere”.

Nessuna pagliuzza offusca il suo sguardo. Lui che “conosce tutto cio' che c'è in ogni essere umano” (Gio 2,25),

non è “venuto per condannare, ma per salvare”.

Nella sua misericordia infinita puo' salvarci tutti. Attraverso la sua presenza sia divina che fraterna,

puo' illuminare gli occhi del nostro cuore e farci intravedere a quale speranza ci apre il suo richiamo, e quali tesori di gloria racchiude la sua eredità tra i santi (Ef 1,18).

E' “il pane vivo” maturato in cima alla spiga di grano e “il frutto della vita” sospeso alla trave della croce.

Ha raddrizzato tutto cio' che noi avevamo rovesciato.

Come, allora, non riconoscere in lui la sorgente di tutta la vita.

Lui “la vera vigna” (Gv 15,11), noi l'abbiamo appeso come un “tralcio secco” sul “cattivo albero” del Golgota.

Ma Lui ha fatto rinverdire “il legno secco” della croce.

“Dal tesoro del suo cuore” (Lc 6,45), questo “uomo buono”, che è “Dio amico degli uomini”, ha “ effuso per noi” dei torrenti di grazia e d'amore.

Riaprendoci il cammino del “paradiso” (23,43), ci promette di “poter disporre” a un certo momento e per sempre “dell'albero della Vita”.

Cosi, “fratelli miei amatissimi”, puo' concludere l'apostolo, questo cieco che Cristo ha guarito per farne un discepolo e in cui la grazia non è stata vana “ siate stabili, siate radicati, prendete parte sempre piu' attiva all'opera del Signore, poiché voi sapete che nel Signore, la pena che voi vi date non sarà sterile” (1 Co 15,58)

Si, fratelli e sorelle, Il Cristo-Luce vuole sempre vedere brillare e fruttificare le nostre vite. Amen


Fr. Pierre-Marie Delfieux ©FMG

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

VII Dom. T. O. C

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; Sal 102; 1 Cor 15,45-49; Lc 6,27-38

 

Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro


La misericordia è il vero nome di Dio

e dunque dei veri figli di Dio.

 

Il vero nome di Dio non è stato dato in Esodo 3

quando Dio risponde a Mosè: “Io sono Colui che è”.

Questo nome, d'altronde, rimane impronunciabile!

 

Il vero nome di Dio è stato dato in Esodo 4

quando si è lui stesso definito:

Dio di tenerezza e di pietà,

lento all'ira e sempre pronto al perdono”.

 

La cosa più bella, più grande e più vera del nostro Dio

non è dunque nella sua Potenza, nel suo Splendore o nella sua Maestà.

E' nella sua Misericordia. “Dio è Amore!”

Egli è Dio perché egli è Amore; ed egli è Amore perché egli è Dio!

 

Ecco perché una delle frasi centrali di tutto il Vangelo

è in queste parole di Gesù:

Voi, dunque, siate misericordiosi come il vostro Padre del cielo è Misericordioso.”

 

Ciò detto,

le parole di Gesù che abbiamo appena inteso

e quelle di Paolo che vi fanno eco

nella lettera ai Colossesi (3,14)

ci danno un po' di vertigine

se vogliamo ammettere che è proprio a noi, oggi,

che esse sono indirizzate.

Lo dico a voi che mi ascoltate,

amate i vostri nemici,

fate del bene a coloro che vi maledicono,

pregate per quelli che vi calunniano....... (Lc 6,27-28)

 

Si tratta qui molto più che di non-violenza:

si tratta di “rispondere al male con il bene.”

Non solo di farlo,

ma di ricambiare, attivamente, contro il male,

atti, pensieri e parole di bene.

E il Cristo continua.

A colui che ti colpisce sulla guancia porgi l'altra.

A colui che ti prende il tuo mantello,

lascia prendere anche la tua tunica.

Dai a chiunque ti chiede

e non reclamare a colui che ti ruba(Lc 6,29-30)

Abbiamo come paura di capire.

Adesso, non si tratta più solamente

di rimanere aperti e benevoli,

ma di donarsi interamente.

E' il richiamo a lasciarsi come “mangiare”:

Andate! Ecco che io vi invio come agnelli

in mezzo ai lupi (Lc 10,3)

*

Fratelli e sorelle,

non possiamo realmente lanciarci

su questa via di amore folle,

se prima non siamo forgiati dalla contemplazione

di colui che ha potuto lanciare al mondo tali propositi

perché era lui stesso in verità quell'Amore incarnato.

Quell'agnello immolato.

 

Coloro che volevano essere guariti, li ha anche perdonati;

coloro che lo avevano in sospetto, li ha nutriti;

a coloro che gli percuotevano la guancia, ha semplicemente risposto: perchè mi colpisci (Gv 18,23)?

Di quelli che lo crocifiggevano, ha avuto misericordia: Padre perdona loro...(Lc 23,34)

Gli sono stati strappati la tunica e lembi di pelle e lui ci riveste della sua Luce!

Gli è stata tolta la vita, ma egli l'ha donata ancor di più (Gv 10,18).

Egli si è offerto fino ad essere letteralmente “mangiato”.

Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo offerto per voi (Lc 22,19).

Prendete e bevete, questo è il mio Sangue versato per voi (Lc 22,20).

Questa volta, non abbiamo più paura di capire!

 

Così è Dio. Il nostro Dio.

Buono e generoso senza misura (Lc 6,35).

Compassionevole e giusto, tenero, misericordioso,

come una madre, come un padre,

come un amico, come uno sposo, come un fratello.

Siamo totalmente disarmati davanti la bontà di Dio

quando sappiamo fermarci per contemplarlo!

Finché saremo stati scioccati

in un modo o nell'altro nel fondo del nostro cuore,

di fronte a questo “amore pazzo” di cui Dio ci circonda,

finchè non avremo pianto sulla miseria

della nostra indifferenza e sulla piccolezza dei nostri rifiuti,

in presenza della sua tenerezza,

noi non sapremo essere misericordiosi

come il Padre è misericordioso (Lc 6,36).

 

Là è pertanto il test, l'unico test,

della nostra verità cristiana:

di qua si è pagani: si reclama la giustizia!

Di là si è cristiani: si fa misericordia.

*

Amare coloro che ci amano,

fare del bene a coloro che lo fanno a noi,

prestare quando si è sicuri di essere rimborsati

chi non lo fa?

I pagani non fanno altrettanto? (Lc 6,33)

 

No! Saremo in verità “figli di Dio”,

se, come Dio, sappiamo a nostra volta

amarci gli uni e gli altri

di un amore senza calcolo, senza limite, disinteressato,

e dunque per questo, un poco folle (1Co 21-27).

 

Fratelli poiché siete stati scelti da Dio,

e siete suoi fedeli e beneamati,

rivestite il vostro cuore di tenerezza e di bontà,

di umiltà, di pazienza, di dolcezza.........

agite come il Signore: egli ha perdonato, fate lo stesso,

al di sopra di tutto che ci sia l'amore:

è lui che fa l'unità nella sua perfezione (Col 3,12-14).

 

Sì, viviamo questo

e sapremo cosa è la pace di Cristo

che regna nei nostri cuori (Col 3,15).

E, così chiamati a formare in lui un solo Corpo,

vivremo tutti insieme e nel cuore di questa città di Firenze

in un' umile, gioiosa e profonda azione di grazia.

E la pace di Dio che supera ogni intelligenza,

prenderà sotto la sua custodia i vostri cuori e i vostri pensieri,

nel Cristo Gesù (Fil 4,7).

 

Amen!

 

Fr. Pierre-Marie Delfieux ©FMG

 

 

Omelia di fr. Pierre- Marie Delfieux

VI Dom. T. O. C

Ger 17, 5-8; Sal 1; 1 Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26


 

Solamente un Dio che “viene dal cielo” (Gv 3,11)

e che ha “parole di vita eterna” (6, 68)

può dirci quello che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo.

Una delle domande che ci interessa maggiormente è di sapere come raggiungere la felicità alla quale aspiriamo con tutto il nostro essere.

Dove possiamo trovarla? Come conquistarla? Custodirla? La felicità…

Perché l’uomo, da solo, non riesce a crearla, preservarla, condividerla con tutti gli uomini? Oppure, ancor più drammaticamente, l’apparente felicità degli uni si fa a scapito degli altri?

In rapporto a tutto questa realtà di ricerche e interrogativi, la Sacra Scrittura non ci lascia senza luce.

 

Innanzitutto ci illumina sulla natura stessa di questa felicità che desideriamo tanto ardentemente.

In cosa consiste infatti essere felici secondo la Legge, i profeti e i salmi e secondo come Gesù lo promette ((Lc 6,20-21) ?

Nella prospettiva biblica non significa certo andare tranquilli per la propria strada sempre di buon umore. Abbiamo sete di molto di più! Non consiste nemmeno nel godere al massimo dell’esistenza gustando il massimo di considerazione, gioie e appagamenti. Vediamo subito come queste cose siano insoddisfacenti e passeggere. Essere felici significa possedere in sé una realtà solida, durevole, viva, capace di realizzarci sempre, dappertutto e interamente. Senza che attorno nessuno ne resti frustrato.

In definitiva, una realtà, piena, universale, eterna. In una parola: una realtà divina, cioè senza limiti e senza fine. La felicità, come ce la insegna la rivelazione biblica, consiste nel gustare qualcosa che appartiene a Dio e che può venire solamente da lui e condurci a lui.

Ma allora come fare ad accoglierla e ad aspettarla?

La risposta della Scrittura è tanto semplice quanto categorica: con la scelta della nostra libertà che si attua sempre in termini di alternative. Non è possibile restare neutrali! O saliamo verso il Tutto, oppure ci inabissiamo nel nulla (Ga 6,8).

O la Vita ci chiama, oppure la morte ci aspetta (Si 15,17). O amiamo Dio oppure serviamo Mammona (Mt 6,24). Nella prospettiva di una scelta così radicale, chiaramente insorgiamo, resistiamo, tergiversiamo! Vorremmo che le cose fossero più condivise, più relative, più sfumate...E noi ci impegneremmo volentieri! Ma quando si tratta di assoluto, di eternità, di Vita, in una parola di felicità, la risposta può venire solamente da questa alternativa: o esiste o non esiste. O permane una vera promessa o non è altro che una vana illusione.

“Vedi, ti propongo oggi la vita e la felicità o la morte il male, dice il Signore. Scegli dunque la vita! (Dt 30,15s) “Beati voi” se fate e siete questo....”Guai a voi” se fate e siete quest’altro (Lc 6, 20-23).

Così tutti i testi della celebrazione di questo giorno reclamano da noi una decisione libera e definitiva: bastiamo a noi stessi o dobbiamo appoggiarci a Dio?

Abbiamo in noi la nostra origine e la nostra salvezza o le abbiamo dal nostro Creatore-Redentore?

Il grande teologo Hans Urs Von Balthasar non esita a scrivere: “Una via intermedia non esiste! Ma non consiste forse in questo la grandezza della nostra libertà?

 

Ritorniamo allora alla Scrittura. Cosa ci dice il Signore attraverso il profeta Geremia? Che possiamo scegliere solo tra due vie: la benedizione che ci viene offerta o la maledizione che possiamo infliggerci. “Guai all’uomo che ripone la sua fiducia nell’uomo e allontana il suo cuore dal Signore (Ger 17,5). Questo vuol dire che colui che vuole separarsi da Dio si ritrova solo con sé stesso e con l’uomo nato dalla terra. Ora l’uomo è fragile, la terra transitoria e la nostra esistenza mortale. Bastano a ricordarcelo le insoddisfazioni, le fatiche, i dolori, la vecchiaia, la morte. Tutto questo ci rammenta il lato angusto e effimero di ciò che pretende avere la sua sorgente e il suo sostegno in ciò che è solamente terrestre e umano. E’ forse così lontano da noi oggi il grido del profeta?...Non liquidiamolo troppo presto considerandolo d’altri tempi! Al contrario, ci dice, chi si appoggia su Dio costruisce la sua vita sul vivente e sull’indefettibile, “Benedetto sia l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua speranza” e il profeta continua:”E’ come l’albero piantato lungo il corso delle acque” (Ger 17,7). “Ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7,24). Quest’uomo di fede e di desiderio resta legato a Dio. Le prove, le contrarietà, i fallimenti, l’affaticamento possono coglierlo, e lo coglieranno (Mt 7,25). Ma la parola di Dio è luce, la sua grazia è onnipresente e la sua Vita eterna. Sta a noi fare la scelta giusta! Da una parte vivere per Dio: allora come non ci aiuterebbe a vivere al meglio dentro di noi e accanto a tutti gli altri, su questa terra? Dall’altra vivere per sé stessi: e come non saremmo ben presto, isolati, fragilizzati, inquieti, delusi? Un albero sul bordo del fiume non teme nè il caldo, né l’aridità. Perchè allora rifiutarci di andare, come dice Isaia, “ad attingere acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (12,)?

E’ sempre a disposizione il torrente che deborda ! (Ez 47,1.12)

Poi Gesù cosa ci insegna nel Vangelo?

Sempre la stessa alternativa che ci spinge a scegliere tra la felicità e l’infelicità (Lc6,20-23).

Certo, il paradosso di queste parole, che contrastano con molte idee che abbiamo, non ce le rendono immediatamente evidenti . Accanto alla voce del Signore, mormora la voce dell’Avversario! Spontaneamente potremmo anche pensare che ricchezze, eccessi, risa e stima sono già dei segni di felicità... La realtà della vita ci insegna in fretta quanto sia relativo questo ritornello del mondo, come dice San Giovanni (1Gv2,15-17).

Ma in questo c’è un segreto più profondo che Gesù, in questo giorno, vuole insegnare a tutti (Lc 6,17). E’ che lui per primo e per noi, ha voluto sposare la povertà, la fame, l’afflizione, il disprezzo.

Allora noi possiamo ascoltare qualcuno che ci parla così! Da quel momento qualcuno che vive la stessa cosa, a causa del Figlio dell’uomo (Lc 6,22) è prediletto da Dio, il Redentore dell’uomo. Il Padre riconosce in lui il volto di Cristo ed è amato dall’amore stesso con cui il Padre ama suo Figlio. Per un tale uomo i beni materiali che ha abbandonato non contano nulla. In cielo lo attende un tesoro incorruttibile (Mt 6,20). La fame che prova dice che un giorno verrà saziato (5,6). “Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete (Gv 6, 3-5). Le lacrime della terra si trasformano in gioia fin da quaggiù, poichè sa che un giorno, lassù il Padre gliele asciugherà (Ap 21,4). L’oblio, il disprezzo, il rifiuto degli uomini, più nulla può separarlo dall’amore di Dio manifestato in Gesù Cristo (Rm 8,39)

 

L’alternativa ultima ci viene ricordata dall’apostolo Paolo. Visto che anche allora bisognerà scegliere: O tutto crolla nella tomba e finisce con la morte. E allora possiamo dire di essere gli uomini più infelici (1Co 15,1-9).

Oppure tutto sale verso la speranza della Vita eterna e tutta la nostra strada sulla terra diventa un tempo di fidanzamento, in attesa delle nozze del cielo. Allora bisogna esitare indefinitivamente?Ma no!

Afferma l’Apostolo:”Cristo è risorto!” (1Co 15,20). Sono trascorsi venti secoli di cristianesimo per dire, dalla profondità dei cuori, vivificati dalla grazia che è vero! “Noi risusciteremo con lui!” (Rm 6,4-11).

Certamente, in questo si cela per noi il bel rischio della fede.

Ma quanto ci fa bene sentir risalire in noi la gioia della beata speranza!

Fratelli e sorelle, non stiamo a morir di sete vicino alla fontana della Vita.

 

Fr. Pierre-Marie Delfieux ©FMG

 

Omelia di Fr. Pierre-Marie Delfieux

V Dom. T. O. C

Is 6,1-2a.3-8; Sal 137; 1 Cor 15,1-11; Lc 5, 1-11

 

I TRE TEMPI DELLA PESCA IN GALILEA


C’è, per prima cosa, il tempo prima della pesca, il tempo che si predispone all’ascolto della Parola di Dio.

Viene poi il tempo vero e proprio della pesca, in cui tutto si realizza nell’obbedienza a quella stessa Parola divina.

Infine c’è il tempo dopo la pesca, in cui il Signore stesso conferisce una missione.

 

E’ un incontro in tre tempi, ricco di significato, fra Pietro e Gesù.

Un cammino esemplare, che passa dall’ascolto attento, all’azione obbediente, fino alla conversione di vita.

E’ una narrazione reale e significativa, in cui ciascuno di noi si può riconoscere e fare luce sulla propria storia personale.

Riviviamo, dunque, insieme i tre tempi dell’incontro.

 

Prima della pesca, Gesù è già presente.

Vide due barche ferme sulla riva del lago” – nota san Luca (5,2).

Dio, per primo, c’è sempre: viene avanti, ci guarda, ci invita.

Dall’alto dei cieli il Signore si china verso i figli di Adamo” – canta il salmista.

Le barche ferme sono diverse, pronte a partire, ormeggiate sulla riva del lago!

Gesù “salì su una delle barche”, -ci viene detto -” che era di Simone” (5,3),

che avrebbe potuto stupirsi.

Ma che cosa vediamo? Pietro non l’ha fermato!

E’ essenziale lasciarsi interpellare, avvicinare, istruire da Cristo.

Poiché noi tutti siamo istruiti da Dio” – dice Isaia (54,13).

Qualunque sia lo stato dei nostri lavori, lo stato della nostra barca,

qualunque sia il nostro stato d’animo o della nostra vita,

Gesù è lì, “alla porta e bussa” (Ap 3, 20).

Se sappiamo aprirgli, eccolo subito seduto sulla barca del nostro oggi,

sulla riva della nostra esistenza e,

con la sua voce, che il nostro cuore è subito contento di amare,

ci illumina e ci consola con la sua presenza radiosa e rincuorante.

 

Tempo primo e vitale, in cui prima di qualunque azione,

al mattino di ogni giorno, all’inizio di ogni notte, dobbiamo anche noi, come Pietro,

sederci “accanto a lui e lui accanto a noi” (Ap 3, 21),

stare ai piedi del Maestro, guardarlo e ascoltarlo,

nella pace della barca agli ormeggi, sulla riva del lago,

lasciare che ci ammaestri su chi siamo noi, sul mondo, su Dio.

 

Il Maestro è là e ti chiama”– dice Marta a Maria (Gv 11, 28).

Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” – risponde il profeta

alla voce udita nella notte (1Sam 3,10).

Allora, colui “che abbiamo ragione di amare” – come ci dice il Cantico dei Cantici (1,4) ,

e che “facciamo bene a chiamare maestro e Signore, perché lo è” - (Gv 13,13),

si rivolge a noi, come un giorno a Pietro in tutta chiarezza, e ripete:

Prendi il largo e gettate le reti per la pesca! “(Lc 5,4).

 

Dopo il primo passo di avvicinamento, ecco che Gesù fa anche il primo passo con la parola.

Ed è una doppia chiamata che risuona, un doppio imperativo.

Ma facciamo attenzione: il primo è al singolare –”prendi il largo” –

il secondo è al plurale: “gettate le reti!”

Poco prima, Pietro ascoltava, dal posto dove si trovava,

la parola di Cristo rivolta a tutti.

Ora, parla in particolare a lui, ma attraverso di lui, il suo richiamo si rivolge a tutti gli altri suoi compagni di lavoro.

La lezione è evidente: la parola che Dio rivolge a tutti noi riguarda ognuno di noi,

ma la parola ricevuta da ciascuno di noi deve essere condivisa con tutti.

Cristo ordina a Pietro, perché sia lui a trasmettere ai fedeli la chiamata ricevuta dal Padre:

Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 17,18).

 

Ma perché allora “prendere il largo”?

Perché si tratta, ci dice Cristo, di decidersi ad abbandonare la riva,

la riva di questa vita tranquilla, falsamente sicura,

che non sarebbe mai capace di riempire la nostra barca.

La chiamata di Dio è sempre per “prendere il largo”,

cioè di andare oltre , fino all’oltre di quaggiù.

E’ la voce del Cristo che ci invita (Gv 21, 4-6),

che vuole farci passare, al di là delle acque profonde della morte,

fino a quel luogo in cui ci attendono la pesca e il raccolto delle promesse eterne (Mt 13,47).

 

La vita cristiana è un cammino, ancor più che una convinzione.

Perciò guardate il vero volto di Dio: è sempre in movimento (Lc 9,23).

Cristo è una “strada” in salita (Gv 14,6; Lc 19,28);

lo Spirito è un “vento” che soffia e spinge in avanti (Gv 3,8);

il Padre è una forza che ci “attira” verso di lui (6,65).

Non si può, quindi, rimanere sempre ormeggiati a riva,

se davvero vogliamo comportarci da figli di Dio,

promossi alla gioia dinamica della gloria Trinitaria.

 

Il secondo tempo del racconto evangelico è il tempo stesso della pesca propriamente detta.

C’è infatti un tempo per l’ascolto e un tempo per l’azione.

Dio ci vuole obbedienti soltanto per vederci agire liberamente.

 

Ma non è sempre agevole obbedire alla parola di Dio!

Pietro, nel suo parlare schietto, non si preoccupa di farlo notare a Cristo:

Maestro, abbiamo faticato tutta la notte.”

E aggiunge questo desolante chiarimento: … “senza prendere nulla!

Ma, sul tuo ordine, conclude con un esplicito atto di fede, getterò le reti.”

 

Simone, pescatore esperto, avrebbe avuto molte ragioni a non tenere conto del consiglio,

che gli veniva rivolto da un ex falegname!

In realtà, che cosa si può sperare di prendere,

nel momento più sfavorevole del giorno, in pieno sole,

quando le ore più favorevoli della notte non hanno dato nessun risultato?

Non è sempre facile sottomettersi alla volontà del Padre!

Ma non è nel nome della logica che Pietro si mette.

Risponde ponendosi nella luce della fede ,

e della fede nella parola e nella persona del Cristo,

per l’unica ragione che è “lui”, è lui che la dice.

 

Che splendida lezione per tutti noi che siamo chiamati, come Pietro,

a credere al di là di qualunque sicurezza, nonostante tante difficoltà e tanto buio,

nonostante tante ragioni che potremmo avere di aspettare un po’,

di essere scoraggiati, forse di lasciar perdere!

Ma non è così: la fede è autentica solo se tiene duro nelle difficoltà.

La lettera agli Ebrei dice: “La fede è la garanzia dei beni, non di quelli che possediamo,

ma che speriamo, e la prova delle realtà, non quelle che abbiamo, ma

che non vediamo” (Eb 11,1).

E questa fede conciliata con Cristo attira su di noi ancor più grazie dal Padre.

 

Allora, come Pietro e i suoi compagni, scopriamo con sorpresa la verità delle promesse di Cristo,

la sovrabbondanza dei suoi doni.

Constatiamo quanto “le sue parole sono certe e vere”, come dice l’Apocalisse (21,5),

e che “il centuplo esiste già in questa vita”, proprio come Gesù stesso ha detto (Mc 10,30).

 

Seguire Cristo diventa allora un’avventura divina,

ancor più piena di quanto non avremmo potuto immaginare!

Capiamo che a Dio piace chiedere, proprio a noi, qualcosa,

perché noi gli facciamo vedere il nostro amore.

Ma scopriamo anche che ancor più gli piace di “colmarci di grazie”,

per provarci tutto “il suo amore”!

Infatti ritroviamo solo ciò che chiediamo.

Solo le mani aperte possono essere riempite.

E Dio si compiace, in altri mille modi, di farci sentire, giorno per giorno,

quanto lui rimane, per sempre, capace di riempire tutte le nostre reti!

 

L’ultimo tempo che finalmente arriva, è quello del dopo la pesca.

Qui il merito di Pietro è di non fermarsi allo stupore davanti alla pesca miracolosa,

miracolo compiuto per mezzo delle sue mani.

Gettandosi ai piedi di Gesù, grida: “Allontanati da me, Signore,perché sono un peccatore!”(Lc 5,8).

Davanti alla santità di Gesù, Pietro offre la testimonianza liberatoria della sua umiltà

e viene contemporaneamente e totalmente purificato dal suo peccato.

 

L’obbedienza nella fede gli aveva procurato la gioia di una pesca miracolosa;

il nascondersi nell’umiltà lo mette sulla via della vera santità.

E’ solo nell’umile ammissione della nostra debolezza che la forza di Dio può trionfare in noi (2Cor 12, 5; 9,10).

Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1Cor 15,10).

Gli disse allora Gesù: “Non temere: d’ora in poi sarai pescatori di uomini.”

Allora” – conclude san Luca -, “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5, 10-11).

 

Il centuplo, già assaporato, si apre sull’infinito allora promesso.

Riempire la barca poteva essere bello.

Costruire la Chiesa diventa ancora più bello!

Quello che Cristo vuole, d’ora in poi, non sono più occhi per vederlo, orecchie per ascoltarlo, mani per servirlo, né cuori per amarlo:

vuole uomini per intero, capaci di lasciare tutto per seguirlo.

Uomini che così diventino luce del suo Fuoco e sale della sua Sapienza (Mt 5,14).

Uomini capaci di chiamarne altri, a loro volta, a seguirlo e a servirlo,

per formare così, passo dopo passo, quella vera pesca miracolosa,

che raccolga non più pesci, ma uomini, per formare un “solo corpo”

e fare la sua Chiesa (1Cor12).

 

Pietro e i suoi compagni, lasciato tutto, tutto hanno trovato ,

abbandonando tutto, tutto hanno trovato.

“Hanno trovato l’amore,” ci dice santa Caterina da Siena.

“E’ per amore, un amore infuocato, solamente per amore

che Tu ci hai riscattati.

Tu mi hai vista. Tu mi hai riconosciuto in Te.

Tu mi hai guardato nella tua luce, amore incomprensibile!”.

 

Quel giorno, la barca di Simone è rimasta vuota sulla riva del lago.

Alcuni, scesa la sera, forse hanno iniziato a rammaricarsene.

Però migliaia e migliaia di navate, come questa di Saint-Gervais, si sono riempite oggi,

dappertutto, sulla faccia della terra!

E questo gesto, esagerato, di alcuni pescatori di Galilea,

a rischio della loro vita, su una sola parola del loro Maestro,

permette a noi di riascoltare, questa domenica,

le parole di Verità e di Vita.

 

Fratelli e Sorelle,

anche se abbiamo passato tante notti senza prendere nulla,

siamo pronti, sulla parola del Signore,

a gettare le nostre reti?

 

Signore, insegnaci ad ascoltarti,

tu sei la nostra Luce.

 

Insegnaci ad obbedire,

tu sei il nostro Maestro.

 

Insegnaci a seguirti,

tu sei il nostro Dio.


 

Fr. Pierre-Marie Delfieux ©FMG

 

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

IV Dom T. O. C

Ger 1,4-5.17-19; Sal 70; 1 Cor 12,31-13,13; Lc 4, 21-30


 

Presentazione a Nazaret

 

Quando gli abitanti di Nazaret.

dove erano cresciuti insieme,

udirono il figlio di Giuseppe e Maria,

preceduto dalla fama dei suoi primi miracoli a Cafarnao,

dire loro che l’amore del Dio d’Israele era già condiviso,

come ai tempi di Elia e di Eliseo,

oltre le frontiere ( Lc 4, 25-27)

e deve estendersi ancor di più in “quest’oggi di grazia” (4,21)

fino al vicino Libano e alla Siria pagana,

allora, ci dice san Luca, tutti divennero furiosi

e lo spinsero fuori dalla città (4, 28).

Come avrebbero potuto contenere nella piccolezza delle loro sinagoghe

il fuoco debordante dell’amore di Dio,

venuto per accendere tutta la Terra (Lc 12, 49)?

Così, anche noi restiamo stupiti, come increduli e talvolta ostili,

pur essendo familiari della presenza divina e delle chiese dove

abitualmente ci riuniamo,

quando Dio ci ridice che il suo amore per noi è veramente infinito

e che il suo grande desiderio è che non sappiamo accoglierlo

e rispondervi, condividendolo con tutti.

 

Così il Vangelo di oggi ci riconduce

al centro del cristianesimo: Dio è amore

e anche per noi, l’amore vale Tutto, perché è Tutto.

 

Un giorno nel suo Carmelo di Lisieux

la giovane Teresa sognava una santità insaziabile,

come tutte le vere mistiche

lei voleva essere “Tutto” nello stesso tempo:

“Mi sento la vocazione di guerriero, di prete, di apostolo,

di dottore, di martire”

Ma come essere tutto questo

quando si è solamente una monaca di clausura?

“Durante l’orazione i miei desideri mi facevano soffrire un vero martirio.

Ho aperto le lettere di San Paolo, per cercare qualche risposta”

e si fermò sul famoso capitolo tredicesimo della prima Lettera ai Corinzi

divenuto l’inno alla carità per tutta la cristianità:

“finalmente avevo trovato la risposta..

capii che l’amore racchiudeva tutte le vocazioni,

che l’amore era tutto.

Che abbracciava tutte le epoche e tutti i luoghi,

in una parola, che è eterno.

Allora nell’eccesso della mia gioia delirante,

ho gridato: “O Gesù, amore mio. La mia vocazione, alla fine l’ho trovata. La mia vocazione è l’amore!”

Avendo compreso questo, Teresa in verità, aveva capito tutto.

 

Perché l’amore è tutto?

Perché, innanzitutto, è la sola realtà

capace di realizzarci.

Tutti siamo fatti per essere amati e per amare, senza eccezioni,

anche quando non oseremmo confessarcelo.

Perché in seguito, l’amore riassume in sé tutta la Legge,

ed é l’unico cammino verso l’autentica santità (Ga 5, 14).

Perché alla fine l’amore è il nome stesso di Dio,

é l’espressione più profonda del suo essere

che, Totalmente, è Amore.

 

Ecco: l’amore ci realizza, l’amore ci santifica perché l’amore è Dio stesso.

Questo amore che è in noi,

dobbiamo accoglierlo con tutto il nostro cuore,

rispondergli con tutta la nostra vita,

e condividerlo con tutti i nostri fratelli.

 

Accogliere con tutto il nostro essere l’amore

che Dio ci dona per primo.

Che gioia proveremo quando decideremo di vivere veramente tutto questo!

Quanti disagi psicologici, carenze affettive, pesantezze spirituali sarebbero guariti, superati, alleggeriti se noi fossimo semplicemente convinti che siamo veramente amati!

“Il Padre stesso vi ama” (Gv 16,27).

Sul palmo delle sue mani che hanno plasmato il mondo,

Isaia ci dice, facendoci stupire, che Dio “ha inciso”

-non solo scritto, ma inciso- in modo indelebile, il nostro nome! (Is 49, 16).

“Fino alla vostra vecchiaia io sono,

fino alla vostra canizie io vi porterò;

io vi ho fatti, e io vi sosterrò;

sì, vi porterò e vi salverò”(Is 46,4).

“Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

Anche se queste donne si dimenticassero,

io invece non ti dimenticherò mai”(Is 49,15).

 

Ecco la verità prima ed ultima,

il Vangelo come va proclamato:

“Io in loro e tu in me” (Gv 17, 23).

Poiché l’amore del Padre è stato veramente versato nei nostri cuori

dallo Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5, 5).

 

No! Niente fermerà l’amore per noi di un Dio

che chiama sé stesso Padre di misericordia e di tenerezza.

Niente ci separerà dall’amore di Cristo (Rm 8, 35).

Nessuno mai potrà spegnere nell’uomo il fuoco d’amore

dello Spirito Santo.

Che forza e che gioia per colui che si sa così amato personalmente,

infinitamente e per sempre,

dal Dio di ogni Bellezza, di ogni Verità, di ogni Bontà!.

*

In risposta, come non amare il Signore a nostra volta

“con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto lo spirito” (Dt 6,5).

L’amore è vero solo se è condiviso nella reciprocità.

Ciò che chiamiamo “la religione”

ci sembra spesso insapore e rivoltante

perché non sappiamo farne una vera avventura d’amore.

Ma se un giorno cerchiamo

di rispondere veramente all'amore di Dio con il nostro amore,

allora entriamo in una vita che può realmente realizzarci e darci pienezza;

e tutto un corteo di psicosi, di complessi,

di nevrosi, di paure verranno spazzate via…

 

Essere amati da un DIo è una gioia immensa.

Poter amare un Dio è una vera meraviglia.

Questo ci rallegra e ci entusiasma!

 

Perché si è fatto per noi,

allo stesso tempo padre, sposo, bambino, amico e servo,

noi possiamo amarlo a nostra volta con tutte le sfumature

di un amore di volta in volta filiale, coniugale, paterno, amichevole e docile.

Sì! A colui che ci ha amato

con il dono del suo unico Figlio (Gv 3,16)

possiamo rispondere con l’offerta gioiosa

della nostra unica vita.

Essere amato in tutto quello che sono

e poter amarlo con tutto quello che sono.

Meraviglioso scambio d’amore dove Dio si dona

all’uomo che sono io

e io stesso al Dio dell’eternità.

“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”Gv 6,56).

Con Santa Teresa,

forse possiamo dire che la nostra vocazione, finalmente trovata,

è sempre una “vocazione d’amore”.

A questa luce allora vediamo come il secondo comandamento

sia simile al primo ( Mt 22, 39).

E quanto tutto ci inviti a condividere.

Poiché Dio si è talmente messo nell’uomo,

ciascun uomo porta in sé l’attesa e la proposta del suo amore.

Questo sguardo illumina tutto di una luce nuova.

“Una volta per tutte, dice Sant’Agostino,

ti viene dato questo breve precetto.

Ama e fa ciò che vuoi.

Se taci, taci per amore.

Se parli, parla per amore.

Se correggi, correggi per amore.

Se perdoni, perdona per amore.

Sia in te la radice dell’amore.

Da questa radice non può uscire che del bene.”

Basta amare, perché non c’è altro da fare.

L’amore è tutto, purifica tutto, illumina tutto.

“L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.(1Co 13, 4-7)

 

Si può capire che Teresa, avendo letto questo, non si sia più sentita una vocazione

di prete, di apostolo, di dottore e di martire:

poiché, scegliendo di amare, sceglieva di vivere tutto.

 

“Allora nell’eccesso della mia gioia delirante,

ho gridato: Nel cuore della Chiesa, mia Madre, io sarò l’amore”.


 

©FMG Trad. p. 23-27, Evangeliques 1, Fayard 1988

 

3 Dom. T. O. C

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

 

Cosa c'è in questo libro che ci porta a riprenderlo continuamente in mano?

Nel corso della vita ciascuno di noi avrà letto, ascoltato, condiviso, meditato alcuni dei suoi versetti.

Lo abbiamo fatto, senz’altro centinaia, migliaia di volte.


E ogni domenica ritorniamo instancabilmente, per ascoltare insieme questa parola,

come gli abitanti di Nazareth nella sinagoga.

Questa parola incarnata che,

messa per iscritto, è diventata”un racconto documentato” e un “insegnamento fedele” come oggi Luca ci confida (Lc 1,1).

 

Ma qual’é allora questa “Buona novella di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1)

annunciata da Marco?

Qual’é dunque questo Vangelo del Verbo di Luce e di Vita di cui Giovanni ci documenta l’itinerario e i propositi?

Qual’è il racconto degli atti e delle parole di Cristo, di cui Matteo ci trasmette il volto e il messaggio?

 

Sì, fratelli e sorelle,

che cos’ha dunque di unico e così forte,

di così vivo e così liberatorio,

di così personale e di così universale,

cos’ha di così originale e di così profondo,

di così semplice, di così grande.

questo libro che non ha pari,

incessantemente letto, commentato, insegnato, trasmesso,

e che noi chiamiamo IL VANGELO?

 

Mi sembra di poter riassumere l’essenziale di ciò che rappresenta

dicendo innanzitutto che questo libro è UN CENTRO;

poi che è UNA VITA, e infine che è UNA SORGENTE.

 

Il Vangelo é un centro.

E’ al centro di una storia che tende a diventare il centro della Storia.

Al centro di una STORIA SANTA,

che si rivela e si rivelerà sempre di più

come il centro della Storia universale.

 

Il Vangelo è un incrocio.

Da ogni parte le Scritture convergono verso di lui.

La Legge consegnata nel Pentateuco e i Libri storici,

i Sapienziali, i Profeti, le Apocalissi, i Salmi,

tutto sale verso il Vangelo (Lc 24,44).

 

E’ il punto focale su cui si concentrano

tutti i raggi che attraversano e rischiarano 2000 anni di Storia santa.

Quando Gesù cammina sulla strada che conduce da Gerusalemme a Emmaus,

ci viene ben precisato che, per rivelarsi ai due discepoli,

mostra loro tutto quello che è scritto di lui

nella Legge, nei Profeti e nei Salmi (Lc 24,44).

E ridice san Luca: Spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui ( Lc 24,27).

 

Nessun altro libro al mondo

è il punto di compimento di venti secoli di scritti, di istruzioni, di racconti, di preghiera, di riflessione, di profezie

Da questo punto di vista, il Vangelo è come l’arrivo alla meta di una cima.

E a partire da esso tutto si rifrange e si irradia nuovamente:

  • verso indietro, per illuminare con la sua luce

  • e verso avanti per propagarne il messaggio

fino ai confini del mondo (Mc 16,15).

Nel Vangelo il passato si concentra e l’avvenire si costruisce.

In esso tutto ciò che è stato annunciato si realizza

e viene già proclamato ciò che deve avvenire.

All’incrocio di ieri e di domani si colloca l’Oggi di Dio, nell’eterno presente

in cui tutto è detto, vissuto, rivelato e compiuto (Lc 4,21).

 

Il Vangelo ha un tale potere unificatore

che ci ricolloca costantemente nel LUOGO nel quale esso si trova:

al centro della Storia della nostra salvezza,

nell’eterno presente di Dio che si è fatto per noi

Parola viva e vera.

  • Il Vangelo è anche UNA VITA.

Non un libro, ma una Vita.

Non prima un racconto, un documento o una biografia,

ma una Vita.

E che Vita!

La Vita di Dio sulla terra!

La Vita di Colui di cui è detto che tutto è stato fatto per mezzo di lui,

e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (Gv 1,3).

In Colui dove era la Vita (Gv 1,4),

e ce la ha elargita in abbondanza (10,10),

dicendo: IO sono la VITA! (14,6)

 

Il Vangelo è una Parola che è letteralmente “Qualcuno” (Ap 4,2).

E Qualcuno di eternamente vivente.

E’ la Parola Immortale di Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16).

“Per me” diceva san Girolamo, che ha passato tutta la vita

chinato sulle Sacre Scritture.

“il Vangelo è il Corpo di Cristo” (Lettera 53)

Quello che Gesù dice, lo compie. E quello che appare, lo è; non ci sono distanze, divari o decalage.

In lui vi è perfetta identità il dire, il fare, l’essere e l’apparire.

Nessuno al mondo può dire

di aver perfettamente vissuto quello che ha insegnato;

di essere stato tutto quello che ha detto di lui stesso in modo perfetto.

Gesù lo ha fatto: ha detto tutto, ha illuminato tutto, ha riscattato tutto e compiuto tutto.

Nei propositi e negli atteggiamenti di Cristo

troviamo una tale precisione di tono, un tale equilibrio di pensiero,

un tale preso di verità e un tale segno di santità che ne risulta l’espressione di una vita perfetta.

Chi tra di noi potrebbe convincerlo di peccato?

Chi, tra gli uomini, non ne riconoscerebbe la santità?


Parola dopo parola, questo libro diventa un volto.

E si tratta del volto di un vivente

che vivifica e non insegna solamente.

Al suo contatto, eccoci, istruiti, illuminati dal di dentro.

Ancora meglio abitati da una presenza, da una parola,

nutriti da un alimento spirituale, dissetati da un’acqua (1 Co 10,3-4)

che, poco a poco, ci vivifica, ci trasforma e ci trasfigura.

Se è vero che non si può sradicarsi da questo centro,

ancor di più non ci si può separare da questa Vita!

Il Vangelo che è la Sua vita é la nostra Vita ed è LA VITA!

  • Per concludere direi che IL VANGELO E’ UNA SORGENTE.

Da questo punto di partenza

è sgorgato un fiume.

Il punto di convergenza che è come il punto di arrivo

di tutta una Storia Santa, quella della prima Alleanza,

diventa il punto di irraggiamento, che è il punto di partenza

di tutta la Storia della Chiesa santa, quella della nuova Alleanza.

 

Da 2000 anni a partire da questa sorgente evangelica

miriadi e miriadi di vite si sono alzate.

Uomini e donne ,

di tutte le razze, le lingue, i popoli e le nazioni (Ap 7,9),

si sono alzati per camminare alla sequela di Colui

di cui il Vangelo ci riporta la Parola e la Vita.

Hanno visto- e noi ne facciamo parte-

che nel Vangelo si trova la sorgente della Verità, della Luce e dell’Amore!

Hanno creduto - e anche noi lo crediamo -

che in questo libro è contenuto l’ itinerario

di ogni cammino di santità e di perfezione!

 

Il Vangelo, veicolato in questo modo,

é diventato come un corteo di viventi

in cammino quotidiano e ininterrotto,

dietro a Colui che ci ha detto: Io sono la Strada (Gv 14,6).

Cristo Gesù, il nostro Signore e il nostro Dio.

Andando così, lungo i giorni,

dalla fede proclamata alla fede accolta;

dalla fede vissuta. celebrata e cantata, alla fede incessantemente trasmessa,

il fiume dei credenti irriga la terra, passo dopo passo,

a partire dalla Sorgente inesauribile del Vangelo.

 

La Parola di Cristo costruisce il Corpo di Cristo!

Il soffio dello Spirito rinnova la faccia della terra!

E il Padre stesso che ci ama (Gv 16, 27),

aspetta l’intera umanità alla soglia delle dimore eterne!

 

Non si può incatenare la parola di Dio. (2 ™ 2,9).

Il cielo e la terra passeranno, ma il Vangelo non passerà! (Mt 24,35).

Per questo, quando leggiamo, ascoltiamo, preghiamo o condividiamo, come ora,

questa Parola di Dio, possiamo ridirci, come Gesù l’ha detto il primo giorno in cui l’ha proclamato nella sinagoga di Nazareth:Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi (Lc 4,21).

 

Ritornando al Vangelo come CENTRO, gustandolo come VITA,

attingiamo alla SORGENTE dell’eternità.

In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna. (Gv 6,47).

E Gesù aggiunge:

Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte (8,51).

 

Fratelli e sorelle,

crediamo nel Vangelo, gustiamo il Vangelo, viviamo il Vangelo,

se vogliamo trovare il vero CENTRO della nostra esistenza

se vogliamo vivere la VITA vera, malgrado la morte,

e se vogliamo attingere con gioia alle Sorgenti della salvezza (Is 12,3).

La Parola di DIo è la Persona stessa di Dio.

E poichè il Vangelo è una testimonianza,

permettetemi di finire con questa semplice testimonianza.

  • Se qualcuno mi chiede perché sono cristiano , rispondo : A causa del Vangelo.

  • Se qualcuno mi chiede perché sono diventato prete, rispondo ancora: A causa del Vangelo.

  • Se qualcuno mi chiede perchè cerco di essere monaco, rispondo sempre: A causa del Vangelo.

Signore, da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna!


 

©FMG manoscritto originale in francese

 

2° Domenica T. O. C

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

IL TUO CREATORE TI SPOSERA


 

E’ veramente bello celebrare quello che la liturgia chiama: le nozze di Cana!

Nel profeta Isaia, nella lettera di Paolo, nel Vangelo di Giovanni si parla solo di alleanza d’amore, di doni gratuiti, di sposalizio divino.

Se crediamo alle parole del Signore

che la Scrittura ci indirizza nel suo Nome, oggi,

queste possono veramente entusiasmare i nostri cuori da ora e per sempre. (Sal 52,10 ; Is 59, 21; 1Ts 4,17).

Allora ascoltiamoli uno alla volta.

 

Il profeta Isaia si fa eco

della volontà costante che il Signore manifesta di poterci amare fedelmente.

Il tema della comunione d’amore di Dio con gli uomini

attraversa tutta la Bibbia come una linea di fuoco.

Fin dal principio, l’uomo viene creato a sua immagine, cioè per una reciprocità d’amore che traduca l’unità nella diversità.

Lungo tutta la storia della salvezza,

vengono stabilite delle alleanze e fatte delle promesse che chiamano alla fedeltà e alla reciprocità.

Questo legame è indistruttibile per il Signore (Is 54,10).

Nonostante le tensioni, le rotture, i ritorni, i perdoni, le riconciliazioni, le infedeltà reiterate da parte degli uomini, non si consumerà il divorzio tra lui e noi!

Perchè il Dio fedele non ne vuole sapere, qualsiasi cosa succeda.

 

Allora i salmi cantano il re ammaliato dalla nostra bellezza (Sal 45,12).

I profeti lo mostrano pronto a sedurci (Ger 20,7), fin nel deserto delle nostre fughe, per parlare al nostro cuore (Os 2,16).

Geremia, Ezechiele, Osea, Michea, Sofonia, tutti con mille audacie talvolta (Ger 31; Ez 16; Os 11; Mi 5; So 3) cantano instancabilmente questo amore che non smette mai di rianimarsi.

E il Cantico dei Cantici, con un realismo debordante di tenerezza,

diventa il più bel poema cantato sulla terra su questo tema:

infatti è già una eco di quello che ci attende in cielo.

 

Oggi, allora, il profeta Isaia prende la parola per istruirci (62,1-5).

Per amore di Sion non tacerò...

Allora i popoli vedranno la tua giustizia,

tutti i re la tua gloria.

L’alleanza è per il suo popolo, ma anche per tutti i popoli.

Questo amore universale sa essere personale; è l’amore infatti del Dio unico è ciascuno di noi lo è allo stesso modo.

Solo l’Onnipotente che è anche l’Onniamante, può amarci contemporaneamente tutti e ciascuno nella sua unicità.

 

L’iniziativa è di Dio che non si stanca mai di rifare il primo passo. (Os 2,21).

 

No, da parte sua non ci sarà mai allontanamento o abbandono (Ger 31,31-40).

Questo è il motivo per cui ci dona ancora e sempre un nome nuovo.

E anche, se necessario, un cuore nuovo (Ez 18, 31; 36,26).

L’amore, quando è vero, continua sempre a crescere e a farsi più bello.

Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,

né la tua terra sarà più detta Devastata,

ma tu sarai chiamata Mio compiacimento

e la tua terra, Sposata,

perché il Signore si compiacerà di te

e la tua terra avrà uno sposo (62,4).

Come non sentir risuonare in noi, che siamo argilla animata dal soffio di Dio, questa parola di Colui che ci ha creati e ci vuole salvare a tutti i costi?

 

E il profeta Isaia, spinto dallo Spirito Santo (61,1.10),

conclude con uno dei più bei passaggi della Scrittura:

Sì, come un giovane sposa una vergine,

così ti sposerà il tuo architetto;

come gioisce lo sposo per la sposa,

così il tuo Dio gioirà per te (62,5).

 

Una confessione come questa da parte del Signore, certo non può lasciarci sordi e insensibili, se sappiamo comprenderla

(Is 50,4; Mt 13,14-17).

 

Ma si potrebbe anche dire che tutto questo è troppo bello per essere vero?


Il profeta avrebbe potuto esagerare preso dal suo lirismo mistico?


Anche se, in questo modo, non fa che ridire quello che tutta la Bibbia proclama.

 

Ascoltiamo dunque il Figlio di Dio , nel Vangelo di oggi (dal momento che abbiamo la grazia di sapere che egli è disceso fino a noi).

 

Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea (Gv 2,1).

Da subito risuona la stessa proclamazione d’amore.

Ma qui c’è di più che parole e opere.

C’è la presenza percepibile tra di noi del Testimone vivo della sua tenerezza (1Gv 1,1-3).

E noi assistiamo ad una vera manifestazione.

Questa è rivolta a tutti i popoli della terra

poichè esplicitamente si situa nella Galilea delle nazioni.

C’è la madre di Gesù, da lui chiamata chiaramente: Donna.

Poiché ella è testimone dell’attesa secolare di tutto il popolo;

e rappresentante dell’umanità tutta in cerca di un salvatore.

 

Proprio dicendo: Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora?

(Gv 2,4), Gesù ci orienta direttamente verso il termine ultimo della sua vita

quando ci darà la più bella prova del suo amore (Gv 15,13).

Scrive Sant’Agostino:”E’ come se Gesù dicesse a sua madre che il potere di fare questo miracolo non gli deriva da lei che non ha generato la sua divinità...Ma quando l’umanità debole che ella gli ha dato sarà inchiodata alla croce, allora la assocerà alla sua opera redentrice”:

 

Per l’ora noi udiamo e custodiamo la sua parola:

Fate quello che vi dirà (Gv 2,5).

Fare quello che dice! E’ la risposta di Maria all’Annunciazione;

Che avvenga secondo la tua parola! (Lc 1,38).

 

Troviamo qui sempre il segno dell’amore nuziale.

Infatti non è forse facendo coincidere l’azione con la parola che si condivide ciò che vi è di più autentico nell’amore?

 

Proprio questo è il significato dell’acqua cambiata in vino (Gv 2,8).

 

I matrimoni a quell’epoca potevano prolungarsi per sette giorni.

E’ dunque verosimile che le riserve potessero estinguersi!

Ma l’insistenza su questa mancanza di vino, menzionata ben tre volte,

si riferisce evidentemente a qualcosa di più.

Simbolo dell’amicizia, come il Siracide lo esprime (Si 9,10);

simbolo di pacifica prosperità come i profeti lo sottolineano (Os 14,8);

simbolo della gioia come viene cantato nei salmi (Sal 104,15);

e molto di più dell’amore come lo indica il Cantico dei Cantici (Ct 1,4; 4,10).

La mancanza di vino simboleggia un vuoto sconvolgente!

Noi tutti abbiamo una tale sete di amicizia, pace, gioia e amore!

E non saranno certo le abluzione rituali a dissetarci!

 

Ma oggi il Cristo è presente.

 

E’ entrato nella sala delle nozze.

Se può moltiplicare i pani nel deserto vuol dire che è molto di più del grande profeta che deve venire nel mondo (Gv 6,1-13).

 

Se oggi può cambiare l’acqua in vino con una tale abbondanza significa che egli supera il liberatore venuto per la gloria del suo popolo Israele (Lc 2,32).

 

E’ lo Sposo che vuole donarsi interamente a noi.

Consegnare il suo corpo per noi...versare il suo sangue per noi (Lc 22,19).

 

L’ora delle nozze intravista a Cana, il sesto giorno della settimana inaugurale,

suona in verità come il sesto giorno della settimana finale , sul Golgota.

Presso la croce di Gesù c’è una nuova coppia vergine,

rappresentata dalla Vergine Immacolata e dal discepolo amato.

Quel giorno il Cristo, nuovo Adamo, sposa veramente la sua Chiesa.

 

All’ora sesta di questa vigilia del Gran Sabbat, l’acqua e il sangue sgorgano dal suo fianco (Gv 19,34), per associarci a questa comunione d’amore.

L’acqua del nostro battesimo e il sangue delle nostre eucaristie.

Vivendo la sua morte umana per noi, Cristo ci rende partecipi della sua natura divina (2Pt 1,4).

 

Questo è il “mirabile scambio” cantato nei secoli dalla mistica cristiana.

Sposando fino in fondo la nostra povera condizione mortale (povera e triste come una festa di nozze senza vino), il Signore ci ha elevati fino alla condivisione della sua gloria.

 

Che trasformazione! Che nozze divine!

 

Non si può che concludere lodando Dio con l’apostolo Paolo, per la varietà infinita dei doni che ci ha fatto.

A ciascuno di noi, lo stesso Spirito ha elargito un dono particolare.

Lo stesso Signore ha affidato una funzione precisa.

Lo stesso Dio ha dato una attività propria.

Così ciascuno riceve il dono dello Spirito in vista del bene di tutti (1Co 12,4-11).

 

Per il Signore si tratta di un modo per manifestare il grande amore che ha per noi.

In ciascuna e ciascuno di noi vi sono, letteralmente, una perla e un tesoro.

Gesù stesso ce lo rivela nel Vangelo.

Noi siamo il campo di Dio e l’edificio di Dio (1Co 3,9).

E il Regno di Dio è presente dentro di noi (Lc 17,21).

 

Allora possiamo capire che egli voglia ripeterci, personalmente:

Tu sei prezioso ai miei occhi,

perché sei degno di stima e io ti amo (Is 43,4).

E come non capire anche che ci chieda in cambio:

Tu mi amerai con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze, con tutto il tuo spirito!

 

Dio vuole amarci con tutta la pienezza della sua vita e vuole amarci con tutta la pienezza del nostro essere.

Nella nostra anima che è immortale.

Nel nostro spirito che egli vuole illuminare con la sua luce.

 

Nel nostro cuore che vuole riempire della sua tenerezza.

Nel nostro corpo che vuole rendere glorioso.

Perchè il Signore è per il corpo e il corpo è per il Signore (1Co 6,13).

Dio ha una grande sete di noi!

Lo ha detto alla donna di Samaria, all’ora sesta (Gv 4,6).

L’ha gridato sulla croce, accanto a Maria, sempre all’ora sesta (19,28).

Ha sete di noi anche se egli è la fontana della vita e noi , solamente una piccola sorgente.

 

Fratelli e sorelle, non finiremo mai di stupirci dello splendore dell’amore nuziale che Dio ha per noi!

Lui che oggi ci ripete: Se tu conoscessi il dono di Dio e colui che ti dice: Dammi da bere (Gv 4,14),

piccola sorgente!


©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Festa del Battesimo del Signore C

 

Battesimo di Cristo, simboli e realtà

La geografia e la storia ci dicono dove ha avuto luogo l’evento;

i segni ed i simboli ci insegnano a capire perché il mistero ci è rivelato

affinché noi lo viviamo a nostra volta.

 

Che dire dell’evento stesso?

Nel profondo del deserto di Giuda, scorre il Giordano.

Alla sua sorgente, sgorgano le acque vive che scendono dalle pendici del monte Ermon.

Alla fine, le acque salmastre del mar morto, dormono per millenni.

I secoli attendono il Messia (Is 42, 1-7).

“L’anno quindicesimo del regno di Tiberio Cesare, la parola di Dio è indirizzata a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3, 1-2).

Allora, la voce del profeta sale e “grida nel deserto” (Mt 3, 3).

Subito , accorrono da ogni parte. La parola che converte, chiama al battesimo di conversione (Mt 3, 11).

Il figlio di Zaccaria diventa il Battista.

Ascoltano. Si convertono. Si interrogano. Gli chiedono: “Chi sei?”

“Io non sono il Cristo”.

“Sei tu Elia?- Non lo sono.

“Sei tu il profeta? No”.

Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi, c’è uno che non conoscete (Gv 1, 20.22.26).

 

“Allora appare Gesù”.

Dalla Galilea arriva al Giordano da Giovanni “per essere battezzato da lui” (Mt 3, 13).

Ed oggi il figlio di Elisabetta vede il figlio di Maria farsi avanti. Il frutto della vecchiaia sterile trova il frutto della tenerezza verginale (Lc 1, 44).

Faccia a faccia, il Galileo ed il Giudeo.

L’uomo di Nazareth ed il solitario del deserto.

Un momento di notevole grazia.

L’Antico Testamento vive i suoi ultimi momenti.

Sentiamo che qualcosa cambierà tra cielo e terra.

“Frema il mare e quanto contiene,

il mondo e i suoi abitanti.

I fiumi battano le mani,

esultino insieme la montagne

davanti al Signore che viene, che viene per salvare la terra” (Sal 98, 7-9).

Ai piedi di colui che dice “di non essere degno di sciogliere i suoi sandali” (Lc 3, 16), Gesù si è svestito.

Le acque si scostano, il cielo si squarcia, la terra trattiene il respiro.

“Ascolta cielo, voglio parlare, e la terra ascolterà ciò che dice la mia bocca.

Questo è il mio figlio diletto, in lui ho riposto tutto il mio amore (Dt 32, 1; Mt 3, 17).

Oggi, nel Giordano, è il battesimo di Cristo.

 

Sopra la valle di Enon, vicino a Salim (Gv 3, 1),

brilla la luce della Teofania trinitaria: il Padre parla. Lo Spirito discende. Lui è davvero l’unico Eletto!

“Si, ho visto e confermo che è lui il figlio di Dio” (Gv 1, 34).

Quindi, “fissando gli occhi” su colui che risale dalle acque e “se ne va verso il deserto, spinto dallo Spirito, per affrontare il diavolo” (Mt 4, 1),

Giovanni il Battista proclama il nuovo l’Annuncio.

La Buona Novella che milioni di voci ripercuoteranno per sempre nel mondo, alla fine di ogni Eucarestia: “Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1, 29.36).

Oggi, nella Chiesa, si festeggia il battesimo di Cristo.

 

Aldilà dell’evento, nel momento presente, cosa ci insegnano e quale mistero ci rivelano i segni ed i simboli, attraverso i quali questo mistero si è manifestato a noi?

 

La prima realtà simbolica è quella del Giordano.

Un fiume di vita, che finisce nel Mar Morto!

Come tutta un’umanità, creata per la vita, e che il peccato rinchiude nella morte (Rm 5, 12).

Nel cuore della terra promessa, in pieno deserto, la vita e la morte, Tiberiade e Sodoma,

aspettano il Messia.

Tra la vita e la morte, anche noi, speriamo nell’alba della salvezza!

 

Ed ecco che oggi la sorgente d’acqua viva,

intravista da Ezechiele

come zampillante dal lato destro del Tempio, verso l’Araba (47, 1.8),

scende verso il Giordano,

per santificarlo con la rigenerazione battesimale.

“Le acque ti videro, o Dio, ti videro e si ritrassero”, aveva profetizzato il salmista.

“Cos’hai tu mare per fuggire e tu Giordano per tornare indietro?

Voi montagne che saltellate come arieti e voi colline come agnelli di un gregge?

Trema, o terra, davanti al Signore

che muta la rupe in un lago

la roccia in sorgenti di acqua” (Sal 114, 3.5-8).

Come Giosuè, che per primo attraversò il Giordano,

alla testa del suo popolo, a Gilgal (Gs4, 19), e innalzò in memoriale dodici pietre in mezzo al fiume (4, 3),

così il nuovo Giosuè, Gesù di Nazareth, ritorna oggi verso il Giordano per introdurre nella terra promessa un nuovo popolo, presto seguito da dodici apostoli che saranno pietre vive della Chiesa nascente.

E noi lo siamo.

Come Elia, che colpì il Giordano col suo mantello per attraversarlo senza complicazioni, in compagnia del suo discepolo Eliseo (2Re 2, 8),

prima di essere portato in cielo su un carro di fuoco (Sir 48, 12),

così “colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che è in cielo” (Gv 3, 13),

oggi si immerge nelle acque, seguito da Giovanni il Battista.

E le nuvole si aprono al nuovo per dire a tutti che in verità

Elia “è tornato in questo giorno” (Mc 9, 13).

Il fiume che segnava il limite da non attraversare (Gs 22, 25),

lui, Gesù, lo attraverserà.

A tutti i paesi oltre il Giordano, la buona notizia dovrà essere annunciata (Gv 10, 40).

“Terra di Zabulon e terra di Neftali, paesi oltre il Giordano, Galilea delle Nazioni…

Su di te è sorta una luce” (Mt 4, 15-16).

“Andate dunque, fate discepoli di tutte le nazioni, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19).

 

Le acque possano a loro volta far esplodere il loro doppio simbolo: Cristo vi sprofonda, e con lui, seppellisce tutti i nostri peccati, poiché “erano i nostri peccati che portava, i nostri dolori con cui era appesantito” (Is 53, 4).

Poi risale (Mt 3, 18)

e l’acqua viva manifesta allora in Lui la sua presenza

come “una sorgente che zampilla per la vita eterna” (Gv 4, 14).

“Ciò che fu fatto anticamente, ai tempi di Noè, dal diluvio delle acque, dando la morte”, dice un padre della Chiesa,” si sta realizzando oggi, agli albori dei tempi nuovi, attraverso un diluvio di grazia che da la vita” [1].

Le acque che un tempo inghiottirono “il Faraone”, l’oppressore, “e tutto il suo esercito”, portano via oggi nelle loro onde tutta la miseria opprimente del mondo.

“Poiché eterno è il Suo amore!” (Sal 136, 15)

L’acqua uccide il male e ci immergiamo per essere purificati; ci dona la vita e noi risaliamo per essere vivificati.

Allora i cieli potranno aprirsi e la colomba apparirà sulla terra addormentata.

“Dormo ma il mio cuore veglia. Sento il mio amato venire”,

canta il Cantico dei Cantici.

“Aprimi, mia sorella, mia amica, mia colomba, mia perfetta.

Poiché la mia testa è coperta di rugiada

ed i miei riccioli di gocce notturne.

‘Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora?

Mi sono lavata i piedi; come sporcarli di nuovo?’ ” (Ct 6, 9; 5, 2-3).

La tunica che tu stesso hai tolto oggi, o Figlio di Dio, per il tuo battesimo nell’acqua,

altri un giorno se la contenderanno, o Figlio dell’uomo, per il tuo battesimo nelle acque della morte.

“C'è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12, 50)

Ma, a questo doppio prezzo, la terra sarà riscattata.

La colomba del diluvio ha riportato un ramo d’ulivo per annunciare la pace (Gen 8, 11)? Nell’orto degli ulivi, l’unto dello Spirito Santo (At 10, 38)

offrirà la sua vita per salvare la pace.

E questo Spirito sarà donato al Padre quando tutto sarà “compiuto” (Gv 19, 30).

Lo Spirito che aleggiava sulle acque nei giorni prima della creazione (Gen 1, 2),

aleggia nuovamente sulle acque del Giordano per questa nuova creazione.

E l’uomo, così rigenerato, trova dal Figlio del Padre

la dignità dei veri figli di Dio e noi lo siamo (1Gv 3, 1).

Il Padre allora a sua volta, fece sentire la sua voce.

“Voce del Signore sulle acque, voce del Signore sulle acque innumerevoli”, recita un salmo.

“Voce del Signore che scuote il deserto, che scuote il deserto” di Giuda (Sal 29, 3.8).

Dio, nessuno l’ha mai contemplato (1Gv 4, 12),

“nessuno ha mai visto il suo volto” (Gv 1, 18).

Ma, al tempo di Cristo, per tre volte, ha fatto echeggiare la sua voce:

in cima ad un’ alta montagna dove Gesù fu trasfigurato (Mt 17, 1-5);

in fondo alla bassa depressione del Giordano dove Gesù fu battezzato (Lc 3, 22);

e nel cuore di Gerusalemme, la città del gran Re, dove Gesù fu glorificato (Gv 12, 28).

Triplice simbolo:

Colui che è elevato nel più alto dei cieli,

è anche disceso fino al punto più basso della nostra terra.

Era il Primo, e per noi, si è fatto ultimo.

Così un giorno con Lui noi canteremo il Padre, nel cuore della Gerusalemme dall’alto,

“la città del gran Re”, che diventa così “libera” ed anche “nostra madre”.

*

Fratelli e sorelle, si Cristo ci rivela oggi nel Giordano, tutta l’ampiezza del suo mistero. Umiltà senza fine di Colui che viene a ricevere il battesimo che porta nel mondo.

Nudità senza vergogna di questo Nuovo Adamo,

che rende all’uomo la gioia del primo giardino.

Splendore senza limite di Cristo,

Luce sulla quale risplende la Gloria Trinitaria.

“Gesù di Nazareth, Dio l’ha consacrato di Spirito e l’ha riempito di potenza”, proclama l’apostolo Pietro (At 10, 37) .

Tutto ciò che l’Antico Testamento annunciava si realizza oggi.

Tutto quello che la Nuova Alleanza promette è prefigurato in questo giorno.

Ed è per questo che, a nostra volta, eredi di queste promesse noi siamo così direttamente interessati.

Perché è anche in noi che si prolunga questo mistero.

“Fratelli, non sapete che battezzati in Cristo Gesù,

è mediante la Sua morte che tutti noi siamo stati battezzati?

Così siamo stati sepolti con Lui, dal battesimo alla morte, così che, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, anche noi viviamo in una vita nuova” (Rm 6, 3-4).

“Ha aperto i cieli”, scrive Severo d’Antiochia, “per insegnarci che la nascita del nostro battesimo è celeste e che fa splendere i battezzati come delle stelle nel cielo” [2].

“E perché il cielo si apre quando Cristo è battezzato”, chiede San Giovanni Crisostomo, “se non per insegnarci che succede la stessa cosa invisibilmente, quando noi siamo battezzati?” [3]

“Non vergognarti Adamo, della tua nudità che ti fa scappare davanti al volto di Dio. E’ per te che sei nudo, che oggi io mi rendo nudo facendomi battezzare” fa dire a Cristo, Romano il Melode [4].

 

Si, questa è la buona notizia per tutti,

in questo giorno di festa: i cieli sono aperti a noi (Gv 1, 51),

e noi possiamo già “rinascere dall’alto” (Gv 3, 3).

Anche a noi è stato dato lo Spirito e possiamo camminare nella Sua luce.

Anche per noi la voce del Padre è risuonata ed ognuno di noi ora sa che in questo Figlio prediletto “Egli ha posto tutto il Suo amore” (Gv 4, 2).

 

Con il battesimo, la nostra anima è stata veramente rivestita di una veste di Gloria, quella stessa di Cristo.

“Amico mio, cos’hai fatto col tuo abito nuziale?” (Mt 22, 12).

L’abbiamo sbiadito? Che la Sua luce lo restauri in questo giorno!

L’abbiamo sporcato? Che la Sua grazia, lo lavi oggi!

L’abbiamo perso? Possa nel suo amore restituircelo oggi!

“Portate l’abito più bello e rivestitelo!” (Lc 15, 22).

 

“Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo, Alleluia” (Ga 3, 27).

 

 

1. Romano il Melode, Inno XVI, SC 110, p. 237.

2. Severo di Antiochia, Omelie Cattedrali.

3. San Giovanni Crisostomo, Omelia 12 su Mt 2,3.

4. Inno XVI, SC 110, p. 237.

 

© FMG traduzione da Sources Vives n° 119 pp. 93-101


 


 

 

Omelia di fr.Pierre-Marie Delfieux

I Domenica di Avvento - anno B
 

<<Vegliate e pregate in continuazione>>

 

Mc. 13,26-27/31-32

 

Un avvertimento e un’esortazione. Due imperativi: State all’erta. Vegliate!

È questo l’essenziale del messaggio di Cristo in questa I Domenica di Avvento (Mc. 13,33-37). Dietro questi due semplici richiami, ci viene però indicato dal Signore tutto un atteggiamento di autentica vita cristiana.

Gesù parte da un chiaro avvertimento: State attenti! E, subito dopo, sottolinea: Poiché non sapete quando sarà il momento (Mc. 13,33).

Eccoci quindi chiaramente avvertiti. Se tutti noi sappiamo della Sua venuta, nessuno però può sapere il giorno del Suo Ritorno. Allora due tentazioni ci attendono al varco: la prima vorrebbe portarci a stabilire, prevedere o addirittura annunciare ad ogni costo il giorno di questo Ritorno.

La seconda vorrebbe portarci a non attendere più nulla di nuovo, visto che non è ancora successo nulla, non succede nemmeno oggi e forse non succederà mai.

In tutti e due i casi il Maligno trionfa!

E allora, o si rimane immobili nell’attendismo impaziente e inquieto o si rimane nell’indifferenza.

 

Dopo averci così informati con tanta risolutezza di cosa non dobbiamo fare, il Signore può ora dirci che cosa dobbiamo vivere. Vigilate quindi!, propone a tutti e per tre volte (Mc. 13,31/35-37).

Come se, con questo comando ripetuto tre volte, il Maestro, prima di lasciarci, avesse voluto mettere tutto il peso della Sua autorità e del Suo amore per noi.

Perché allora questo appello a vegliare ripetuto con tanta insistenza?

E come tradurre nella nostra vita questa Sua esigenza, richiesta con tanta forza?

 

Il perché di ciò che Gesù traduce con l’imperativo Vegliate!, dipende da diverse ragioni: la prima dipende dal fatto che è Cristo stesso che ce lo chiede, e questo senza il minimo autoritarismo ma solo nella maniera più incalzante.

Raramente il Signore ripete così, tre volte, la stessa cosa! Se lo fa qui, oggi, con tanta insistenza, è perché conosce tutto il bene che possiamo ricavarne. Orecchio non ha sentito, dice il profeta Isaia, occhio non ha visto, che un Dio al di fuori di Te abbia fatto tanto per l’uomo che spera in Lui (Is. 64,3).

Allora se Dio che ci ama ci chiede questo, possiamo credergli, se ci esorta così è tutto per il bene della nostra vita e per la pace nella nostra anima.

Siamo sempre vincitori facendo ciò che l’amore di Cristo ci spinge a fare (2Co. 5,14).

Tutti possiamo farne esperienza nella nostra vita.

 

Un secondo motivo sta nel fatto che vegliare è una delle azioni più belle che sia dato vivere all’uomo.

Vegliare e pregare in ogni momento, come dice Gesù (Lc. 21,36), ci rianima nel più profondo del cuore.

La nostra anima ne è dilatata, il nostro spirito è illuminato e giubila, il nostro stesso corpo vi trova dinamismo e conforto. In quel momento ci è dato di condividere la gioia di Cristo (Gv. 15,11-17,13). Noi riconosciamo, con stupore, la presenza di Dio in mezzo a noi e in noi (Mt. 28,20; Gv. 14,23).

 

È altrettanto interessante notare che nei quattro momenti presi in considerazione per il Ritorno del Maestro tutti i punti citati da Gesù sono ambientati nella notte: la sera o a mezzanotte, al canto del gallo o al mattino. (Mc. 13,35) E la notte evoca, allo stesso tempo, le Potenze del Male e le Azioni del Maligno (Mt. 13,25-42) e le più belle opere di Dio: la Creazione (Gn. 1,1-3), l’Incarnazione (Lc. 2,8) e la Risurrezione (23,55-24,1).

Dobbiamo quindi vegliare per discernere l’azione del Signore nella nostra vita fino all’ultima notte, quella del Suo Ritorno (Mt. 24,43-25,6).

Voi fratelli, allora non siate tenebre, grida l’Apostolo, così che il giorno del Signore vi sorprenda come un ladro. Voi tutti siete figli della Luce, figli del giorno (1Tim. 5,1-2; 4-5).

 

Un altro motivo per vegliare, ci dice Gesù, è che questa venuta può arrivare all’improvviso.

C’è quindi una ragione in più per evitare di lasciarsi sorprendere, cioè per non affondare nel torpore, nell’indifferenza semi addormentata o nelle preoccupazioni del mondo (Mc. 4,19).

Come potrebbe un autentico figlio di Dio passare la vita senza pensare mai a suo Padre? Il buon servitore anela alla Sua venuta. Quello cattivo si rallegra della Sua assenza (Mt. 25,14-29).

Rallegriamoci allora se manteniamo l’anima all’erta. Ogni attimo che passa riflette l’eternità.

 

Del resto siamo predisposti per questo. Abbiamo ricevuto, insieme a tanti altri doni di Dio, tutte le ricchezza della Sua grazia, tutte quelle della parola e quelle della conoscenza, ci dice l’Apostolo Paolo (1Co. 1,5).

Possiamo perciò resistere, far fruttificare, per poco che riusciamo a rimanere attenti a Lui. Allora fatichiamo, costruiamo, camminiamo, diamo testimonianza del Signore!

E la nostra vita, tutta, è stimolata, rallegrata perché può vegliare con Cristo e per Lui in questo mondo dove ci ha messi come guardie nella notte.

 

Così illuminati, sulle ragioni di questa insistente chiamata di Cristo, a vegliare in ogni momento, possiamo ora capire meglio come possiamo farlo.

Cos è allora questo vegliare che Gesù ci invita a fare?

 

La veglia non consiste soltanto né per prima cosa in momenti precisi, nel corso della notte, da passare in ginocchio davanti al Signore, con la Bibbia aperta e una candela accesa: quando ci chiede di vegliare in continuazione Cristo ci invita, in un modo ancor più totale e coinvolgente, a uno stato di attenzione interiore.

Questa attrazione del cuore, questo risveglio dello spirito, questo sentimento dell’anima, che formano quella che si chiama vigilanza, come un mormorio interiore, tranquillo e solido che, a poco a poco, impregna tutto il nostro essere e lo riempie.

Lo riempie di fede nella Sua presenza, di speranza nella Sua venuta, di amore verso di Lui.

 

Allora vegliamo, per prima cosa, nella fede, semplicemente perché Dio c’è: nostro Padre e Redentore da sempre, come dice il profeta Isaia (Is. 63,16).

Padre nostro e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, come precisa l’Apostolo Paolo (1Co. 1,3).

È questo Salvatore che difende i nostri interessi, riscatta le nostre colpe, guida il nostro cammino. Si comporta con noi come una persona di famiglia, un protettore, un appoggio.

Possiamo quindi chiamarlo, parlargli, invocarlo.

Generazioni e generazioni di credenti hanno potuto verificarlo.

Un’infinità di testimonianze, se sappiamo capirle, sono qui per ricordarci questa bella verità.

 

Inoltre Colui che è ancora atteso è già venuto (Gv. 3,11) e si custodisce per sempre la memoria di questa prima venuta.

Fra quattro settimane festeggeremo Natale!

Il Vangelo è il richiamo vivete, sempre nuovo, di un inizio già avvenuto e che non finisce di rinnovarsi di anno in anno.

Un Avvenimento di ieri che si verifica ogni giorno.

Non una lettera morta da ascoltare, ma una chiamata gettata una volta per tutte a andare avanti risolutamente. Un invito incessante a trovare nell’oggi della nostra vita le tracce della Sua venuta precedente e della Sua presenza ancora attuale (Gv. 14,18).

Tutto è già stato salvato in Cristo, ma ci rimane da viverlo. Nulla ancora è stato deciso.

È allora necessario vegliare nella fede. Ogni Avvento ricorda a tutti noi di questo “si” da dire a Dio, in questo momento.

Per un cuore vigile, ogni attimo che passa è un incontro che viene offerto con l’Eterno.

 

Vegliare in continuazione può quindi farsi solo nella speranza.

Si crede perché il Signore c’è, si opera perché il Signore viene.

La speranza cristiana, tuttavia, non si basa su un sapere relativo al giorno e all’ora, la speranza che guida il cristiano a vigilare è una forza che lo spinge a impegnarsi.

Nonostante tanti sogni di questo mondo che si trasformano in illusioni e tante speranze nutrite che non hanno mai resistito, il credente vigila perché spera.

Spera di poter rendere questo mondo un po’ più attento, con lui, alla salvezza che Dio vuole offrirgli continuamente, un po’ più d’amore, di pace, di luce.

Vigilare nella speranza, sulle mura della città, ci porta a far vedere al mondo le certezze che nascono dai cieli nuovi e dalla terra nuova dove al di là delle nostre ingiustizie, la Giustizia di Dio abiterà (2Pt. 3,13).

È nella notte che è bello sperare nel sole del mattino!

 

È quindi chiaro, per concludere, che vegliare nella speranza e nella fede, a cui Gesù ci invita con tanta forza questa domenica, può essere vissuto solo grazie a un amore autentico.

Si veglia solo se si ama e nell’attesa di ciò che si ama. Altrimenti si tratta di inquietudine o insonnia.

Allora, di cosa si tratta?

Si tratta di Dio che è Padre di tenerezza (Gv. 16,27).

Si tratta del Figlio che è lo Sposo diletto (Mt. 25,1).

Lo Spirito e la Sposa, uniti nello stesso amore, ogni giorno, al Dio di tutti i tempi, dicono allora: Marana Tha! Vieni Signore Gesù! (Ap. 22,20).

Questa attesa appassionata non ha nulla della fuga in avanti. È l’avventura quotidiana della nostra vita verso l’infinito di Dio.

Una risposta di puro amore alla chiamata di Cristo che osa, Lui per primo, dirci umilmente, ascoltiamo bene: Vegliate con Me (Mt. 26,38).Non è forse Lui, Gesù Cristo, in definitiva, la grande Sentinella? Vieni, Signore Gesù! (Ap. 22,20).

Rinascendo così in mezzo a noi, Tu ci spingi a rinascere dall’alto e di nuovo (Gv. 3,7).

Per vivere finalmente, un giorno, accanto a Te per sempre.

 

©FMG tradotto da Evangeliques - Avent pp. 47-54

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

II Domenica di Avvento anno B

Is 40, 1-5.9-11; Sal 84; 2Pt 3, 8-14; Mc 1, 1-8

 

L’Avvento della salvezza già venuta e sempre attesa

 

La visione entusiasta del profeta Isaia che annuncia un mondo a venire perfettamente riconciliato in sè dove tutto si vivrebbe nella gioia della convivialità e della pace, non sarebbe forse troppo idilliaca per non dire utopistica?

 

Otto secoli dopo, in ogni modo,

ecco che un germoglio spuntato dalla radice di Jesse

viene annunciato nella persona di Gesù.

Come un virgulto germogliato dalle sue radici,

attendiamo un bambino chiamato Emmanuele

nel quale possiamo riconoscere il Salvatore del mondo (Gv 4, 42).

Su di lui scenderà lo Spirito del Signore,

con la pienezza dei suoi doni (Is 11, 1-3)...

 

Ma è nelle aride solitudini del deserto di Giuda

che la liturgia di questo giorno ci riporta per ascoltare il seguito!

Qui c’è una voce che grida nel deserto (Mc 1, 3b)

perché scendere nuovamente in queste profondità? (Sal 129,1)

 

Il deserto di Giuda!

E’ là che scorre, in fondo alla depressione del Giordano,

il fiume più basso del mondo.

Ed è lì che è sceso ed è cresciuto il figlio di Elisabetta e Zaccaria, per vivere nelle solitudini, da Gerusalemme, la città situata in cima ai monti.

Il suo nome è Giovanni. (Lc 1,60; Gv 1,6)

 

Questo figlio della discendente di Aronne

e del sacerdote preposto al servizio dell’altare, nel Tempio,

rimasto a lungo muto dopo la comparsa dell’angelo,

avrebbe forse definitivamente scelto di isolarsi e tacere?

 

Ma nulla attira gli uomini più di un autentico folle di Dio!

Questa lampada che brilla nella notte (Gv 5,35)

che se ne può vedere la luce

dai bastioni della città.

Allora, ci vien detto, Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la regione del Giordano

vengono a lui. (Mc 3,5)

E la voce del Precursore riprendendo testualmente quella del profeta,

sorge di nuovo dal deserto e grida:

Preparate le vie del Signore, spianate il suo cammino (Is 40,3; Mc 1,3b).

E aggiunge ancora:

Convertitevi, perchè il Regno dei cieli è molto vicino.

Ecco che viene dopo di me, Colui che è più forte di me (Mt 3, 2.6).

 

Ai piedi del Precursore, venuto come testimone,

per rendere testimonianza alla luce

senza essere, per questo, egli stesso la luce (Gv 1,8),

eccoli infine tutti radunati:

i sacerdoti che celebrano nel Tempio,

i leviti che prestano servizio all’altare,

gli scribi che interpretano le Scritture,

i dottori della Legge che cercano,

i farisei che vogliono vivere nella giustizia,

i sadducei che contestano, chini sulla tradizione,

i pubblicani, i soldati e una folla di gente,

tutti in attesa della salvezza annunciata.

 

Possiamo, a nostra volta, prendere posto

tra di loro!

Giovanni Battista non è sempre là ad indicarci Cristo?

Ed ecco che la voce di colui che ha visto lo Spirito come una colomba

discendere dal cielo e dimorare su di lui (Gv 1,32),

risale fino a noi.

Allora anche noi, aprendo gli occhi del nostro cuore,

liberando la via della nostra anima da tutto ciò che la ingombra,

al di là delle nostre paure, dei nostri dubbi, delle nostre mediocrità,

guarderemo verso questo cielo aperto.

E, illuminati dalla luce della nostra fede, possiamo ripetere come Giovanni

che noi crediamo che lui è il Figlio di Dio,

Il Redentore dell’uomo (Gv 1,34; Is 63,16).

 

Ma, guardando il mondo com’è e come vanno le nostre vite,

possiamo dire che la salvezza è arrivata?

 

Sì, noi siamo salvati, come ci ricorda così bene,

Papa Benedetto XVI, citando San Paolo, nella sua enciclica;

ma lo siamo nella speranza1

Isaia non si è ingannato nell’annunciare la venuta

dell’ Emmanuele, Consigliere Mirabile, Dio Forte,

Padre Eterno, Principe della pace (7, 14; 9,5).

Certamente il lupo e l’agnello, il vitello e il leoncello,

la vacca e l’orsa, il bambino e il cobra

non hanno ancora ritrovato la convivialità della prima creazione!

Pure l’uomo, come non possiamo far altro che constatarlo,

rimane ancora spesso “un lupo per l’uomo”.2

E da ogni parte infuria sempre “la lotta per la vita”

o contro la vita.

 

Ma la salvezza è in cammino (Eb 5,9)!

E la sua marcia non si fermerà.

Cristo ne ha posto le fondamenta (1Cor 3,11). Noi sopra possiamo costruire!

Il Messia annunciato è venuto.

Abbiamo le sue parole di vita eterna (Gv 6,68).

In verità, attendiamo cieli nuovi e una terra nuova, secondo la sua promessa,

dove regni la giustizia (2 Pt 3,13).

Nella sua luce, possiamo camminare nella luce (Gv 12,35-36).

Ci ha resi tutti alla fraternità universale,

rivelandoci che Dio, suo Padre, è veramente nostro Padre;

e che in lui, con lui e per mezzo di lui, siamo realmente tutti fratelli (Mt 23,8).

L’ascolto della sua Parola ci conduce alla verità.

E l’accoglienza di questa verità ci apre alla vera libertà (Gv 8,22).

 

In Gesù Cristo il peccato è già perdonato

e la morte, in lui, è stata vinta, una volta per tutte (Rm 6,10; Eb 7,27)

Eccoci rinnovati dalla sua grazia redentrice,

e tutti promessi alla condivisione della sua gloria eterna.

Eccoci battezzati, non solo con l’acqua,

ma anche con lo Spirito Santo e il Fuoco (Mt 3,8; Lc 3,16)

Ad ogni Eucaristia, che è il memoriale della nostra salvezza,

la Chiesa ci indica Cristo Gesù, proclamando:

Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.

E il Signore in persona viene a stabilire la sua dimora nei nostri cuori.

 

Ma il male è ancora lì!

Paolo lo riconosce, rimaniamo tormentati, lacerati dal male che non vogliamo,

ma che comunque commettiamo,

e il bene che desideriamo, ma non riusciamo a compiere. (Rm 7, 14s)

Pur salvato, il mondo resta ferito e l’uomo mortificato.

Mille tentazioni ci assalgono e attanagliano le nostre vite.

La fede è una lotta. La carità richiede uno sforzo ad ogni momento.

Speriamo in ciò che non vediamo

e tutti dobbiamo progredire assumendo la prova

di un Dio che non sentiamo, né vediamo ancora…

 

Tutto questo è pure vero.

Ma l’ultima parola - e questo è il cuore del messaggio dell’Avvento-

appartiene sempre alla speranza.

L’apostolo Pietro ci aiuta a comprendere questo, scrivendoci oggi:

Il Signore non tarderà l’adempimento di ciò che ha promesso, come alcuni lo accusano di ritardo.

Ma egli usa pazienza verso di noi, affinchè nessuno perisca, ma tutti giungano al pentimento (2Pt 3,9).

 

Allora non siamo ridotti a credere

solo nella notte della fede. No, essa illumina le nostre anime!

O sperare contro ogni speranza! E’ la forza dei nostri cuori.

Con la grazia del cielo, possiamo amare Dio con tutto il nostro cuore,

con tutta la nostra anima, con tutta la nostra forza e con tutto il nostro spirito

e il nostro prossimo come noi stessi (Lc 10,27).

Noi possiamo compiere nel migliore dei modi il nostro dovere di stato

lavorando onestamente e camminando con giustizia (Mi 6,8).

Ma San Giovanni Battista, oggi, ci invita ad andare oltre e a fare di più.

Convertitevi, ci grida,

perché il Regno dei cieli è vicinissimo!

E questo non dalle profondità del Giordano, ma dal cielo

dove è entrato nella gloria.

Preparate le vie del Signore, appianate i suoi sentieri (Mt 3,1-3).

 

Questo è l’Avvento.

Il Signore si aspetta che noi collaboriamo attivamente alla sua opera di salvezza.

Il Salvatore è venuto. Ma noi dobbiamo ancora accoglierlo nel profondo dei nostri cuori.

E rivelare la sua Presenza a coloro che ne sono all’oscuro, ripetendo:

In mezzo a voi, sta Qualcuno che voi non conoscete! (Gv 1,26)

 

Sì, questo è l’Avvento!

Convertirci ancora a sempre a vivere secondo il Vangelo

diventando così messaggeri di questo stesso Vangelo.

Che passo avanti farebbe il mondo se tutti i cristiani del mondo, ad ogni Avvento si svegliassero, come ci è stato chiesto dal Dio Salvatore in persona,

per crescere nella preghiera, nella giustizia e nell’amore, la rettitudine di vita, la gioia condivisa e la pace vissuta nel profondo del cuore!

 

Come sarebbe bello che questo tempo di grazie,

possa avvicinare, nella comune attesa della stessa salvezza,

tutti gli uomini di buona volontà (Lc 2,14).

 

Il pensatore ebreo Edmond Fleg,

pensando al primo Israele, sempre in attesa del Messia

e alla Chiesa di Dio, che spera sempre nel ritorno del Messia,

ebbe a dire in un modo meraviglioso:

E ora, entrambi siete in attesa,

tu, l’ebreo, che venga e tu, il cristiano, che ritorni.

Ma gli chiedete la stessa pace.

E sia che venga, sia che ritorni, tendete la lui le vostre mani

nello stesso amore.

Che importa, allora? Sia da una riva che dall’altra

fate in modo che venga! Fate in modo che venga!”

 

Maranatha, oh sì, vieni, Signore Gesù.


©FMG tradotto da Evangeliques - Avent pp. 81-88

 

1 Rm 8,24; Benedetto XVI, Spe salvi facti sumus

2 Secondo le espressioni comuni: Homo homini lupus (Hobbes) e struggle for life.

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

IV Dom. Avvento anno B

 

Per nascere in noi come in Maria

 

Come è possibile? Non conosco uomo? (Lc 1, 34)

 

A volte facciamo fatica ad ammettere

la profondità di questo mistero.

E questo non tanto per un rifiuto a credere

alla concezione verginale di Gesù.

Anche l’Islam lo crede.

 

Tutte le domeniche, infatti, proclamiamo

nel nostro credo, senza troppe esitazioni:

si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo.

Ma vorremmo, come lei, “comprendere” bene,

non tanto il come

(poichè tutto è possibile al Creatore di tutto ciò che vive) ma il perché

ciò è dovuto avvenire?

 

Nel fatto stesso dell’Incarnazione del Verbo

c’è qualcosa di così semplice e di così grande,

tanto eccezionale, quanto familiare

che noi ci sentiamo, nello stesso tempo, coinvolti e superati.

Tentati a credere senza comprendere;

o a non cercare di credere, nel timore di comprendere

e quindi di dovere convertire la nostra vita.

La venuta dell’Eterno tra gli uomini è contemporaneamente

così lontana e così vicina a noi!

 

A pochi giorni dalla notte di Natale in cui tutta la cristianità

resterà sveglia

per celebrare la Natività del Salvatore in mezzo agli uomini,

noi siamo invitati ad interrogarci:

E se si celasse una vera meraviglia nel vivere e non solo nel contemplare

il mistero che oggi viene manifestato (Rm 16,26)?

Un mistero di cui ancora oggi il Vangelo ci rivela il segreto.

Per meglio coglierlo nei nostri cuori,

contempliamolo prima nel seno della Vergine Immacolata.

 

L’angelo Gabriele fu mandato da Dio

ad una vergine. La vergine si chiamava Maria (Lc 1,26).

Tutto comincia chiaramente da un’iniziativa divina.

Ancora una volta dobbiamo cercare le luce delle cose della terra

a partire da Colui che ci dice le cose del cielo (Gv 3, 12).

 

Era necessario, quindi, che ritornassimo verso di Lui!

A causa dei nostri peccati, restavamo lontani dalla Casa del Padre:

poveri, prigionieri, ciechi e oppressi, come dice il profeta Isaia (61, 1).

Il Signore avrebbe potuto salvarci dal cielo

e solamente con la grazia della sua Onnipotenza.

Ma questo non era abbastanza per Dio amico degli uomini.

 

Allora, nella sua follia d’amore per noi

(perché bisogna essere pazzi d’amore, essendo Dio,

per abbassarsi per essere in tutto simile agli uomini),

ha scelto, deliberatamente,

di raggiungerci fino al nostro fondo (Fil 2, 6-8).


Ma dove trovare una terra abbastanza verginale

perchè in essa germogli il Dio venuto dal cielo?

Un’anima abbastanza pura per accogliere in lei

il Signore tre volte santo?

Una donna sufficientemente immacolata

per dare al mondo il Salvatore Innocente?

 

A ben riflettere, non poteva nascere da un padre carnale,

colui che da sempre era già il Figlio del Dio Eterno.

Ma non poteva divenire in tutto simile a noi (Eb 2, 17)

senza nascere come noi, dalla carne della nostra umanità (Rm 8, 3).

 

Per questo dunque, prima fu concepita Maria

purissima e piena di grazia (Lc 1, 28).

La prima riscattata, ancor prima di nascere

dal Salvatore che avrebbe dovuto dare alla luce.

Eletta in lui, prima della creazione del mondo,

per essere santa e immacolata alla sua presenza nell’amore (Ef 1, 4).

 

Al: Che sia la luce! Del primo giorno del mondo,

lei ha risposto il: che si compia in me secondo la tua parola,

alla pienezza dei tempi (Lc 1, 36; Ga 4,4).

Al mondo non si era mai visto qualcosa di simile:

un bambino che sceglie sua madre

e una madre che plasma un corpo al suo Dio per ordine celeste!

Per pura grazia e onnipotenza di Dio.

 

Un Figlio che rende sua madre conforme al suo desiderio (Ct 8,4)

e una creatura che dà un corpo

al Creatore di tutto ciò che vive!

Ma nulla è impossibile a Dio (Lc 1, 37)

(tranne costringere l’uomo ad amarlo).

Soprattutto la risposta all’Onnipotenza del suo Amore

è ricambiata da puro amore.

 

Allora, nella sua libertà sovrana, il Dio eterno

ha voluto farsi per noi bambino.

Per cui, il Consigliere Ammirabile, Dio Forte, Padre Eterno,

questo bambino che ci è stato dato,

si è fatto per noi, come annunciato dal profeta,

misteriosamente, ma quanto realmente il Principe della Pace (Is 9, 5).

 

Eccola dunque sotto i nostri occhi,

la donna che deve partorire colui le cui origini

sono dall’antichità, dai giorni più remoti (Mi 5, 1-2).

La Vergine Madre, riconosciuta oggi

perchè menzionata già negli scritti dei profeti

e portatrice per noi, come dice l’Apostolo Paolo,

di un mistero ora rivelato,

da sempre rimasto nel silenzio

ma oggi manifestato…

e portato a conoscenza delle nazioni di cui noi facciamo parte. (Rm 16, 25-26)

 

Ecco colei alla quale l’angelo le rivolge, per la prima volta,

quello che noi le ripeteremo tutti all’infinito:

Rallegrati, Maria! (Lc 1, 27).

Eccomi, sono la serva del Signore.

La Vergine di Nazaret la cui casa è scavata nella roccia1,

a cui l’Amato del Cantico ridice:

Alzati, amica mia, mia bella e vieni!

O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia,

nei nascondigli dei dirupi,

mostrami il tuo volto,

fammi sentire la tua voce,

poichè la tua voce è soave e il tuo volto leggiadro. (Ct 2, 14)

 

Vuota di sè e piena di Colui che è tutto (Ef 1, 23),

ella è tutto quello che si può essere davanti a Dio:

una figlia, davanti al Padre, totalmente di suo Padre;

una sposa, alla presenza dello Spirito, totalmente dello Spirito Santo;

una madre, accanto al Figlio, totalmente di suo Figlio.

Un essere ricolmo d’amore

a disposizione di Dio che è amore.

E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi;

e noi vedemmo la sua gloria,

gloria come di unigenito del Padre,

pieno di grazia e di verità.

*

A dire il vero, anche noi abbiamo ricevuto dalla sua pienezza grazia su grazia (Gv 1,16).

Questo è il secondo aspetto di questo mistero.

 

Cristo vuole anche dimorare in mezzo a noi (1, 14)

fino ad abitare in ciascuno di noi (6, 56).

Come dice Sant’Ireneo di Lione in una bella formula:

Il Verbo di Dio si è fatto Figlio dell’uomo

perchè l’uomo si abitui ad essere abitato da Dio

e per abituare Dio ad abitare nell’uomo”2

Quello che la Vergine Maria un giorno ha vissuto

dicendo con tutta la sua fede un sì senza ripensamenti,

possiamo viverlo anche noi ridicendo lo stesso fiat

alla parola vivente e vivificante di Dio.

 

Possiamo diventare, come lei, madre di Cristo!

Gesù stesso che lo ha detto:

Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio

e la mettono in pratica (Lc 8, 21).

Custodendo la sua Parola, noi la portiamo in noi;

ora, questa Parola è Cristo in persona.

Facendola portare frutto in noi, diamo corpo a Cristo (1Gv 5, 12-13).

Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli

costui è per me fratello, sorella e madre (Mt 12, 50).

Sposare la volontà del Padre per puro amore, non porta forse

a diventare per Lui, come una madre per suo figlio?

Non è stato Davide a fare una casa a Dio,

ma Dio ha fatto una casa a Davide ( 1Sam 7, 1....16).

 

Che Annunciazione per noi oggi!

Sta venendo verso di noi Colui che vuole vivere in noi.

Sta scendendo per noi Colui che vuole crescere in noi.

Se tu conoscessi il dono di Dio (Gv 4, 10).

Ora sappiamo che è Dio stesso!

Come potremmo ormai dimenticarlo?

 

E’ il tempo di preparare il nostro cuore

a diventare il presepio del Signore.

Il Natale del primo giorno ha senso solamente se si prolunga

in noi lungo i giorni.

Ora, Dio è veramente più intimo a noi che noi stessi.

Che annuncio fatto ai nostri cuori in questo annuncio fatto a Maria!

 

Basterebbe volere che si compia in noi secondo la sua Parola!

Allora conosceremmo la gioia di contenere nel nostro cuore

Colui che l’universo non può contenere”.


©FMG tradotto da Evangeliques - Avent pp. 145-151

 

1 Come testimoniano le ultime scoperte archeologiche di Nazaret.

2 Sant’Ireneo di Lione, Adversus Haereses I.

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

18 dicembre - Ultime ferie di Avvento

 

L'annuncio a Giuseppe

 

L'annunciazione a Giuseppe

che la liturgia ci presenta oggi

ci fa avanzare nella luce del mistero di Cristo.

Ci aiuta così a contemplare,

a pochi passi dalla sua nascita a Betlemme,

la figura di colui che fu suo padre legale,

tramite il quale Gesù divenne veramente

il discendente della stirpe di Davide.

 

Ma non è questo titolo di appartenenza alla tribù di Giuda

che fa di Giuseppe di Betlemme

il giusto, il saggio, il santo che la Chiesa si compiace di onorare.

La santità di Giuseppe è grande.

E' basata su un doppio dramma

che ha, al contempo, duramente straziato il suo cuore

e messo profondamente alla prova la sua fede.

 

Dramma nel suo cuore innanzitutto.

Il giovane Giuseppe ha 18-20 anni.

La giovane Myriam ne ha 15-17.

Giuseppe e Maria! Si amano.

Da qualche tempo, ella gli è promessa.

Lei gli è, come si dice, accordata in matrimonio.

Sono fidanzati.

Giuseppe non può dimenticare la gioia provata nel suo cuore

il giorno in cui questa figlia della luce giovane, chiara, verginale

- in fondo al suo cuore, lui che la vede

in tutta la luminosità del suo amore nascente

si compiace di dire: immacolata!-,

non può dimenticare il giorno in cui Maria gli ha detto sì.

 

Ma ecco che l'impossibile è accaduto!

Non sa ancora come ella ha potuto dirglielo;

ma in ogni caso è proprio quello

che ha finito per confidargli:

ella è incinta. Maria è incinta!

Solo coloro che sono passati per la sofferenza

che può causare lo strazio di un amore spezzato

- e tanto più crudelmente in quanto tutto lo diceva indistruttibile-,

possono comprendere il dramma che ha potuto vivere allora

quel figlio di Giuda, nella solitudine dei suoi 20 anni.

Per quanto ci rifletta e ci ragioni,

per quanto ammetta o cerchi di rifiutare il fatto,

taccia, pianga, gridi,

il fatto è lì: Maria è incinta.

E dunque ella lo ha ingannato!

 

Ma il dramma di questo cuore straziato non si ferma lì.

La legge del Levitico che lui deve seguire

lo obbliga a denunciarla.

Come infatti non ripudiarla? Bisogna ripudiarla!

Giorni di angoscia, notti di insonnia,

marce solitarie, folli, interminabili,

attraverso le colline aride della Giudea,

le valli boscose della Galilea.

Il Deuteronomio è chiaro su ciò che bisognerebbe fare:

se ella viene denunciata, sarà lapidata (22,24).

Giuseppe ha consultato gli scribi. I testi sono inequivocabili:

se una promessa sposa ha ingannato il suo fidanzato,

la si farà uscire sulla porta della casa di suo padre

e i suoi concittadini la lapideranno

finchè sopraggiunga la morte.... e la Torah conclude:

Così farai sparire il male da dentro di te (Dt 22,20-21).

 

Sì, dramma nel suo cuore che adesso lo strazia

tra ciò che gli detta la legge e ciò che un amore

più forte della morte non riesce a soffocare in lui!

E sono di nuovo ore, giorni e notti....

E' la notte! La notte in cui Giuseppe cerca disperatamente

nei salmi di consolazione

e nelle esortazioni dei profeti di Israele

come uscire da quella “impasse”,

come sopravvivere ad una simile lacerazione.....

E a poco a poco, questo giovane uomo, questo giusto,

Giuseppe che è un uomo giusto,ci dice San Matteo,

non volendo denunciarla pubblicamente,

decise di ripudiarla in segreto (1,19).

 

E' allora che le insonnie di Giuseppe,

come nella vita del suo lontano avo,

il figlio di Giacobbe di cui porta il nome,

cedono il posto al sogno.

L'uomo dal cuore straziato si apre alla luce di Dio

se lascia il suo cuore orientato alla giustizia e alla misericordia.

E nella notte, ecco che appare una luce nuova.

E' come se un angelo gli avesse parlato!

E in verità un angelo di Dio gli ha parlato:

Giuseppe, figlio di Davide,

non temere di prendere con te Maria, tua promessa sposa;

il bambino concepito in lei viene dallo Spirito Santo (1,20).

Dalla Ruah Adonai!

 

E al dramma del suo cuore, travagliato dalla prova,

fa seguito allora il dramma della sua anima, straziata nella sua fede.

Se l'angelo dicesse il vero?

Se anche Maria che glielo aveva detto in quei termini, dicesse il vero?

Quando lei gli parlò, come sembrava sincera!

Sì, nello sguardo di Myriam mentre gli raccontava tutto ciò,

che luce stupefacente,

nella sua voce, che accento di verità!

Come non riconoscerlo?

 

Allora Giuseppe si mette a pregare. Va alla sinagoga,

riparte sui sentieri,

prolunga le sue serate in lunghe meditazioni,

riflette, si prostra, scruta le Scritture, grida al cielo.

Ascolta, Signore, il mio grido di richiamo, pietà, rispondimi!

Insegnami, Signore, la tua via,

guidami sul diritto cammino (Ps 27,7.11).

Un salmo gli ritorna alla memoria:

Il Signore l'ha giurato a Davide,

verità che non ritratterà,

è il frutto uscito dalle sue visceri

che metterò sul trono fatto per te (Ps 132,11)

 

Ma non è, lui, il discendente di quel Davide?

Ritorna al salmo che continua così:

I suoi giusti, li colmerò di benedizioni,

i suoi poveri, li sazierò di pane (Ps 132,15).

Il Dio della manna non è capace

di far nascere un pane vivente?

Cosa sa dopo tutto lui, il falegname?

La vecchia Sarah ha avuto torto a ridere,

poiché niente è impossibile a Dio (Gn 18,13-14)

E questo, oggi, è Maria che lo ridice!

 

E il salmo continua:

Affermerò la stirpe di Davide,

appronterò una lampada per il mio Cristo.

Una lampada? Una lampada per il Messia?

E quel figlio della vecchiaia,

quel figlio della sterile d'Ain Karim, incapace di generare,

quel figlio della cugina di Maria, quel figlio impossibile di Elisabetta:

non è forse al suo sesto mese?

Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe,

Dio di Anna e di Manoah, abbi pietà di me!

Un testo di Isaia sale al cuore di Giuseppe:

Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio

al quale darà il nome di Emmanuel (Is 7,14).

Un passaggio di Geremia gli torna alla memoria:

Ecco venire i giorni quando susciterò a Davide

un germe di giustizia!

E se la promessa attesa da secoli

si compisse in questo giorno?

Se il Salvatore fosse il figlio di Maria?

Sarebbe venuto il giorno, annunciato dal profeta Michea,

nel quale deve partorire quella che deve partorire (Mi 5,2)?

 

Ma come credere che il Messia, sia il bambino

di quella che ha visto giocare, crescere, pregare,

nelle viuzze di Nazareth in Galilea?

Come credere che l'Altissimo, Adonai,

abbia scelto quella che per lui era Maria?

Che il Dio dell'eternità abbia scelto questi tempi

per inviare al mondo il Salvatore promesso?

E che il Messia, Figlio di Davide,

venga oggi per tramite suo?

 

Quando Giuseppe ebbe superato il dramma

del suo cuore straziato e della sua fede provata,

allora si aprì alla luce della pace.

E anche lui,come Maria, fece ciò che Dio si aspettava da lui.

Quando Giuseppe si svegliò, ci dice San Matteo,

fece ciò che l'angelo del Signore gli aveva detto

e prese con sé la sua sposa (1,24)

E Gesù potè avere un padre secondo la legge,

un padre legale che gli da un'ascendenza,

un giusto tramite il quale lui divenne,

il figlio della Vergine Maria, concepito dallo Spirito Santo,

il vero discendente di Davide, come stava scritto.

 

San Giuseppe, concedi anche a noi di credere e di amare.

Di credere in Gesù e di amare il Cristo.

Di credere e di amare Gesù-Cristo.

Sì, vieni,Gesù, figlio di Giuseppe, figlio di Davide,

Figlio di Dio nato dalla Vergine Maria!

 

©FMG traduzione da Sources Vives n°136 pp. 80-85

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

19 dicembre - Ultime ferie di Avvento


 

L'annuncio a Zaccaria


 

Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni... Camminerà innanzi al Signore, per ricondurre i cuori padri verso i figli” (Lc 1, 13. 17).

Ricondurre i cuori dei padri verso i loro figli...

Che espressione sconcertante, se ci riflettiamo!

Ma quanto è ricca di insegnamenti

se la meditiamo alla luce della Storia sacra!

 

Da un certo punto di vista, si può dire

che la Storia sacra è una storia di figli.

E' una storia di nascite miracolose, che a forza di accadere,

di succedersi, di sommarsi le une alle altre,

assumono il colore della prefigurazione e della profezia.

Miracolosa nascita di Isacco, di cui Abramo fu il padre.

Inattesa nascita di Giuseppe, di cui Giacobbe fu l'origine.

E tutta una serie di donne sterili,

ma oggetto della misericordia divina,

come Sara e Rachele, Anna e la moglie di Manoah,

si apprestano a dare alla luce,

la prima un patriarca, un'altra un giudice, un'altra un profeta.

 

Un secondo motivo di stupore:

Viene messo al primo posto il figlio cadetto,

a scapito, il più delle volte, del primogenito.

Così Isacco prende il posto di Ismaele,

Giacobbe passa avanti ad Esaù,

Efraim viene benedetto prima di Manasse.

E Salomone, nato per secondo, diventa il primo...

Come non guardare alla nascita di tutti questi figli

per cercare di decifrare il disegno di Dio

celato nel cuore di questo lungo cammino della storia della salvezza?


Ed ecco che oggi tutto converge in qualche modo

sulla nascita di colui la cui apparizione sulla terra

è come il punto culminante

di tutta quell'attesa durata secoli.

Ecco, ora siamo nel cuore stesso della Città santa,

nel punto più centrale, vitale e sacro del Tempio

alla destra dell'altare dei profumi, nel Santo dei Santi.

 

Elisabetta e Zaccaria sono portatori,

a causa della loro ascendenza sacerdotale e per la santità stessa della loro vita,

di ogni grazia dei giusti e dei sacerdoti.

Ma nella loro condizione di vecchiaia e per la loro preghiera,

essi rappresentano come l'ultimo anello

di tutta una lunga catena di speranza secolare.

E l'angelo del Signore ha appena annunciato ad essi,

ancora una volta, la nascita di un figlio.

Ma di un figlio che sarà totalmente rivolto

alla Natività di un altro piccolo bambino,

del quale apprendiamo che sarà il Signore in persona

e rispetto al quale Giovanni sarà il precursore.

 

Dunque, che cosa ci insegna questo racconto?

Innanzitutto, che Dio mantiene le sue promesse.

Di grazia in grazia – poiché tutto è grazia -

il Signore conduce il suo popolo sui sentieri della pace.

E colui del quale oggi ci viene annunciata la nascita

porta giustamente il nome del tutto nuovo di Giovanni,

che significa eloquentemente che Dio ce l'ha voluto donare per grazia.

Ogni filiazione è una benedizione

perché essenzialmente è un dono.

La vita non viene data dall'uomo,

ma soltanto trasmessa.

E, per ricordare questa verità agli uomini,

Dio si compiace di gratificarli così,

permettendo, anche alla sterilità, di conoscere,

per grazia del tutto speciale, una vera e autentica fecondità.

 

Così fin da ora impariamo

ciò che ben presto ci sarà pienamente rivelato:

che dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto,

e grazia su grazia (Gv 1,16).

Colui che, ieri, ha donato Isacco ad Abramo e Sara,

Giuseppe a Rachele e Giacobbe,

Samuele ad Anna, Sansone alla moglie di Manoah,

lo stesso Signore oggi dona

un figlio ad Elisabetta e a Zaccaria

e, al mondo intero, un precursore per il suo Messia.

 

L'altra grande lezione del racconto della nascita di Giovanni Battista

consiste nel ricordarci che egli nasce effettivamente

per ricondurre il cuore dei padri verso i figli.

Non dei figli verso i padri, come ci si potrebbe aspettare,

in segno di venerazione o di riconoscenza:

ma dei padri verso i loro figli, come invito alla contemplazione.

Sì, è questa la vera direzione della nostra speranza nuova!

Quello che già , in due occasioni ,

la sacra Scrittura ci aveva detto,

nel Siracide (48, 10-11) e in Malachia (3, 24)

- e che , nella nostra Bibbia cristiana, ci viene detto

nell'ultimo versetto del Primo Testamento -,

l'evangelista Luca ce lo ripete oggi.

Quindi, al di là di tutte queste figure

di figli delle promesse divine,

è verso il Figlio unico della promessa infine compiuta,

che dobbiamo ormai orientare il nostro sguardo e il nostro cuore.

La manifestazione di Dio che instaura la sua salvezza tra gli uomini

dev'essere cercata da ora in poi sul viso di un piccolo bambino,

di cui quest'altro piccolo bambino,in quanto profeta dell'Altissimo,

Giovanni Battista, viene ad annunciare la venuta.

Di Colui che è il sole che sorge …

che dirige i nostri passi sulla via della pace (Lc 1, 78-79).

Dopo le sei nascite prodigiose

che il Primo Testamento ci ha raccontato,

generate da tutte quelle donne sterili

che Dio ha accolto nella sua misericordia,

ecco che ne viene annunciata la settima

nella persona del Figlio della Vergine Immacolata.


Infine, l' ultimo messaggio del Vangelo di questo giorno:

ecco, Zaccaria è muto

ed Elisabetta conserva in sé ogni cosa in gran segreto.

In questo momento, tutto tace. La terra trattiene il respiro.

I profeti non hanno più parole da annunciare. I sacerdoti non hanno nulla da insegnare.

Né le donne sterili hanno canti da fare.

Bisogna alzare gli occhi ancora più in alto

dell'altare del tempio dal quale sale l'incenso.

Oh Sapienza uscita dalla bocca dell'Altissimo... (liturgia)

Mentre un silenzio profondo avvolgeva tutte le cose,

e la notte era a metà del suo corso,

la tua parola onnipotente dal cielo,

dal tuo trono regale …si lanciò (Sap, 18, 14-15).

Insieme ad Elisabetta, come Maria ci ha insegnato,

meditiamo innanzitutto ogni cosa nel nostro cuore.

Insieme a Zaccaria, come Giuseppe ci ha dato l'esempio,

conserviamo nel silenzio della nostra intimità

il mistero da contemplare.

 

Dio mantiene sempre le proprie promesse.

Un Figlio totalmente nuovo sta per esserci donato.

Tutti i cuori dei padri si volgono già verso di lui.

Non lasciamo sfuggire, nemmeno noi,

la Natività di Colui che viene,

il cui nome già rivelato a Giuseppe

è, né più né meno, che l'Emmanuele.

 

©FMG traduzione da Sources Vives n°136 pp. 91-95

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

20 dicembre - Ultime ferie di Avvento

L'Annuncio a Maria

Chi è colei che un angelo del cielo

è venuto a salutare sulla terra degli uomini?

Chi è colei che l'inviato di Dio

definisce piena di grazia

portandole la promessa di diventare madre di un bambino grande e santo?

Chi è questa figlia di Israele su cui oggi discende

la potenza dell'Altissimo e la forza dello Spirito Santo,

come mai era stato concesso

ai grandi sacerdoti, ai profeti e ai re?

*

Questa Vergine che il cielo saluta con gli angeli e i santi,

che la Chiesa della terra canta e prega in questo giorno,

è Maria.

Una fanciulla, davanti al Padre, tutta del Padre.

Una sposa, davanti allo Spirito, tutta dello Spirito.

Una madre, davanti al Figlio, tutta del Figlio.

Una creatura con il cuore pieno di amore,

davanti a Dio che è solamente amore: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Un essere umano che non ha niente d'altro di particolare

se non questa perfetta disponibilità,

questo abbandono totale alla volontà del Signore;

questa volta senza riserve, al solo desiderio divino.

Tutta la sua santità consiste nel fatto che lei ha pienamente

accolto nel suo cuore quella di Dio.

Del Dio santo, santo, santo, tre volte santo.

Lei che non è nient'altro che Amen alla gloria di Dio (2 Cor 1,20)

a tal punto da essere del tutto inondata, come é d’uopo,

da questa gloria divina (Gv 17, 22-24),

promessa a chiunque sia aperto a questa grazia dall' Alto.

Santa Maria: Figlia di Dio, Sposa di Dio, Madre di Dio!

Da allora in poi Maria non è più per noi l'eccezione che si distingue,

il privilegio che si differenzia, il caso che si fa esclusivo.

Sì, lei resta la prima!

Ma la prima dell’umanità intera

chiamata, come lei, a condividere la stessa grazia,

di cui Dio vuole che tutti siamo riempiti:

la grazia della filiazione, della nuzialità, della maternità.

Ecco il mistero, in tutta la sua luce.

E ci riguarda tutti, qui, in questo giorno.

*

E' Maria la figlia perfetta di Dio?

Lo è per insegnare a tutti noi

come avere, sul suo esempio, l’anima di un bambino;

un cuore pieno di fiducia e di abbandono;

perché veramente Dio è nostro Padre.

Un Padre di tenerezza che vuole riempirci tutti del suo amore.

Un Donatore di pace che vuole cacciare lontano da noi

ogni tipo di paura.

In verità io vi dico:

se non vi convertirete e non diventerete come i bambini,

non entrerete nel Regno dei cieli (Mt 18,3)

Perciò chiunque si farà piccolo come la serva del Signore, costui è il più grande nel regno dei cieli (18,4)

La santità di Maria quindi deriva dal fatto

che lei si è comportata come la figlia perfetta di Dio nostro Padre;

e noi possiamo tutti, come lei,

dire a Dio: Padre Nostro (Mt 6,9; 23,9; Gv 20,17).

La sua completa disponibilità al Signore ne ha fatto in seguito la sposa perfetta.

Così lei è stata in grado di dire il sì perfetto secondo il desiderio dello Spirito.

Ma il fuoco dell'amore di Dio arde anche per noi,

perché Egli ci ma tutti, non soltanto come un Padre,

ma anche come uno Sposo.

E' perché ci vuole sedurre, condurci nel deserto

e parlare al nostro cuore, per fidanzarci a lui per sempre,

nella tenerezza e nel diritto,

nella giustizia e nell'amore (Os 2, 16.22).

Dicendo sì totalmente a questa Alleanza nuova ed eterna,

Maria ci insegna a ridire tutti insieme a lei

lo stesso sì all'amore infinito di Dio.

Di questo Dio, come dice la Scrittura,

che vuole essere il nostro Sposo pur essendo il nostro Creatore (Is 54,5)!

Lo Spirito stesso, si unisce al nostro spirito, ci dice l'Apostolo (Rm 8,16).

Lo Spirito e la sposa, che noi dobbiamo essere,

dicono: Vieni! canta l'Apocalisse (22,17).

Sì, vieni Signore Gesù (Ap 22,20),

possiamo rispondergli noi, con Maria, in questo giorno.

 

E il Figlio è venuto, si è incarnato nel seno della Vergine.

La figlia degli uomini è divenuta Madre di Dio.

La prima riscattata è divenuta donna immacolata.

Per pura grazia divina.

Perché in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo

per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità (Ef 1,4).

Per accogliere in noi questa stessa presenza viva e santa che è quella del suo Figlio Verbo di Vita.

Perché il Verbo si è fatto carne

ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14).

Si è fatto pane vivente ed è venuto ad abitare in noi (Gv 6, 51-56).

Eccoci tutti invitati a diventare, come Maria, madre di Cristo.

Sì, come Maria, possiamo portare il Corpo di Cristo

e generare anche noi delle membra per Cristo.

In verità, vi dico, chi ascolta la mia parola e la mette in pratica,

egli è mio fratello e mia sorella e mia madre (Mt 12,50; Lc 8,21).

*

Maria, tu che sei della nostra stirpe,

nostra madre e nostra sorella maggiore,

guidaci a questo mistero della filiazione,

della nuzialità e della maternità.

In questo mistero d'amore della Santa Trinità.

Maria che la tradizione ama vederti nascere, crescere

e addormentarti, nella sera ultima della tua vita,

vicino al Tempio di Gerusalemme, in terra di Giuda,

tu, la figlia di Sion;

Maria che sei venuta un giorno a presentare Gesù al Tempio di Gerusalemme,

quando era bambino,

che sei venuta a cercarlo qui quando aveva dodici anni;

Maria che sei salita con lui a Gerusalemme,

per vivere lì, accanto a lui, la sua morte in croce

e condividere la gioia della resurrezione;

Maria, che hai ricevuto con gli apostoli l'effusione dello Spirito,

nel Cenacolo di Gerusalemme, il giorno di Pentecoste;

Nostra Signora di Gerusalemme,

prega per noi, poveri peccatori,

perché la grazia di Dio che ti ha riempito,

faccia anche di noi dei santi! Amen

 

©FMG traduzione da Sources Vives n°136 pp. 101-105

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

21 dicembre - Ultime ferie di Avvento
 

Il messaggio di Ain Karim

 

Due donne.

Al culmine della gioia umana e spirituale.

Due bambini.

Frutti inattesi e meravigliosi della benevolenza divina.

La vecchiaia ricompensata e la gioventù colmata di grazia.

Alle porte di Gerusalemme, la città degli uomini

aspettando la venuta di Dio.

La brezza del giorno soffia dolcemente sulle colline di Ain Karim.

La primavera della Giudea bagna con i suoi sentori

l'allegrezza di questo incontro.

Se ne ha già il cuore tutto colmo di cantico e di cantici:

sulla terra i fiori si mostrano,

la stagione viene dei dolci canti.

Il verso della tortorella si fa sentire.

Il fico forma i suoi primi frutti

e le vigne in fiore esalano i loro profumi.(Ct 2,12-13)

 

Queste due donne e i loro due bambini

non sono là tuttavia per intenerirsi in dolci sentimenti.

La vera rivelazione sta per cominciare

nel modo più chiaro e più forte,

e valida per noi nel modo più attuale e più concreto.

Ascoltiamo dunque, successivamente,

ciò che hanno ad insegnarci, in quest'oggi benedetto,

Elisabetta, Maria, Giovanni Battista e Gesù.

 

Nella casa del sacerdote Zaccaria ridotto al silenzio (Lc 1,20),

dove si tiene nascosta già da sei mesi,

ecco Elisabetta, ben avanti in età (1,7).

Ma, una volta di più, l'impensabile miracolo si è appena compiuto.

Per la sesta volta, una donna sterile partorirà.

Dopo le tre spose di tre patriarchi,

Sarah, Rebecca e Rachele, ugualmente colpite da sterilità;

dopo la madre del giudice Sansone e Anna, madre del profeta Samuele,

che, entrambe, non potevano neanche loro avere figli;

ecco che la discendente di Aronne, la sposa del sacerdote Zaccaria,

lei che si diceva sterile (Lc 1,5.36),

porta nel suo seno invecchiato, un meraviglioso frutto di vita!

 

L'insegnamento è eloquente:

da soli, né i patriarchi, né i giudici,

né i profeti, né i sacerdoti

possono dare la vita e, meno ancora, assicurare la salvezza.

Ma Dio, nella sua onnipotenza e bontà,

veglia sul suo popolo con sollecitudine.

 

Possiamo tutti far fiducia nel Signore.

Egli rimane colui che mantiene fedelmente tutte le sue promesse.

Anche se le nostre vite ci sembrano apparentemente improduttive,

e se, passando gli anni, potremmo essere tentati

di dirci che restano ben sterili,

la grazia di Dio ci rimane donata.

Con Elisabetta, possiamo sempre accogliere in noi,

la sua forza che trionfa nella nostra debolezza (2Co 12,9)

e la sua vita che, come l'aquila,

rinnova la nostra giovinezza (Ps103,5;Is40,31)

Come Elisabetta, dobbiamo saperci stupire

e, come lei, meravigliarci!

Uscire dalla routine di una vita dove, apparentemente,

non succederebbe niente, per rallegrarci

ancora e sempre di questa salvezza che viene verso di noi.

 

Poiché oggi stesso, nella mia casa,

il Figlio di Dio in persona si propone di dimorare!(Lc19,5)

Il Signore eterno in persona

si presenta a me sotto le sembianze di un piccolo bambino.

Sì, beati quelli che hanno creduto

nel compimento di ciò che era stato loro detto

da parte del Signore!(Lc1,45;Gv20,29)

 

Allora appare Maria.

Ain Karim è situata ad ovest di Gerusalemme,

dal lato del tramonto.

Ma ecco che a oriente,

venuta da Nazareth attraverso la valle del Giordano,

avanza adesso, sulle colline dell'altopiano,

colei il cui nome significa: Stella del Mattino

chi è dunque colei che sale dal deserto

portando il suo Ben-amato?(Ct 8,5)

 

E' la Vergine di Nazareth,

non più la donna sterile,

ma la giovane piena di grazia (Lc 1,27-28).

Tutta colmata com'è

dalla potenza dell'Altissimo che l'ha presa sotto la sua ombra (1,35)

Lei non ha potuto che partire in fretta (1,39)

verso le alture della Terra Santa.

Cosa la tratterrebbe?

Nè i rischi della strada, né il peso del suo bambino nel suo ventre,

né la lunghezza del cammino

possono frenarla.

E, senza dirci nulla di ciò che la rende così determinata,

lei insegna a tutti noi, ancora oggi,

(proprio) tramite ciò che motiva intrinsecamente il suo viaggio.

 

Guardiamo bene.

Lei viene in primis per vedere.

Per vedere l'opera di Dio all'opera nel mondo.

Per vedere quella grazia insigne, di cui le ha parlato l'angelo

e di cui ha beneficiato Elisabetta, sua cugina (1,36).

Dobbiamo saper guardare, anche noi, ricercare

le manifestazioni della bontà di Dio (1,78)

di cui le nostre vite e questo mondo sono ugualmente colmate.

E' sempre una gioia contemplare

la grazia divina all'opera nelle anime.

 

Lei viene per servire.

Poiché non basta credere e rendere grazia.

Solo conta la fede operante nella carità (Ga5,6).

Accorrendo in aiuto della sua anziana parente incinta,

Maria ci ricorda questo primato del servizio spontaneo

e dell'amore umile

che è alla base e al vertice di ogni vita di santità.

 

Lei viene anche per testimoniare.

Per testimoniare il grande mistero

dell'Incarnazione iniziato in lei

e che lei si affretta a condividere.

Non si può vivere il Vangelo senza annunciarlo.

Siate sempre pronti,ci dice l'apostolo Pietro,

a rendere conto,a chiunque ve lo chieda,

della speranza che è in voi (1P 3,15).

 

Lei viene per obbedire a Dio.

Non per curiosità o per il semplice desiderio di viaggiare.

Ma attirata in avanti dallo Spirito che è sceso su di lei (Lc 1,35),

e spinta da dentro

dalla segreta ispirazione dello stesso Gesù.

E' sempre all'ascolto di Cristo che dimora in noi (Gv 6,56)

e dello Spirito che ci guida con la sua luce di verità,

che dobbiamo avanzare sulle vie della vita.

 

Allora Maria finalmente si ferma.

Arresta la sua corsa.

Si siede per meditare.

Si inginocchia per pregare.

Rimane nella casa, circa tre mesi,

come l'arca dell'alleanza

nell'attesa del suo ingresso nella Città Santa (2S6,11; Lc1,56).

 

Pur essendo noi sulla terra viaggiatori e stranieri,

dobbiamo saperci sedere, anche noi, in presenza di Dio.

E gustare, ogni giorno, ogni domenica, come qui e in questo istante,

la pace e la gioia di rimanere un poco presso di Lui.

Dobbiamo, come Maria, restare gioiosamente,

attenti a questo Ospite interiore.

Volgerci, serenamente, sulla nostra propria vita,

per interrogarla e costruirla

nella linea di quella presenza che ci abita nel più intimo.

Non sono più io che vivo,

è il Cristo che vive in me (Ga 2,20).

Ed ecco adesso il Precursore.

Per condurci a Lui, Giovanni Battista è sempre là,

testimone quotidiano e messaggero incessante del Signore.

Impercettibile sussulto nel seno di sua madre oggi,

sarà, domani, la voce che grida nel deserto (Gv 1,23).

Ma questo sussulto d'allegria che precede la sua nascita

annuncia la gioia perfetta che testimonierà prima della sua morte (Lc 1,44).

Infatti, da quel giorno, eccolo santificato dalla vicinanza del Cristo

e tutto riempito, tramite il Verbo, della potenza dello Spirito.

 

Come Giovanni, anche noi,

siamo tutti un frutto gratuito della bontà di Dio.

Possiamo, anche noi, sussultare d'allegria.

Ci ha scelto tutti per dare, tramite le nostre voci,

l'eco percepibile del suo Verbo di Vita (Gv 15,16; Rm 10,14-17).

Non vi è alcuna tristezza ad annullarsi davanti a un tale Redentore,

poiché, quando noi diminuiamo davanti a Lui,

è Lui stesso che cresce in noi.

 

E, con l'umile accoglienza della Sua vita,

il nostro intero essere è sempre più divinizzato.

Non vi è altro segreto per introdurci, anche noi,

nella condivisione della gioia perfetta (Gv 15,11;16,21;17,13;1Gv1,4).

 

E, per finire, ecco Gesù.

Ancora invisibile, ma quanto presente!

Dei quattro qui riuniti, è il più importante.

Niente di quello che è stato fatto è stato fatto senza di Lui

ed è per mezzo di Lui che tutto è stato creato (Gv 1,3;Col 1,15-20; Ef 1,10)

Per quanto grandi siano queste due donne,

esse sono, ognuna, superate dal loro proprio figlio.

Elisabetta dal Precursore e Maria dal Salvatore.

E se Giovanni Battista è il più grande dei figli di donna,

il più piccolo nel Regno di Dio

- cioè il Dio eterno divenuto piccolo bambino -

è ancora più grande di lui (Mt 11,11).

Una volta ancora, l'ultimo nato è il primo!

Il Primo-nato di tutte le creature.


In effetti, il Regno di Dio, oggi,

è già manifesto.

Lui è là, in mezzo a voi,

qualcuno che voi non conoscete (Gv 1,26);

ma, fin dal primo passo della Sua venuta,

il Precursore ha sussultato.

Infine, eccoci qua! I tempi sono compiuti (Mc 1,15).

Il giorno è arrivato in cui partorirà colei che deve partorire.

Ormai, la sua potenza si stenderà

fino alle estremità della terra

e lui stesso sarà la pace (Mi 5,2-4).

Tutto ciò che annunciavano la Legge, i profeti, i saggi e i salmi

potrà compiersi.

Tu non volevi né sacrifici né offerte,

ma mi hai formato un corpo.

Allora ho detto:eccomi, o Dio, vengo

per fare la tua volontà. (Eb 10,5-10)

E questa volta, eccomi, è Dio stesso

che ce lo dice!

 

Con e tramite Colui che viene

per fare di noi dei veri figli di Dio,

potremo infine rinascere (Gv 3,3-7;Rm 8,14-17).

Come Elisabetta, Giovanni Battista e Maria,

possiamo essere, anche noi, riempiti di Spirito Santo,

per divenire, insieme, ciò che siamo:

il Corpo di Cristo, per la Gloria del Padre.

 

©FMG traduzione da Sources Vives n°136 pp. 111-117

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

22 dicembre - Ultime ferie di Avvento

 

Cantare la Sua gloria, come Maria!


Gli uomini e le donne di Dio

che, all’istante, sanno rendere grazie e cantare

al Signore un cantico nuovo;

e questo dal primo momento in cui hanno udito la sua chiamata

o intravisto le meraviglie del suo amore,

come sono giusti e veri!

*

Dal momento della nascita di Giovanni Battista,

Zaccaria intona il Benedictus.

Dal momento in cui Maria giunge a casa sua,

Elisabetta proclama le lodi di Dio.

E, in risposta, oggi, Maria

in nome d’Israele suo servo,

canta all’Onnipotente la sua Misericordia

che si estende di generazione in generazione su coloro che lo temono (Lc 1, 46.50).

 

Ancora prima di contemplare tra le braccia

il Figlio nato dalla sua carne vergine,

l’Emmanuele delle promesse divine,

ella canta! Canta, Maria!

Canta rendendo grazie

a Dio che ha dispiegato la potenza del suo braccio

e rovesciato i potenti dai troni,

per innalzare gli umili.

E ancor prima del canto degli angeli

nella notte della Natività colma di allegria,

il suo spirito esulta in Dio suo Salvatore.

 

Forse, in questo modo, Maria ci dà l’esempio

dello slancio spontaneo che sà dirigersi verso Dio,

per dirgli che è lodato, benedetto e glorificato,

al di là di tutte le lamentele e recriminazioni,

o ritornelli ripetuti incessantemente costituiti da frasi fatte

o da canzoncine ripetute a non finire nei mass-media.

A dire il vero, infatti, Dio per noi

poveri peccatori e umili servi compie incessantemente delle meraviglie.

 

In questo modo, forse, la Vergine Maria ci ricorda

che è giusto e vero

solamente il cristiano che sa vivere nell’azione di grazie;

dato che tutto è grazia in verità,

e tutto dipende dal Dio di tutte le benedizioni.

Paolo, infatti, non esita a scrivere,

che il Padre ci ha predestinati

per vivere a lode della sua gloria (Ef 1, 3.12-14).

 

C’è sempre in noi la parte di Eva

che vorrebbe invidiare, gemere, lamentarsi, accusare.

Ma c’è anche la parte di Maria

che vuole insegnarci a donare, lodare,

perseverare nella fede e nella pace, ringraziare.

Eva, dice Elredo di Rielvaux, un mistico del XII secolo,

nonostante sia stata creata in paradiso, senza corruzione nè macchia alcuna,

senza infermità, nè dolore,

si è rivelata tanto debole e fragile!

Chi, dunque, troverà la Donna forte che ci è promessa dalla Scrittura?

Potremo trovarla nella nostra terra di miseria,

se non è stato possibile trovarla nella beatitudine del paradiso?

E Elredo proclama:

Oggi, Dio Padre ha trovato questa donna;

l’ha trovata per santificarla.

Il Figlio l’ha trovata per dimorarvi.

Lo Spirito Santo l’ha trovata per illuminarla.

E l’angelo l’ha trovata per salutarla dicendo:

Rallegrati piena di grazia, il Signore è con te.”

 

Anche noi abbiamo trovato

colei che Dio ci ha donato;

colei che si è donata a Dio

e a cui Dio si è donato;

colei attraverso la quale Dio ci è stato dato!

 

Ci fa bene volgere i nostri sguardi

verso colei che rappresenta e annuncia

l’aurora dei tempi nuovi!

Sì, in questo 22 dicembre

all’approssimarsi della notte più lunga, del solstizio d’inverno,

Maria vi viene indicata come l’ultima sentinella che veglia

nell’ora ultima di questo lungo cammino di tutto un popolo

nelle tenebre e nell’ombra della morte (Is 9,1; Mt 4, 16).

E con lei, volgiamo i nostri sguardi

verso il Salvatore che viene ad illuminare la nostra notte,

poiché è il Verbo, luce vera

che illumina ogni uomo che viene nel mondo (Gv 1,9).

 

Oggi, con tutto il popolo biblico,

che dispiega il suo lungo e laborioso corteo della sua attesa,

a partire da Adamo, fino ad Elisabetta e Zaccaria,

Maria canta nell’azione di grazie,

per tutte le donne sante, per tutti i saggi, per tutti i profeti,

tutti i compositori dei salmi, tutti i re e tutto il popolo degli anawim che la precedono.

 

Ma lei canta anche per noi e con noi

che insieme formiamo il Corpo di Cristo,

con tutti quelli che, di generazione in generazione,

ridicono: Maranatha, a Colui che è già venuto e ritorna,

coloro che ogni sera,

ridicono instancabilmente a Dio, come Maria,

con Maria: Magnificat!

 

©FMG traduzione da Sources Vives n°136 pp. 123-125

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

23 dicembre - Ultime ferie di Avvento

 

La natività e il nome di Giovanni


No!

Elisabetta ha parlato.

Contrariamente a tutte le abitudini,

a tutte le tradizioni,

nonostante i vicini e i parenti

riuniti in quel giorno per festeggiare il nome e la circoncisione

di questo figlio inaspettato dalla vecchiaia sterile,

lei dice: no! (Lc 1, 60)

Volevano chiamarlo Zaccaria come suo padre (Lc 1, 59).

Ma lei, la discendente di Aronne,

ricordandosi del modo in cui Dio le ha fatto grazia (1, 78),

nella sua tenerezza misericordiosa,

vuole che il nome di questo bambino, profeta dell’Altissimo,

che andrà innanzi al Signore per preparargli le strade (1, 76),

manifesti il dono di una tale grazia.

Ricordandosi di come egli aveva sussultato di gioia nel suo grembo

il giorno in cui ebbe l’onore che la madre del suo Signore venisse da lei (1, 43),

Elisabetta decretò:

Il suo nome sarà Giovanni!

Cioé: Dio fa grazia.

 

Questo le dice imperativamente lo Spirito di Dio.

E Zaccaria, nonostante la sua sordità

che lo obbliga a parlarle a gesti (1, 62)

e la sua incapacità di parlare che lo obbliga chiedere una tavoletta,

Zaccaria conferma, in quel momento, alla luce dello stesso Spirito,

questo nome che infrange tutta una tradizione,

così come l’angelo glielo aveva annunciato,

in piedi, a destra dell’altare dell’incenso.

Il suo nome è Giovanni, scrive Zaccaria, il sacerdote del Tempio di Dio.

Una grande meraviglia riempie la casa,

non soltanto a causa di questo nome che infrange le abitudini,

ma soprattutto per il fatto che con ogni evidenza, Dio ha parlato.

 

Il giorno che il profeta Malachia aveva annunciato

sta per sorgere.

Ecco vi manderò Elia, il profeta

prima che venga il giorno del Signore…

e ricondurrà il cuore dei padri verso i figli

e dei figli verso i padri (Mal 3, 23-24),

oggi dichiara l’ultimo testimone dell’antica alleanza.

E oggi, infatti, si è accesa una lampada nella notte.

Sì, proprio nella notte più lunga

si prepara già la visita del sole che sorge (Lc 1, 18).

Ma, immediatamente prima che spunti l’aurora

del giorno senza tramonto che ci rivelerà la salvezza,

brilla già la piccola luce del Precursore.

Giovanni era la lampada che arde e risplende,

ci dice Cristo stesso,

e noi possiamo rallegrarci un istante alla sua luce (Gv 5, 35).

Appare, l’uomo il cui nome è Giovanni

che viene per rendere testimonianza alla luce.

Non è lui la luce, ma il testimone della luce (Gv 1, 8).

E’ la lampada accesa prima dell’alba,

subito prima che il sole di giustizia non scacci le tenebre della notte.

Colui che si prepara a nascere domani

attira, fin d’ora, dei veri testimoni.

 

Questo è l’ultimo messaggio che Giovanni

ci invia ancora oggi,

a poche ore dalla nascita dell’Emmanuele.

Come Giovanni, dobbiamo tenere in mano la lampada accesa,

la nostra anima chiara perchè Colui che viene non faccia fatica a trovarci!

E noi non potremo riconoscerlo che non arde in noi già il desiderio della sua venuta, e non risplende già in noi la speranza viva del suo ritorno.

Solo questo desiderio di Dio e questa speranza di salvezza

possono permetterci di incontrarlo.

La notte della Natività,

solo alcuni pastori che vegliavano il loro gregge (Lc 2, 8)

hanno potuto vederlo e riconoscerlo per quello che è.

Tutti gli altri non hanno visto niente e non hanno saputo nulla!

 

Noi non possiamo fare a meno della grazia di questa festa.

Teniamo la lampada della nostra fede ben accesa,

la lampada della nostra speranza,

la fiamma viva d’amore

che mette in noi il desiderio bruciante della sua venuta,

e il cuore sgombro.

se vogliamo accogliere in verità

Colui che viene a salvarci.

 

Dio eterno, piccolo bambino,

per accoglierti domani nella pace

donaci questa sera, come a Giovanni Battista,

un cuore di bambino

rischiarato dalla tua luce.

 

©FMG traduzione da Sources Vives n°136 pp. 132-135

 

Triplice Natale di Nostro Signore Gesù Cristo

 

Possiamo considerare il Natale sotto diversi aspetti:

da prima dei secoli, in Dio,

alla luce della teologia;

dal momento della pienezza dei tempi, dalla parte degli uomini,

alla luce della storia;

e nell'oggi della nostra vita, nel profondo del nostro cuore,

alla luce della mistica.

 

Ogni volta, Natale rivela in noi il suo mistero

lasciandoci vedere che in questa festa

noi celebriamo davvero una triplice nascita.

 

La prima nascita che celebriamo stanotte

è la più straordinaria.

Ci viene fatta conoscere perché la nostra fede cristiana

ha il coraggio di parlarcene,

o piuttosto di rivelarcela (1Cor 2, 9-10).

Si tratta della nascita eterna del Figlio

nel seno materno del Padre (Gv 1, -18).

 

Colui che nasce in questa notte di Betlemme, in realtà,

non è prima di tutto un bambino di questo mondo o della terra,

anche se è chiamato a diventarne il centro della sua storia (Col 1, 15).

Né è, prima di tutto, un neonato ,

sia pur miracolosamente concepito nel seno di una vergine

e salutato dagli angeli del cielo nella notte di Betlemme (Lc 2, 8).

Non è soltanto il più bello tra i figli dell' uomo,

annunciato dalle Scritture (Sal 45, 1; Is 7,14; Mi 5, 1-3),

la cui vita sarà più santa di qualunque altra vita.

 

Ciò che noi rievochiamo prima di tutto, mentre contempliamo questa Natività,

è la generazione eterna dell'unico Figlio,

in questa vivente festa d'amore che è Dio stesso.

Un Dio che non è isolato e solitario,

ma condivisione di tenerezza e dono reciproco di vita.

Dio non sarebbe Dio se non fosse un Dio d'amore,

né sarebbe l'Amore, se lui stesso non lo vivesse condividendolo:

Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato,

cantava già il Signore nel Salmo (2, 7).

Tu sei il mio Figlio prediletto nel quale ho posto tutto il mio amore,

proclamerà la voce venuta dal cielo,

il giorno del suo battesimo e in quello della Trasfigurazione (Lc 3, 22; 9, 35).

L' ho glorificato e di nuovo lo glorificherò,

esclamò a gran voce il Padre

dall'alto delle mura della Città santa (Gv 12,28).

 

In questa pienezza dei tempi (Gal 4, 4)

durante la quale il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14),

siamo quindi invitati, prima di tutto, alla contemplazione

di questo mistero d'amore, splendido e infinito

a cui siamo invitati.

Il Mistero immenso e meraviglioso

della generazione divina del Figlio da parte del Padre,

nella comunione dello Spirito che li unisce.

 

Ora non azzardiamoci a descrivere l'invisibile;

a tradurre l'inesprimibile, a sperimentare questa gioia dell'aldilà.

Dio si dà, ma non lo si può conquistare.

Si rivela, ma non si spiega.

Tuttavia, pregando con gli occhi della fede,

siamo in grado di risalire verso la sorgente di questo raggio di luce,

scaturito verso di noi , nella notte, ma dal più alto dei cieli (Lc 2, 14).

Possiamo capire allora

perché Colui che festeggiamo in questo giorno di Natale

è, prima di tutto, come ci dice la Scrittura,

il nostro grande Dio e Signore Gesù Cristo (Tt 2, 13),

nato dal Padre prima di tutti i secoli.

 

La seconda nascita

è iscritta invece nel tempo.

Dopo la contemplazione del mistero trinitario,

quello che ci è dato da meditare

è il mistero dell'Incarnazione del Verbo.

In altre parole, della venuta in mezzo a noi

della stessa Parola di Dio, nella persona di Gesù.

Questo è l'Emmanuele annunciato in modo così straordinario (Is 7, 4; 8, 8)

e manifestatosi con tanta visibilità (Mt 1,23; Gv 17, 6; 1Gv 1,2),

dicendo di essere venuto in mezzo ai suoi

per abitare con loro ed essere davvero Dio-con-noi (Gv 1, 11-14).

 

Qui, il cielo discende sulla terra.

L'eternità investe il tempo.

Il passato e il futuro dell'uomo sono uniti

nell'oggi di Dio, venuto una volta per tutte

e per la salvezza di tutti gli uomini (Tt 2,11).

Qui, Dio si fa ciò che noi siamo, affinché noi diventiamo ciò che egli è.

Si fa uomo, senza perdere ciò che era,

ma assumendo quello che non era.

Si fa uomo , perché è onnipotente (Lc 1,37),

per farci diventare Dio , perché il suo amore è totale (Gv 3, 16),

talmente preso dall'amore per noi

da farsi lui stesso in tutto simile a noi (Fil 2, 7);

e talmente desideroso del nostro amore

da farci figli nel suo Figlio

e coeredi in Cristo (Rm 8, 14-17).

 

Non è senza un profondo significato

che il momento in cui Gesù immette la sua presenza nella nostra storia

è quello in cui compare l'editto di Cesare Augusto

che ordina il censimento di tutta la terra (Lc 2,1).

Proprio per raccogliere nell'unità l'umanità dispersa

è venuto in mezzo a noi questo Buon Pastore ( Sal 23,1; Gv 10, 11).

Questo Pastore, salutato dai pastori fin dalla sua nascita,

è divenuto per noi il primo della moltitudine dei fratelli (Rm 8, 29)

per insegnarci che Dio è veramente nostro Padre..

 

Con Maria, meditando e conservando con cura

tutti questi ricordi nel cuore (Lc 2, 19.51),

non finiremo mai di sviscerare il mistero

di questa seconda nascita a Natale,

il mistero della Natività di questo bambino che è nato per noi,

di questo Figlio che ci è stato dato.

Questo Figlio di cui il profeta Isaia proclamava già il Nome,

così carico di luce: consigliere ammirabile, Dio potente,

Eterno Padre, Principe della Pace (9, 5)!

 

La terza nascita di Natale si inserisce proprio qui,

oggi, nella nostra vita.

La pace che il Signore è venuto a portare alla terra

viene proposta a tutti gli uomini di buona volontà (Lc 2, 14).

La via che è venuto a ridare all'umanità decaduta è offerta

a chiunque crede in lui (Gv 6,40).

Ogni giorno e dappertutto, in qualunque momento e in ogni anima,

il Signore nasce davvero, dalla grazia del suo amore.

Sì, dalla sua pienezza tutti noi abbiamo ricevuto e grazia su grazia (Gv, 1,16).

Johann Tauler, mistico renano del XIV secolo,

arriva addirittura a dire:

Dio si fa talmente nostro,

si offre a noi in proprietà tale,

che nessuno ha mai posseduto nulla così intimamente”.

 

In altre parole, questo vuol dire che d'ora in poi, dipende da noi

che questo terzo Natale sia autentico nella nostra vita.

Cristo, in realtà, può nascere duemila volte a Betlemme,

ma questo non serve a niente se non è nato nel mio cuore.

Dio provoca la nostra libertà,

ma non forza il nostro amore.

Perciò non aspettiamo , non aspettiamo più!

Sgomberiamo il nostro cuore e facciamo chiarezza nella nostra anima.

Ci sollecita ancora un po' di spazio

nella locanda della nostra vita!

 

Il Cristo che si manifesta a noi, una volta di più stanotte,

è realmente venuto per ognuno di noi.

Non abbiamo paura di lui!

Pur essendo il Signore della gloria,

non è un personaggio difficile da ricevere o complicato da accogliere.

Basta dirgli di entrare. E di fermarsi a casa nostra.

Basta che ci lasciamo perdonare, istruire, amare.

Basta che gli permettiamo di vivificarci - lui è la Vita-,

di darci la gioia- è la Pace -,

di darci coraggio – è il Salvatore del mondo - (Gv 4,2).

 

Certamente tra poco, alla fine di questa eucaristia ,

riceveremo il suo corpo e il suo sangue, offerto e versato per noi.

Potremo allora dire con l'Apostolo :

Io vivo, ma non sono più io che vivo:

è Cristo che vive in me (Gal 2, 20).

E allora sarà un vero Natale, celebrato

a livello di questa terza nascita

nella fede del Figlio di Dio,

nel più profondo del nostro cuore.

 

Se si realizzano davvero queste tre nascite per Natale:

Quella del Figlio generato dal Padre dall'eternità;

quella di Gesù, nato dalla Vergine nella pienezza dei tempi;

e quella del Cristo che vuole abitare tra noi solo per amore,

non è forse per ricordarci quello che siamo,

che anche noi dobbiamo nascere in tre modi?

 

Siamo già nati alla vita venendo al mondo,

dobbiamo rinascere alla grazia, vivendo secondo l'uomo nuovo,

e dobbiamo rinasce dall'alto , entrando nell'eternità

attraverso la pasqua della nostra morte finale che sarà,

osiamo dirlo nella fede, il più bel Natale della nostra vita!

 

Solamente allora conosceremo veramente

la gioia che viene a trattenere tra le nostre braccia quel Dio

già venuto, sempre presente, ma ancora atteso.

E a rimanere tutti insieme, figli nel Figlio, tra le sue braccia.

 

Fratel Pierre-Marie

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

2° Domenica T. O. B
 

LA CHIAMATA DI PIETRO E ANDREA

 

Duplice incontro. Due uomini. Due fratelli.

Pietro e Andrea incontrano Gesù

e trovano in lui, successivamente,

il maestro” (Gv 1,38) ed “il Messia” (1,41).

Momento privilegiato quando il Cristo si fa finalmente conoscere;

quando, per la prima volta, il Verbo parlerà.

Momento unico in cui l'uomo interrogherà

colui sul quale “lo Spirito, come una colomba ,

è appena disceso dal cielo per dimorarvi” (Gv 1,32)

poiché “è lui l'Eletto di Dio” (1,32),

e il “Salvatore del mondo” (1,29; 4,42).

 

Due uomini. Due discepoli. Due santi.

Roma e Costantinopoli dove moriranno l'uno e l'altro,

riuniti nella stessa fraternità.

Due personaggi ben reali,

ma la cui portata simbolica è evidente

ed il cui richiamo ci riguarda dunque ancora oggi.

 

Il primo di questi uomini si chiama Andrea .

Andrea, il cui nome in greco si traduce “uomo”.

E' il figlio di Adamo, l'uomo.

L'uomo terreno che Dio un giorno ha creato,

e, che in questo giorno Lui viene a cercare,

poiché il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare

ciò che era perso” (Lc 19,10).

 

Adamo, dove sei?” Aveva gridato Dio,

nel giardino dell'Eden dopo la caduta.

Oggi, il primo a rivolgersi al Figlio di Dio

per chiedergli il luogo della sua dimora terrena,

è quest'uomo in cerca di una dimora eterna,

questo peccatore in cerca di perdono, che,

alla voce di Giovanni, si è messo “a camminare dietro di lui” (Gv 1,37),

l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).

Così Dio è sempre in cerca di ciascuno di noi (Ez 34,16).

Il Cristo, nuovo Adamo,

incrocia ancora silenziosamente i nostri cammini

per farci passare dallo stato di uomo vecchio

a quello di Uomo nuovo (Ep 4, 23-24).

 

Al momento di questo primo incontro, quale ce lo descrive San Giovanni,

Cristo non parla subito. “Passa” (Ac 10,38).

Non si sa né donde viene né dove va,

come lo Spirito di cui è colmo (Gv 1,32).

Così nelle nostre vie,

dove, per poco che si sia attenti,

percepiamo il mistero di un passaggio,

ma dove non sentiamo la sua voce.

Andrea, lui, non si accontenta di essere attento.

Segue Gesù (Gv 1,37).

Si è alzato per camminare al suo seguito, dice il testo.

Per essere, letteralmente, il suo “accolito”, il suo seguace,

vale a dire il suo discepolo.

Solo allora, Gesù si volterà,

si fermerà e lo guarderà (Gv 1,38):

chi mi segue non cammina nelle tenebre” (Gv 8,12).

E Andrea è tutto illuminato.

 

Se decidiamo di seguire il Cristo,

saremo certamente nella luce (Gv 12,36).

Se qualcuno mi ama, che mi segua,

e là dove sono, là sarà anche il mio servitore” (Gv 12,26).

Per seguire qualcuno, bisogna amarlo.

E, amando, si riconosce.

Solo gli occhi del cuore possono donarci di vedere Dio.

 

Andrea, è anche un cercatore. Un cercatore di verità.

Come Samuele che cercava Dio,

tendendo l'orecchio nel Tempio (1S 3,4).

Nataniele, scrutava le Scritture sotto il fico (Gv 1,48);

hanno meritato entrambi di sentire la sua voce (1S 3,19)

e di riconoscere il suo volto (Gv 1,49).

Andrea cerca di vedere e di comprendere;

di vedere dove dimora quell'uomo,

per comprendere come è “l'Agnello di Dio” (Gv 1,36).

 

Allora, Gesù parlerà.

La terra infine, per la prima volta,

udirà la voce del Figlio dell'uomo.

La terra secca, arida, alterata e senza acqua” (Sa 63,2)

dove vivono gli uomini come mortali promessi alla morte,

udirà il Verbo di vita:

in verità, in verità, io vi dico,

l'ora è giunta e noi ci siamo,

quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio” (Gv 5,25).

E questa prima parola che il Cristo dice agli uomini,

è una domanda;

la domanda suprema che si rivolge

alla libertà più profonda:

Cosa cercate?

Così Dio ha parlato.

 

Sì, cosa cerchiamo?

Se non cerchiamo niente, se non chiediamo niente,

non troveremo niente, non avremo niente.

Ma “chiunque chiede riceve, chi cerca trova,

e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,10).

Chi cerca Dio non manca di alcun bene” (Sal 34,11).

A condizione tuttavia che questa ricerca si faccia con il cuore.

Se noi lo cerchiamo come Maria Maddalena, per amarlo,

lo troveremo nel giardino del nostro cuore (Gv 20,15).

Ma se lo cerchiamo per ucciderlo (Gv 5,18),

non lo riconosceremo

nella notte del giardino dell'agonia (Gv 18,4).

Mi cercherete e non mi troverete,

poiché, dove io sono, voi non potete venire!”(Gv 7,34)

Gli anti-discepoli cercano di catturare Dio;

ma inciampano nella notte, ci dice Gesù (11,10;18,6).

I veri discepoli cercano di amarlo.

Lui li rialza, nella sua luce. (Gv 12,46;Lc 22,46)

E' allora che Andrea rivolge a Gesù la domanda suprema:

Maestro, dove dimori?” (Gv 1,38).

Quando si è seguito e riconosciuto colui che si ama,

la domanda naturale, essenziale, non può essere che quella:

sapere il luogo della sua Dimora per restare con lui (Gv 1,38-39),

conoscere infine il luogo della casa di Dio (Gv 14,3-6).

Oh mia gioia, quando mi è stato detto:

andiamo alla casa di Dio!” (Sa 122,1).

 

Venite e vedete, dice loro (Gv 1,39).

Sempre questo invito alla libertà più profonda.

“Andare” e “vedere”.

Avanzare liberamente e guardare personalmente.

Andarono e videro dove dimorava

e restarono presso di lui quel giorno” (1,39).

Al termine di questo cammino e in fondo a questo sguardo,

tutto si realizza.

E' la “decima Ora”, l'ora del compimento,

nota Sant'Agostino:

“dieci comandamenti, per insegnare la Legge;

dieci patriarchi, per condurre da Abramo a Noè;

dieci piaghe, per liberare il popolo dalla schiavitù…”

era circa la decima ora”, scrive San Giovanni.

Simbolismo evidente.

E' l'ora quando Andrea, un uomo della terra,

ha infine riconosciuto l'Inviato di Dio!

Con Gesù si è trovato tutto.

Siamo al termine e alla partenza.

E' l'Alfa e l'Omega. Si può rimanere con lui quel giorno,

e per i giorni a seguire. E' la pienezza finalmente realizzata.

L'Eternità è già iniziata! (Ef 2,6)

 

Dopo Andrea, ecco Simone, “suo fratello”,

E' il levar del giorno” (Gv 1,41). Del nuovo giorno.

L'alba del giorno quando il popolo che camminava nella notte,

apprende che finalmente l'umanità ha trovato il suo Messia.

Andrea aveva seguito Gesù sulla parola di Giovanni Battista.

Simone verrà verso Gesù sulla parola di Andrea.

Così ci trasmettiamo la Buona Novella.

Dio, per dirsi agli uomini,

ha scelto di aver bisogno degli uomini.

Me infelice se non evangelizzo!” (1Co 9,16).

 

Di fronte al Cristo, Pietro non dice niente.

Neanche Gesù parla ancora.

Momento sublime e intimo

in cui il Figlio di Dio decifra il volto di Simone;

nel quale Simone, figlio di Giovanni, scopre il volto di Cristo,

il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).

Scambio intraducibile in cui le loro due anime comunicano;

in cui “colui che sa ciò che vi è nell'uomo” (Gv 2,25)

riconosce in quest'uomo il marchio di Dio,

la scintilla nascosta che brillerà a Cesarea di Filippi

venuta non dalla carne e dal sangue,

ma dal Padre che è nei cieli” (Mt 16,17).

Nessuno viene a me se non per un dono del Padre” (Gv 6,65).

Così, in ognuno di noi,

il Figlio riconosce qualcosa dei tratti del Padre

poiché ad immagine di Dio, figli di Dio, siamo stati tutti creati.

 

Gesù lo guardò e gli disse “tu sei Simone, figlio di Giovanni,

ti chiamerai Cefa.”- che vuol dire Pietra” (Gv 1,42).

Il Messia ha parlato.

Dopo la prima domanda fondamentale,

ecco la prima affermazione imperativa

e ancora più fondamentale;

poiché, fin dal primo istante, fonda

su quest'uomo di Galilea,

la costruzione della Dimora di Dio tra gli uomini.

Simone è Pietro e su questa Pietra

il Cristo edificherà la sua Chiesa (Mt 16,18).

 

Pietro non ha vacillato. Persino le forze degli inferi

non potrebbero niente contro una tale promessa (Mt 16,18b).

Colui che, domani, sarà tanto pronto a parlare, oggi tace.

Egli avverte quanto questa parola rivesta una profondità infinita.

La sua vocazione, la sua missione, la sua appartenenza a Dio

sono segnate da questo “nome nuovo”.

Nessuno meglio di Origene, nel terzo secolo,

ha saputo tradurre il senso di questo appellativo,

in cui un uomo riceve, per pura grazia,

uno dei titoli stessi di Dio:

Egli dice che si chiamerebbe Pietro,

derivando questo nome dalla Pietra che è il Cristo” (1Co 10,4),

affinchè, come “saggio” deriva “saggezza”

e “santo” da “santità”,

così,ugualmente, da Dio-Pietra deriva Pietro.”

 

Così, fratelli e sorelle, avviene

a ognuno di noi, che condividiamo la stessa promessa.

Anche noi, siamo “delle pietre vive”, riunite

per l'edificazione, intorno al Cristo, la pietra testimone,

angolare, preziosa, fondamentale (Is 28,16),

di un edificio spirituale (1Pt 2,5)

Anche noi, come Pietro, siamo

partecipi della Divinità (Pt 1,4).

Siamo della Famiglia di Dio.

Siamo della Casa di Dio (Ef 2,19).

Il nostro stesso corpo è per il Signore,

e il Signore per il nostro corpo (1Co 6,13).

Non è scritto nella vostra Legge:

Io ho detto: voi siete dei?” (Gv 10,34).

Come Pietro e Andrea, se noi conoscessimo il dono di Dio!

 

©FMG tradotto da Evangelique 1, pp. 51-56

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Terza domenica T.O. B

 

Seguitemi

 

Dopo che Giovanni fu arrestato,

Gesù si ritirò nella Galilea e, lasciata Nazaret,

venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare,

nel territorio di Zabulon e di Neftali” (Mt 4, 13).

E essendosi stabilito là,

proclamava il vangelo di Dio” (Mc 1, 14-15).

 

Questa libera scelta di Cristo per la Galilea,

non era dovuto al caso o ad una costrizione.

Questo infatti ha un senso e sia san Marco che san Matteo

che ci riportano questo fatto storico

ne sono a conoscenza.

Cosa succede in effetti?

 

A Betlemme di Giudea, la città di Davide (Lc 2, 4),

Gesù è nato, tra i suoi (Gv 1, 11),

circa “trent’anni” prima (Lc 3, 23).

Ma dei pagani nella persona dei magi

gli sono venuti incontro per primi (Mt 2, 1-6).

 

Poco dopo la sua nascita, fuggendo in Egitto,

lui va verso i pagani,

come aveva già fatto il figlio di Giacobbe, il primo Israele (2, 13).

 

Appena tornato dall’ Egitto sappiamo che Giuseppe

non poté stabilirsi in Giudea, come avrebbe voluto,

si ritirò nella regione della Galilea”,

il territorio dei pagani (Mt 2, 22-23).

 

Ed eccolo oggi,

dopo il suo battesimo “nel deserto di Giudea” (Mt 3, 1),

Dopo che Giovanni fu arrestato,

Gesù venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare,

nel territorio di Zabulon e di Neftali”

nel cuore della “Galilea delle Nazioni” (Mt 4, 12-13).

E così vi proclama la Buona Novella che viene da Dio:

Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino.

Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15).

 

Evidentemente vi è un’intenzione manifesta in tutto questo.

Bisogna ritrovare ciò che Gesù ha voluto significare

con tutto questo.

Lui, infatti “vuole” tutto quello che fa,

e “sa” il come e il perchè lo fa.

 

Avendo ben presente questo e meditando la scelta libera del Maestro,

Marco, il discepolo di Pietro, il Galileo,

e Matteo-Levi, anch’egli di Galilea, si ricordano.

Si ricordano di quello che Isaia aveva annunciato:

Era passato tanto tempo. Più di settecento anni!

Dopo la caduta della Samaria, tutta una porzione dell’Israele del Nord

era stata deportata in Babilonia.

In questo momento il profeta aveva letteralmente detto questo:

Non ci sarà più oscurità dove ora è angoscia.

In passato in passato umiliò la terra di Zabulon

e la terra di Neftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare,

oltre il Giordano e la curva di Goim”.

E aveva aggiunto come se questo fosse già compiuto:

Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce

su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is 8, 23-9, 1).

 

Oggi Gesù va proprio

verso questa terra di Galilea,

pagana, aperta al sincretismo di tutte le religioni,

al mescolarsi di tutte le nazioni (Mc 1, 14).

Passando lungo il Mare di Galilea

vede Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni”

e li chiama a seguirlo (1, 16).

 

Cammina proprio là, perchè “egli è la via” (Gv 14, 6)

e “vede” poiché è “la luce” (Gv 9, 5).

Giovanni venne come testimone

per rendere testimonianza alla luce,

perchè tutti credessero per mezzo di lui.

Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce” (Gv 1, 7-8).

Veniva nel mondo la luce vera,

quella che illumina ogni uomo” (1, 9),

e colui che è “la luce del mondo” (8, 12)

ha invitato ogni uomo a “venire” (3, 21)

e a “camminare nella luce” (12, 35). Seguendolo!

 

Oggi, quindi, “sulla riva del mare”,

dove si trova il popolo di Galilea, allo stesso modo in cui stavano i suoi antenati

sulla riva dei fiumi di Babilonia” (Sal 137, 1),

sì, oggi una Luce Nuova é sorta,

per illuminare i cuori,

e rischiarare la faccia di tutti i popoli” (Lc 2, 32)

guidando i passi” di tutti gli uomini

sul “cammino della pace” (Lc 1, 79).

 

Senza più attendere, Gesù, lui “che era venuto in primo luogo

per le pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15, 24)

si mette a “predicare” e a “parlare”:

Non solamente a “predicare” ma anche a “dire”, nota l’Evangelista (4, 17).

Lui infatti è il Verbo fatto carne, la Parola viva e vera (Eb 1, 2-3)

e l’annunciatore della Buona Novella della salvezza.

Lui conosce e insegna, parla e istruisce.

Dice e proclama:

Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino.

Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15).

 

Duplice appello che risuona fino a noi oggi

in modo nuovo e attuale. Ci viene detto tutto:

distoglierci dal male e aprirci alla vita;

distoglierci dal peccato per aprirci al Regno.

Insomma, morire ma per Vivere,

passando dall’oscurità dell’angoscia alla luce della salvezza.

 

Oggi”, dunque è Gesù in persona

che proclama il Vangelo.

E per mostrarne tutta la “portata universale”,

San Matteo ci ricorda in un breve versetto che non bisogna dimenticare,

che “la sua fama si estese su tutta la Siria” (3, 24).

Cioè proprio in quella terra in cui, anticamente, Israele era stato deportato!

La pace che scende dal cielo è per tutti gli uomini della terra,

purchè abbiano un pò di buona volontà (Lc 2, 14)

Ciascuno viene chiamato e nessuno respinto.

Oggi” la luce della Natività e dell’Epifania

brilla fino ai confini delle nazioni.

E’ necessario quindi che il Vangelo domani, e ogni giorno,

venga annunciato ancora e sempre.

 

Poi Gesù chiama subito Pietro e Andrea,

dei quali ci viene detto che “gettano il giacchio” (Mt 4, 18).

In seguito chiamerà Giacomo e Giovanni che “riparano le reti”

nella stessa barca.

Gettare il giacchio è un lavoro individuale;

riparare le reti è un lavoro collettivo.

Personalmente e comunitariamente, siamo interpellati tutti.

E Cristo dice loro:”Seguitemi,

vi farò pescatori di uomini” (Mc 1, 17).

Si tratta infatti di una realtà che riguarda gli uomini,

tutti gli uomini.

Subito, lasciate le reti” per quanto riguarda i primi (Mt 4, 20),

e “lasciata la barca e il padre” per i secondi (4, 22),

cioè lasciato il loro lavoro e i loro beni da una parte e la loro famiglia e parentela dall’altra, “lo seguirono”.

 

In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato

casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia

e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto

in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi,

insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna” (Mc 10, 29-30).

 

Fratelli e sorelle, dobbiamo guardare, meditare,

ricevere il Vangelo con un cuore sempre nuovo,

perché ogni pagina che ci è data dalla liturgia,

serve per guidarci nella vita quotidiana.

E, in questo giorno, ci vengono ricordate due verià essenziali,

che realmente possono illuminare la nostra settimana se lo vogliamo.

La prima” ci dice che siamo tutti evangelizzati da Gesù in prima persona.

La seconda” per portarci a divenire evangelizzatori a nostra volta.

 

Ancora e sempre noi siamo evangelizzati da Gesù.

Uomini di Giudea e genti di Galilea,

giudei credenti e pagani senza istruzione,

tutti sono stati rischiarati dalla sua luce e raggiunti nelle sinagoghe (Mt 4, 23),

ma anche sulle piazze, sui marciapiedi e finanche nelle loro case.

Saranno tutti istruiti da Dio”,

aveva detto il profeta Isaia (54, 13).

Gesù stesso lo ripeterà nel cuore del suo discorso del pane di vita (Gv 6, 45).

Sì, siamo veramente rischiarati dalla sua Parola,

sostenuti dalla sua grazia, accompagnati dalla sua presenza,

fortificati dalla sua Eucaristia!

 

Come il primo giorno quando

camminava sulla riva del mare di Galilea”,

c’è per incrociare la nostra strada.

I suoi passi precedono i nostri e i suoi occhi incontrano il nostro sguardo.

 

Il Natale non è solamente un ricordo.

Gesù non è venuto un giorno per ripartire per sempre.

Fino ai confini di Zabulon e Neftali,

cioè fin nel bel mezzo delle nostre occupazioni più profane,

alle nostre azioni più pagane,

nella Galilea della nostra quotidianità, lui c’è.

Nei giorni cattivi quando saremmo tentati

di crederci soli, perduti, disperati,

come il popolo deportato a Babilonia “che abitava nell’ombra della morte”,

quando, semplicemente non abbiamo voglia di fare il minimo passo verso di lui,

neanche troppo scontenti

del nostro destino triste o fortunato, Lui c’è.

Oggi Gesù parla a tutti noi, così come siamo:

Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino”.

E’ vicino per tutti. Vicino perché Gesù viene

proclamando la Buona Notizia del Regno,

e “guarendo ogni malattia

e infermità nel popolo” (Mt 4, 23),

e perché tutti accorrono “dalla Giudea, da Gerusalemme, dall’Idumea, dalla Transgiordania, dal paese di Tiro e di Sidone.

Tutti” dirà San Paolo,

siamo stati rivestiti di Cristo” (Gal 3, 28)

nel quale continuiamo ad essere evangelizzati.

Oggi il Vangelo ci viene donato da Gesù stesso proprio per il nostro cuore,

per poco che sappiamo pentirci, cioè volgerci verso di lui.

 

Ci è venuto incontro per pura grazia:

per puro amore si è offerto, aperto, rivelato, immolato

mi ha amato e ha dato se stesso per me” ( Gal 2, 20).

Se so accoglierlo, allora posso essere salvato.

Come Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, in effetti

noi siamo chiamati a quest’opera di salvezza.

Seguitemi, vi farò pescatori di uomini” ( Mt 4, 19).

Quello che ha fatto Gesù, ci viene chiesto

di farlo anche noi” (Gv 13, 14-15).

Fino alla fine del mondo e dappertutto,

bisogna che la Buona Novella si diffonda (Mc, 16, 15; Mt 28, 19).

Quando custodiamo questo segreto nel cuore,

quando abbiamo nell’anima una tale felicità

non possiamo tacerla!

Siamo stati completamente uniti a lui” dice Paolo ai Romani (6, 3-11).

Cristo abita nei nostri cuori per la fede” scrive agli Efesini (3, 17).

Tertulliano al III secolo amava dire:

Il cristiano è un altro Cristo”.

E Sant’Agostino, facendogli eco, aggiungeva:

Non solo noi siamo diventati cristiani,

ma siamo diventati il Cristo”.

 

Per dire quando il Signore

si aspetti da noi di essere il vivo prolungamento del suo Vangelo.

A nostra volta dobbiamo ripetere:

Quanto a noi, non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite” (At 4, 20).

Anche solo per la felicità che ci procura la gioia della presenza di Dio nei nostri cuori.

Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo” (2 Co 4, 13).

 

In un mondo così assetato

di Vangelo, di Eucarestia e di Riconciliazione,

più che mai le nostre esistenze sono raggiunte da questo appello di Cristo.

L’ascoltiamo la Parola di Dio che oggi è rivolta a noi:

Seguitemi e io vi farò pescatori di uomini”?

O ancora questa esortazione, come quella che un giorno formulò San Paolo:

Non temere, continua a parlare, non tacere!” (At 18, 9).

 

E rileviamo per concludere, che i chiamati in quel giorno sono dei “fratelli”:

Giacomo e Giovanni; Pietro e Andrea”.

Chiama oggi due a due ,

quelli che domani invierà “due a due”(Lc 10, 1).

E’ possibile annunciare che Cristo è amore

solamente con l’unione e l’amicizia.

Cristo stesso, pur essendo Dio,

non ha mai voluto evangelizzare da solo, ma sempre attraverso il segno

della comunità orante e fraterna dei Dodici, delle pie donne e dei discepoli.

 

Solo l’amore vissuto evangelizza!

Dove due o tre sono riuniti nel mio nome ,

io sono là in mezzo a loro” (Mt 18, 20).

Quindi Dio in persona parla con loro, agisce attraverso di loro,

e testimonia in loro favore. Per cui non bisogna ripetere ancora:

Io sono di Paolo, io di Apollo”;

non ci può essere qualcuno qui per Pietro e laggiù qualcuno di Cristo.

Cristo è stato forse diviso?” (1 Co 1, 13).

Sono le nostre divisioni che hanno paganizzato la terra,

i nostri scismi che l’hanno disgustata!

In questa settimana per l’unità possiamo ricordarcene…

 

Invece, se sappiamo proclamare la Parola di Dio,

senza falsificarla”, ma come è (2 Co 4, 2),

le divisioni indietreggieranno e i cuori si uniranno,

crescerà la comunione e la Buona Notizia

sarà veramente annunciata.

Diventiamo dei veri evangelizzatori

e l’unità vissuta in questo modo, si edificherà annunciandola.

A questo segno d’amore”, Cristo, il Cristo vivo e vero,

sarà “riconosciuto” (Gv 13, 35).

 

Come i primi giorni in cui camminava

lungo il mare di Galilea.

 

©FMG tradotto da Evangelique 3, pp. 34-40

 

Omelie di Pierre Marie Delfieux

4a Domenica del Tempo Ordinario – B

 

Gesù libera un indemoniato

 

Riguardiamo attentamente la scena:

Gesù, accompagnato dai suoi primi discepoli,

arriva a Cafarnao (Mc 1,21).

E’ un giorno di sabato.

Per questo tutti sono riuniti nella Sinagoga.

Il Cristo prende la parola. E si mette ad insegnare.

Tutti l’ascoltano, all’inizio stupiti, poi affascinati:

questo Galileo parla con grande saggezza e con autorevolezza (2, 22).

All’improvviso, scoppia l’incidente:

un grido sale dalla folla, un grido che sembra venire dall’oltretomba:

So bene chi tu sei: il Santo di Dio!”

 

Il Vangelo sottolinea che

i demoni sanno che Gesù era il Cristo” (Mc 1,34; Lc 4, 41).

Ma Gesù stesso conosce prima e molto meglio di loro la presenza di questi spiriti maligni.

E come di fronte al vento e al mare in tempesta,

la voce del Figlio di Dio risuona nella sinagoga:

Taci! Esci da quell’uomo!”

Una convulsione. Un altro urlo straziante.

Ma poi l’uomo tormentato si rialza, finalmente libero.

Tutti furono presi da timore, ci dice san Marco, e si chiedevano l’un l’altro:

Che è mai questo?”.

 

Già, che cosa significa tutto questo?

Nel suo realismo senza fronzoli, questa scena impressionante

ci pone innanzi una questione che non possiamo eludere in nessun modo:

il problema del diavolo,

il “mistero del male” che si erge di fronte all’uomo, un problema che non possiamo eludere,

sul quale, ai nostri giorni, non ci è permesso tacere.

 

***

Che cosa possiamo dire in proposito?

Il diavolo è forse un’invenzione dell’uomo?

O la proiezione immaginaria dei nostri fantasmi inconsci?

O il tanfo insopportabile di un moralismo fuori moda

che cerca di imporsi facendo leva sulla paura?

Che cosa ci dice in proposito “la Scrittura”? Che ne dice “il Cristo”?

Che cosa ne dice “la Chiesa”? Che cosa ci dice su questo argomento “la vita”?


La Scrittura” ci parla del demonio, dalla Genesi all’Apocalisse.

Non lo descrive; non si compiace di raccontarci aneddoti che lo riguardano;

non cerca certamente di impaurirci, di colpirci al cuore,

né di offuscare il nostro spirito con la sua realtà.

Ma comunque, ne parla!

Ne parla, perché riconosce la sua esistenza, e ci insegna a vedere la sua presenza.

La Scrittura sa bene che il Male esiste, fin da prima dell’apparizione dell’uomo e fuori dall’uomo,

che è più forte e più intelligente di noi e che insidiosamente

il demonio si rivolta continuamente contro ogni persona

per indurla a fare il male (1Gv 3,8).

Dopo il primo uomo tentato dal tentatore,

come il primo uomo caduto nelle sue insidie (Gn 3,1),

tutti gli uomini, re, giudici, profeti,

scribi, sacerdoti e apostoli,

e tutta l’umanità, tutti noi

siamo alle prese con questo Essere ostile.

E così dobbiamo constatare, con l’autore della Sapienza, che

la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo” (Sap 2,24).

Estranea ad ogni considerazione fantasiosa o morbosa,

la Scrittura non si compiace di dipingere il diavolo,

ma lo giudica e lo riconosce nelle sue opere.

E ne denuncia la presenza.

Utilizza diversi termini per parlare di lui,

perché è inafferrabile.

Ma, sia che lo chiami “demonio”, o “maligno”, o “tentatore” , o “Satana”,

la santa Scrittura sa che si tratta “dell’Avversario” dell’uomo,

e del “Ribelle” che si erge contro Dio, contro l’unico Dio!

E’ lui “l’Accusatore” di tutti e di ogni persona (Zac 3,1; Ap 12,10; Mt 10, 21);

il “Seminatore” di discordia, il seminatore della zizzania, la zizzania stessa (Mt 13,24),

ma anche “l’Omicida” ( Gv 8,44), il “Mentitore” e “Padre della Menzogna” (Gv 8, 44b),

come lo chiamerà lo stesso Cristo.

 

***

La venuta di Gesù porta una luce chiarissima

Su ciò che san Paolo chiama il “Mistero d’iniquità

che è all’opera nel mondo” (2Tess 2,7).

Infatti, Cristo viene in questo mondo

per stabilirvi il Regno di Dio,

e perciò si scontra frontalmente con inaudita violenza

con il “Principe di questo mondo” (Gv 12,31),

dal momento che , come dice san Giovanni,

tutto quel che è nel mondo” è soggiogato al potere del maligno (1Gv 2,16).

 

Il primo atto pubblico di Gesù, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni (Mt 3, 13),

è di andare nel deserto, “condotto dallo Spirito,

per essere tentato dal diavolo” (Mt 4, 1).

 

Le sue prime azioni pubbliche

dopo la vittoria personale su Satana (Mt 4,11),

hanno lo scopo di liberare tutti coloro che, donne e uomini,

erano tormentati da spiriti maligni (Mt 4, 24).

 

Nei tre Vangeli sinottici,

il primo miracolo di Cristo

consiste nella liberazione di indemoniati (Mt 4, 23; Mc 1,21; Lc 4,33).

 

E l’intero Vangelo secondo Giovanni è il racconto di un duro scontro

tra il Cristo e l’Avversario,

tra Gesù e coloro che ascoltano il diavolo

fino ad essere accecati (Gv 8, 44), o a praticare il tradimento (Gv 6, 70; 13, 27).

Gesù di Nazaret passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano

sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” – come ci dice san Pietro (At 10,38).

 

Giunto al termine della sua vita, lo scontro diventerà letteralmente mortale.

Il Principe delle tenebre sembra trionfare (Gv 14,30),

ma in realtà è il demonio a essere condannato (Gv 16, 11).

La luce della Pasqua trionferà sulla morte ( 1Cor 15, 26.55).

 

***

 

La “Chiesa”, fin dalle sue origini e anche ai nostri giorni,

non ha mai avuto dubbi sulla necessità di prendere sul serio questo aspro combattimento spirituale:

Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente,

va in giro, cercando chi divorare, dice la Scrittura.

Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli

sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi” (1Pt 5, 8-9).

 

Infatti, anche i primi discepoli, fin dai loro primi passi,

si devono impegnare in questa lotta (Lc 10, 17; Mc 16, 17).

 

E per quanto riguarda noi stessi, fin dal momento del battesimo,

la Chiesa ci prepara a questa lotta, pregando per tre volte

affinché il neobattezzato sia liberato dallo Spirito Maligno.

 

Sì, anche noi che siamo qui in questo momento, quando siamo stati battezzati,

siamo stati tutti esorcizzati!

E ogni volta che recitiamo il Padre Nostro,

la preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato,

preghiamo il Signore che

non ci abbandoni nelle mani del Tentatore

e che ci liberi dal Maligno” (Mt 6, 13).

 

Perché sappiamo bene che, sebbene il campo che noi stessi siamo

sia stato seminato con seme buono, nella notte, di nascosto,

il nostro Nemico è sempre in agguato per “seminare la zizzania” (Mt 13, 25),

o “per portare via dal nostro cuore la Parola seminata” (Mc 4, 15).

Per questo siamo continuamente sballottati e confusi

tra il bene e il male:

il male che non vogliamo ma che poi facciamo,

e il bene che vogliamo ma poi non compiamo (Rm 7, 15).

 

Così, anche noi, a nostra volta, scopriamo con tristezza

che il male continua a devastare il mondo e a insudiciare la nostra vita,

sebbene non possiamo dire che gli uomini siano fondamentalmente cattivi,

né che noi stessi siamo intrinsecamente pervertiti.

 

Eppure…! “Scopro in me questa legge:

quando voglio fare il bene

è il male che mi si presenta davanti” (Rm 7,21).

 

Ma la realtà è questa:

il male esiste, intorno a noi, davanti a noi, in noi,

malgrado le nostre intenzioni.

Ma non viene certo da Dio, né lo produciamo tutto noi.

Eppure l’uomo, creato a immagine di Dio,

avido d’amore, cercatore della verità, desideroso di bellezza,

continua a corrompersi con la tortura, a insudiciarsi con il peccato,

a indurirsi nei divorzi e nelle guerre …

Mein Kampf!” Insensato conflitto!

Il nemico ha fatto questo” (Mt 13, 28).

 

L’uomo resta sempre un essere tentato (Gc 1, 14).

I grandi santi ne sanno qualcosa,

essi che, senza eccezioni,

alla sequela di Cristo, si sono scontrati un giorno o l’altro

con il nemico giurato di ogni santità;

contro colui che vuole rubarci la pace e turba il nostro cuore,

odia la nostra unione e provoca le divisioni tra di noi,

minaccia la nostra gioia e fomenta in noi

ogni tristezza, depressione e tormento (Mt 4, 23-24).

 

Chiudere gli occhi su questa realtà non risolverebbe nulla,

ma farebbe ancora di più il gioco di colui che cerca in ogni modo

di passare inosservato per poter agire più liberamente:

la peggiore astuzia del diavolo consiste nel far credere

che non esiste!” ci ricorda Paul Valéry.

La Scrittura ci conferma che non bisogna “cadere in balia di satana, di cui

non ignoriamo le macchinazioni” (2 Cor 2, 11).

 

***

Quali conclusioni possiamo trarre?

 

Innanzitutto, che il Male esiste,

che è più forte di noi, più intelligente di noi; e che

nei suoi riguardi il miglior atteggiamento che possiamo adottare

consiste nell’ aderire a una fede illuminata e coltivare l’umiltà,

seguendo l’esempio di santa Teresa, che diceva:

Al Maligno non voglio rispondere facendo la maligna!”.

 

Poi, noi siamo necessariamente in lotta con il Male,

perché , come san Paolo deplora, siamo tutti

strattonati e tentati.

Ma è anche scritto che

nessuno è tentato al di sopra delle proprie forze,

e che con la tentazione

Dio ci darà sempre la forza per superarla” (1Cor 10, 13; Gc 1, 13).

 

Per questo combattimento il Cristo ci ha armato

con la spada della stessa Parola di Dio (Ef 6,17):

Vattene, Satana!… Non di solo pane vivrà l’uomo,

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt. 4, 4. 10).

 

Ma soprattutto, noi crediamo

che, se anche il male esiste e ci assale,

Dio è sempre più forte del Male e ce ne libera.

Colui che noi vogliamo seguire è il Cristo,

il Vincitore del Maligno (Gv 12,31; 17, 15).

E’ lui che “ha ridotto all’impotenza, mediante la sua morte,

colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2, 14).

Secondo l’ammonizione degli apostoli,

siamo esortati a “non dare occasione al diavolo” (Ef 4, 27),

ma anzi, a resistergli (Gc 4, 7),

mediante la “fermezza della fede” (1Pt 5, 9).

 

Insieme a san Giacomo, possiamo anche noi ripetere:

Resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi.

Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi …

Umiliatevi davanti al Signore

ed egli vi esalterà” (Gc 4, 7. 8.10).

 

Gesù di Nazaret, tu sei venuto per salvarci!

 

©FMG tradotto da Evangelique 1, pp. 85-90

 

 

DAL NO ALL'ASSURDO AL SI' AL MISTERO (Omelia della V° Domenica T.O. B)

 

Tra la tentazione dell'indifferenza o della disperazione, a fronte

di una vita dove tutto è relativo e finisce per morire;

ed il richiamo al mistero dove Dio investe tutto di luce e di vita,

fratelli e sorelle, eccoci oggi invitati a scegliere.

Lo abbiamo appena visto ed ascoltato:

tra il grido di Giobbe, tanto doloroso quanto rassegnato,

ed il proclama di Paolo, pieno di determinazione e speranza,

si innalza, davanti ai nostri occhi, la persona del Cristo Liberatore.

 

***

 

Giobbe è più di un personaggio della Bibbia,

di cui ci è stata raccontata la drammatica storia.

Egli è il simbolo vivente di tutta la nostra razza umana

in preda alla domanda continuamente

riproposta dal problema della sofferenza e del male.

Veramente la vita dell'uomo sulla terra è una corvèe!

Mi son toccati mesi di delusione;

mi sono state assegnate notti di sofferenza” (Gb 7,1.3).

E, per finire, questa preghiera delusa, rassegnata, che non chiede più niente:

Ricordati, Signore, che la mia vita non è che un soffio;

che i miei occhi non rivedranno più la felicità” (7,7).

 

Giobbe conosce la fragilità e la brevità dell'esistenza

e, in più, quanto questa possa essere disseminata di prove.

Egli sa, per averlo duramente appreso a sue spese,

che non vi è umanamente, felicità durevole.

Certamente egli intravede lucidamente che solo il Signore

conosce il perchè delle cose.

Ma cosa fare e cosa dire di fronte a un Dio

che sembra sempre tacere e non volere intervenire?

 

Al termine di questo secolo

che sarebbe stato, per tutta una parte,

quello delle grandi illusioni deluse,

e delle grandi disillusioni provate,

la tentazione resta sempre attuale.

E ci si interroga ancora

al crocevia di questo strano miscuglio

di ricerca di felicità assoluta e di angoscia di fondo.

A questo crocevia dove un incessante bisogno di presenza e di affetto

si mescola ad un perpetuo sentimento di solitudine e di conflitto.

E si sente, un po' dappertutto, sotto mille volti,

la voce di Giobbe che si interroga sempre.

Chi dunque darà all'uomo che siamo noi,

la risposta che abbiamo diritto di ricevere?

E che consiste nel sapere se sì o no,

Dio si interessa veramente di noi?

*

Nella grande calma che precede il levar del giorno,

ben prima dell'alba” (Mc 1,35),

Colui che nessuno ancora conosceva, è apparso (Mt 3,13).

Là sotto i nostri occhi egli si è alzato!

 

Di fronte alla domanda di Giobbe,

ecco finalmente la risposta di Gesù!

Non è all'inizio una risposta proclamata ed insegnata,

ma una risposta assunta e messa in pratica.

Vediamo sotto i nostri sguardi

la giornata tipo e, quanto rivelatrice, del “Redentore dell'uomo”.

Il “giorno” cala e lui è là, “accompagnato da Giacomo e Giovanni,

nella casa di Simone e di Andrea” (Mc 1,29).

Là egli rialza una donna, a letto con la febbre (1,30).

La “sera” scende e le folle affluiscono immediatamente davanti alla “porta”.

Egli guarisce e libera “ogni sorta di malati e di posseduti

accorsi da tutti la città” (1,32.34).

La “notte” viene ed egli prega “nel deserto e nella solitudine”.

La preghiera è il luogo dove il Figlio stesso dice il suo amore al Padre.

E fin dal “mattino” quando “tutti lo cercano”

egli parte ancora più lontano “per i villaggi vicini e per tutta la Galilea”,

proclamando la Buona Novella e pregando “nelle loro sinagoghe” (1,35-39).

 

Come dire meglio, fratelli e sorelle, che Gesù interviene

in tutti gli ambiti della vita?

Nella casa”, si colloca la sua presenza nella nostra vita privata.

Alla porta della città”, si manifesta il suo interesse per la nostra vita pubblica.

All'interno delle sinagoghe”, si rivela la sua azione sulla nostra vita religiosa.

No! Dio non tace e non resta indifferente

di fronte alle nostre domande, alle nostre prove, alle nostre sofferenze!

Giobbe concentrava in qualche modo in sé stesso

tutto il dolore umano, ma senza potersene liberare.

Gesù Cristo lo riprende, assumendolo,

per ridare un senso a questa apparente assurdità.

Ormai il dolore non è più un vicolo cieco, ma un passaggio.

Non ha più l'ultima parola.

La croce di Cristo ne fa una Pasqua che si apre a Dio al di là!

No! non c'è più donna, uomo,

bambino o vecchio, sulla terra,

che non possa afferrare la mano di Gesù

e lasciarsi toccare, guarire, resuscitare da Lui!

Anche se non si è per questo liberati dal male della sofferenza,

si è liberati dal dramma di soffrire inutilmente.

Di penare indefinitamente.

Il Figlio di Dio in persona è venuto a camminare

dal più alto dei cieli sui nostri sentieri della terra.

Di fronte al nostro sgomento, il Signore stesso

ha voluto liberamente sottoporsi alle nostre prove.

Egli si è fatto realmente, follemente, il nostro Signore-servitore,

il nostro “schiavo”, per fare di noi dei coeredi della vita eterna (Rm 8,17;Fi 2,6).

“Sposando la nostra morte”, come oseranno dire i Padri,

egli l'ha riempita della speranza della Sua vita.

Inutile cercare di meglio e oltre!

I discepoli di Cristo sono i soli al mondo

a conoscere, a dire e a proclamare questa straordinaria notizia:

che esiste infine, tra noi uomini, un vero resuscitato!

Qualcuno che si è rialzato vivo dalla tomba,

per diventare per sempre “il primogenito tra i morti (Col 1,18)!

E dobbiamo avere abbastanza fede nell'uomo

per credere anche noi che “Dio ha tanto amato il mondo

da aver donato il suo unico Figlio”.

E San Giovanni non teme di aggiungere:

affinchè ogni uomo che crede in Lui non perisca,

ma ottenga la vita eterna” (Gv 3,16).

 

Ecco perchè avanza in quest'oggi

questo Gesù di Nazareth che proclama dappertutto la Buona Novella”

di cui tutto è nutrito (4,34), per la salvezza dell'uomo.

Bisogna che il mondo lo sappia e lo abbiamo riascoltato oggi:

é per questo che sono venuto” (Mc 1,38)!

E' per vincere la nostra disperazione che egli ha conosciuto la nostra angoscia (Mt 26,38).

Per renderci la gioia ha sofferto la nostra tristezza.

E' per togliere “il peso dei nostri peccati” che ne ha pagato tutto “il debito” (Col 2,14).

Sì, possiamo ritrovare il senso dell'esistenza

reintegrando nella nostra storia la vita del Figlio di Dio.

 

*

Ascoltando l'apostolo Paolo, comprendiamo infine perchè oggi,

nella nostra città, quello stesso Cristo è sempre là,

e viene a prendere ancora la mano di ognuno di noi.

Come tacere questa Buona Novella?

Annunciare il Vangelo non è infatti un titolo di gloria,

ma una necessità che si impone” (Co 9,16).

Fedele imitatore di Cristo, Paolo ha capito tutto.

Libero nei confronti di tutti

mi sono fatto il servitore di tutti

al fine di guadagnarne il più gran numero possibile” (9,19).

E' anche questo un bell'insegnamento per noi.

Il Vangelo non è innanzitutto una dottrina che si proclama;

ma una vita che si assume.

Non una teologia trasmessa che ha una risposta a tutto;

ma un esempio di partecipazione e di azione sulle orme di Gesù Cristo.

Per dirci “la Buona Novella della nostra salvezza” (Ef 1,13),

Gesù l'ha vissuta.

Per dire al mondo questo stesso “Vangelo di Dio” (Rm 1,1)

dobbiamo tradurlo con una vita di fede, di speranza e di amore.

 

Viviamo troppo spesso come se le promesse di Cristo

fossero solo nell'ordine del possibile.

Come il mondo crederebbe che Dio ci ha donato tutto

se noi rischiamo così poco per dirglielo?

Non è quello l'esempio che ci da San Paolo

che dice di sè “venduto al Cristo e schiavo di tutti” (1Co 9,19).

Come, altrimenti, fare ammettere agli uomini

la follia dell'amore di Dio per noi

e la meraviglia delle sue promesse di gloria (2Co 4,17)?

Questo mondo, più che mai, ha bisogno di “folli in Cristo”.

 

***

E' vero, fratelli e sorelle,

Dio ha assunto un grande rischio

affidandoci così il suo Vangelo!

Una volta acceso questo fuoco di luce e di amore, Egli ci ha lasciato

la responsabilità di alimentarlo e di propagarlo.

Possiamo noi fare come se non lo sapessimo?

E'infine così bello impegnarsi

per l'annuncio gioioso del Vangelo della salvezza!

 

Signore per te, ho spiegato le vele

della nostra fede e della nostra testimonianza.

Che il soffio del tuo Spirito venga a gonfiarle.

Che dia slancio e dinamismo a questa testimonianza

per la quale mi sono impegnato” (Saint' Hilaire de Poitiers).

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

VI Dom. T.O. B

 

Lasciarsi guarire


La lebbra!

La lebbra è una malattia che colpisce inizialmente la pelle.

Se non viene curata, si estende e si porta, poco a poco, in profondità a corrompere l’intero organismo.

Trascina l’essere vivente alla morte, facendone un morto vivente,

che si decompone

prima di essere sepolto.


Nella Scrittura la lebbra ha sempre simbolizzato il peccato.

Semina infatti nel bel mezzo della nostra vita

dei germi di corruzione”

e pare di poterlo fermare solo fuggendo (Lv 13, 46).


Il peccato attira incessantemente la grazia del perdono,

come la nudità dell’uomo, improvvisamente divenuta vergognosa,

dopo il suo primo peccato,

provoca la compassione di Dio,

che lo riveste di tuniche di pelle (Gen 3, 21),

poi Cristo con la sua misericordia lo rivestirà di luce.

La grazia di Dio è sempre più forte del peccato.

 

Ma allora che cos’è il peccato?

E come, colpendoci prima dal di fuori, poi al di dentro,

è in grado di condurci poco a poco

alla morte e alla corruzione? (Rm 5, 12)

 

Un pò di tempo a questa parte, diverse decine di vescovi

rappresentanti le Chiese dei cinque continenti,

si sono riuniti in Sinodo a Roma,

per riflettere sul “mistero del male”, all’opera nei cuori,

sulla riconciliazione che provoca e sul sacramento del perdono.

 

Il Papa Giovanni Paolo II,

riprendendo delle conclusioni in una esortazione apostolica

ci propone di meditare a nostra volta

sul dramma che colpisce la nostra umanità.

Questo non certo per farci perdere nel dedalo del moralismo,

ma per ricondurci, lavati e liberati,

sui sentieri della vita vera.

 

Giovanni Paolo II dice che due racconti biblici ci danno la chiave

per la comprensione del “mistero del male”,

che ha nel peccato la sua origine:

la Torre di Babele e il peccato originale.

Due racconti simbolici , ma quanto carichi di verità rivelata.

In entrambi i casi è il rifiuto di andare nel senso dell’ascolto di Dio

a provocare il dramma.

Il desiderio orgoglioso di diventare Dio senza Dio.

L’opposizione rigida e impaurita alla sua santa volontà:

cioè al disegno meraviglioso del suo amore per noi.

 

E allora vediamo sorgere la sciagura di una doppia rottura.

Rottura della relazione con Dio.

Allora si rompe in noi, tutta un’armonia interiore:

lo spirito si annebbia, la volontà si indebolisce,

cresce la sofferenza e la morte diventa una minaccia.

In una parola, il peccato smembra l’uomo.

Come la lebbra, il suo desiderio lo divora”, dice il salmista (Sal 39, 12)

Perde la gioia, la pace, la generosità,

Corre, avido e insaziabile,

cercando delle briciole di felicità, assetato di vita vera.

 

Rottura poi della relazione con gli uomini.

L’altro non è più spontaneamente un amico, un fratello,

ma un vicino, uno straniero, forse un concorrente;

un rivale, un disturbatore, un oppositore e per finire, forse, un nemico.

Allora compaiono le barriere, le frontiere,

i doveri e i diritti, i divieti,

e, per finire, a volte gli scontri e la guerra.

Non abbiamo mai finito di ritrovare la pace.

Il peccato, in noi, ha confuso tutto.

E intorno a noi ha creato disunione.

 

Di fronte a questo dramma, che cosa ha fatto Cristo?

Cosa ritroviamo nel Vangelo di oggi?

 

Ecco proprio un lebbroso.

Piuttosto che negare o nascondere il suo male

o rivoltarsi in una protesta sterile

si avvicina a Gesù.

Riconosce umilmente di essere lebbroso:

cade in ginocchio, lo supplica e dice a Gesù:

Se vuoi, puoi guarirmi” (Mc 1, 40).

 

Se noi sappiamo riconoscere in lui il Figlio di Dio,

se vogliamo accordare la nostra fede alla salvezza che ci porta,

ancora oggi, lo stesso Cristo ha il potere di guarirci.

Gesù non rifiuta nulla a chiunque lo invochi con fede.

Il Padre non resiste mai all’umiltà dei suoi figli,

che si rivolgono a lui per domandare il perdono dei loro sbagli.

Quand’anche i vostri peccati fossero come scarlatto,

diventeranno bianchi come neve” (Is 1, 18).

 

E Gesù “stende la mano” in effetti.

Nonostante i divieti che glielo proibiscono,

la legge del Levitico che gli ingiunge piuttosto di arretrare (Lv 13, 1-46),

tocca il lebbroso”.

Costui, con la sua fede, ha toccato il cuore di Dio.

E Dio, con la sua potenza, viene a guarire questo uomo afflitto.

Facciamo un solo gesto di contrizione verso Dio,

e ci laverà, ben più che da una malattia epidermica:

dalla moltitudine delle nostre colpe,

anche se fossero ancorate nel fondo del nostro foro interno.

 

Subito” ci dice infatti il Vangelo,

la lebbra compare da quest’uomo ed è guarito” (Mc 1, 42).

Dio ha sempre il potere

di lavarci, di perdonarci e di salvarci.

Dice e questo esiste. - Va, la tua fede ti ha salvato! - Alzati e cammina!

Anch’io non ti condanno.

Questa sera sarai con me in Paradiso.

Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo!”

Ed eccoci tutti in piedi!

 

Ma Gesù ammonendolo severamente,” ci dice il Vangelo,

lo rimandò e gli disse:

Guarda di non dire niente a nessuno,

ma va, presentati ai sacerdoti e offrì per la tua purificazione quello che Mosè

ha ordinato a testimonianza per loro”.

Perché improvvisamente tanta durezza

da parte di un cuore così misericordioso

e tanta necessità di segretezza, dalla bocca di Colui

che viene ad annunciare le meraviglie di Dio?

 

Innanzitutto per condurre quest’uomo guarito,

a reintegrare, senza ulteriori attese, la società che lo aveva escluso-

Facendo “constatare la sua guarigione” il più velocemente possibile, potrà riprendere il suo posto tra gli uomini,

e andare avanti liberamente nella vita!

Quando Dio ha perdonato le nostre colpe,

non vuole che ci fermiamo a rimuginarle.

Un peccato perdonato è un peccato annientato,

non è nemmeno il caso di ripensarci!

Dio getta le colpe che gli portiamo, in fondo al mare,

dice il profeta Michea (7, 19)

e un pastore, con umorismo, aggiungeva:

E mette sulla riva un pannello con scritto:

Divieto di pesca!”

Il perdono di Dio non “cancella” solamente, ma

ci ricostruisce. (Lc 7, 50; Gv 4, 29; 8, 11)

 

Andando al sodo,

Gesù ingiunge il silenzio al lebbroso guarito.

Per mantenerci sulla linea dell’essenziale,

ci chiede sempre di fuggire il sensazionale.

I suoi miracoli sono solamente dei “segni”.

Non sono un fine in sè:

Rifiuta che vengano divulgati per fomentare false speranze.

La speranza che ci porta è quella di una salvezza spirituale-

Perché sappiate che il Figlio dell’uomo in terra ha il potere di perdonare i peccati, va” - dice Gesù al paralitico-

Alzati e cammina!”

E, perdonato, il paralitico si mette a camminare!

Gesù non sconvolge il mondo togliendogli la sofferenza e la morte da quel momento in poi.

Seppur guarito, il paralitico prende con sé il suo lettuccio (Mt 9, 7; Gv 5, 9).

Ma gli “manifesta” la misericordia e il perdono.

E ci chiama a nostra volta

ad essere “misericordiosi e a perdonare” (Lc 6, 36-37).

Allora i nostri corpi potranno risorgere per una felicità d’eternità.

Gesù esige il silenzio

fino alla rivelazione del senso ultimo del perdono

nel giorno della sua Passione.

E in quel giorno, sconvolti, scopriamo

che Gesù ha preso su se stesso

la lebbra dei nostri peccati” (Is 53, 3-8)

e che “il Figlio dell’uomo, sulla terra” (Mt 9, 6),

ha realmente “perdonato il peccato del mondo” (2Co 5, 21).

 

Nelle sentenze dei Padri del deserto,

si racconta di Abba Aghaton, un vecchio monaco della Tebaide, che diceva:

Se potessi trovare un lebbroso per dargli il mio corpo,

e prendere il suo, lo farei,

perchè in questo sta la carità perfetta.”

Quello che Abba Aghaton non ha dovuto fare

perchè il Signore ha avuto pietà di lui,

il Padre l’ha accettato da suo Figlio Gesù Cristo, lui che ci ha detto:

Non c’è amore più grande che dare la vita

per i propri amici” (Gv 15, 13)

 

Sì, per noi Gesù si è fatto lebbroso!

Si è fatto peccato (2 Co 5, 21).

Si è fatto maledizione per noi” (Ga 3, 13).

Ma consentendo ad essere sfigurato per noi,

ci ha trasfigurati attraverso la grazia della sua pace!

E questo non è più un segreto.

Proprio il Vangelo della salvezza proclama davanti ai popoli:

Dalle sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53, 5; 1 Pt 2, 24).

L’abito nuziale ricopre oramai la lebbra del peccato.

Il “mistero del male” è stato rovesciato in “mistero di bene”.

Oramai possiamo “fuggire il male facendo il bene” (1 Pt 3, 11).

 

Felice colpa che ci meritò un così grande Salvatore”

La tenebra si è cambiata in luce. La tristezza si smuove in gioia.

La vergogna si tramuta in letizia.

La malattia riconosciuta ci riporta alla Vita!

 

Allora come non confessare tutte le nostre colpe?

Non abbiamo paura di andare verso di lui:

la nostra umiltà toccherà il suo cuore.

E lasciamolo venire verso di noi:

ci rivestirà col mantello della giustizia.

Hai cambiato il mio lutto in gioia,

sciogli il nodo di sacco e mi rivesti di potenza.

Il mio cuore ti loderà in eterno per sempre” (Sal 30, 12-13).

Cristo è con me: io mi stringo a lui ed egli mi abbraccia”.

Una preghiera cristiana del II sec. dice:

Non avrei saputo amare il Signore, se lui non mi avesse amato per primo.

Chi può comprendere l’Amore, se non colui che ama?

Stringo l’Amato e la mia anima lo ama,

io sono dove si trova il suo riposo.

Non sarò più uno straniero,

perchè non c’è più odio presso il Signore.

Sono legato a lui, perché l’amante ha trovato il suo amato.

Poichè amo il Figlio, diventerò figlio,

Sì, chi si unisce a Colui che non muore più,

sarà anch’egli immortale.

Colui che si compiace nella Vita, sarà a sua volta vivente…”

 

Venite, voi tutti, assetati,

attingete alle acque della Fonte viva,

poiché si è aperta per tutti.

Bevete la bevanda che lava e disseta…

Cola, eterna e invisibile:

prima che fosse apparsa, nessuno l’aveva vista.

Beati coloro che hanno bevuto a questa Fonte,

beati coloro che hanno estinto la loro sete.” (Odi di Salomone, verso 150)

 

©FMG tradotto da Evangeliques - 3 da pag 111-116

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Celebrazione del Mercoledì delle Ceneri

 

In questo giorno,

che segna l'inizio solenne della Quaresima,

tutto ci richiama alla interiorità e alla comunione.

All''interiorità

che traduce la verità nell'umiltà delle nostre vite.

Alla comunione

che si esprime nell'obbedienza alla Chiesa di Cristo.

 

Se noi leggiamo con attenzione

ognuno di questi tre testi, che ci vengono proposti oggi,

ci rendiamo conto che ovunque primeggia 'l'interiorità'.

 

“Tornate a me con tutto il cuore”,

dice il Signore attraverso le parole del profeta Gioele.

Non con le fanfare e con i proclami, ma “nel digiuno , nel pianto e nel lutto” (Gio 2,12).

Cioè in tutta la verità di un'anima protesa verso il Signore.

“Perchè tu ami la verità nel profondo del cuore”, dice il salmo,

“Istruiscimi dalla profondità della sapienza…

il mio sacrificio è uno spirito affranto,

un cuore contrito, umiliato, tu non disprezzi”. (Sal 51,8.19).

Nulla rallegra di più' il cuore di nostro Dio e Padre,

che il ritorno a lui del nostro cuore di figli.

 

Con l'apostolo Paolo, risuona lo stesso invito.

Non per chiederci di intraprendere passi straordinari e appariscenti,

ma piuttosto per chiederci con insistenza

“di lasciarci riconciliare con Dio” (2 Co 5,20).

La grazia di Dio, di solito, non agisce dall'esterno

interferendo sugli elementi, le cose, le persone, gli avvenimenti.

No, agisce piuttosto costantemente ad un livello più interiore,

a livello del cuore dell'essere umano.

E' li, nella parte più intima di noi, si potrebbe dire,

che cade e sgorga il goccia a goccia della vita divina.

Si capisce allora il valore

dell'esortazione dell'apostolo quando ci invita tutti

a “non lasciare cadere la grazia ricevuta da Dio” (6,1).

“E' nel cuore dell’uomo” (Mt. 12,33-35)

che si prepara e si vive la conversione del mondo.

“ L'uomo dal buon tesoro del suo cuore, trae ciò che è buono

e dalla sua parte cattiva ciò che è cattivo” (Lc 6,45).

E’ dunque a questa conversione interiore

che ci invita l'apostolo Paolo.

 

E' con Gesu', attraverso il suo insegnamento,

che questo richiamo all'interiorità raggiunge il culmine.

Cio' che ci chiede Cristo non è prima di tutto il digiuno, l'elemosina e la preghiera in quanto tali,

ma la discrezione, l'umiltà, l'interiorità

da riporre nella preghiera, nell'elemosina, e nel digiuno.

L'accento verte su questo incontro a tu per tu fra Dio e ognuno di noi,

da vivere innanzitutto nell'autenticità del cuore.

L'espressione “tuo Padre”, molto personale, molto intima,

ci viene proposta a tre riprese;

e ogni volta è centrata su cio' che “Si fa e si vede nel segreto.

Tuo Padre che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6, 4.18).

Ciò che Cristo si aspetta da noi

è che noi abbiamo innanzitutto un'anima limpida,

un cuore puro, uno spirito sincero.

Ed è di questo che il mondo attualmente ha piu' bisogno

( un mondo che risente piuttosto della mancanza di valori, che non di cattive strutture),

di spiriti sinceri, di cuori puri e di anime limpide1.

Ecco la vera luce del mondo e il vero sale della terra

che Cristo agogna e che il mondo aspetta.

 

Eccoci quindi innanzitutto, fratelli e sorelle,

insistentemente chiamati, all'inizio di questa quaresima,

a riporre , ognuna e ognuno di noi, nelle nostre vite,

questo primato all'interiorità.

A sviluppare in noi 'l'essere interiore'.

A vivere innanzitutto una autentica 'vita spirituale'.

“Il cielo dove risiede Dio” è anche nel profondo del cuore dell'essere umano,

nel quale ha riversato il suo soffio e diffuso la profusione del suo Spirito.

Soprattutto in questo tempo di grazia,

noi possiamo quindi ascoltare e meditare questa meravigliosa promessa del figlio di Dio,

che si esprime in nome della Trinità: “Se qualcuno mi ama, mio Padre l'amerà e noi verremo a lui e noi stabiliremo in lui la nostra dimora” (Gv 14,23).

 

Su questa base, fondata sull'umiltà e la verità,

la quaresima puo' allora diventare un processo comune

che noi compiamo tutti insieme.

 

“Suonate la tromba a Gerusalemme”, proclama il profeta Gioele

“prescrivete un digiuno sacro, annunciate una solennità,

riunite il popolo e indite una santa Assemblea” (Gl 2,15-16).

Non dobbiamo mai dimenticare

che la priorità accordata al cuore di ogni persona non ci esime

dal formare insieme un popolo santo (1 Pt 2,9).

La vera comunione nella preghiera non compromette affatto l'interiorità dell'anima.

 

“Noi vi supplichiamo, nel nome di Cristo”, dice allora l'apostolo Paolo,

“ lasciatevi riconciliare con Dio”.

Parla, ci dice, in qualità di ambasciatore di Cristo

e precisa che, attraverso questo richiamo ecclesiastico,

è Dio stesso che , tramite i suoi discepoli, si rivolge a tutti (2 Co 5,10).

“Un giorno di salvezza” è cosi decretato

e un “momento favorevole” è determinato.

Un vero cammino ecclesiale non si frappone mai all'intimità divina.

" E' grande cosa e di grande valore agli occhi di Dio,

quando tutto il popolo cristiano

prega per una stessa causa

e che uomini e donne di ogni ceto e classe

si impegnano con lo stesso fervore del cuore”2.

 

Gesù non farà mai menzione di questo richiamo universale,

poichè lo dice ad ognuno attraverso il Vangelo,

è chiaro che lo propone a tutti e per sempre.

“ Se volete vivere come dei giusti”, afferma “alle folle” (Mt. 5,1),

digiunate, pregate, condividete, nel segreto del cuore

ma condividete, pregate e digiunate tutti, di fatto e veramente.

E dunque perchè non tutti insieme?

Non ha forse egli per primo

“pregato apertamente, ogni giorno nel tempio” (Gv 18,20)

ogni sabato nelle sinagoghe (Mt. 4,23; Mc 1,21; Lc 13,10),

chiesto ai suoi di fare l'elemosina (Lc 11,41, 12,33)

e parlato apertamente di digiuno ai suoi discepoli? (Mc 9,29)

Eccoci dunque oggi, a buon diritto, tutti convocati dalla Chiesa,

in questo primo giorno di quaresima,

per compiere insieme un atto di fede

e un cammino di speranza lungo la strada che conduce alla Pasqua.

 

La contraddizione

fra la priorità data all'interiorità

e l'esperienza di condividere insieme questo giorno,

non è che apparente.

Siamo veri nella nostra disposizione alla conversione.

Siamo sinceri nella nostra pratica di pentimento.

Riceviamo con umiltà le ceneri sul nostro capo.

Questo rappresenta un autentico valore penitenziale.

Ma siamo anche fraterni nel nostro cammino comune svolto come Chiesa

in questo “tempo di grazia” che inizia “oggi”.

 

A ben vedere oggi il Signore ci chiama a un doppio amore:

all'amore di Dio vissuto nell'intimo e all'amore condiviso degli uomini.

Umiltà e verità del cuore

non si oppongono ad una comune manifestazione di speranza

e ad un approccio corale di fede.

 

Si, fratelli e sorelle,

abbiate un cuore pieno d'amore e di verità,

e nell'umiltà e nella santità,

viviamo insieme e in Chiesa

questo cammino di quaranta giorni verso la luce di Pasqua.

E noi faremo progredire questo mondo e le nostre vite “cammini di pace”

 

©FMG omelia manoscritta del 17 febbraio 2010 . Chiesa di Saint Gervais - Parigi

.

1 Rif. 2 Co 3,2; 2 Co 6, 11-13; Eb 8, 10

2 San Leone Magno, Sermone 88 Sul digiuno del 7° mese; PL. 54, 442

 

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

I Domenica di Quaresima B


 

Mistero eterno della salvezza dell’uomo

 

Dall’arca di Noè fino ai giorni di Gesù nel deserto,

passando attraverso l’esortazione di Pietro agli stranieri della dispersione (1 Pt, 1),

possiamo individuare un filo conduttore?

Avvicinandoci ai testi biblici che possono sembrare

sparsi e ben distanti gli uni dagli altri,

la Chiesa è sempre guidata, lo sappiamo, dal desiderio di istruirci.

La “Parola di Dio” effettivamente si chiarisce attraverso la “Parola di Dio”.

La disposizione dei collegamenti, secondo delle coerenze proprie,

mette allora in risalto quello che diviene un “messaggio liturgico”.

I testi così proiettano, l’uno sull’altro, dei fasci di luce incrociati

da cui emerge una luce maggiore.

Siamo allora spalancati alla grazia della Rivelazione.

Così, nelle letture di questa prima settimana di Quaresima,

tutto ci parla della misericordia infinita di Dio per gli uomini

e del suo instancabile desiderio di veder regredire il male,

a condizione chiaramente di collaborare alla sua grazia, che è sempre

così rispettosa della nostra libertà.

 

La prima lettura che ci racconta il periodo successivo al diluvio (Gen 9, 8-15),

espresso in un linguaggio molto figurato, ma ricco di senso spirituale,

è già portatrice della verità prima e ultima.

Che cosa dice in effetti ?

 

Innanzitutto la creazione risorge dalle acque del diluvio

che sembrava tuttavia avere inghiottito tutto.

L’esplosione iniziale del peccato aveva provocato effettivamente

come una reazione a catena con conseguente spirale del male.

E la proliferazione di questo male aveva allora minacciato

di sommergere e di prevalere sull’umanità.

Lo sappiamo, oggi più che mai:

quando l’uomo è lasciato solo, abbandonato a sé stesso, il rischio è sempre presente!

I gulag, i forni crematori, i genocidi dell’ultimo secolo sono là per ricordarcelo.

La Bibbia ci confida allora il profondo scoramento provato dal Creatore.

Come un padre disperato che rimpiange di aver creato.

Ma c’è un bel antropomorfismo, una maniera umana di parlare,

che ci mostra l’amore viscerale di Dio per gli uomini.

Come si comprende dal momento in cui il Signore si lascia toccare

dalla giustizia e dalla rettitudine di uno solo dei suoi figli, nella persona di Noè.

L’amore di Dio che aveva creato l’uomo

coprendolo di benedizioni per una meravigliosa missione (Gen 1, 28-30),

si rivolge nuovamente verso Noè e i suoi figli per dichiarare,

rinnovando loro le stesse benedizioni (Gen 9, 1-3),

ma questa volta con maggiore generosità:

Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con

ogni essere vivente che è con voi” (Gen 9, 8-10).

Scaturisce allora questa meravigliosa promessa:

il diluvio non devasterà più la terra (9, 11).

 

Alleanza nuova per una umanità nuova.

L’amore di Dio è da sempre e per sempre!

In mezzo alle nostre prove peggiori, esso dimora compassionevole.

Per un breve istante ti ho abbandonata…

ma, nel mio amore eterno, ho pietà di te,

dice Dio il tuo redentore”. E Dio continua, tramite la bocca di Isaia:

Ora è per me come ai giorni di Noè,

quando giurai che non avrei più riversato le acque di Noè sulla terra…

anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero,

non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace” (Is 54, 7-10)

 

Già si profila, annunciata dalla “Legge e i profeti” (At 7,52),

la figura di un nuovo Noè nella persona di Gesù il Giusto (cfr. Mt 27,9; Lc 23,47; At 3,14; 7,52; Gc

5,6).

Gesù che ci salva tutti e “una volta per tutte” (cfr. Rm 6,10; Eb 7,27; 9,26; 1 Pt 3,18), attraverso le

acque del suo “battesimo”.

 

Innanzitutto al Giordano dove annega “il peccato del mondo” che egli carica su se stesso;

poi sulla croce dove si è cercato di farlo sprofondare nelle acque della morte,

ma da dove egli è risalito vivente, vittorioso,

ripristinando per noi una “creazione nuova” (2 Cor 4,17; Gal 6,15)

Ecco, dopo la diffusione universale del male,

l’alleanza anch’essa universale per il bene.

Una alleanza di misericordia e di perdono

che niente, accanto a Dio, potrà scalfire o intralciare .

Una alleanza estesa a tutti i viventi con una generosità senza limite,

opera della “misericordiosa tenerezza” del nostro Dio (Lc 1,78),

come cantiamo ogni mattina nel “Benedictus” delle lodi.

 

Una meravigliosa immagine nasce allora, significativa

ben al di là della poesia che suggerisce

e senza la pretesa di dare un motivo miracoloso

a un semplice fenomeno che rientra nelle leggi della fisica:

l’immagine dell’arcobaleno.

Un’immagine piena di senso e che diviene da allora in poi un “segno”.

Il segno dell’ arco sulle nubi (Gen 9, 13-16),

ciò a dire letteralmente, come indica il termine ebraico,

l’arco di guerra” sospeso da Dio al di sopra della terra, all’orizzonte del cielo.

Un arco di guerra che rappresenta dunque, così “sospeso sulle nuvole”,

la tregua di pace perpetua e universale da parte del Signore.

Questo arco tra cielo e terra

non rinvia altro che dei raggi di luce e di amore.

Di una luce che, toccando i nostri cuori, li riempie,

per dirlo con Giovanni della Croce, di una “fiamma viva d’amore”.

 

Eccoci adesso chiaramente introdotti

a che cosa vuol significare per noi il breve brano,

anch’esso letto in questa domenica, del Vangelo secondo Marco.

Un semplice e breve cenno, quasi lapidario,

alla discesa di Gesù al deserto, “sospinto dallo Spirito”

per essere lì “tentato da Satana” (Mc 1, 12-13).

 

Si può già notare come questo ci mostri la determinazione di Cristo

ad attaccare frontalmente quella che lui stesso chiama

la “potenza del Nemico” (Lc 10, 19).

Se egli non fosse stato tentato, come ci avrebbe insegnato

il modo di vincere la tentazione?” si domanda sant’Agostino.

Dio infatti non fa promesse vane.

Affinché la pace, come promesso, regni nei cuori,

dobbiamo respingere colui che ne è l’ Avversario.

Oggi dunque, “il Principe della pace” affronta “il Principe di questo mondo” (Gv 12,31)!

 

Le due piccole annotazioni che seguono prendono ora tutto il loro senso.

Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1,13).

Ecco! “Gesù il giusto” non teme di affrontare tutti i nostri mali.

La sua vittoria sul tentatore è come la padronanza

sulle bestie nocive, quelle che la Scrittura chiama “le forze del male”.

Ma soprattutto Gesù ridona alla terra degli uomini

il gusto della convivialità e l’amore della pace.

Chi vuole seguirlo oramai, come Noè nel suo tempo,

troverà in Dio il suo rifugio così come canta il salmo:

Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda.

Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi” (Sal 91, 10-11).

 

Una volta respinto il male, esclusa la tentazione,

gli angeli buoni” sostituiscono gli “angeli malvagi” !

Subito” dopo il suo battesimo nelle acque del Giordano (Mc 1,12),

la vittoria immediata e decisiva di Cristo sul Tentatore

lo spinge a farsi avanti per annunciare al mondo

il perdono e la pace.

Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.

Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27).

Il ritorno al paradiso degli angeli è già annunciato.

 

Ecco dunque Gesù che cammina verso la Galilea delle nostre strade quotidiane.

Può proclamare al nostro posto il Vangelo di Dio.

Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1, 14-15)

E che Buona Notizia!

Come Noè il giusto “ha salvato l’avvenire” (secondo la bella espressione di P. Beauchamp in

Aux jours de Noè”, 1973),

per aver resistito alla perversità del male,

ed è diventato il padre di una nuova umanità,

così Gesù il giusto per eccellenza dà origine “ all’uomo nuovo”.

Egli riscatta il male. Egli vince la morte. Egli ce ne libera.

Alla sua sequela, noi stessi possiamo ricevere il battesimo della salvezza.

Le acque che un tempo hanno dato la morte,

diventano in questo giorno sorgenti di vita eterna.

In verità, possiamo rivolgerci,

convertirci a lui, perché egli è il “Redentore dell’uomo” (Gv 4,41).

Il Regno di Dio è vicino” in verità.

E’ già “dentro e in mezzo a noi” (Lc 17,21).

Alla luce di questo duplice avvenimento biblico

(la pace promessa al mondo attraverso Noè, dal Dio delle misericordie

e la vittoria del Figlio prediletto sul nostro Avversario),

si comprende quello che l’apostolo Pietro ci dice ora nella sua lettera (1 Pt 3, 18-22).

 

E’ dunque questo invito pressante a condividere

la sua professione di fede verso il Salvatore:

Fratelli, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati;

Lui giusto è morto per gli ingiusti

per ricondurvi a Dio;

messo a morte nella carne, ma reso vivo nello Spirito” (1 Pt 3,18)

Ritroviamo in queste parole uno dei fondamenti

del Simbolo degli Apostoli, divenuto il Credo della nostra fede.

 

Il seguito del testo, al di là del suo aspetto sorprendente a primo acchito,

è ugualmente ricco di insegnamenti:

E’ così”, ci dice san Pietro, “che Cristo andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che

attendevano in prigione” (1 Pt 3,19).

 

Sarebbe meglio dire che quel successo eclatante, totale, definitivo,

Cristo lo ha ottenuto perché “tutti gli uomini”,

(fino ai peccatori più incalliti nel male,

i più lontani e i più perduti)

sappiano che sono chiamati alla salvezza (1 Tm 2,4)

Là dove ha abbondato il peccato, dice Paolo, ha sovrabbondato la grazia (Rm 5,20)

Piccoli miei, rincara Giovanni, anche se il vostro cuore vi condannasse,

Dio non ci condanna perché è più grande del vostro cuore” (1 Gv 3,20).

Nel battesimo infatti, “il battesimo di cui l’arca di Noè è l’immagine” (1 Pt 3,2)

siamo tutti lavati, fatti risalire dalle acque, illuminati,

rivestiti della luce di Cristo (Gal 3,27).

 

Non senza ironia, l’apostolo Pietro nota che, nell’arca,

poche persone, otto in tutto furono salvate” (1 Pt 3,20)!

Cosa direbbe oggi vedendo, dopo venti secoli,

questi miliardi di battezzati che hanno fatto e fanno ancora la traversata

con la barca della Chiesa, dalla terra al cielo!

Ma egli lo vede, meglio di noi, da lassù!


Possa accoglierci un giorno, fratelli e sorelle,

sulla soglia della casa del Padre dove il Cristo ci attende.

Quel giorno, quello dell’ultima sera, entrando nel mattino eternamente nuovo,

dovremo anche noi attraversare le acque dell’agonia.

Se gli siamo stati fedeli, possiamo avere la certezza,

che, nelle sue braccia divine, egli ci accoglierà ancora

per farci passare da questa sponda terrena alla grande sponda dell’aldilà!

E l’arco, nel cielo, brillerà senza fine davanti ai nostri occhi

per farci contemplare il Signore in tutta la sua gloria!

 

©FMG omelia manoscritta del 1 marzo 2009

 

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux (23 febbraio 1997 - Chiesa di Saint-Gervais a Parigi)

II Dom. Quaresima B

 

Ogni anno, la seconda domenica di Quaresima,

la Chiesa ci fa ascoltare il racconto della Trasfigurazione del Signore.

E' infatti un passaggio decisivo sul cammino verso la Pasqua.

In quest'anno di preparazione al gran Giubileo dell'anno 2000,

dobbiamo anche ricordarci che la Trasfigurazione è un momento culminante

in cui si svela il mistero di Cristo, dell'Uomo che veniva da Dio.

Poniamoci dunque queste due domande che si riducono a una sola:

Che cosa ci offre la Trasfigurazione per comprendere il Mistero della Pasqua?

Che cosa, ancora più profondamente, ci dà per contemplare il Mistero di Cristo?

 

La prima lettura ci racconta ciò che convenzionalmente è chiamato “il sacrificio di Abramo”.

Si potrebbe dire: non è un sacrificio, poiché, in definitiva, Abramo non immola suo Figlio.

Pertanto, la liturgia eucaristica, nel Canone Romano che i preti canteranno tra poco,

ci parla del “sacrificio del nostro Padre Abramo”,

che Dio si è degnato di accogliere, e che era “segno di un sacrificio perfetto”.

Sembra dunque che Abramo abbia offerto un vero sacrificio.

La Lettera agli Ebrei, nel suo capitolo conclusivo (13,15),

ci esorta a “offrire a Dio in ogni tempo un sacrificio di lode, l'atto di fede che sale dalle nostre labbra”.

E la stessa Lettera fa l'elogio della fede di Abramo.

L'atto di fede di Abramo è certamente un sacrificio offerto a Dio.

In che cosa consiste questo atto di fede?

Per misurarne la portata, dobbiamo considerare ciò che Dio chiede:

se Abramo obbedisce e sacrifica Isacco, non solo commetterà un atto orribile:

farà sparire il solo pegno che attesta la fedeltà di Dio alle sue promesse.

Fino a questo momento, quando Abramo si svegliava ogni mattina,

poteva guardare Isacco e dirsi: non ho sognato; è proprio vero;

Dio è il padrone dell'impossibile;

ciò che mi aveva promesso, benchè fosse impossibile, me lo ha dato;

Sarah ed io abbiamo un figlio, e questo figlio è vivo davanti ai miei occhi!

Ecco perchè l'ordine di immolare Isacco

non è solamente, né innanzitutto, una prova per l'umanità di Abramo, per il suo cuore di padre;

è una prova per la sua fede in Dio.

Dio sembra contraddirsi, rivoltarsi contro sé stesso,

negarsi in prima persona, distruggere ciò che lo fa essere Dio.

Riprendendo ciò che ha donato, lui annulla la testimonianza della sua promessa.

Prendere coscienza di ciò,

significa anche rapportarlo a tutte le situazioni nelle quali noi siamo provati nella nostra fede.

Tale il matrimonio sacramentale che va a rotoli,

tale la vocazione, promessa di felicità, che riporta solo amarezza;

tale la prova che colpisce, fin dentro la sua carne, una persona dalla vita interamente donata,

proprio quando, come dicono i Salmi, “il cattivo prospera”.

Tutto ciò può essere ricondotto alla situazione di Abramo:

Dio che sembra accanirsi a mostrare che è il contrario di come si é mostrato,

che ha allettato solo per meglio distruggere, che ha donato solo per meglio riprendere.

Se pensiamo: “tutto questo non ha senso”, avremmo ragione. E' insensato.

Dio vuol farci comprendere qualcosa di insensato.

E non pensiamo di potercela cavare

con la pietosa scappatoia abituale che vorrebbe farci vedere in ciò

chissà quale astuzia pedagogica di Dio.

C'erano, a quell'epoca, dei sacrifici umani nelle religioni confinanti:

Dio avrebbe dunque voluto far comprendere ad Abramo che non voleva dei sacrifici umani.

Tutto ciò, in definitiva, sarebbe una macabra messa in scena,

un modo di dire “non sono il Dio che tu immagini”, in breve, una specie di brutto scherzo. Dobbiamo, credo, escludere totalmente questo genere di interpretazione.

Se Dio agisse veramente così, peccherebbe almeno di cattivo gusto.

Orbene Dio non può peccare, neanche per cattivo gusto.

E cosa faremmo di Abramo? Come sfuggire a un sentimento di disagio

davanti ad un Abramo così caricaturale:

ancora abbastanza pagano per non porsi alcuna domanda quando gli si domanda di immolare suo figlio;

abbastanza servile per chinare la schiena davanti a un Dio così differente da ciò che aveva fino allora rivelato su sé stesso.

Guardiamoci dall'avere un'idea così meschina di Abramo,

e un'idea altrettanto meschina di Dio.

 

La chiave, anche qui, ci è data dalla Lettera agli Ebrei.

Cito il testo (11,17-19): “Per la fede, Abramo, messo alla prova,

ha offerto Isacco, ed è il suo unico figlio che offriva in sacrificio,

lui (il figlio) che era il depositario delle promesse”.

L'istanza è chiara: se non vi è più figlio, non ci sono più promesse;

non vi è più un Dio che promette e che mantiene le sue promesse!

Entriamo come in un tunnel dove tutto sembra contraddirsi, dove Dio non è più Dio.

E vediamo con stupore Abramo, intrepido, inoltrarvisi.

Leggiamo il seguito: “Egli pensava che Dio è capace anche di risuscitare i morti;

ed è per questo che riebbe suo figlio, e questa fu una parabola (una profezia)”.

Il testo non dice: Abramo pensava che Dio è capace di evitare che Isacco muoia,

di farlo sfuggire alla morte.

Lui credeva, non in un Dio portafortuna, un Dio che preserva dalla cattiva sorte,

ma in un Dio che resta Dio al di là della morte. Ecco la fede di Abramo.

“Credo perchè è assurdo”, ha detto il grande Tertulliano.

Non bisogna fraintendere questa frase.

Significa che per colui che si rifiuta di credere,

la fede è necessariamente assurda, poiché la fede è un itinerario, un cammino,

che presuppone di rinunciare ad ogni appoggio, ad ogni certezza umana,

e di lasciarsi condurre fin dentro il tunnel di cui parlavo prima.

Non vi è fede se non nella totale consegna di sé stesso a Dio.

Ma per colui che compie l'itinerario,

la fede è vittoria sulla morte, poiché il peccato ha fatto della morte un passaggio obbligatorio.

La questione non è dunque di sapere se eviteremo la morte: è di sapere se, davanti alla morte, continueremo ad aderire a Dio, se affronteremo la morte con lui.

Per Abramo, la morte di suo figlio, è la sua propria morte.

Se Isacco non ritornasse vivo dalla morte, Abramo non sopravviverebbe a suo figlio.

Ma la fede di Abramo non consiste, lo ripetiamo, nel credere che Dio farà evitare la morte,

ma nel credere che resterà Dio al di là della morte,

cioè che darà la vita in un modo di cui non posso avere nessuna esperienza diretta in questo mondo. Questa fede non è la credenza pagana,

è la fede biblica, quella di Mosè, quella di Maria, quella di Cristo.

Abramo esprime ciò con parole molto semplici.

Sfortunatamente queste parole non sono state incluse nel ritaglio liturgico del testo: peccato, poiché sono di una densità inaudita.

Quando Isacco è in cammino, portando lui stesso il legno per l'olocausto

come il Cristo porterà la croce,

si volge verso suo padre e gli dice: “Ecco il fuoco e il legno, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?” Abramo non batte ciglio. Risponde semplicemente: “Figlio mio, Dio provvederà”.

 

In Gesù, Dio ha provveduto.

Ciò che non è stato chiesto ad Abramo, Dio l'ha fatto. E' sempre così:

è richiesto all'uomo di credere, ma è Dio che fa.

Ma cosa fa? Non uccide suo Figlio, certamente no!

Ma lo lascia morire, lo abbandona alla morte, lo lascia soggiornare nella dimora dei morti.

Qui ancora, qui più che mai, è il mondo alla rovescia.

Dio dovrebbe far morire il peccatore ed impedire a suo Figlio di morire.

Al contrario, lascia morire suo Figlio, e il peccatore non viene fulminato.

In un certo modo, bisogna dire che Dio preferisce il peccatore a suo Figlio.

 

Non invento niente,

è ciò che ci dice san Paolo nella seconda lettura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?

Non ha rifiutato il suo proprio Figlio, lo ha consegnato per noi”.

Dio ci preferisce a suo Figlio.

Ma il testo di san Paolo non si ferma qui.

Nello stesso momento in cui il Padre ci preferisce a suo Figlio,

il Figlio entra in questo amore preferenziale: Lui stesso ci preferisce alla sua propria vita.

E' per questo che, subito dopo il nostro testo, Paolo prosegue dicendo:

“Chi ci separerà dall'amore di Cristo?”

E conclude facendo in qualche modo la sintesi di questi due amori:

“Ne ho la certezza (…), niente potrà separarci dall'amore di Dio (del Padre) manifestato in Cristo Gesù nostro Signore.


La prima certezza che si trae dalla Trasfigurazione, è quella dell'amore del Padre per suo Figlio. Questo amore esplode in qualche modo agli occhi di tutti

in un fenomeno totalmente indescrivibile che anticipa la gloria della Resurrezione.

Ma possiamo porci una domanda molto semplice:

perchè questo fenomeno si produce in quel momento lì

e non in nessun altro momento della vita pubblica del Signore?

Forse che il Padre ama meno suo Figlio negli altri momenti? Ipotesi assurda!

Ci sarebbe un'altra ipotesi che non è assurda, ma insufficiente:

quella che consiste nel vedere nella Trasfigurazione un atto pedagogico da parte di Dio.

Si tratterebbe di preparare i discepoli a superare lo scandalo della croce

quando si ricordassero della gloria che avevano intravisto sulla montagna.

Ma se quello fosse l'unico scopo della Trasfigurazione,

questo artificio pedagogico non sarebbe stato molto efficace!

Bisogna certamente cercare più lontano e più in profondità.

Riascoltiamo la parola del Padre: “Questi è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo”.

In quel momento preciso della vita di Gesù, c'è qualcosa da ascoltare,

che ci è riportata subito prima e appena dopo la Trasfigurazione.

Prendete uno qualsiasi dei tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca:

constaterete che un po' prima dell'episodio si trova un primo annuncio della Passione,

e poco dopo un secondo annuncio.

Orbene i discepoli restano chiusi a quegli annunci;

ne sono scandalizzati e non li comprendono.

Lo stesso Pietro si è fatto trattare da “Satana” per aver detto “No, Signore, ciò non può capitarti”. Qui, giustamente, nella Trasfigurazione,

il Padre conferma questi annunci ed esorta ad ascoltarli.

Ma ciò ci spiega perchè Gesù è trasfigurato? Sì, ce lo spiega.

La Trasfigurazione, l'abbiamo già detto, anticipa la Resurrezione.

E la Resurrezione è, essa stessa,

il frutto dell'obbedienza di Gesù alla volontà del Padre “fino alla morte”.

Il Padre ci preferisce a suo Figlio consegnando suo Figlio per noi;

il Figlio ci preferisce alla sua stessa vita consegnandosi per i peccatori.

Questa “cospirazione”, questa “complicità” del Padre e del Figlio ha per risultato la Resurrezione.

Cos'è infatti la Resurrezione, se non la prova che l'amore di Dio è più forte della morte,

che Dio resta Dio al di là della morte, e perfino che è più Dio che mai?

La Trasfigurazione è l'espressione dell'amore del Padre

che glorifica suo Figlio perchè gli obbedisce totalmente.

Lo glorifica nella sua umanità, perchè è questa umanità,

questa libertà umana di Cristo, che accetta la morte per salvarci.

Nel “sacrificio di Abramo”, Abramo prefigurava Dio consegnando suo Figlio alla morte,

ed Isacco prefigurava Gesù. Ma le differenze sono considerevoli.

Mentre Isacco era quasi interamente passivo,

Gesù è sovranamente attivo e la fede di Abramo si concentra sulla sua persona.

Gesù stesso si inoltrerà nel tunnel, dove sono entrati tutti i grandi personaggi dell'Antico Testamento, e da cui nessuno alla fine è mai tornato.

Fin dove Dio è fedele? Cosa c'è al di là del tunnel?

Questa domanda, l'Antico Testamento la lascia ancora senza risposta.

Solo Gesù, tornando dalla dimora dei morti,

attesterà che Dio è venuto nella sua Persona a visitare quella dimora

ed ha vissuto la morte senza cessare di essere Dio.

Quando Gesù torna dalla dimora dei morti,

porta con sé Mosè ed Elia (la Legge e i Profeti), apparsi con lui sulla montagna.

Riporta anche Abramo, Isacco e Giacobbe che gli rendono testimonianza

e attestano che Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi:

“Abramo ha visto il mio giorno e si è rallegrato”, dice Gesù.

“Chi potrà condannare dato che Gesù Cristo è morto?” “Che dico?” dice san Paolo: egli è risuscitato, è alla destra di Dio, intercede per noi”.

La Fede cristiana è un accompagnarsi.

E' un pellegrinaggio nel quale affrontiamo la morte,

poiché ogni vita umana è in marcia verso la morte, e la nostra vita non fa eccezione a questa regola. Ma in questo pellegrinaggio, qualcuno cammina accanto a noi, qualcuno che ha superato il tunnel e ha vinto la morte.

Cristo, nostra Vita, ci accompagna affinchè noi si possa, con Lui, superare la morte e vivere di una vita ormai incorruttibile.

 

Il nostro problema più insolubile non è la crisi economica;

non è la frammentazione della società, la guerra,

la disoccupazione, la criminalità.

Tutti questi problemi sono dei problemi veri,

ma sono anche varianti intorno ad un unico problema:

perchè l'umanità è votata alla morte?

Qual è quel tunnel verso il quale ci portano i nostri passi, lentamente, inesorabilmente,

e cosa c'è al di là del tunnel?

E come le nostre vite possono non essere ridicole,

se devono approdare nelle tenebre e nel freddo della morte?

Quando Dio dona agli uomini una vita,

come ad Abramo ha fatto dono di Isacco,

ciò non può essere la risposta, ma solo l'inizio di una risposta.

E' l'inizio di un pellegrinaggio di fede che serve ad una sola cosa:

a guardare in faccia la morte.

E, davanti alla morte, a rispondere alla domanda che pone Dio:

sei tu pronto ad entrare nel tunnel mantenendo la fede nella mia promessa?

Sei tu pronto a credere che la vita incorruttibile non ti sarà data che oltre la morte?

Sei tu pronto a seguire mio Figlio senza recalcitrare davanti alla sua croce,

poiché egli l'ha portata per te, e su di essa ha inchiodato la tua morte?

Credi tu, sì, credi tu veramente che io ti ami, e che tu sei prezioso ai miei occhi?”

Se lo credi, ti do tutto: mio Figlio, il mio unico, il mio Prediletto.

Ascoltalo.

E fin da questa vita, vivrai dell'amore che ha vinto la morte;

e lo renderai presente in questo mondo.

 

©FMG omelia manoscritta

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

III Dom. Quaresima B
 

Noi siamo il Tempio del Suo Corpo

 

Cosa pensava allora il Salmista mentre scriveva:

“Perché mi divora lo zelo per la tua casa” (Sal 69, 10)?

Che cosa viene a cercare nel Tempio

il Cristo che sale verso Gerusalemme all'avvicinarsi della Pasqua (Gv 2,13)?

Che cosa si aspetta di trovare nel santuario,

il Figlio del Padre in cammino verso quell'alto luogo, collocato nella città santa?


Viene a riconoscere, in mezzo agli uomini, la presenza viva di Dio nel suo popolo;

viene a cercare cuori rivolti verso il loro Signore,

per pregare con loro come si prega un padre, “Padre suo e Padre nostro, Dio suo e Dio nostro”.

 

Ecco, ora Gesù ha oltrepassato la scalinata del portico orientale

nel grande spazio quadrato dell'atrio interno, di cento cubiti per lato (Ez 40, 47).

Qualsiasi ebreo praticante conosce queste cose.

E Gesù è un buon ebreo praticante.

 

Ma ora, in questo luogo sacro,

dove Gesù viene per raccogliersi e per adorare,

tutto è stato ridotto a un mercato: la superficialità, il baccano

hanno invaso il santuario!

San Giovanni ci dice che Gesù “trova installati nel Tempio

i mercanti di buoi, di pecore e di piccioni,

e i cambiavalute seduti ai loro banchi” (Gv 2,14).

E Lui, che era venuto in quel luogo che doveva essere “un luogo di preghiera” (Is 56,7),

scopre che è diventato “un covo di briganti”, come osserva san Matteo (21, 13).

E là, dove spera di incontrare persone in adorazione ,

si trova invece all'improvviso in mezzo a una fiera,

con le pecore che belano, i buoi che muggiscono, i piccioni che tubano

e i venditori che sbraitano!

 

Allora la collera di Dio esplode, la santa collera del cielo,

che si alza non contro l'uomo,

ma contro tutto ciò che impedisce all'uomo

di porsi come un degno figlio di Dio.

Come un degno osservante della legge dei dieci comandamenti (Es 20, 1-17).

Perché è vero amore per l'uomo eliminare

tutto ciò che impedisce all'uomo di svilupparsi e di essere santificato.

Portate via queste cose” – dice loro -

e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato!” (Gv 2,16).

Allora, i venditori, i compratori e i cambiavalute

vengono scacciati dal Tempio,

non per essere mandati “fuori nelle tenebre”,

ma perché siano anch'essi liberati da tutto ciò che appesantisce la loro vita,

perché, una volta che siano stati riportati all'essenziale,

possano ritornare nel Tempio in qualità di “adoratori come li vuole il Padre” ( Gv 4, 23).

 

Lo zelo per la tua casa mi divora” -

proclamava effettivamente il salmista.

Se dunque Gesù oggi scaccia dal Tempio ciò che tradisce il Tempio,

lo fa per salvare il Tempio, che è incontro dei figli davanti a Dio

e incontro dei fratelli attorno al Padre.

Non avrai altro Dio al di fuori di me” – proclama la legge (Es 20, 1).

 

Ma – tutti noi conosciamo la vicenda -

l'uomo non saprà conservare il Tempio di Dio:

Israele e Roma, insieme e paradossalmente,

ne affretteranno la rovina.

La mancanza di zelo da una parte, e la violenza dall'altra

concorreranno alla sua perdita.

E questa è la realtà, drammatica e sempre carica di peso

per il popolo erede delle promesse e della legge di santità (Lv 17):

il Tempio è distrutto e non c'è più che la spianata.

L'Arca è sparita e nessuno sa dire dov'è,

non c'è più un altare per l'offerta dei sacrifici,

né c'è più un sommo sacerdote che venga a pronunciare, nel Santo dei Santi,

il Nome ineffabile dell'Eterno.

Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile!” -

risponde l'apostolo Paolo a sé stesso.

Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11, 1.29).

La promessa di Dio rimane sempre più forte

di qualunque idolatria e qualunque rovina:

Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19).

Questa promessa ci raggiunge oggi,

al di là dei secoli e delle distanze,

nel profondo del nostro cuore.

E anzi, si offre a tutti i cuori!

 

Che cos'è, infatti, il Tempio di Dio sulla terra,

se non il luogo in cui si trova la sua presenza in mezzo agli uomini?

I profeti d'Israele l'avevano già detto!

Ciò che costituisce il valore, la particolarità, la gloria di un tempio

non è lo splendore della sua architettura, né la grandezza dell'edificio,

ma è la presenza che ospita dentro di sé, la forza spirituale che irradia:

altrimenti, non sarebbe un tempio, ma soltanto un monumento.

E un monumento non ha mai salvato nessuno!

 

Da secoli, il profeta Geremia si è dato da fare per far capire

che la presenza di Dio non deve essere rinchiusa

in un tempio fatto di pietre, ma essere scolpita, prima di tutto, in fondo all'anima (31, 31-34; 32, 36-41).

Oggi, sulla spanata di questo tempio di pietra, c'è un uomo

che porta dentro di sé tutto il peso della presenza divina:

perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità” (Col 2, 9a).

Quindi, il vero Tempio di Dio è lui!

La vera “dimora di Dio in mezzo agli uomini” (Ap 21, 3)

è nel cuore di questo Emmanuele.

A partire da questo momento, il mondo impara che davvero “Dio è con noi”.

 

L'imperatore Tito ha raso al suolo l'edificio di Erode il Grande.

Ma un tempio nuovo è apparso sulla terra,

su tutta la faccia della terra:

nel cuore di Gesù Cristo si trova la vita stessa di Dio;

e noi partecipiamo in lui a questa pienezza (Col 2, 9b).

Il Tempio di cui parlava era il suo corpo- ci avverte l'Evangelista (Gv 2, 21).

Sì, il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi

e noi abbiamo visto la sua gloria.

Sì, dalla sua pienezza tutti noi abbiamo ricevuto” (Gv 1, 14.16).

A nulla varrà che gli scribi, i sommi sacerdoti, i dottori della legge e i farisei

si uniscano a Pilato per far scomparire, a loro volta,

questa Dimora vivente di Dio tra gli uomini.

Gesù morirà facendo suo corpo “tutti coloro che credono nel suo Nome!

La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare” – predisse già Isaia - ;

questa è l'opera del Signore, una meraviglia ai nostri occhi” (Is 8,14).

L'apostolo Pietro dovrà soltanto ricordare l'avvenimento di ciò che il profeta proclamava.

 

E la meraviglia è, in effetti, che attorno a questa testata d'angolo

ha incominciato a fiorire e a crescere un'intera costruzione nuova.

Voi stessi, come pietre vive” – dice l'Apostolo –

collaborate alla costruzione di un edificio spirituale per un sacerdozio santo,

allo scopo di offrire sacrifici spirituali , graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo”.

Sono finiti i muri di pietre a bugnato in stile erodiano!

Sono finiti i giorni mortali di Gesù nella carne!

Siamo noi “le pietre vive del Tempio nuovo”.

Sono finiti “i sacrifici di animali”!

Noi celebriamo , per sempre, “l'Alleanza nuova ed eterna”,

sancita “col sangue dell'Agnello”.

Sono finiti i recinti e i sagrati, le segregazioni e i divieti!

 

Non è forse scritto: la mia casa sarà una casa di preghiera per tutte le nazioni?”

L'Antico Testamento non l'ha forse, già allora, profetizzato ( Is 56,7; Mc 11,17)?

Abbiamo appena ascoltato l'apostolo Paolo:

Fratelli, mentre i giudei chiedono i segni del Messia,

e il mondo greco cerca la sapienza, noi predichiamo Cristo Crocifisso,

scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani,

ma per coloro che Dio chiama, tutti, giudei o greci (credenti o non credenti),

Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” ( 1Cor 1,22-24).

Ed è risuscitato il terzo giorno!

 

Il Corpo di Cristo, al di là della sua morte diventa un'intera Chiesa:

una Chiesa di credenti, “di ogni razza, popolo e nazione” (Ap 7,9).

Una Chiesa formatasi all'inizio da giudei, come Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea,

Maria, Giuseppe, Natanaele e tutti gli altri .

Perché voi siete Corpo di Cristo e sue membra,ciascuno per la sua parte”(1Cor 12,27).

Morendo per noi “una volta per tutte” (Eb 7,27),

egli ha effuso il suo spirito nei nostri cuori (Rm 5,5)

Non sapete che voi siete tempio di Dio

e che lo Spirito di Dio abita ormai in voi?

Perché santo è il Tempio di Dio e questo Tempio siete voi” (1Cor 3, 16-17).

Parlava quindi di noi anche quando parlava del Tempio del suo corpo!

 

Credimi, donna, è giunto il momento, ed è questo,

in cui né su questo monte, né a Gerusalemme adorerete il Padre” (Gv 4,21).

Che apertura improvvisa,

non dovuta ad alcuna rottura , ma ad una comunione più profonda!

Tutta la terra diventa santa, a partire dal momento in cui Dio l'ha abitata.

E in effetti tutta la terra ha iniziato a fiorire di tabernacoli.

Sì, viene l'ora, ed è questa, in cui i veri adoratori

adoreranno il Padre in spirito e verità.

Dio è spirito”.

Solo le nostre vite, offerte per l'adorazione, possono in definitiva

edificare il Tempio santo di cui Cristo è venuto a posare la prima pietra.

Tutto può invecchiare, tutto può sgretolarsi, tutto può morire...

La presenza viva di Dio è scolpita nel più profondo dei nostri cuori,

e tutti noi, insieme, diventiamo Casa di Dio!

La Scrittura dice: “In lui ogni costruzione cresce ben ordinata

per essere Tempio santo del Signore;

in lui, anche voi venite edificati per divenire dimora di Dio nello Spirito” (Ef 2, 21).

 

Santa collera di Cristo! Santa potenza di Dio!

Non c'è uomo o donna sulla terra che possa dire di non essere amato,

né di non essere chiamato

dal Redentore dell'uomo!

Cristo è in mezzo a noi;

noi siamo il suo Corpo.

Cristo è in noi (Rm 12,5);

noi siamo suo Tempio.

E Cristo è noi (1Cor 12,13).

Egli ha fatto di noi dei tabernacoli di Dio!

 

Un giorno, sul suo quaderno di scuola,

Teresa di Lisieux scriveva queste righe:

L'unica colpa rinfacciata a Gesù da Erode fu d'essere pazzo.

E io la penso come lui!

Sì, era follia cercare i poveri piccoli cuori mortali

per trasformarli in suoi tabernacoli.

Lui, il re della gloria, più alto dei cherubini...

Il nostro diletto desiderava pazzamente

venire sulla terra, cercare i peccatori per farseli amici,

amici intimi, uguali a sé!

E l'ha fatto davvero, per amore, per noi!”

 

Signore, eccoci davanti a te,

prendici del tutto, per la tua gloria.


 

©FMG omelia manoscritta del 26 marzo 2000.

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

IV Domenica di Quaresima - B

 

Credere all’amore che ci salva

 

I testi della liturgia della quarta domenica di Quaresima

sono attraversati da una grande speranza.

Lasciandoli risuonare in noi, come in un’eco,

ci lasciano intendere come il messaggio del Signore

radichi i nostri cuori nella fiducia.

In definitiva, un messaggio che tende a dirci che

proprio dove il peccato poteva abbondare, la grazia sovrabbonda;

e se noi manteniamo salda la fede nel suo amore,

possiamo essere rassicurati che “il Padre delle misericordie” (2 Co 1, 3)

farà di tutto per salvarci.

 

La prima lettura, tratta dal libro delle Cronache (36, 14-23)

risulta già molto significativa in proposito.

Quello che viene raccontato può apparirci alquanto lontano e trattare di un’epoca e di circostanze senza alcun rapporto con noi…

Ma questi avvenimenti, inscritti nella storia biblica,

di cui sappiamo quanto ancora ci insegni,

ci ricordano, e questo per ogni “oggi” delle nostre vite…

quanto “l’amore di Dio sia da sempre e per sempre” (1 Cr 17, 27; Ne 9, 17).

Attraverso i nostri fallimenti peggiori e anche i nostri rifiuti,

la misericordia di Dio traccia una strada verso i nostri cuori.

 

Ecco quindi che, ci viene ricordato che a Gerusalemme,

sotto il segno di Sedecia” (2 Cr 36, 14)

( seicento anni prima di Cristo),

Tutti i capi dei sacerdoti e il popolo” scivolano verso il male

e, a poco a poco, abbandonano la “Legge di santità” che Dio gli ha dato (Lv 17).

Infedeltà, sacrilegi, profanazioni” si moltiplicano.

Il Signore, per pietà del suo popolo e della Città Santa,

manda loro “dei messaggeri” per ricondurli sul retto cammino.

Tutto inutile: “questi inviati di Dio vengono derisi, le loro parole disprezzate,

i suoi profeti sono beffeggiati” (36, 15-16).

 

Ed ecco la catastrofe!

Commettere il male porta sempre disgrazia.

Separarsi dal cielo spinge la terra verso la decadenza.

Dove non c’è più Dio, anche l’uomo non c’è più.

Succedono l’invasione, la capitolazione e la deportazione a Babilonia!

Potremmo dire che, per il popolo biblico, tutto è irrimediabilmente perduto, annientato.

Invece no! “Il Signore non abbandona i suoi amici” (Sap 1, 15; 7, 14).

Accorre sempre in soccorso dell’uomo che egli ama!

Ecco allora che “ispira a Ciro, re di Persia”,

non solo l’idea di liberare il popolo deportato e oppresso,

ma in più di aiutarlo a ricostruire il Tempio. Ci sembra di sognare!

Che tutti coloro che fanno parte del suo popolo,

il Signore loro Dio sia con loro

e salgano a Gerusalemme” decreta il re ( 36, 23)!

 

Quale segno di incoraggiamento e di speranza

per tutte le nostre vite che, in un modo o in un altro, un giorno o l’altro,

possono conoscere l’infedeltà, la mediocrità, l’oblio di Dio!

Anche se avessero attraversato

dei lunghi periodi di dubbio, di negligenza e forse anche di rivolta,

Dio, lui, “non ci abbandona mai” (Is 49, 15-16; 54, 10).

Cristo è incessantemente alla ricerca “della pecora perduta” (Lc 15, 47).

Ogni giorno lo Spirito si impegna, discretamente, ma attivamente,

a farci ritrovare nella casa della nostra anima

la dracma perduta” cioè l’effigie divina scolpita nei nostri cuori (Lc 15, 47).

E il Padre, ogni mattino scruta all’orizzonte delle nostre vite.

il ritorno instancabilmente atteso di quel “figlio prodigo” che siamo noi.

L’apostolo Paolo può ricordarcelo ancora:

dove è abbondato il peccato, la grazia ha sovrabbondato” (Rm 5, 26).

 

Fratelli e sorelle, è proprio bella la Rivelazione

che di dona di contemplare e amare un Dio che,

pur ricordandoci le sue esigenze,

non cerca nè di giudicare, nè di schiacciare e nemmeno di condannare;

ma di dimostrarci pietà, tenerezza e infinita bontà!

 

Con la venuta del Figlio di Dio sulla terra degli uomini,

entriamo “nell’amore senza misura”,

dell’amore di Dio manifestato, provato fino “alla follia della croce”

Perchè Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito

perchè chiunque crede in lui non muoia,

ma in lui abbia la vita eterna (Gv 3, 16).

Inoltre il Vangelo precisa ancor più meravigliosamente:

Perchè Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo

per condannare il mondo,

ma perchè il mondo si salvi per mezzo di lui,” (3, 17).

 

Per farci comprendere questo, non intellettualmente,

ma invitandoci a contemplare con il cuore

la prova” di questo “amore più grande” che ha vissuto per noi (Gv 15, 13),

Gesù fa sua un’immagine tra le più accattivanti.

E’ talmente forte che a malapena si osa fermarcisi.

Ma proprio in questo consiste quello che ci ha detto, e più ancora

quello che ha vissuto, subito, offerto per noi!

Come Mosè innalzò il serpente nel deserto,

così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo

perché chi crede in lui abbia la vita eterna” (3, 14-15).

 

Questo parallelismo che insiste doppiamente: “come...così”,

è sconvolgente!

Soprattutto sapendo quello a cui ci rimanda, nella luce proiettata sulle tenebre del Golghota.

Manteniamo il simbolismo biblico della Genesi e i riferimento

alla lunga marcia di Israele nel deserto dell’Esodo nel libro dei Numeri.

Adamo e Mosè che prefigurano, entrambi, il Cristo,

si sono trovati alle prese, entrambi, come lui, con il serpente.

Quest’ultimo ha fatto cadere Adamo nel giardino dell’Eden;

ha immerso l’uomo nella vergogna della sua nudità a causa del peccato.

Ma Dio ha predetto che, un giorno,

un Redentore avrebbe sconfitto il Tentatore dell’uomo (Gn 3. 15; Gv 12, 31).

I serpenti velenosi hanno decimato il popolo nel deserto di Quades.

Ma Mosè ha potuto salvare tutto per ordine di Dio

permettendogli di fissare il serpente di bronzo innalzato sul legno.


 

La rivelazione di Gesù nel Vangelo di oggi (Gv 3, 14-21)

ci dà la chiave di ciò che ancora era un enigma

e che diventa luce di un divino mistero d’amore.

L’Agnello di Dio innocente, “si è caricato delle nostre colpe.

Peggio ancora: “Colui che non aveva peccato, Dio l’ha fatto peccato per noi.

E Paolo aggiunge: “perchè diventassimo giustizia di Dio (2 Co 5, 21).

Si è lasciato trattare da Beelzeboul. Si è lasciato opprimere:

Forse che noi non abbiamo ragione a dire che sei posseduto da un demonio? (Gv 8, 48).

Ha lasciato che lo denudassero, per riscattare la nudità di Adamo

e rivestirci tutti della luce della sua grazia (Ga 3, 28)

Ma io sono un verme e non un uomo,

l'infamia degli uomini, e il disprezzato dal popolo.

Chiunque mi vede si fa beffe di me” (Sal 21, 6s)

Allora abbiamo visto il “Signore della gloria”

inchiodato alla croce (At 3, 15; 1 Co 2, 8)!

 

Nello stesso modo in cui il serpente aveva vinto Adamo, sull’albero verde del Paradiso,

Cristo, Nuovo Adamo, ci ha salvati

impregnandosi dei nostri peccati sull’albero secco del Calvario.

E come Mosè aveva salvato il suo popolo dal male, attraverso il male,

annientando i serpenti di sabbia con “il serpente di bronzo” sull’asta,

anche Cristo, Benedizione divina, “ci ha riscattati dalla maledizione,

divenendo anch’egli, come dice Paolo, maledizione per noi” (Ga 3, 19)!

 

A questo punto ci mancano le parole.

Le nostre parole sono ridotte al silenzio.

I nostri pensieri e spiegazioni si abissano nella contemplazione.

Non ci resta altro che contemplare “colui che abbiamo trafitto” (Gv 19, 35).

Che credere con tutto il cuore alla follia “del suo amore per noi”.

Così ogni uomo che crede in lui non morirà, è scritto,

e non viene giudicato” (Gv 3, 14,18).

Crediamo alla luce”. E diventeremo “dei figli della luce” (12, 36).

Dalla tenebra del sepolcro è sgorgata l’alba di un Giorno nuovo!

 

Non possiamo far altro che proclamare con San Paolo: “Dio

è ricco di misericordia” (Ef 2, 4).

Sì, ha guarito il suo popolo nel deserto con il serpente di bronzo.

Lo ha riportato dall’esilio in Babilonia, a Gerusalemme

Ha riscattato i nostri peccati con la sua morte in croce.

Mi ha amato e ha dato se stesso per me (Ga 2, 20).

Per il grande amore con cui ci ha amati,

noi che eravamo morti a causa del peccato,

ci ha rivivificati con Cristo.

Per lia sua grazia, noi siamo stati salvati”.

E Paolo aggiunge: “in virtù della vostra fede” (Ef 2, 5...8).

 

Allora partecipiamo alla salvezza che Dio ci dona nella sua bontà,

mettendo in moto la nostra fede.

In questo modo il Signore ci tratta da uomini adulti

chiedendoci di credere nel suo amore.

Così questo amore non lo accogliamo solamente.

Dobbiamo anche guadagnarcelo!

Possiamo offrirglielo, possiamo condividerglielo.

Proprio in questo vediamo che Dio ci ama veramente.

Partendo da qui ci fa così bene credere alla sua tenerezza per noi

rispondendo da uomini liberi, con atti d’amore veri,

all’infinita gratuità del suo amore divino!

 

Dio non è altro che un Essere supremo che ama,

E’ un Padre che vuol essere amato!

 

©FMG

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Quinta Domenica di Quaresima- B

 

In un mondo che è scosso dalle voci di una guerra spietata

e dai rischi latenti, forse, di una nuova epidemia,

in mezzo agli interrogativi che riguardano il quotidiano delle nostre vite,

quale contributo può fornirci la pagina del Vangelo che stiamo per ascoltare?

Sono già passati venti secoli infatti da quando questi avvenimenti hanno avuto origine.

Per cogliere meglio quello che possono mettere in luce ai tempi d’oggi,

domandiamoci quindi come sono realmente accaduti

e come i discepoli di Cristo li hanno percepiti

alla luce della Pasqua illuminata dallo Spirito.

 

Nella storia,

la scena evocata dal Vangelo di questa domenica (Gv 12,20-23)

si situa nel “secondo giorno” (12,12) dell’ultima settimana

della vita di Gesù sulla terra.

Una settimana cominciata a Betania alle porte di Gerusalemme,

sei giorni prima della Pasqua” (12,1).

 

Il profeta di Nazaret ha appena guarito “un cieco dalla nascita”,

e “i Giudei” hanno “escluso dalla loro sinagoga”

questo meschino che ha riconosciuto in Gesù il Cristo (Gv 9, 34.39).

Chi è dunque che tratta come “ciechi” i farisei (9,14)?

 

Subito dopo, questo stesso rabbi Gesù

che si dichiara “buon pastore” e “porta delle pecore” (Gv 10,7.14)

ha resuscitato un morto “sepolto già da quattro giorni” (11,17).

E “molti Giudei” hanno cominciato a credere in lui.

Quale potere e quale segreto

nasconde dunque colui che si mostrava anche come un maestro di vita?

 

Malgrado l’ostilità crescente “dei grandi sacerdoti e dei farisei”

che hanno chiesto di denunciarlo per poterlo arrestare (Gv 11,57),

Gesù si reca a Betania, a est di Gerusalemme,

per condividere la gioia di una festa con numerosi convitati;

un pasto offerto in onore di “Lazzaro che lui aveva risuscitato dai morti” (12,1-2).

E il profumo sparso da Maria sui suoi piedi

riempie del suo odore la casa” del defunto,

si accosta all’odore di putrefazione uscito poco tempo prima dalla sua tomba (11,39).

Che cosa egli vuole dunque dire parlando in questo giorno

della sua “imminente partenza” e della sua imminente “sepoltura”,

e poi del suo “ritorno” (12,7-8)?

Ed ecco che il “giorno dopo”,

cinque giorni prima di “Pessah”, di Pasqua,

una voce attraversa tutta la città:

Gesù di Nazareth sale a Gerusalemme (Gv 12,12)!

Che cos’è che ha dunque spinto la folla

ad acclamarlo, in nome dei profeti e dei salmi,

riconoscendo in lui “l’ inviato del Signore” e “il re di Israele”?

Se la “vox populi” è la “vox Dei”,

chi è dunque colui che in questo giorno Gerusalemme acclama in questo modo?

 

Ed ecco, per finire, che “dalle folle” (Gv 12,12)

e da tutte le persone partite con lui,

degli stranieri, letteralmente “dei Greci”, chiedono di “vederlo” (12,21).

Se i popoli pagani cominciano così a credere in lui,

come reagiranno quelli che si dicono difensori

della “nazione” e dell’ortodossia (11,50 ; 12, 19) ?

Ma ecco che nello stupore generale, Gesù non parla

né di rivolta né di trionfo né di potere politico.

Che cosa vuole dunque instaurare?

 

Propone allora la parabola del chicco di grano.

Ammette pubblicamente che

ora, la sua anima è turbata” (Gv 12,27).

Che cos’è dunque questo brusio inteso

come una “voce venuta dal cielo”?

E’ il rumore del tuono, come sul Sinai?

0 la voce “di un angelo che gli ha parlato”?

Sì, fratelli e sorelle, chi è dunque colui che proclama

che “è ora il giudizio del mondo”?

E che una volta “abbattuto il principe di questo mondo”,

egli “attirerà tutti gli uomini a sé” (12,32)?

 

Secondo la teologia

alla luce della Pasqua e della Pentecoste,

il mistero di Gesù si mostra in tutta la sua grandezza.

 

Colui che ha accolto al suo seguito

il cieco nato escluso dalla sinagoga,

è il fondatore di una comunità nuova:

di questa Chiesa in germe di cui quest’uomo guarito

è in qualche modo il primo seguace.

Perché è, Lui, “la luce del mondo” (Gv 8,12 ; 12, 36.46).

 

Colui che ha resuscitato Lazzaro dalla tomba a Betania,

è il vincitore della nostra morte;

colui che, senza aspettare “quattro giorni”,

all’alba del “terzo giorno”, è “resuscitato” da sé stesso.

Egli è “il principe della vita” (At 3,15).

 

L’unzione di Betania, ricevuta sui piedi, benché incompleta,

annuncia l’unzione reale, sacerdotale e profetica,

del Cristo profeta, sacerdote e re, con la testa coronata di spine,

ma che “diffonde” l’unzione dello Spirito

inclinandos”i per morire “con un grande grido” (Mc 15,37 ; Gv 19,30).

 

L’inviato di Dio acclamato al grido di “Osanna”,

è molto di più che “il re d’Israele” atteso dal popolo oppresso.

E’ il” Salvatore del mondo” annunciato da Zaccaria (9,9 segg.),

che ha compiuto “tutto ciò che è stato scritto di lui” (Gv 12,16)

dai profeti e dai salmi (Is 55,3 ; 59,21 ; 61,8 segg. ; Ger 31,31 ; Ez 36,25-28 ; Bar 2,35)

 

I Greci possono venire a interrogarlo.

Anche loro potranno credere nel profeta, in lui!

Come un chicco di grano gettato a terra,

colui che è sceso dal cielo ha germogliato su questa stessa terra.

E’ stato sepolto.

E’ stato messo a morte “il principe della pace”.

Ma egli è risorto ed ha germogliato di nuovo come “pane vivente”,

consegnato “per la vita del mondo” e “in riscatto per molti” (Gv 6,51).

 

Se egli ha voluto conoscere la nostra condizione umana

fino al punto di sentire in sé stesso “un’anima turbata”,

è perché ci vuole insegnare anche,

per salvarci da questa tragica disobbedienza

dove ci conduce il peccato,

ci vuole insegnare, come “figlio”,

da quello che ha sofferto, l’obbedienza (Eb 7,8).

Come “figlio reso” realmente “perfetto” per l’eternità (7,28).

 

E’ in lui che si trova realizzata

la nuova ed eterna alleanza”

misteriosamente annunciata dai profeti.

Veramente colui che è stato un giorno elevato sulla croce,

non è stato vinto quel giorno dalla croce!

Ma, attraverso la sua morte, ha abbattuto la morte.

Ed ecco che a partire da questo oggi di Dio,

vissuto presso la Città Santa, “una volta per tutte” (Eb 10,10),

sono “tutti gli uomini”, attirati da lui,

che possono raccogliersi in lui ed essere salvati (Gv 12,32).

Il corpo di Gesù è morto.

Il corpo di Cristo rinasce.

 

Spiritualmente infine,

noi vediamo ora chiaramente il senso e la ricchezza

degli insegnamenti che ci sono così donati.

 

Come Maria di Betania,

possiamo “ungere i piedi del Signore”,

offrendogli i nostri migliori profumi (2 Cor 2,14-15).

Cioè il “buon odore” della nostra anima, inondata dalla sua grazia;

e “il tesoro dei nostri cuori” (Mt 6,19-20 ; 2 Cor 4,7 ; Ef 1,7).

Con lo sposo del Cantico, possiamo dirgli:

A ragione di te ci si innamora! (1,4)

 

Con la folla che lo acclama per il suo ingresso a Gerusalemme,

cantiamo ancora e sempre i nostri Osanna nel cuore di ogni Eucarestia,

a colui che è “Signore” e “Santo”.

E’ lui “il capo della nostra fede”,

che cammina davanti a tutte le nostre strade

per “condurle alla perfezione” (Ef 12,2).

E noi l’accogliamo nella nostra vita,

nel cuore della nostra città.

 

Ci sono ancora numerosi “Greci” in cerca di Gesù;

coloro che noi chiamiamo: persone “in ricerca”.

Poiché noi abbiamo questa grazia, come Filippo e Andrea,

di conoscere “l’inviato di Dio”,

cerchiamo, anche noi come loro, “di condurli a Gesù”.

Affinché essi possano rallegrarsi della verità delle sue parole

e della luce del suo viso.

 

Come il chicco di grano, eccoci tutti gettati sulla terra.

Verrà anche un giorno in cui saremo “seminati nella terra” (1 Cor 15,35-38).

Ma il Cristo ci precede in questo sprofondare.

Sappiamo che discendendo verso la morte, verso il basso,

egli ha aperto per noi la porta verso la vita, verso l’alto.

Possa egli farci comprendere

perché si resta soli, se non si muore (Gv 12,24).

E perché non si “porta molto frutto”

se non dopo aver accettato di morire.

Di morire, in breve, per tutto quello che non è la vita.

 

Fratelli e sorelle, lo sappiamo bene:

non possediamo la nostra esistenza, ma la amministriamo;

non possiamo conservare la propria vita, ma possiamo offrirla;

e non si vive veramente se non donando per amore,

quello che abbiamo ricevuto per pura grazia (1 Cor 4,7).

Chi conserva la propria vita la perde,

e chi perde la sua vita in questo mondo, la conserva per la vita eterna (Gv 12,25).

Non si salva se non ciò che si dona;

non si ritrova se non ciò che si offre;

non resuscita se non ciò che muore.

Sta a noi dunque scegliere se trarne come conclusione:

“Quale dramma!”, o al contrario: “Quale mistero!”.

Sì, al di là di tutti le controversie,

avanza ancora, nella luce, il “Principe della pace”,

che è anche il “Principe della vita”

 

©FMG Evangeliques 4 pp. 198-203

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Domenica delle Palme - Anno B

 

Le nostre lacrime e le sue


Sappiamo che “la pietra rotolata sull’entrata del sepolcro”

non é l’ultima parola (Mc 15, 46).

Ci impedisce a soffermarci sempre su un perché impossibile

da tacere e da dimenticare,

un perchè al quale non sappiamo bene cosa rispondere

in quanto ciò che abbiamo visto supera la nostra comprensione.

Anche rimanendo a lungo “a contemplare il Crocifisso”.

Perché dunque aver ucciso “il Principe della Vita” ( At 3, 15)?

 

Non può essere perché è stata la vittima sfortunata di un complotto

diretto contro la sua persona,

anche se, quel giorno, tutti hanno formato “una lega”

per mandarlo a morire (At 4, 27).

Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio

che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d'angeli? (Mt 26, 53)

“se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».(Gv 18, 36)

Cristo è rimasto fino alla fine “il Figlio di Colui che voleva salvarlo da morte” (Eb 5, 7).

Allora, perchè questo “annientamento” sulla croce? (Fil 2, 8)

 

Non può essere per prima cosa, a motivo di una

“volontà sacrificale del Padre”

nel tentativo di ricattare attraverso “l’immolazione del Figlio”

il peccato degli uomini.

Dio non ha bisogno di abbassarsi per risollevarci,

nè di soffrire per riscattarci.

“Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9, 13).

Nella morte di Gesù sul Calvario

non ci sono né fatalità umana, né obbligo divino.

Allora perché questa “maledizione” della croce? (Ga 3, 13)

 

Non può essere neanche perché Cristo abbia voluto

in questo modo darci un bell’”esempio”

di coraggio e di fede di fronte alla morte:

“La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me»…

«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». (Mt  26, 38-39)

 

Gesù è salito dal Getsemani al Golgota

non come un eroe, ma come un santo.

E questo non ha impedito “all’autore della nostra fede” (Eb 12, 2)

di lasciare il mondo dicendo: “Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).

Infatti la morte che ha subito

non l’ha fatto disperare, né lo ha annientato.

Ma allora, perchè questa “follia del messaggio” scritto sull’albero della croce?

 

Fratelli e sorelle,

“poiché il mondo” creato dall’amore e per l’amore;

“Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo,

con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio,

è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1 Co 1, 21).

Che messaggio, allora?

Un messaggio d’amore vissuto fino alla passione

del dono più folle (Gv 15, 13; Rm 5, 8)

 

Ma perché tutto questo?

Fratelli e sorelle, perché c’era il male!

Perché il male c’è sempre!

Perché il male ci sarà ancora!

E perché l’ultima parola non può essere quella del male

cioè della sofferenza, della solitudine, della tristezza, della morte

e del peccato, ma del Bene.

Del Bene, cioé della grazia, della vita, della gioia, della comunione,

in una parola, della felicità finalmente ristabilita,

ritrovata, condivisa per sempre.

 

Ricordiamocene: dall’inizio il male è sorto.

L’albero secco del giardino dell’Eden non ha più prodotto il suo frutto.

“Dolore e attrazione - sofferenza e sudore -

spine e terra arida” (Gen 3, 16-18).

Uccisione di un fratello e vagabondaggio nel deserto.

“Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7, 24).

 

“Nei giorni della carne”, il male ha infierito.

Cristo ha visto e sperimentato la miseria del suo popolo.

Per lunghi secoli: esili, deportazioni, occupazioni,

ingiustizie hanno scavato la strada “delle pecore perdute della Casa di Israele”.

“ E quando Gesù fu vicino” a Gerusalemme,

“alla vista della città, pianse su di lei” (Lc 19, 41).

 

E che dire di questo nostro secolo

(con il suo corteo di guerre, carestie,

totalitarismi, torture, genocidi, suicidi, solitudini)

che pur essendo il più civilizzato,

sarà stato anche il più cruento e forse il più crudele.

E tutti noi conosciamo il peso della nostra croce, di tutte le nostre croci,

certi giorni, certe sere, nel cuore della nostra esistenza e nel fondo della nostra anima.

 

Ecco il motivo per cui il cuore di Dio, fratelli e sorelle,

si è rivolto verso di noi.

Allora il Figlio è venuto. Si è fatto figlio degli uomini,

“Come il lievito nella pasta”,

ha infuso la sua natura divina nella nostra natura umana.

Si è caricato delle nostre miserie, per provarle e sperimentarle meglio.

Si è imbevuto dei nostri peccati per liberarcene.

Ha messo il suo “Fuoco” nel gelo della morte,

attraversandola con la Sua Vita (Lc 12, 49).

 

Nel più profondo della nostra disperazione,

è venuto a prenderci, è sceso fino all’inferno per portarci via.

Nel mezzo delle tenebre, “la luce del mondo” si è messa in cammino.

L’amore è fiorito su di un terreno di odio e la croce dolorosa della sua agonia

è divenuta la croce gloriosa della nostra redenzione.

O croce innalzata nelle nostre vite, o croce di Gesù Cristo!

Ora comprendiamo la Scrittura:

“Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena

egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime

a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà” ( Eb 5, 7).

Perché “delle lacrime”?

 

Un midrash del giudaismo riferisce che, dopo la caduta,

Adamo ed Eva, con cuore contrito, per espiare la loro colpa,

andarono ad immergersi, per sette sabati di seguito, nel fiume Gihon

supplicando Dio di perdonarli.

Impietosito, il Signore, prese una pietra dal suo tesoro

e la donò a loro e ai loro discendenti.

E questa perla era una lagrima!

Letteralmente: “dam hayim”, il sangue dell’occhio.

Con questa duplice idea di fonte (occhio) e di vita (sangue).

L’Eterno allora disse loro: “Quando sarete nel dolore

verserete questa lacrima dai vostri occhi e sarete sollevati dalla vostra tristezza.

E la terra in cui quella lacrima cadrà ne sarà santificata.

E il midrash continua, non senza ragione:

“a parte la sola discendenza di Adamo,

nessun essere vivente dispone di lacrime per piangere davanti ad un dolore”.

Ora, fratelli e sorelle, “di lacrime” quante ne ha versate e ne fa versare l’uomo,

sui sentieri della sua storia!

E come tutto a un tratto, la questione del nostro “perché” si illumina di una luce sconvolgente: Gesù, ci rivela il Vangelo,

“In preda all'angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra.” (Lc 22, 44)

 

Ed è da quel giorno che tutti i figli di Adamo,

sanno di che immenso amore ha potuto amarli

il Figlio di Dio fatto uomo!

 

Signore, è proprio per restituirmi alla vita

che traversando con la tua Vita la morte

che mi teneva separato da te,

sei venuto a riaprire in me

“una sorgente che zampilla per la vita eterna” (Gv 4, 14).

Oggi è dall’alto della croce

che sento ridirmi:

“Se tu conoscessi il dono di Dio!” (Gv 4, 10);

e ancora: “Ho sete” (19, 28), Ho sete di te!

O Cristo, Fonte della Vita,

“dammi sempre di quest’acqua.”


©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

Sabato della Settimana Santa - anno B

L'abbassamento dell'Altissimo

Che strana pace ha invaso la terra
dall'ora in cui Gesù, emesso “un alto grido” (Mt 27, 50) , è morto.
Nelle pieghe del grande lenzuolo  in cui sua madre e i suoi amici lo hanno avvolto,
il suo corpo riposa, come dev'essere il giorno del Grande Sabato.
Colui che non è stato buttato nella fossa comune,
e non è disceso nella terra della nostra morte, comune a tutti noi,
viene deposto nella roccia, immagine dell'Incorruttibile.

Ma se il sabato è fatto per l'uomo,
quest'uomo, anche se morto, rimane  “signore del sabato” (Mt 12, 8).
Perché l'Agnello immolato è anche il Leone che dorme.
E questo Leone che dorme è quello “della tribù di Giuda”
 

che deve ancora “aprire il Libro e rompere i sette sigilli,
che nessuno , finora, né in cielo, né in terra, né sotto terra”,

ci dice l'Apocalisse,
ha potuto leggere o aprire” (Ap 5,5).

Ora dunque, il cielo tace.
E sulla terra,” tutto è compiuto” (Gv 19, 30).
Ma, sotto terra,
i morti non rimangono ancora prigionieri?
Allora, è iniziato questo prodigioso cammino
del Figlio dell'uomo in pieno Shabbat,
fino all'alba dell'ottavo giorno, che , d'ora in poi,
soppianterà l'antico shabbat,
per diventare il suo Giorno.

Gesù è morto, ma Cristo vive!
Il cuore di Cristo nel frattempo non si riposa!
 
Al di là della morte che trattiene il suo corpo nella tomba sigillata,
il Primo nato tra i morti” è andato, ci dice l'apostolo Pietro,
ad annunziare la salvezza ai prigionieri del Regno delle ombre” (1Pt 3, 19),

prolungando la sua incarnazione fino alla discesa agli inferi,
di cui la Chiesa ha fatto un dogma per la nostra fede.
Perché?

Fratelli e sorelle, il male è un abisso ben più profondo di quanto noi ne sappiamo
e Cristo, quel giorno, è disceso per sradicarlo fino alle sue radici estreme.
La disperazione, l'angoscia, l'annientamento provocati da certi dolori umani
spesso sono più pesanti di quanto possiamo immaginare.
E Cristo, che lo sa, ha voluto,
spingendo il suo amore all'estremo,
andare fino al fondo per riscattarlo.
Rivelandoci questo mistero, la Scrittura vi ha colto qualcosa
dell'incommensurabile immensità del suo amore
e ci invita, oggi, a contemplarlo.
 
Estremo abbassamento,
estrema kenosi che va ben oltre ogni comprensione!
Il Cristo del Sabato Santo ha compiuto un percorso verticale
che è la via più diritta e più lunga
tra l'Altissimo e la più infima bassezza.
Era necessario che Egli raggiungesse il primato in tutte le cose “(Col 1, 18),
Lui, il grande pellegrino della vita.
E che anche lo zero fosse raggiunto dall'infinito!

Poiché ci sono i gulag, i ghetti, il cancro, ci sono suicidi,
carestie, solitudini estreme, forni crematori e la Shoah,
il colpo di lancia non ha bloccato lo slancio del suo amore folle.

E' a causa della follia del messaggio (e del messaggero)
che a Dio è piaciuto salvare i credenti “(1Col 1, 21).
Colui che, per sua natura, ha il primo posto nell'al di là,

è così sceso , per misericordia, al di qua dell'ultimo posto.
Dal primo morto di cui conosciamo il nome, Abele,
fino al più grande peccatore, di cui nessuno sa il nome,

voi tutti oppressi e affaticati sotto il peso del vostro fardello”
siete stati salvati  da Cristo,
grazie alla sua immersione nelle tenebre (Mt 11, 28).

La discesa agli inferi del sabato santo
è l'ultimo gradino di una scala senza fine
su cui l'amore irresistibile del Dio fatto uomo si è gettato,
per andare a cercare anche il più perduto  dei disperati.

Estrema impotenza - dice la mistica orientale - ,
di fronte alla quale  noi possiamo solo chiedere, con san Paolo,

la forza di capire la profondità dell'amore di Cristo
che sorpassa ogni conoscenza
(Ef 3,18).
Perché è Gesù stesso,non dimentichiamolo,
che per primo ci ha rivelato questo mistero:
In verità vi dico,
come Giona rimase nel ventre del mostro marino

per tre giorni e tre notti, così il Figlio dell'uomo

resterà nel cuore della terra per tre giorni e tre notti”  (Mt 12, 40).

E'  così che il Nuovo Adamo è disceso verso il primo Adamo
e chinandosi su di lui per prenderlo per mano,  
gli ha parlato così:
Alzati dai morti,

io sono la vita di coloro che sono morti!

Alzati  e andiamo via di qui!

Andiamo insieme, dalla morte alla vita!”

Che immensa speranza, da oggi in poi, per tutti gli uomini,
perché camminando sulle pietre morte del nero inferno,
Cristo ha lasciato il segno dei suoi passi di luce!

Sì, nella notte del sepolcro, sulla roccia nuda,
il corpo di Gesù riposa.
La morte sembra aver trionfato:
non regna infatti sulla tomba
di Colui che diceva:  Io sono la vita ?

Ma perché si mette a rabbrividire nell'oscurità?
Nel silenzio sepolcrale,
c'è come il fremito impercettibile di un mormorio.

Si direbbe un cuore che batte!---
 

©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

Veglia Pasquale

Perchè e come credere alla resurrezione di Cristo


 

Tra qualche minuto, nel cuore di questa notte pasquale,

cinque ragazze catecumene saranno battezzate.

Si uniranno al lungo corteo di quelle e quelli che, come noi, sono stati battezzati in Cristo

e camminano al suo seguito (Lc 9,23; Ga3,27).

Di fatto, attraverso il nostro battesimo, la nostra vita è legata per sempre a Cristo risorto.

LA RESURREZIONE, ecco il punto focale, il centro vivente,

il luogo di convergenza e di irraggiamento della storia dell'uomo  e del futuro del mondo.

PRIMO E ULTIMO GIORNO verso cui tutto sale e da cui tutto ricomincia -

ALPHA E OMEGA, PRINCIPIO E FINE DI OGNI COSA, il figlio di Dio fattosi uomo assumendo la nostra morte per trasformarla

attraverso il fuoco della sua potenza divina (Eb 12,29),

ha interrotto tutto, ricostruito tutto, ricreato tutto (Col 1,18 - 20).

Se si ammette cio' tutto ha un senso,

viene  rischiarato dalla luce e prosegue nella speranza (Rm 8,24-285; 2 Co 5,5-8).

Altrimenti che significato avrebbe questa esistenza

dove ogni cosa vivrebbe al solo scopo di morire?

Chi dunque se non Dio puo' trionfare sulla morte che ci tiene in suo potere,

del peccato e del male che ci appesantiscono?

Chi, se non Dio che, avendoci creati a sua immagine, puo' ancora perdonarci e riscattarci?

Se, dunque, crediamo che Dio è resuscitato,

noi possiamo dirci SALVATI  NELLA SPERANZA (Rm 5,24; 8,24).

MA SE CRISTO NON E' RESUSCITATO, come osa dire l'apostolo Paolo, ALLORA LA NOSTRA PREDICAZIONE E' VUOTA, VUOTA ANCHE LA NOSTRA FEDE (1 Co 15,14).

 

Cio' significa che dobbiamo testimoniare la speranza che è in noi (1 P 3,15),

per vivere nella pace e nella gioia e testimoniarla nell'amore e nella fede.

 

Su quale base è fondata questa fede che è all'inizio e al centro del nostro cristianesimo?

Su quali pilastri posa questo edificio che ci sostiene?

E che dire di questo avvenimento,

di questa rinascita di Cristo dal sepolcro da cui tutte le nostre vite riprendono vita

e convergono verso la Vita?

 

Non cerchiamo delle prove assolute,

Dio è troppo rispettoso delle nostre libertà per soggiogarci con prove senza appello?

E' talmente piu' nobile e bello credere piuttosto che essere costretti ad ammettere senza aver nulla da dire. (...)

 

Ma non ci mancano i motivi per credere.

Se Dio ci rifiuta delle prove, moltiplica per noi I SEGNI.

In questo rispetto della nostra libertà e in questo sostegno della fede, nel suo aiuto, nel suo amore, non ci viene già detto come Dio è vero?

 

Sono quattro solidi pilastri a sostenere la nostra fede nella resurrezione di Cristo.

 

Il primo poggia sul senso profondo e luminoso di tutte le Scritture che,

da ogni parte e per secoli, attraverso la LEGGE, I PROFETI, I SALMI,

lo annunciano e lo riguardano (Lc 24,32-44).

Queste Scritture, che Cristo ha voluto incarnare in quanto ci parlano di lui,

prima ancora che le avesse  vissute, e piu' ancora, , dopo averle realizzate nella sua vita. Questo fatto resta, per sempre, unico nella storia dell'umanità.

Gesu' stesso non ha, forse, fondato la sua predicazione, rinviandoci alle Scritture?

Erano misteriose prima del suo avvento, sono luminose dopo di lui.

Facciamole nostre anche noi

per progredire nella verità di Cristo MORTO PER LA NOSTRA SALVEZZA

E RiSUSCITATO PER LA NOSTRA GLORIA.


Il secondo pilastro è costituito dalle parole profetiche di Gesu'

che annuncia con insistenza e con chiarezza la sua morte in croce

e la sua resurrezione dopo tre giorni.

Non diciamo che i discepoli, dato che vi  speravano cosi' ardentemente, abbiano potuto, per delusione o illusione, inventarne il fatto: è vero il contrario.

Loro stessi non ci credevano.

Non è la loro fede che ha inventato la Resurrezione.

E' piuttosto sulla Resurrezione che si basa la loro fede.

Anche noi possiamo credere a cio' che ci ha detto Gesu',

perchè non ha detto nulla che non sia vero, essendo lui stesso LA VERITA' (Gv. 8,44; 14,6)

 

ll terzo pilastro si fonda sulla testimonianza gratuita e certa dei discepoli del Signore.

Non avrebbero mai potuto incrementare la fede

se non fosse stato basato proprio sul fatto delle apparizioni di Cristo,

(il Libro degli Atti parla di NUMEROSE PROVE) cosi certe quanto inattese (At 1,3).

Hanno subito tutti il martirio per essere SUOI TESTIMONI (1,8)

Ancora una volta, non ci si fa ammazzare per un inganno,

e non si costruisce su una bugia, una verità che sopravvive nei secoli.

 

L'ultimo pilastro sul quale poggia la nostra fede in Cristo risorto,

è costituito da questa testimonianza interiore dello Spirito Santo che,

già da venti secoli, parla a tutti i credenti.

Credenti sparsi sui cinque continenti,

che , a dispetto di alcuni media, sono sempre piu' numerosi nel mondo.

Poichè il Cristo vivente e resuscitato,

ha costruito una Chiesa animata dallo spirito CONTRO LA QUALE LE FORZE DEL MALE VINCERANNO (Mt 16,18),

perchè Gesu' , giustamente, resta con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo” (28,20).

 

Ancora una volta, grazie a Dio, non non si tratta di prove preconfezionate.

Ma che segni di luce, quale sostegno per la nostra speranza e che sicurezza per le nostre anime.

No, la fede nella Resurrezione non offusca la nostra intelligenza e non indebolisce la ragione.

Al contrario: essa ILLUMINA GLI OCCHI DEL NOSTRO CUORE (Ef 1,18)

e ridà senso a cio' che, senza questa resurrezione, sarebbe rimasto drammaticamente senza senso.

Lo sprofondamento definitivo di ogni esistenza nella morte.

 

Partendo da questi fondamenti della nostra fede,

che dire dell'avvenimento stesso della resurrezione di Cristo?

 

Innanzitutto che è UN AVVENIMENTO UNICO.

E' inscritto per sempre nella nostra storia; senza nessun precedente, né caso analogo.

Mai un tale evento è stato vissuto, ne puo' riprodursi ,

poiché solo Dio, Maestro della vita, puo' trionfare sulla morte che colpisce ogni uomo.

In nessuna epoca, in nessun luogo, nessuna religione ha potuto affermare

che un uomo morto sia resuscitato da se stesso.

Gesu' è il solo essere, MORTO SOTTO PONZIO PILATO (1 Tm 6,13),

seppellito da Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea (Gv. 20,38-39),

che si puo' dire vivente perché è resuscitato dai morti.

Ne testimoniano il sepolcro aperto e vuoto,

le sue numerose apparizioni e l'immenso corteo dei suoi discepoli in cammino dietro di lui, sorretti dalla grazia del Vangelo.

Una grazia cosi viva e cosi forte che rischiara le anime

(come le nostre in questa notte benedetta) di pace, di luce e di gioia dandogli la Vita.

Una vita la cui fine sulla terra segnerà il giorno della loro nascita in cielo.

SONO LA RESURREZIONE E LA VITA, CHI CREDE IN ME, BENCHE' MORTO, VIVRA'.

E CHIUNQUE VIVE E CREDE IN ME NON MORIRA'. TU LO CREDI? (Gv 11,25-26).

 

La Resurrezione di Cristo è un EVENTO UNIVERSALE.

Riguarda tutti gli uomini di ogni paese e di ogni tempo.

Poiché risponde alla segreta attesa di tutto il mondo.

All'aspirazione generale dell'umanità ( anche se non confessata)

al trionfo finale della vita sulla morte che Dio ha voluto.

Questo passaggio assurdo in cui tutte le nostre strade inciampano.

Cosi la resurrezione di Cristo è la risposta data un giorno,

ma per sempre, a questa speranza universale che abita il cuore

di ogni uomo qui in terra e che, per il credente, assume il bel nome di FELICE SPERANZA (Tt 1,13, Eb. 3,6)

 

In che misura il mondo sarebbe rattristato e sminuito nel credere in tutto ciò'? (Gv3,16;2,13-17)

Si, Cristo è vivente e resuscitato

. Lo possiamo testimoniare con tutta la nostra fede.

La resurrezione di Cristo è un evento cosmico.

E' sicuramente storico, inscritto nella data del 14 di Nisan dell'anno 30,

ma ancora di piu' transtorico,

poichè segna il ritorno nella sfera della Divinità di Dio di prima dei secoli.

Trascende lo spazio e il tempo.

Ma ridà all'universo intero la promessa di una vita che non terminerà

e di una felicità che ci riempirà (Ef 3,13).

Perché è proprio per riscattare la creazione intera (Rm 8,22)

che l'Altissimo ha voluto scendere molto in basso.

AFFINCHE' DIO SIA IN TUTTO E IN TUTTI.  

E anche TUTTO IN TUTTO (Co 15,28; Col 3,11).

Fratelli e sorelle, noi formiamo già qui IL CORPO DI CRISTO (1 Co 12,27).

Vuole fare di ogni battezzato un popolo di sacerdoti, di profeti e di re.

La vera ri-creazione del mondo è iniziata (1 Co 5,17; Ga 315).

Certo è sempre contraddistinto dalla sofferenza, dalla spossatezza, dal peccato e dalla morte.

Ma quella non è il suo fine ultimo.

Un giorno non ci sarà piu' né morte, né lacrime, né grida, né sofferenza (Ap 21,4).

Eccoci chiamati a diventare, via via, degli UOMINI NUOVI  

per costruire UN MONDO NUOVO (Ep 4,22; -Col 3,10).

Si, nel futuro ci sarà UN CIELO NUOVO E UNA TERRA NUOVA (2 P 3,13).

La Resurrezione di Cristo ci apre già il cammino.

Non bisogna che sia invano quando Gesu ' afferma che siamo FIGLI DI DIO

ESSENDO FIGLI DELLA RISURREZIONE (Lc 22,36).

 

©FMG manoscritto originale in francese
 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

Solennità della Risurrezione del Signore


 

E il Terzo Giorno divenne l’Ottavo Giorno


 

Lo specifico del cristianesimo non consiste nella fede nella Divinità.

Tutti i credenti della terra condividono questo stesso sentimento.

Non consiste neanche nella fede in un unico Dio.

Ebrei e musulmani, “figli di Abramo” come noi, sono dei ferventi monoteisti.

Tantomeno si traduce in una morale del bene

che spinge a meditare, amare e condividere.

Nella maggior parte delle religioni del mondo ritroviamo le esigenze

della giustizia, dell’onestà, del dominio di sè o della purezza.

 

Lo specifico del cristianesimo è la fede nella Risurrezione.

Dalla Risurrezione comincia realmente “Il Vangelo della salvezza” (Ef 1, 13).

E in questo consiste l’originalità e l’essenzialità

di ciò che allora diventa veramente “una Buona Novella” (1 Co 15, 1-11),

Teismo, Monoteismo, difesa dei valori morali non bastano.

Per il cristiano, un morto si è rialzato dalla tomba!

Questa è la Notizia su cui si può costruire tutto (Lc 24, 5).

Cristo non è più e non rimane nella morte. E’ Risorto!

Sulle strade di tutte le nostre Emmaus,

egli cammina, vivo, al nostro fianco (24, 13-35).

 

Ma ecco! Regolarmente dei sondaggi continuano a stupirci

nel recensire delle persone che si dicono cristiane

senza credere nella Risurrezione.

Se così fosse, fratelli e sorelle,

dove sarebbe la gioia della nostra vita e la luce del nostro cammino?

In cosa consisterebbe la “Buona Notizia” che abbiamo la missione

di diffondere nel mondo?

Saremmo “i più infelici tra gli uomini.

Ma no! - insorge l’apostolo-

Cristo è veramente risorto.

Primizia di coloro che sono morti.” (1 Co 15, 20)

Dobbiamo ritornare in fretta al fondamento del cristianesimo.

Ma chi può fondare ragionevolmente, logicamente, questa fede

essenziale nella veridicità della Risurrezione di Cristo.

Se riflettiamo in profondità, vediamo comparire

tutta una serie di motivi validi per credere in questo Dio fatto uomo che

“Crocifisso sotto Ponzio Pilato è risuscitato il terzo giorno”.

 

Il primo si evince dallo stato d’animo dei discepoli

l’indomani della morte di Gesù sul calvario.

Tutto nel Vangelo e in ciò che possiamo sapere dal giudaismo delle origini,

ci fà capire che essi erano a mille miglia dall’immaginare la risurrezione del loro Maestro,

inchiodato su una croce

di “maledizione” e di “infamia” (Ga 3, 13; Eb 12, 2)!

Per loro era tutto finito e finito male!

Atterriti e sconvolti dall’arresto e dalla morte del Signore,

dopo “la loro dispersione” (Gv 16, 32) si sono alla fine raggruppati solamente

per rinchiudersi, tutti impauriti, gli uni sugli altri, “come degli animali durante il temporale”

( Gv 20, 19; Lc 24, 37-41)

 

Come avrebbero potuto, dei “morti viventi” com’erano, aver avuto l’idea

e ancor più l’audacia di lanciare la notizia che Gesù era tornato in vita?

Di quel Gesù che ancora al momento delle prime apparizioni si rifiutano di credere!

Non sono forse questi dubbi, queste paure, queste fughe, questi rifiuti riportati senza compiacenza dai Vangeli, a costituire una prima ragione per prestar fede

a questi testimoni, malgrado loro,

di un fatto che è divenuto credibile proprio perchè gli si é imposto?

 

Una seconda ragione, sempre in negativo,

si trova nella tomba vuota.

Ora, proprio quella tomba che “era sigillata” e “custodita” con cura,

ci precisa il vangelo di Matteo, sempre ben informato, (27, 62-66)

é evidente che, se fosse stato possibile formulare una qualsiasi fabulazione

a questo proposito, tutte le autorità civili e religiose che si erano riunite

per condannare Cristo, non avrebbero atteso un istante per farlo.

Nessuno, infatti, ha mai smentito questo fatto (Mt 28, 15).

La tomba aperta era proprio vuota!

E, in ogni caso nessuno ha mai trovato il corpo di Gesù, altrimenti ne avremmo

sentito parlare da tempo!

 

Potremmo arrischiarci a dare credito ad dare credito

ad una trafugazione del corpo da parte dei suoi discepoli,

come alcuni sono stati tentati (Mt 28, 11-15)?

Oltre alla difficoltà tecnica e materiale

portare a buon fine in queste circostanze si aggiunge

una terza motivazione alle precedenti.

Non ci si fa ammazzare per una falsità!

Non si muore, ai quattro angoli del mondo, lungo gli anni,

per una frode o una menzogna.

Le testimonianze dei primi discepoli sono tanto più credibili,

quanto tutto quello che conosciamo di loro, ce li mostra come

uomini realisti, equilibrati,

e dunque realmente degni di fede (At 4, 1-22; 5, 27-.33).

I convertiti del giorno di Pentecoste, di diciassette nazionalità,

e i numerosi membri delle prime comunità cristiane, lo confermano,

se bisogno fosse (At 2, 41.47; 4, 33).

 

Più positivamente si aggiunge una quarta ragione per credere

che consiste nel fatto stesso delle apparizioni.

La tomba vuota è un segno.

Ma “la vista del Risorto” diventa “per essi una grande gioia” (Gv 20, 20).

Sia a Gerusalemme che in Galilea,

è evidente che le apparizioni di Cristo sono avvenute   

in modo inatteso ed oggettivo.

Quasi sempre in presenza di parecchie persone,

e alcune volte di numerosi testimoni.

E Paolo arriverà a scrivere: “più di cinquecento fratelli in una volta” (1 Co 15, 6).

La varietà delle circostanze, l’appropriatezza del tono, il rifiuto del sensazionale,

la semplicità che fugge ogni messa in scena delle apparizioni

riemergono fino a noi con tutto il peso di verità.

Per dire cose così grandi, che sobrietà, che umiltà!

In nome di cosa dubitare, davanti a quello che viene affermato

da tanti testimoni, capaci di soffrire la prigionia e affrontare il martirio?

Sì, in nome di che cosa dubitare?

Quando prestiamo fede a tutto quello che la storia ci racconta,

a partire da testimonianze a volte molto meno fondate e verificate?

E quante volte, in venti secoli, Cristo è apparso per sostenere da un lato, illuminare dall’altro,

la nostra fede nella sua presenza basata sulla sua Risurrezione? (Mt 28, 20)

Sarebbe impossibile citare qui la testimonianza di tanti mistici e santi.

*

Inoltre, come non rilevare come un fatto verificabile la trasformazione,

umanamente inspiegabile, di questi discepoli, in seguito all’effusione dello Spirito?

Prima impauriti, barricati, prostrati, silenziosi, codardi, gli stessi uomini

sono diventati aperti e coraggiosi.

Sono letteralmente portati dalla loro fede in ciò che hanno visto

e ascoltato dal Risorto e ne parlano chiaramente

proclamandolo dappertutto.      ,

I Galilei, derisi e intimiditi,

al cuore della Città Santa, non avrebbero potuto agire con tanta franchezza,(At 4, 13.20)

se non fossero stati presi da una fede a tutta prova

nella Risurrezione del loro Signore.

 

Come non rilevare anche il fatto che non c’é stata alcuna

confutazione riguardo a questa asserzione?

Cosa che sarebbe stata ovvia, visto il numero, la determinazione,

l’intelligenza e la potenza degli oppositori a tale affermazione.

Al contrario si nota dal principio che i cuori si convertono (At 2, 37).

Le conversioni si moltiplicano (5, 14) degli scettici come Tommaso,

si aprono alla fede, degli avversari accaniti come Paolo,

si arrendono all’evidenza (9, 1-30).

Resta vero il fatto che ancora lo scetticismo e il rifiuto

alla Risurrezione di Cristo, conta molti adepti, prova questa

che il vero Dio sa rispettare le nostre libertà!

Invece è vero che ci si lascia uccidere per affermare la propria ignoranza

e il proprio dubbio. Che dire, dunque dell’immenso e incessante corteo di martiri

di Gesù Risorto?

Non si tratta forse di un altro segno tangibile della potenza e della presenza di

“Colui nel quale abita la pienezza della divinità” (Col 2, 9).

Detto questo, si potrebbe comunque sostenere che la fede nella

Risurrezione di Cristo ha potuto inserirsi nella pratica

come un’affermazione relativamente tardiva dell’insegnamento della Chiesa?

L’affermazione di questo dato iniziale, fin dai primi tempi apostolici, ci vieta

di pensare in questo modo.

No! La fede nella Risurrezione di Cristo, non si fonda su una leggenda

o su una rilettura tardiva, aggiunta in seguito, per far quadrare la logica

del messaggio evangelico.

E’ vero il contrario! Questa fede si fonda, fin dal principio,

su un fatto originario e totalmente originale, che ha determinato

e fondato tutto il messaggio cristiano.

Altrimenti come considerare l’espansione immediata

e rapida, presto fiorente e umanamente inconcepibile della Chiesa

sorta il mattino di Pasqua?

A priori, un messaggio come questo non poteva incontrare il favore delle

religioni pagane (At 17, 32) e neanche delle autorità civili (At 24),

né l’appoggio della filosofia greca dominante (1Co 1, 21-25),

né l’avvallo del giuridismo romano pronto a sfornare leggi per tutto (At 25-26),

né l’accordo del monoteismo giudaico, a priori sospettoso e ostile (22-23).

Comunque il Vangelo ha sfondato.

Di colpo si è propagato. Poiché sostenuto,

portato dal di dentro, da quel dinamismo irresistibile della fede dei credenti

nella Risurrezione di Cristo dai morti. “Non si incatena la parola di Dio”

soprattutto quando annuncia la vittoria sulla morte del Principe della Vita (At 3, 15).

 

Ecco perchè, molto velocemente,  la Domenica ha preso il posto del Sabato.

Anche questo fatto non è banale.

Per quanto sia santo e benedetto questo Giorno da Dio,

come culmine della creazione, è stato, in fretta, soppiantato

da un Giorno ancor più santo, che corona, come una nuova creazione,

l’incoronazione redentrice “del Salvatore del mondo” (Gv 4, 42).

La sostituzione di questo Ottavo Giorno, al settimo, altamente sacralizzato

dalla Scrittura, tanto rispettato dai primi giudeo-cristiani,

non avrebbe potuto realizzarsi in questo modo,

senza che una fede molto intensa, non fosse stata accordata

alla Risurrezione di Cristo,  Primo Giorno della settimana.

Ma ecco che l’Ottavo Giorno, ben oltre le epoche, è inscritto per sempre

nella storia dell’umanità salvata dalla Risurrezione di Cristo.

“L’Ottavo giorno” ,oltre il  tempo,

un Ottavo giorno che inscrive nel settennario delle settimane

che ritmano le nostre vite, questo Giorno, al di là dei giorni, tutto circonfuso di luce.

“Il Giorno del Signore”; morto e risorto per amore degli uomini, questo Giorno attraverso

il quale Dio ci dona di aver parte già della sua divinità e a gustare, per anticipazione,

a qualcosa dell’eternità.

 

Ecco il gran Mistero!

Una forza divina, dall’interno, ha condotto dalle origini,

il popolo cristiano a costruire tutta la sua vita

sul fondamento che già vi si trova, cioè Gesù Cristo (1Co 3, 11).

“Morto per amore e risuscitato nella gloria”

al mattino del terzo giorno.

Lui che, della Trinità tutta redentrice,  imprime il suo Amore divino

nella nuova Ottava delle nostre vite.

Per questo noi ci siamo!

Noi ci siamo, perché poggiamo la nostra fede su tutti quei “segni” che,

grazie a Dio, non bastano per fare una prova certa.

Perché il credere si propone alla libertà e non si impone mai

come un’evidenza.

La sola prova che si ha di Dio, lo sappiamo,

è quella “del suo Amore per noi” (Rm 5, 8).

Quindi noi ci siamo!

Dopo quasi venti secoli, come e prima di tanti altri, ci siamo!

Per vivere e cantare, semplicemente, liberamente, gioiosamente,

la nostra fede nella persona del Dio vivente.

Di Cristo Gesù che è veramente Risorto!

Alleluia!

 

©FMG traduzione da “Sources Vives” n° 91 pp. 126-133

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

II Domenica di Pasqua - anno B

 

Mio Signore e mio Dio

 

Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi

e non metto il dito nel posto dei chiodi

e non metto la mia mano nel suo costato,

non crederò».(Gv 20, 25)

Questa rivendicazione non poteva essere più concreta e determinata.

«Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!».(Gv 20, 27)

La dimostrazione altresì non poteva essere più perentoria.

 

Possiamo essere riconoscenti all’apostolo Tommaso

per aver alzato i toni e in modo così realista!

Rivendicando un segno così tangibile

della Risurrezione effettiva di Cristo,

ha permesso che anche per noi si aprano le porte della fede.

In definitiva, cosa vediamo, fratelli e sorelle?

Sì, cosa ci viene dato di constatare, verificare e contemplare

e, a partire da ciò, di proclamare?

 

Una realtà incredibile.

Un fatto inspiegabile umanamente.

Una sfida a tutte le leggi della vita sulla terra.

Là, davanti agli occhi di Tommaso, sbalordito,

e degli apostoli che, da quel momento, non poterono più tacere

quello che videro,

un uomo in piedi,

con le mani trafitte e il cuore aperto.

e che dice, “ in mezzo a loro: «Pace a voi!»”. (20, 26)

 

Ma, cosa succede ad un uomo con il cuore aperto?

Si, che cosa succede di un uomo con il petto squarciato,

dal cuore trafitto al punto

che ci si possa “mettere”, “infilare” la mano intera?

Lo sappiamo tutti:

un uomo dal cuore ferito è un uomo morto.

Ora, questo morto è vivo!

Chi è allora questo Gesù morto che è il Cristo vivente?

 

Il dito puntato di Tommaso e la sua mano tesa

si fermano improvvisamente.

Avrebbe voluto toccarlo, ma eccolo impietrito al suo posto.

Avrebbe voluto toccare il cuore del crocifisso,

ma è il suo cuore ad essere stato toccato.

In un attimo, Tommaso si rigira completamente.

In un baleno si ricorda di tutto il suo passato.

Rivede tutto il cammino percorso dietro di lui.

Improvvisamente, ma per sempre, capisce tutto.

 

Fratelli e sorelle, facciamo memoria anche noi con Tommaso!

«Andiamo anche noi a morire con lui!». (11, 16)

Si tratta della stessa parola che noi ci siamo detti

impegnandoci alla sua sequela.

Un giorno dovremo poi morire,

ma cambia tutto se sappiamo che non moriremo soli e senza un senso,

ma con lui e per un regno di gloria.

“Io sono la risurrezione e la vita,

chiunque crede in me, anche se muore, vivrà” (11, 26)

Il crocifisso è davvero il risorto!

Colui che ha attraversato la morte,

che ha avuto le mani e i piedi forati dai chiodi

e il fianco trafitto da una lancia,

Gesù stesso è la nostra Pasqua!

La Pasqua dalla morte alla vita!

La Scrittura può proclamarlo:

“voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi” (Ef 2, 19)

 

Ma la strada resta disseminata di trappole e oscurità.

“Signore, non sappiamo dove vai,

come potremmo conoscere la via?”

La risposta per noi oggi é la stessa

che fu rivolta a Tommaso:

“Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 5-6).

Non spendiamo più il nostro tempo a cercare

come vivere la nostra vita, dove trovare la verità

e quale strada imboccare.

Ora noi sappiamo che è lui

la via, la verità e la vita.

Possiamo costruire la nostra vita su questo “fondamento”.

La Scrittura può continuare a proclamarlo:

“In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2, 21).

 

Allora eccoci finalmente anche noi

davanti “a questo Gesù” che tutti credevano morto,

ma che, al di là della morte, resta per sempre “il Dio vivente.

Non essere incredulo, ma credente!”

Capiamo ora perchè la fede

ha la capacità di salvarci (Mc 16, 16).

Perché ci permette di aderite al Dio della vita.

Perché ci fa camminare nella sua Luce.

Perché ci radica nella gioia della speranza.

“Beati”, allora siamo noi

per credere “senza avere visto” (Gv 20, 29)!

Già ad ogni Messa,

nel momento dell’elevazione,

possiamo ridirgli: “Mio Signore e mio Dio!” (20, 28)

In questo momento diventiamo, come dice l’apostolo,

“dimora di Dio nello Spirito” (Ef 2, 22).

 

E con San Tommaso

possiamo lodare il Padre

per averci dato un tale salvatore

nella persona di colui che ha vissuto sulla terra,

è morto sotto Ponzio Pilato e é risorto il terzo giorno:

“il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.” (Tt 2, 13)

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

III Domenica di Pasqua - anno B

 

La gioia di Pasqua

 

Alla luce del giorno di Pasqua,

comprendiamo finalmente perché Gesù,

la vigilia della sua morte abbia promesso la gioia ai suoi discepoli.

E che gioia!

La gioia della condivisione del suo amore:

“Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).

La gioia del superamento delle nostre prove:

“Così anche voi, ora, siete nella tristezza;

ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà

e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia”(16,22).

La gioia della nostra partecipazione alla gloria di Dio:

“Ora, Padre, io vengo a te

e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo,

perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia”(17, 13).

 

Ecco perché a partire dall’alba “dell’ottavo giorno”,

la gioia scoppia dappertutto.

“Rabbouni! Maestro!”

Le lacrime di “Maria” vengono mutate in pianti di gioia (20,15.18).

Alla vista “dell’angelo del Signore, dall’aspetto come la folgore,

con timore e gioia grande”,

le donne corrono a proclamare la Buona Novella (Mt 28,1-8).

Dopo aver sentito “il cuore bruciante nel petto”

per averlo ascoltato lungo il cammino interpretare le Scritture

e averlo riconosciuto “nello spezzare il pane”,

i pellegrini di Emmaus “ritornano a Gerusalemme”

spinti dalla gioia (Lc 24,27-35).

Nel vedere Gesù che li saluta con un duplice “Shalom” di pace,

“i discepoli sono pieni di gioia alla presenza del Signore” (Gv 20,19-21).

Ecco il Vangelo!

 

Fratelli e sorelle, da venti secoli fino ad oggi,

la cristianità non ha più smesso di proclamare

la gioia che la risurrezione di “Cristo Salvatore del mondo”

ha reso alla terra.

 

“Sì, rallegratevi nel Signore, sempre;

ve lo ripeto ancora,” -dice l’Apostolo delle nazioni,

“rallegratevi!

La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!” (Fil 4,4-5).

 

Egli è più che vicino: Gesù, vivo, resta presente (Mt 28,30).

I nostri prefazi pasquali possono cantarlo senza fine:

“E’ lui che morendo ha distrutto la morte

e risorgendo ha ridato a noi la vita.

Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale,

l’umanità esulta su tutta la terra.”

 

Da dove emana questa gioia, così radicata nella Scrittura,

e fondata sulla Tradizione, questa gioia che ben oltre

la persistenza e il peso delle nostre colpe,

il perdurare delle nostre prove, l’ineluttabilità della nostra morte,

invade le nostre anime, riempie i cuori, illumina gli spiriti

e ci fa “trasalire” come la Vergine del Magnificat,

pensando “la risurrezione della carne, la vita eterna” (Credo di Nicea)?

 

Fratelli e sorelle, c’è un vero e proprio mistero di gioia

e la Pasqua ci dona di contemplarlo alla sua Luce.

Quale è, allora, questa gioia?

*

La gioia di Pasqua è, innanzitutto, quella del Padre dei cieli

che accoglie suo Figlio di ritorno dalla sua missione sulla terra (Gv 13,1-3).

 

Gesù, in una confidenza divina, un giorno ha rivelato

quanta era quella “gioia davanti agli angeli di Dio

per un solo peccatore” che ritorna verso di lui (Lc 15,7.10.23.25).

Cosa dire allora del ritorno trionfale

del “Figlio unico” che ha “dato, consegnato, perduto” la sua vita per noi?

Più prodigo d’amore, nella follia della sua Sapienza (1Co 1,20-25),

di tutti i prodighi delle follie senza sapienza della terra!

Lui che ritorna “nella casa del Padre, per preparare un posto”

di tutti coloro di cui ha fatto “una moltitudine de fratelli” e sorelle (Gv 14,3; Rm 8,29).

 

Oggi, finalmente, possiamo “conoscere

il mistero della sua volontà,

secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui

prestabilito

per realizzarlo nella pienezza dei tempi:

il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Ef 1,9-10).

Si, la gioia pasquale è quella di Dio Padre a cui

“piacque di fare abitare in lui ogni pienezza

e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,

rappacificando con il sangue della sua croce,

cioè per mezzo di lui,

le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1, 19-20)!

Possiamo meditare su questa gioia infinita

del “Padre suo e Padre nostro” del “Dio suo e Dio nostro” (Gv 20, 17),

vedendo come, con la Redenzione del Figlio amato,

Possiamo ora “essere chiamati figli di Dio

e lo siamo veramente” (Col 1,14; Gv 3,1.3).

 

Inoltre la gioia di Pasqua è, certamente, la gioia del Figlio.

Del Figlio che, pur non avendo lasciato il “seno del Padre” (Gv 1,18)

ritorna “a sedersi alla destra di Dio” (Col 3,1).

 

Ascoltiamolo mentre ripete: “Padre giusto e santo…

In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi.“Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie,

e io sono glorificato in loro (Gv 17,10).

Oltre “le prove della sua anima” (Is 53,11),

dell’abbandono dei suoi e delle sofferenze della sua Passione.

gusta ora la gioia insigne della sua vittoria.

Della sua vittoria sul peccato, sul male e sulla morte

che ci rendevano prigionieri (Gv 16, 33).

E’ la gioia divina oltre la croce,

e la pace divina al di là del combattimento (14,27; 16,21-24).

 

Nell’oggi della Pasqua, possiamo infine cogliere

il senso più profondo di queste parole d’addio;

e perchè, seppur nella loro gravità,

restino impregnate di una tale serenità.

“In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14,20).

 

La gioia di Pasqua è inoltre la gioia dello Spirito

che trasporta d’allegria la Chiesa dei battezzati.

 

A questo punto, anche lo Spirito è stato rimesso nella mani del Padre

pur essendo contemporaneamente stato “effuso a profusione nei nostri cuori” (Rm 5,5).

“Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,16).

Grazie a lui, la Chiesa si ritrova tempio santo.

“ Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?

E questo tempio siete voi!” (1Co 3,16-17).

 

Come potrebbe la Chiesa non rallegrarsi

di essere testimone della Risurrezione di Cristo,

portatrice della sua Parola che è luce

e dispensatrice della sua Eucaristia, sorgente di Vita?

Come uno sposo, ci dice l’Apostolo,

“ha dato se stesso per lei, per farla comparire davanti a sé,

gloriosa, senza macchia, senza ruga o altri simili difetti,

ma santa e irreprensibile” (Ef 5,25-27).

Comprendiamo quale gioia possa essere la sua

vedendo come “lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!”,

nella speranza quotidiana delle nozze eterne (Ap 19,8; 22,17).


Per concludere, possiamo dire

che la gioia di Pasqua è la gioia di ciascuna e ciascuno di noi.

Noi che ora siamo “figli della Risurrezione” (Lc 20,36)!

 

Fratelli e sorelle, no, non siamo più soli.

Siamo accompagnati dalla Presenza del Dio vivente.

La morte non è più la morte. Noi la attraversiamo.

La fine è un inizio. E’ l’eternità che ci attende.

La felicità esiste. Ci sta davanti “in tutta la sua pienezza”.

Gesù che ci aspetta sulla riva, cammina anche al nostro fianco.

 

“Resurrexi et adhuc tecum sum, alleluia!”

“Sono risorto ed eccomi con te”,

cantava un tempo l’Introito del Messale romano della Messa di Pasqua.

Possiamo andare avanti, se vogliamo,

con la luce della fede, perchè Cristo è veramente risorto;

con la forza della speranza, perché i cieli sono aperti per noi;

e nella tenerezza dell’amore già condiviso.

 

La lettera di San Paolo apostolo ci ricorda,

“Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù,

dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio;

pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”.

Queste solo sono arricchenti ed eterne.

“Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita,

allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3,1-4).

“Sono risorto ed eccomi con te!”.

 

(Pietro e Giovanni possono tornare indietro dalla tomba

dove avevano sepolto Cristo. E’ vuota!

Il lenzuolo “s’é afflosciato”. Le bende “sono state piegate a parte”.

Questo significa che Gesù si è liberato da solo.

“Il Signore è risorto ed è apparso a Pietro.

Ci precede ogni giorno in tutte le nostre Galilee.

“Sono risorto ed eccomi con voi!”)

 

Possiamo amare la nostra terra più che mai:

è un trampolino verso la gloria del cielo!

 

©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

IV Domenica di Pasqua - anno B

 

Il vero e buon pastore

 

Queste immagini e questi propositi del Cristo Buon Pastore,

paragonando gli uomini alle pecore del suo ovile,

potrebbero sembrarci un po' bucolici o desueti.

Ma, non siamo noi sempre in cerca

di questo Buon Pastore capace di corrispondere alle nostre attese?

Capace di allargare i nostri limiti, di illuminare le nostre oscurità

e di placare i nostri timori?

Abbiamo tutti una tale sete di vita, di luce, di pace!

Un tale desiderio di felicità assoluta e di vita senza fine!

*

Dove sono dunque i verdi pascoli e le acque del riposo

dove possa, nel trascorrere dei giorni, rifarsi la nostra anima (Sal 23,1.6)?

La vita o è eterna o non lo è!

Dov'è dunque la porta che ci apre l'al di là dall'al di qua?

Mille “nutrimenti terrestri” possono pur attirarci,

abbiamo rapidamente fatto l'esperienza che nessuno di loro

potrebbe colmare la nostra fame di pienezza e la nostra sete di eternità.

Cos'è un corpo soddisfatto, se lo spirito, in lui, rimane rattristato?

Per quanto grande sia il nostro “potere d'acquisto”, come dice il salmista,

non si può riscattare la propria anima

né pagare a Dio il proprio riscatto

tanto risulta costoso il prezzo della nostra vita (Sal 48,7).

 

Dov'è dunque il pastore che potrebbe liberarci e soddisfarci?

Il pastore che si vorrebbe, non solo seguire,

ma ancor più amare?

Capace di portarci sulle sue spalle, di liberarci dal Nemico

e di fortificarci nelle avversità?

Capace di mantenerci sul cammino di questa vita

e di rendercela il giorno in cui essa sprofonda nella morte?

Un pastore di tutti i giorni che possa mantenerci sempre,

nell'unità e nella pace,

perchè sarebbe finalmente conosciuto ed ascoltato da tutti?

*

Io sono il buon pastore (Gv 10,1.18)!

Sulla spianata del Tempio di Gerusalemme, Gesù ha parlato.

Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore (10,11).

Davanti ai suoi, il Cristo si è rivelato.

Io conosco le mie pecore

e le mie pecore conoscono me (10,14).

Al cospetto del mondo la voce del Verbo è risuonata.

Come il Padre mi conosce , io conosco il Padre

e do la mia vita per le mie pecore (10,15).

Sulla terra degli uomini, il Figlio di Dio si è manifestato.

E ci sarà un solo gregge e un solo pastore (10,16).

In tutte le chiese della cristianità oggi,

lo splendore della sua gloria illumina i cuori (Eb 1,3).

E chi è costui, Signore, perchè io creda in lui?

Tu lo vedi, è lui che ti parla (9,36-37)!

Sì, fratelli e sorelle, nel Vangelo di questo giorno,

è proprio Lui che ci parla.

*

Quali ragioni essenziali possono dunque condurci a credere

che a questo solo nome di Gesù, come ce l'ha ridetto l'apostolo Pietro,

ogni uomo possa essere salvato (At 4,12)?

 

Se Gesù è il buon pastore,

è innanzitutto perchè conosce la via,

la sola via che merita di essere conosciuta e percorsa

perchè conduce esattamente alla casa del Padre (Gv 14,2).

Sulla soglia di questo ovile che è il Regno di Dio,

cioè la dimora della vita, della luce e dell'amore.

Come Nicodemo, lo abbiamo tutti ben presto constatato:

nessuno è salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo,

il Figlio dell'uomo che vive in cielo (Gv 3,11).

E, del luogo dove è andato a prepararci un posto,

conosciamo la via poiché è lui stesso questa via (14,6).

Non possiamo tuttavia vivere indefinitivamente

come se tutti i nostri sentieri sbucassero solo su delle tombe!

Che il vostro cuore cessi di turbarsi e di temere.

Credete in Dio, credete anche in me.

Vado a prepararvi un posto e quando sarò andato a prepararvi un posto,

ritornerò a prendervi con me, affinchè là dove io sono, siate anche voi (14,3).

Bisogna veramente essere un pastore del cielo

per parlare così agli uomini della terra!

 

Se Gesù è il buon pastore è anche perchè lui è la porta.

Il dramma delle nostre esistenze è che infatti

inciampano tutte sullo stesso ostacolo.

E il solo passaggio mai praticato nel muro della nostra morte

è la pasqua del Cristo che l'ha aperto con il fuoco del suo amore.

Come quindi non volere seguire ugualmente quello che ha detto:

Io sono la porta. Chi entrerà attraverso me sarà salvato.

Entrerà ed uscirà e troverà il suo pascolo (Gv 10,9).

Non è dunque un caso se colui che ci ha detto: io sono la via,

ci ha anche dichiarato:io sono la Vita (14,6).

Solo può parlare così un Signore e Cristo che è veramente risuscitato (Ap 1,18).

Poichè lui lo è e noi possiamo testimoniarlo!

 

La prerogativa di un pastore è anche di nutrire ed abbeverare.

Anche su questo piano , le promesse di Gesù superano le nostre speranze!

A Cafarnao, dopo aver moltiplicato i pani,

ha moltiplicato le parole di vita eterna (6,68).

Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà mai fame;

chi crede in me non avrà mai sete (6,35).

Tutto ciò che possiamo bere e mangiare in questa esistenza,

serve solo a mantenerci in vita.

Ma ciò non può introdurci a condividere l'eternità.

I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti.

Questo pane è quello che discende dal cielo

perchè lo si mangi e non si muoia (6,50).

Da chi altro andremmo, quando ci è data

una tale promessa di vita eterna?

 

Il mistero del buon pastore va quindi più lontano ancora.

Non contento di donare la vita, il Signore ci dona la Sua vita.

Il Pastore si è fatto Agnello e l'Agnello è stato immolato.

Io sono il pane vivo disceso dal cielo.

Chi mangia questo pane vivrà in eterno (6,51).

E precisa: poiché la mia carne è veramente un nutrimento

e il mio sangue veramente una bevanda (6,55).

Per vincere la morte Gesù si è sottoposto alla morte.

Per liberarcene, si è consegnato ad essa.

Ma, credendo di annientarlo nelle sue tenebre,

la morte ha visto passare, attraverso di sé una pasqua di luce.

Se il Padre mi ama, è perchè dono la mia vita per riprenderla.

Ecco la meraviglia: la sua croce manifesta la sua gloria (12,28;17,1)!

La mia vita, nessuno me la prende, ma sono io che la dono.

Io ho il potere di donarla e il potere di riprenderla (10,18).

Donando la sua vita, il Cristo non l'ha affatto persa!

Si scopre allora, entusiasti, chi è veramente questo Pastore

che ci rivela così una tale potenza di vita

ed una tale prova d'amore (15,13).

Che forza per le nostre anime in questa vita di pienezza,

così donata in abbondanza (1,16;10,10)!

 

Allora, il Cristo può apparire come il pastore di tutti,

poiché diventa, perciò stesso, il salvatore universale.

Di fatto, con questa morte redentrice, il gregge cresce all'infinito

poiché Gesù riconduce così a sé,

tutti quelli che la morte teneva prigionieri.

Ed io, elevato da terra, attirerò tutti gli uomini a me (12,32).

Tutte le pecore smarrite di una umanità decaduta

sono ricondotte sulle spalle nude del Redentore in croce.

Il primo nato di tutte le creature diventa il primo nato tra i morti (Col 1,15.18).

A tutti gli uomini di buona volontà

la porta del cielo è ormai aperta.

E ci sarà un solo un gregge e un solo pastore.

Non c'è che il creatore del mondo che possa così rialzare il mondo!

*

Ecco il vero pastore (berger)! Ecco il vero pastore (pasteur)!

Essendo uno con il Padre può donare

a tutti coloro che lo hanno accolto e che credono nel suo nome

il potere di diventare figli di Dio (1,12).

Poiché noi lo siamo (1Gv 3,1).

Ecco la grande novità:

questo pastore buono, come solo Dio è buono (Lc 18,19).

Poichè delle sue pecore, non vuole fare innanzitutto dei servitori fedeli,

dei discepoli docili, e neanche solamente degli amici.(Gv 15,15)

Vuole fare di tutti quei dispersi dei figli del Padre (11,52).

Che meraviglia inaudita!

 

Si potrebbe obiettare: com'è possibile che il mondo intero

non riconosca ciò che noi siamo?

Sarebbe perchè il nostro modo di vivere nasconde la nostra identità?

Per san Giovanni, lo abbiamo ascoltato, la vera risposta non è lì:

il mondo non ci può conoscere perchè non ha scoperto Dio.

Che annuncio sconvolgente (1Gv3,1)!

Solo la fede in Dio può permettere di conoscere bene l'uomo.

La piena luce sul mistero dell'uomo

non è nelle scienze umane, ma nella Rivelazione divina.

 

E' persino detto: ciò che noi saremo non è ancora stato manifestato.

Noi sappiamo che, al momento di questa manifestazione,

noi gli saremo simili; e san Giovanni aggiunge:

perchè noi lo vedremo come egli è (1Gv 3,2).

E' dunque tanto urgente quanto importante

crescere nella luce della fede,

contemplare Dio nel suo mistero (poiché il Figlio ce l'ha fatto conoscere),

per scoprire l'uomo nella sua prodigiosa grandezza (Sal 8,5;139,14).

 

Ecco la buona novella del Buon Pastore:

si diventa simili a Dio solo quando lo si vede come egli è.

Si riconosce il pastore nelle sue pecore

solo quando si crede in lui.

Ma non dimentichiamo anche ciò che è scritto:

da questo abbiamo conosciuto l'amore:

che Lui ha dato la sua vita per noi.

E' per questo che anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i nostri fratelli (1Gv3,16).

In altri termini, il fine ultimo del Buon Pastore

è di fare anche di noi dei veri e buoni pastori!

*

Fratelli e sorelle,

celebriamo oggi la Giornata delle Vocazioni.

Quali vocazioni, si dirà?

L'abbiamo ora ben compreso:

la più bella vocazione che possa essere data all'uomo di vivere

è di contemplare Dio e di dare, seguendo l'esempio del Figlio,

la propria vita per quelli che si ama, poichè sono i figli del Padre.

 

Sì, nella sua bontà infinita, il Buon Pastore si è fatto Agnello,

affinchè noi, sue pecore, potessimo divenire pastori con lui.

Non si abbia dunque paura!

Se noi ci doniamo il potere di perdere la nostra vita per lui,

egli ci darà il potere di salvarla tramite lui.

 

Ma vogliamo noi salvarla tramite lui?......

Se sì, che cosa aspettiamo ancora per perderla in lui?

 

Signore, prendimi tutto intero per la tua gloria!

 

©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

V Domenica tempo pasquale - B


 

La nostra vigna e la Sua vigna


 

Se veramente facciamo fiducia alle parole di Cristo,

ci sono almeno due affermazioni di Gesù che devono attirare la nostra attenzione,

nei propositi che abbiamo appena ascoltato (Gv 15,1-8).

La prima in cui Gesù ci dice, in modo tanto chiaro quanto risoluto:

“Senza di me non potete far nulla” (15,5c).

Che dichiarazione!

La seconda dove afferma:”Chi dimora in me

e io in lui porta molto frutto” (15,5b).

Che promessa!

 

Delle parole come queste, se siamo cristiani

e non totalmente indifferenti, disillusi o addormentati,

non possono lasciarci indifferenti o inattivi.

Se è vero che senza di lui non possiamo “fare nulla”

possiamo rischiare di trascorrere tutta la vita a non “far nulla” che abbia consistenza?

E, se è vero che non lui possiamo “portare molto frutto”,

come non cercare a tutti i costi di “rimanere in lui”?

 

Fratelli e sorelle, uscendo dall’allegoria bucolica

che potrebbe semplicemente farci sognare,

Cristo viene a darci una delle più grandi rivelazioni che esistano.

Come non fermarsi allora per cercare di capire ancor meglio il motivo e la modalità

di questa duplice realtà?

Sì, come e perché Gesù è “la vera vite”?

E come e perchè noi siamo “i tralci della sua vite”?

 

**

 

Gesù è la vera vite perché prima di tutto

egli è colui che risponde pienamente alla fiducia

che Dio, da così tanto tempo, ha riposto nel suo popolo.

Quindi, dopo tante infedeltà improduttive, rifiuti sterili,

dopo tanti profeti rigettati, idolatrie, grazie sperperate,

Gesù è disceso, si è piantato in terra e ha detto:

“Io sono la vera vite” (15,1; Mt 21,33-45).

Lo è veramente, essendo il “giusto” e il “santo”!

 

Poi possiamo dire che questa vigna è “vera”

in quanto Gesù non rappresenta solamente una pianta di qualità,

ma egli è, in un certo senso, la “vite” per eccellenza

perché è “la Vera”1, “Cristo tutto in tutti” (Col 3,11).

E’ impossibile soppiantarlo, da quel momento,

Mosè, Confucio, Buddha, Maometto e altri

hanno potuto essere delle guide, dei saggi, dei profeti, dei santi…

Ma sono morti e non hanno mai avuto la pretesa di essere

la sorgente della nostra vita!

Lui, il Cristo, é il vivente- donatore di vita

che di ridice ancora: “Io sono la Vite!”

Dal momento in cui è entrato nel mondo é la linfa delle nostre vite (Gv 1,4).

“Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8, 35).

 

Gesù è anche “la vera vite”

perchè è il Figlio, “il Figlio Unigenito”,

attraverso cui, il Padre da di noi “dei figli adottivi” (Rm 8,15).

Dei veri “concittadini nella casa di Dio” (Ef 2,20),

che formano quello che la Scrittura indica giustamente come “la vigna del Signore”.

E il divino vignaiolo la vuole coltivare “fino ai confini della terra”.


Più profondamente ancora, Cristo è divenuto

quel grappolo schiacciato nel torchio della croce

che, “per la moltitudine” ha prodotto “la bevanda per la vita eterna” (Mt 26,28; Gv 6,53-56).

Ogni giorno terreno il vino della sua vigna

diventa il sangue del “mirabile scambio” delle nostre eucaristie,

Che fiume di vita!

E domani, in cielo, “il vino nuovo

nel Regno del Padre suo” sarà quello delle “nozze eterne”(Mt 26,29).

Che promessa di unione!

 

Gesù è ancora la “Vera Vite”

perché porta il frutto per eccellenza della nostra Redenzione;

e condivide il migliore di tutti i frutti,

che è lo Spirito Santo.

Questo Spirito “diffuso a profusione nei nostri cuori”2

Più che un risorto

tra gli altri, infatti, Cristo è

è il solo che ha risuscitato sé stesso

per la buona ragione che è egli stesso “la Risurrezione e la Vita” (Gv 11,25).

 

Come non riconoscere in lui

il vero ceppo da cui dipende la vita di tutti i tralci?

Il vero canale di ogni grazia e la sorgente di ogni fecondità?

Colui di cui il Vangelo può dire e proclamare:

“È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità,

e voi avete in lui parte alla sua pienezza” (Col 2,9).

 

Fratelli e sorelle, ci apriremo inevitabilmente all’azione di grazie,

se prestiamo fede ad una rivelazione come questa!

“Vedete che grande amore ci ha dato il Padre”

poichè ha voluto piantare in questa terra

“il vero Ceppo del suo Figlio Unigenito” (Gv 3,16; 1Gv 3,1).

Perché, attraverso di lui, con lui e in lui, tutti potessimo

ricevere e condividere la Vita, la Sua Vita!

 

**
 

Ma la cosa più bella di questo mistero

va oltre il fatto che il Signore stesso si sia fatto, per noi, la “vera vite”.

A partire da questo, infatti, diventiamo, a nostra volta,

la Sua vigna!

Poichè, se lui è il nostro ceppo, noi siamo proprio “i suoi tralci”,

“Io sono la vite e voi i tralci” (Gv 15,5).

Come e perchè possiamo dire e vivere questo?

 

Innanzitutto noi possiamo dirlo

perché la nostra sorgente e la nostra origine sono in lui.

Colui che ci ha creati ci ha anche riscattati.

Quale gioia e quale forza provengono dal sapere questo!

Noi siamo radicati in qualcosa. Appoggiati su Qualcuno.

Siamo stabiliti e resi saldi su un vero fondamento.

“Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova,

che è Gesù Cristo” (1 Co, 3,11).

 

Non possiamo più dunque dirci isolati o abbandonati.

Separati da un creatore inconcepibile o da un salvatore inaccessibile.

Al contrario, siamo legati da Qualcuno che ci precede.

Innestati ad un tronco che ci porta;

in presa diretta con la vita divina che scorre in noi.

Da questo momento la nostra esistenza può diventare utile e buona

perchè è piena di speranza e di senso.

 

“La gloria del Padre mio è che voi portiate molto frutto” (15,8).

Che mistero meraviglioso e prodigioso!

Noi viviamo, agiamo, soffriamo e moriamo…

E in definitiva c’è un altro e non noi che

vive, agisce, soffre e muore in noi.

Tutto il Nuovo Testamento ce lo ripete continuamente.

E “la vita eterna” ci è già data in speranza,

perché i germogli della risurrezione sono già infusi nei nostri cuori!

 

Così possiamo dire che noi viviamo in lui

poichè lui vive in noi (Ga 2,20).

Poiché Cristo è più intimo a noi che noi stessi.

Altrimenti noi facciamo presto a constatare,

fino a farne talvolta una triste e dolorosa esperienza,

que se la nostra vita non è legata a lui,

non ha peso. Non ha luce.

Non tiene. E, in definitiva, non ci realizza in profondità.

“Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5)!

In questo caso si può vivacchiare o essere “viveur”

Ma non dei viventi!

 

Ma ecco la rivelazione che abbiamo ricevuto:

Cristo si è messo talmente in noi,

che se noi ci tagliamo da lui, ci tagliamo da noi stessi!

Allo stesso modo in cui “la testa e il corpo” formano uno stesso essere,

“il ceppo e i tralci” costituiscono la stessa vite.

Da questa reciprocità d’amore dipende la fecondità delle nostre vite.

“Chi dimora in me e io in lui porta molto frutto” (15,5).

*

 

La prima conseguenza che ne deriva

è il far di tutto per dimorare in legame con lui.

In altri termini di “restare fedele ai suoi comandamenti” (Gv 15,7-12.17).

Ci ricorda san Giovanni: “Questo è il suo comandamento:

che crediamo nel nome del Figlio suo, Gesù Cristo,

e ci amiamo gli uni gli altri secondo il comandamento che ci ha dato.

Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui” (1 Gv 3, 23-24).

Solamente “l’amore vissuto in atti e in verità”

e “la sua sequela” nella luce della fede,

danno senso e valore alle nostre esistenze.


La semplice domanda che ogni mattina ritorna a domandarci

quale sia il peso e l’autenticità delle nostre vite é questa:

Sono veramente deciso oggi a credere ed amare?

Se la risposta è sì, possiamo essere sicuri che i nostri tralci porteranno frutto.

*

Una seconda conseguenza consiste nel lasciarci potare.

A partire dal ceppo crescono degli steli, dei germogli, dei fiori e delle foglie,

ma contano solo i frutti.

La vera vite non è quella che fa molta ombra o è molto fiorita

ma quella che produce un buon raccolto.

 

In altri termini non dobbiamo attaccarci troppo forte

né “all’uomo vecchio che va in rovina”,

nè a questo mondo che passa (2 Co 4, 17; 1 Co 7, 21),

ma costruire le nostre vite su una gerarchia di veri valori.

Quanta energia spesso dispersa nel proteggere delle cose di scarsa importanza.

“A che serve all’uomo guadagnare l’universo intero

se si perde o rovina sé stesso?” (Lc 9,25).

 

E’ vero, comunque che non è semplice sopportare

tutto quello che ci viene tagliato!

Ma è altrettanto sicuro che quello che è sottomesso alla morte

sbocca sulla Vita di Dio.

E che tutti gli autunni delle nostre esistenze

si concluderanno sulla riva della primavera divina.

Certi della onnipotenza e della tenerezza di Dio,

possiamo camminare nella speranza.

La gloria del Padre nostro è che noi portiamo,

non solo, “molto frutto”, ma anche “un frutto che permanga” (15,17).

 

A questo punto possiamo avanzare, anche noi, “pieni di fiducia”.

Più nulla potrà separarci dall’amore di Cristo!

Nessuno potrà mai strapparci

dalla sua mano, dalla mano del Padre (10, 28-29)!

Si capisce l’ultima confessione di Gesù:

“Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi

e la vostra gioia sia piena” (15,11).

 

Grazie Signore, per essere la vera vite per noi.

E sii benedetto di aver fatto di noi la tua vigna.

“Fà che io resti fedele ai tuoi comandamenti

e che io non sia mai separato da te” (lit. com.).


©FMG manoscritto originale in francese

 

1 Rif. Gv 1,9; 1 Gv 5,20; Ap 3, 7.14; 6,10.

2 Rif. Rm 5,5; At 9,31; 1 Gv 3,24.
 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

6 ° settimana di Pasqua, B


 

Amore , gioia ed amicizia in Cristo.

 

In poche frasi, la cui semplicità è pari solo alla loro profondità, oggi

il Signore ci invita a vivere tre meravigliose realtà.

Tre realtà di cui tutti siamo assetati, mentre percepiamo che possono illuminare e colmare le nostre vite: l’amore, la gioia e l’amicizia.

L’amore fraterno, seguendo l’esempio di Cristo; la gioia spirituale che ha la sua sorgente in lui; e l’amicizia divina che ci invita a condividere insieme.

 

L’amore è senza dubbio la prima caratteristica della religione cristiana.

Il cuore e tutto il messaggio evangelico.

Il vertice della rivelazione biblica.

Ecco perché San Giovanni proclama che Dio è amore, (1Gv 4,8).

Ci ricorda per questo e il suo essere e il suo nome.

Come possiamo già gioire nel sapere che colui che ci ha creati, che si rivela a noi, ci salva e ci accompagna lungo i giorni, è l’amore in persona!

 

Ma la nostra meraviglia continua a crescere quando vediamo che questo amore che è in Dio e che è Dio stesso, è personalmente disceso sino a noi.

Cristo Gesù ce l’ha rivelato, mostrato.

Ce l’ha dato per vedere, sentire , toccare.

Ce l’ha mostrato ( 1Gv 1,1-3)

Come il Padre mi ha amato, anch’io vi ho amati.

Rimanete nel mio amore, come io rimango nel Suo amore (Gv 15,9-10).

La rivelazione suprema di ciò che può essere l’amore di Dio

viene così messo in luce per noi.

 

Da allora in poi, vedendo come il Figlio ama il Padre, eccoci invitati a fare lo stesso.

Comportarsi come Lui, come veri figli di Dio ( 1Gv 3,1-3).

Figli nel Figlio e sotto lo sguardo dello stesso Padre.

Vedendo come il Padre ama il Figlio ( Gv 3,35),

siamo invitati ad aprirci anche alla pienezza del suo amore divino.

Perché il Padre stesso ci ama (Gv. 16,27)!

E vedendo come Cristo ha potuto amare gli uomini,

siamo portati a seguire l’esempio che ci ha dato ( Gv 13,15).

 

E’ in questo senso che il comandamento dell’amore

di cui Gesù dice al singolare, che è il Suo comandamento ( 15,12),

diventa nuovo (13,34).

Eppure era già vecchio (1Gv 2,7-8).

Tutto l’Antico Testamento ce lo ricorda.

Ma è radicalmente nuovo nel senso che ora si riferisce

alla stessa imitazione di Cristo.

E Gesù non teme, quindi, di ricordarci che non c’è amore più grande

che dare la vita per i propri amici.

Ammettiamolo, fratelli e sorelle,

nella loro limpida semplicità, queste parole del vangelo

sono di una forza inaudita e ci fanno venire le vertigini.

Perché ci invitano, allo stesso tempo,

ad aprirci alla pienezza dell’amore trinitario;

rispondere con tutto il nostro essere all’amore che Dio ha per noi

e ad andare sino a donare la nostra vita per i nostri fratelli!

 

Ma al pensiero di questo amore sconfinato

al quale siamo tutti veramente invitati,

oltre a tutto quello che possiamo solo sentire in noi di paura, debolezza, imperfezione, infedeltà, non è, forse, vero che alla fine la gioia prevale?

Si, di fronte ad un tale amore di Dio

che possiamo accogliere , rendergli e condividere tra noi,

da dove viene questa gioia?

Da dove viene, come dice giustamente Santa Giovanna d’Arco,

il fatto che “la gioia è la più forte”?

 

La gioia? In una sola frase Gesù ci da la Sua risposta.

Vi dico questo perché la mia gioia possa essere in voi e la vostra gioia sia piena (Gv 15,11).

Con questa semplice parola il Signore ci rivela dov’è la fonte della vera gioia; come si comunica a noi, e a quali condizioni possiamo viverne.

 

La gioia è in Dio poiché è Dio stesso.

Davanti al tuo volto pienezza di gioia

e dolcezza senza fine alla tua destra (Sal 15,11)

Dall’Annunciazione all’Ascensione attraversa , come un lampo, il vangelo della salvezza.

È prima di tutto questa gioia divina, questa gioia discesa dal cielo,

la Sua stessa gioia che Gesù dona.

Perché è venuto, come dice al Padre Santo,

perché abbiamo in Lui la sua gioia nella sua pienezza (Gv 17,13).


Ma è anche una gioia matura sulla terra .

Una gioia che il Figlio di Dio, diventato per noi figlio dell’uomo,

ha suscitato in lui, prima di tutto,

osservando fedelmente i comandamenti del Padre Suo (15,10)

e andando così avanti da dare la vita per i suoi amici,

al punto di amare anche i suoi peggiori nemici ( Mt 5,44; 26,50; Lc 23,34-42).

Senza dirci nulla, Cristo ci mostra con quale profonda gioia

possiamo provare, a nostra volta. vivendo in fedeltà ai suoi comandamenti

e alla carità che, come dice l’apostolo Paolo,

non si adira, non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia,

ma mette la sua gioia nella verità;

lei che scusa tutto, crede tutto, spera per tutto, sopporta tutto ( 1Cor 13,5-6).

 

Questa è la gioia di Dio amico degli uomini,

nell’atteggiamento più filiale e fraterno che sia esista.

Questa gioia così nutrita (Gv 4,34)

alla fonte di questo doppio amore del Padre e dei fratelli,

non può che essere perfetta.

Vi dico questo perché la mia gioia possa essere in voi

e la vostra gioia possa essere perfetta.

Ed è questa gioia, la stessa gioia che è Sua,

che Gesù vuole vedere crescere e maturare in noi (15,10).

Scopriamo allora come può nascere dall’amicizia.

 

L’amicizia! Questa è la terza meravigliosa realtà che il Signore ci invita a condividere in questo giorno.

Siete miei amici se fate ciò che vi comando (Gv 15,15).

Così dicendo, Gesù colloca immediatamente questo in tutta la sua domanda.

Non nel sentimentalismo di un conforto sensibile che sarebbe troppo esteriore, superficiale e quindi fragile, ma ancora una volta, fedeltà ai suoi comandamenti.

Perché i comandamenti del Signore non devono limitarci o rimpicciolirci,

ma liberarci ed elevarci (Sal 119).

E Gesù continua: non vi chiamo più servi,

perché il servo non sa cosa fa il suo padrone.

Vi chiamo amici,

perché tutto ciò che ho imparato del Padre

mio ve l’ho fatto conoscere ( Gv 15,16).

 

Eccoci diventati i confidenti del Signore della gloria,

i depositari dei segreti del regno dei cieli,

affidati da colui che ha le parole della vita eterna (Gv 6,63).

“ l’amicizia , dice giustamente Clemente d’Alessandria, non scaturisce da un dono unilaterale ma da una lunga familiarità.”

Come non sentirsi vicino a Lui quando si crede nella sua parola,

ci si nutre della Sua Eucarestia e , come dice Paolo,

si è un membro del Suo corpo ( 1Cor 12,27)

e , letteralmente, della casa di Dio ? (Ef 2,19).

 

Si, fratelli e sorelle, dobbiamo crederci.

E sapere, umilmente ma veramente gioirne.

Siamo amici, se camminiamo dietro a Lui.

Siamo amici, se viviamo nella Sua luce.

Siamo amici, se facciamo ciò che ci dice.

Non dobbiamo vantarcene.

Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi,

e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il frutto rimanga (Gv 15,16).

Ma come non volere, in cambio, rendergli la nostra amicizia

dinanzi a un tale segno di fiducia e di stima così gratuitamente data?

 

“un amico dice San Girolamo, si cerca a lungo, lo si trova a fatica, lo si conserva con difficoltà.”

Non dobbiamo avere alcuna paura del genere con Gesù!

Conosco le mie pecore e le mie pecore mi conoscono.

Io do loro la vita eterna,

non periranno mai e nessuno le strapperà dalla mia mano (Gv 10,14.28)

“la perfezione, dice San Francesco di Sales, non consiste nel non avere nessuna amicizia, ma di averne di buone, di sante e di sacre”.

È sicuro che l’amicizia di Cristo non può che portarci a salire e illuminarci,

Colui che vuole che diventiamo perfetti

come è perfetto il nostro Padre del cielo (Mt 5,48).

Possa essere così con tutte le nostre amicizie sulla terra!

 

Signore, aiutaci a condividere questo amore,

questa gioia e quest’amicizia che tu offri a tutti ed a ciascuno,

affinché possiamo viverne, sul Tuo esempio, e tra tutti noi!

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Solennità dell'Ascensione del Signore - B

 

Presenza nell'assenza

 

Anzitutto, non siamo comparsi sulla terra per morire un giorno,

né per vivere quaggiù un periodo di tempo il meglio possibile.

Siamo, per prima cosa nati per rivivere un giorno.

Siamo stati creati per essere, per sempre, ricolmi di una gioia

senza limiti e senza fine.

 

Detto questo, l'Ascensione di Cristo ci pone un duplice problema

in cui si trova inserita un'intera esigenza cristiana.

Per prima cosa, il problema di un'assenza momentanea,

e poi quello di una presenza nascosta.

E queste due realtà non possono non provocarci una certa pena,

o piuttosto quella che i mistici chiamano “gioia dolorosa”

Perché, dunque, questa assenza apparente?

E questa presenza nascosta?

*

Prima di tutto ci si manifesta il dolore di un'assenza palese.

Non mi trattenere”, dice Gesù a Maria Maddalena,

la mattina stessa della sua Resurrezione.

Io salgo al Padre mio e Padre vostro,

Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17).

E questo non è stato molto facile da vivere né per i discepoli né per lei.

E tanto più per noi!

Al di là dei “giorni della carne” ,come dice la Scrittura,

Gesù si inserisce nella storia degli uomini

come colui che , per lo meno visibilmente,

ci ha definitivamente lasciati (Mt 28,6).

 

Fin da prima della Passione, i suoi discepoli erano stati apertamente avvertiti:

Ora me ne vado da Colui che mi ha mandato…” (Gv 16,5).

Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo.

Ora lascio il mondo e torno al Padre” (Gv 16,28).
 

Gesù sa bene la sofferenza che una confessione di questo genere

non può evitare di produrre nell'anima dei suoi.

Ma non esita a dire loro, con grande chiarezza,

la dura realtà di questa assenza.

Voi avete capito: ve l'ho detto: vado via...

Se mi amaste vi rallegrereste che io vado al Padre” (Gv 14,28).

E poi aggiunge ancora: “Dal momento che vi ho detto questo ,

la tristezza riempie il vostro cuore . Ma io dico la verità:

è meglio per voi che io me ne vada…” (Gv 16,7).

 

Cristo sarebbe forse insensibile mentre ci parla così?

No, perché, al di là dell'apparente durezza di queste parole,

rivela a ognuno di noi una verità essenziale.

Dio, per definizione, è inafferrabile.

Rimane per i nostri occhi umani, sia invisibile, sia non percepibile.

E colui che, oggi, ci parla così,

non è più soltanto Gesù di Nazaret, “il Verbo fatto carne”,

è “il Figlio unico di Dio,

nato dal Padre prima di tutti i secoli “(Credo);

è “l'immagine del Dio invisibile “(Col 1,15),

lo “splendore della sua gloria divina” (Eb 1,3).

In una parola: Gesù Cristo nostro Signore (1Cor 1,12; 2Cor 1,2; Ef 1,3).

 

Ecco ciò che noi dobbiamo, prima di tutto, capire:

Cristo è Dio: “Dio vero da Dio vero”.

E una volta risalito nella gloria del cielo,

la sua partenza si esprime, logicamente e prima di tutto,

con la realtà di quella che rimane percepita come una “assenza”,

ma che, in realtà, è un'attrattiva e una chiamata.

Perché dobbiamo sempre cercarlo al di là di questo mondo.

Il Regno che è venuto ad instaurare

non è di questo mondo” (Gv 18,36).

La vita che ci ridà in dono è imperitura ed eterna.

Il cielo di cui ci indica la via è pienezza che viene da Dio.

Ecco il significato, il senso del nostro destino, che quindi ha un punto d'arrivo.

E che punto d'arrivo! Un Regno di gloria (Gv 17, 26).

 

Di conseguenza, che importa il dolore passeggero di questo distacco

se è per aprirci alla felicità senza fine

di una nascita (Gv 16, 21-22).

Ricordiamolo: per tutta la nostra vita sulla terra,

Gesù è stato presente, operante e compassionevole.

Ha parlato, guarito, sfamato, insegnato,

rivelato le cose della terra e “quelle del cielo” (Gv 3,12).

Ma quanti lo hanno riconosciuto, capito, seguito

e quindi hanno veramente creduto in lui?

Eppure era lì.

Semplicemente, è che alla luce del distacco, dalla scomparsa

provocata dalla sua Ascensione,

la verità tutta intera si è manifestata , al soffio dello Spirito.

Soltanto in quel momento, hanno capito che quel Gesù

che aveva vissuto per lungo tempo in mezzo a loro,

era anche “il Cristo e il Signore” (Gv 21, 7).

Colui che aveva rivelato la gloria divina,

e allo stesso tempo, la vera “via verso il cielo” (Gv 14, 1-6).

Colui che vi è risalito

perché, prima, ne era disceso (Ef 4, 10).

Che speranza per noi!

 

Non è tanto facile prendere realmente coscienza

che la nostra vera vita ci attende nell'aldilà

e che la nostra città si trova, prima di tutto, “nei cieli” (Fil 3, 20-21, Col 3, 13).

Ma la realtà è là!

Abbiamo spesso la sensazione di questo vuoto, di questa separazione,

dolorosa, a volte, ma sempre benefica,

che ci attira, innalza il nostro cuore e sveglia la nostra anima che dorme.

La nostra salvezza passa di lì.

Senza di te, Signore”, canta un salmo,

io sono privo di gioia sulla terra”.

E viene il giorno in cui un'intera esistenza può confessarlo:

lo sappiamo bene; allora ammettiamolo:

nessuna vita umana può dirsi appagata su questa terra.

Ma solamente nel cielo,

dove Cristo è risalito e ci attende!

Perché è in lui che si trova corporalmente la pienezza della Divinità ( Col 2, 9).

E' questa la vera notizia!

La vera rivelazione di un allontanamento che diventa un “precedere”!

Ecco il vero significato dell'Ascensione di Cristo:

orientarci prima di tutto

verso quell' Innalzamento per il quale siamo fatti anche noi (Gv 12, 3).

Per “trovarci con lui ad aver parte alla sua pienezza” (Col 2, 10).

*

L'altro significato di questo “andarsene” è che ci rivela, paradossalmente,

il mistero di una presenza nascosta,

Perché l'assenza visibile del Signore serve solo a mettere meglio in luce

la realtà della sua presenza, in profondità. Nuovo capovolgimento!

Non vi lascerò orfani,ha confidato ai discepoli” (Gv 14, 18).

Colui che li ha lasciati chiamandoli, alla fine,

figlioletti miei “(13, 33).

E io sono con voi per sempre,

fino alla fine del mondo” ( Mt 28, 20).

 

Gesù è scomparso ai nostri occhi di carne

perché si spalanchino ancora di più gli occhi della nostra fede (Eb 12,2).

La sua voce non è più percepibile dalle nostre orecchie

perché la forza della sua speranza “metta radici nella nostra anima” (Eb 6, 18-19).

Le nostre mani non possono più toccare il suo corpo,

affinché il puro amore possa “illuminare il nostro cuore” (Ef 1,8).

Che grazia per noi che questa apparente partenza

che ci apre del tutto al mistero

di una presenza così viva e forte!

Di una presenza divina che si manifesta ovunque

e colma il nostro essere di luce interiore (Mt 5, 14; 6,22),

di una gioia che “nessuno può toglierci” (Gv 16, 2) e di pace (14, 27).

La santità dei discepoli del Maestro

non si è costruita nel corso di questo itinerario

durante il quale essi hanno potuto ascoltare, vedere, contemplare

e toccare, ogni giorno, la Parola di vita.

E' cresciuta ed affermata dal momento in cui hanno camminato

nella fede e non nella piena visione (2Cor 5,7).

Con la forza della speranza

e non più con il sostegno dei miracoli e dei segni,

e nella pura espressione di un amore fatto di carità,

arrivando fino al dono della vita “per coloro che amiamo” (Gv 15,13).

Ecco l'altra grande grazia di questa Ascensione

che ci rivela, nell'assenza, il segreto di una nuova presenza

e nella separazione la realtà insospettabile di una comunione di vita.

 

Presenza invisibile, ma quanto viva e reale

che ci spinge ad approfondire al massimo questa ricerca.

Voi dunque, ci dice, rimanete in città,

finché non vi siate rivestiti della grazia che viene dall'Alto” (Lc 29, 49).

Presenza nascosta, ma quanto forte ed efficace

che ci dà forza in atteggiamento missionario:

Sarete miei testimoni a Gerusalemme e fino

all'estremità della terra” (At 1,8).

 

E' vero: i giorni terreni di Gesù sono compiuti,

ma i giorni del Cristo Signore ci sono stati dati, per sempre, in eredità.

Questa presenza nuova ed eterna,

perché non è, per l'appunto, né passeggera né tangibile,

va oltre lo spazio e il tempo.

Cristo, oggi, riempie l'universo.

Il cielo, grazie a lui, rimane sulla terra

e la terra, insieme a lui, sale in cielo ( Eb 9, 24).

 

Allora, “egli ordinò loro di non uscire da Gerusalemme

ma di attendervi quel che il Padre aveva promesso” (At 1,4).

Il problema, da quel momento, non è più andarsene dal mondo,

ma di separarsi dal suo vecchio Principe

e dal suo spirito maligno (Gv 17, 15).

Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).

 

Ecco il vero significato d'una assenza momentanea

e di una presenza nascosta.

Di un'assenza benedetta che ci innalza

e di una gioiosa presenza che ci porta ad esperienze interiori.

Nel cuore delle città,

possiamo rimanere nel cuore di Dio!


Il cielo, al di sopra della terra di quaggiù,

ci parla già di questa terra nuova, che ci attende lassù,

dove abiterà la gioia.

 

©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Solennità di Pentecoste – B

 

Lo Spirito Santo nelle sue opere


C'è qualcosa che sorprende sempre

quando si evoca lo Spirito Santo.

Niente è più astratto di questo nome che gli si dà.

E niente è più concreto e parlante della sua azione.

Il suo nome, da solo, non ci permette

una rappresentazione tangibile e percepibile.

Ma come lo si riconosce dalla sua azione!

Che sia nella creazione o attraverso la storia,

nel cammino della chiesa o nel divenire delle nostre vite.

Noi sentiamo bene, vediamo bene, sappiamo bene,

che Qualcuno c’è, riconoscibile nelle sue opere.

E, tramite le sue opere ci conduce egli stesso, poco a poco,

alla rivelazione del suo mistero.

Ci diventa allora tra i più familiari.

E, ovunque, la sua Presenza si manifesta.


Si può infatti dire per cominciare che lo Spirito Santo

lavora al rinnovamento e alla liberazione della creazione.

La Bibbia ci rivela, nel libro della Genesi,

che lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque originali (1,2).

La luce che rischiara il mondo,

la vita trasmessa alle creature,

la convivialità che regna tra tutti i viventi,

tutto ciò ci evoca già la sua presenza che ama e agisce.

 

Ma noi conosciamo il seguito:

Dramma della caduta. Uccisione di Caino.

Ondate di male che minacciano di sommergere la terra. Confusione di Babele.

La creazione come noi la vediamo non è dunque – ribadiamolo -

quale Dio l'ha voluta, ma quella che Dio vuole riscattare.

Occorre che sia rinnovata e liberata!

Lo Spirito Santo lavora espressamente lo Spirito Santo.a tutto questo.

“Mandi il tuo spirito, sono creati.

Tu rinnovi la faccia della terra, proclama il salmo (104,30).

Lo Spirito creatore del primo giorno è dunque anche

lo Spirito ricreatore che si impegna a rinnovare

e a liberare ogni cosa.

Noi lo sappiamo, in effetti, l'apostolo Paolo può dire:

tutta la creazione, fino a questo giorno,

geme nel travaglio del parto (Rom 8,22).

 

Lo Spirito è dunque là

che ci aiuta a gestire, governare, sottomettere, abbellire,

preservare questa creazione che ci è affidata.

Per condurla poco a poco, elevarla addirittura

verso quel cielo nuovo e quella terra nuova, come dice l'apostolo Pietro,

dove abiterà la giustizia (2 P 3,13).

Come riceveremmo bene le ispirazioni

e realizzeremmo le cose più belle ancora,

se sapessimo situarci al cuore di questo universo creato

all'ascolto dello Spirito di Dio!

 

Si può dire anche che lo Spirito Santo lavora

al rinnovamento e alla liberazione della storia.

Sappiamo fin troppo bene quanto il cammino degli uomini

abbia bisogno di essere guidato, illuminato, orientato, riconciliato, placato.

Come non affliggersi vedendo ciò che l'umanità

è stata capace di generare nel corso del tempo?

A cominciare da ciò che ha potuto provocare nel secolo scorso

in fatto di guerre, di genocidi, di scontri, di ingiustizie, ….

Pensando a ciò, si potrebbe essere tentati di scoraggiarsi o di disperare.

 

Lo Spirito Santo, comunque è sempre all'opera.

E' lui che ha guidato la storia biblica

per trasformarla poco a poco in storia di salvezza.

Nonostante tanti errori, mediocrità, vessazioni, peccati,

ha comunque guidato dei giudici, condotto dei re,

ispirato dei profeti, illuminato dei saggi, fatto pregare dei santi.

Nella pienezza dei tempi ha donato al Verbo di Dio

di incarnarsi nel seno della Vergine Maria.

Tramite il Figlio, lo Spirito è stato diffuso con profusione nei nostri cuori

e, per ciò stesso, nella storia della nostra umanità infine riscattata (Rom 5,5).

E' sempre lì per condurci alla verità tutta intera

anche se è ancora attraverso i dolori del parto (Gv 16,13).

 

Come la storia sarebbe liberata e rinnovata

se accettasse infine di lasciarsi condurre

nei sentieri della giustizia conservando, come dice Paolo,

l'unità dello Spirito tramite questo legame che è la pace (Ef 4,3)!

 

Se volgiamo adesso il nostro sguardo alla Chiesa,

l'azione dello Spirito vi appare ancora più percettibile e parlante.

Essa è nata manifestamente all'alba della Pentecoste.

Che trasformazione improvvisa di quegli apostoli legati, bloccati dalla paura,

e fino allora, come incapaci di parlare e agire!

Eccoli tutto a un tratto divenuti dei testimoni che più niente arresta.

Ciò che si è visto allora, ai tempi apostolici,

sfida la ragione e supera la comprensione.

Una nuova umanità, una nuova storia, una nuova creazione,

iniziano a rinascere dall'alto e di nuovo (Gv 3,7-8;2 Co 5,17; Ga 6,15).

 

Gesù aveva ben detto che contro questa Chiesa edificata da lui

e affidata alla custodia dello Spirito Santo (Gv 14-16),

le potenze del male non avrebbero potuto niente (Mt 16,18).

Quando si guarda la durata della Chiesa da venti secoli,

non si può mancare di essere colpiti.

Quale regno, quale dinastia, quale repubblica, quale istituzione

hanno potuto resistere così attraverso tutte le vicissitudini della storia?

 

Se si considera la sua universalità,

in confronto a tante filosofie, dottrine, ideologie,

credenze e anche religioni il più delle volte legate

a una terra, una lingua, una razza, un mondo particolare,

si è stupiti di vedere quanto sui cinque continenti,

essa raccolga di già uomini di tutte le razze, lingue, popoli e nazioni,

proclamando lo stesso Vangelo nella molteplicità delle lingue

fino ai confini della terra (Ac 1,8).

 

Quale vitalità è anche la sua

quando si sa quanto, contro venti e maree,

continuamente perseguitata dal di fuori, minata da lotte intestine,

e anche frenata dalla mediocrità dei suoi membri

e appesantita dal peso delle sue istituzioni,

nonostante tutto, avanza.

Mille rovesci avrebbero dovuto fermarla. Mille ostacoli sbarrarle la strada.

Laddove ogni istituzione umana sarebbe crollata,

la Chiesa è passata. Laddove essa avrebbe potuto morire si è rialzata.

Nella persecuzione ha trovato un sovrappiù di vita.

Nelle difficoltà, ha attinto un rinnovato coraggio.

E che diversità in questo mosaico

di popoli, di culture, di nazioni che la costituiscono!

Essa non è forse molto presente nei media,

nelle piazze finanziarie, nelle strutture economiche e politiche.

Tanto meglio!

Ma essa resta presente nei nostri cuori. I cuori dei suoi fedeli.

 

Al di là di ogni apologetica poniamoci dunque semplicemente una domanda:

cos'è che dà alla Chiesa di Cristo questa durata, questa vitalità,

questa universalità, questa diversità, questa unità, nella sua stessa debolezza?

Umanamente, niente lo spiega, ma la Chiesa è umano-divina!

E' lo Spirito di Dio che la guida.

E' lui che la illumina, la anima, la rialza, la riprende, la consola.

Senza di lui essa non sarebbe niente. Ma per il suo tramite, essa diventa tutto ciò che è.

La Chiesa, da questo punto di vista, rimane la prova più bella

della presenza e dell'azione dello Spirito Santo in questo mondo.

 

Tutto diventa più chiaro ed eloquente

se passiamo infine alla contemplazione dell'opera dello Spirito nelle nostre proprie vite.

Noi ci conosciamo bene, fratelli e sorelle!

Sappiamo le nostre debolezze, i nostri limiti, le nostre incapacità.

Il nostro peccato!

 

Restiamo legati a questo mondo che passa, a questo uomo vecchio che muore.

Da soli non sappiamo né pregare, né amare, né servire.

Restiamo carnali e mortali, per ridirlo con l'Apostolo.

Ma ecco che riconosciamo in noi

una presenza più intima a noi stessi di noi.

E diventiamo degli uomini spirituali (1Co 3,9)!

 

Qualcuno ci parla, ci illumina, ci conforta, ci guida.

Qualcuno ci insegna a pregare, ci dona di credere,

ci spinge ad amare e persino a perdere la nostra vita per salvarla.

E sappiamo bene di Chi si tratta.

Lo Spirito in persona si unisce al nostro spirito, ci dice l'Apostolo,

per attestare che siamo figli di Dio (Rom 8,16).

 

Lui è la Vita della nostra vita. La luce delle nostre anime.

Il soffio del nostro petto, la gioia del nostro cuore.

Lui è la nostra vita, ci dà anche modo di agire (Ga 5,25).

Bandisce in noi la paura. Afferma la nostra speranza.

Dinamizza la nostra marcia. Ci conduce verso la verità tutta intera.

Pieni di speranza, con l'apostolo Paolo, possiamo persino dire allora:

“Se lo Spirito di colui che ha resuscitato Gesù dai morti,

vive in voi, colui che ha resuscitato Gesù dai morti

darà la vita anche ai vostri corpi mortali

tramite il suo Spirito che abita in voi (Rom 8,11).

Fin d'ora possiamo dire: non sono più io che vivo,

è lo Spirito che vive in me.

 

Come scrive un monaco del monte Athos:

noi diventiamo carismatici

poiché riceviamo lo Spirito Santo;

e, nello stesso tempo, diveniamo carismi,

vale a dire portatori della grazia divina.

Noi siamo ormai ciò che è lo Spirito Santo.

Possediamo tutti i suoi doni, siamo ricchi,

ebbri nella misura in cui sappiamo rimanere umili e poveri …...

ma, come grandi re immortali ed eterni,

secondo l'essere personale (e l'uomo nuovo)

che è stato creato in noi dall'unione con lo Spirito Santo.

Dio ci afferra le due mani,è davanti a noi,

ci guarda e noi lo guardiamo stupiti:

sono veramente io? E' veramente Lui?

Sì, è proprio Lui e sono proprio io!”

 

E contemplo meravigliato, entusiasmato,

lo Spirito che scruta tutto in me fino alle profondità divine (1Co 2,10)!

 

©FMG manoscritto originale in francese
 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Solennità del Corpus Domini B
 

Corpo e Sangue

 

Quando Dio volle dare un nutrimento alla nostra anima,

per sostenerla nel pellegrinaggio della vita,

disse il Santo Curato D’Ars, fece una panoramica sulla creazione,

ma non trovò nulla che fosse degno della nostra anima.

Allora si ripiegò su sé stesso e si risolse a donarsi (Nodet, le Curè D’Ars, mappus p. 114)

Quanto è profonda e giusta questa parola figurata,

di San Jean-Marie Vienney!

Situa perfettamente il mistero d’Amore che si esprime

nella Festa del Corpo e del Sangue di Cristo

che celebriamo in questa Eucaristia domenicale.

 

Il Corpo e il Sangue di Cristo?

Il pane e il vino dell’Eucaristia?

Perché dunque, questa prossimità tra il Corpo e il Sangue

che ci ricordano la venuta di Gesù in questo mondo?

Il pane e il vino che significano la sua presenza tra di noi?

 

Se Dio si è fatto uomo per farci diventare Dio,

è attraverso le cose della terra, come dice Gesù a Nicodemo,

che possiamo trovare il senso delle cose del Cielo (Gv 3, 12).

Ora tra le cose più significative di questo mondo e delle nostre vite,

c’è il corpo e c’è il sangue.

Il corpo che ciascuno possiede

e il sangue che ci vivifica tutti.

Il corpo è il riflesso della nostra anima.

La traduzione del nostro cuore.

Il tabernacolo del nostro spirito.

E’ l’espressione stessa della nostra persona e della nostra vita.

 

Dio ci ha dato un corpo.

Mistero di creazione (Gn 2,26).

Dio ha preso corpo. Mistero dell’incarnazione (Gv 1, 14).

Dio ci ha salvato nel suo corpo.

Mistero di redenzione (Rm 8, 3).

Dio risusciterà i nostri corpi.

Mistero di divinizzazione (Fil 3,2).

Comprendiamo l’entusiasmo dell’Apostolo Paolo quando scrive:

“Il corpo è per il Signore...e il Signore è per il corpo…

Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1Co 6,13.20).

Attraverso il corpo ci possono essere rivelate tante verità

sull’amore che Dio ci ha donato e sulla felicità che ci promette!


Il sangue è l’ espressione della vita.

perderlo equivale a morire.

Come segno d’amore estremo,

si può arrivare fino a “versare il proprio sangue”

C’è tutta un’alleanza significata quando si è “fratelli di sangue”.

La Sacra Scrittura arriva a stabilire un legame diretto tra l’anima e il sangue (Gn 9,4).

Il libro dell’Esodo che abbiamo appena ascoltato,

ci ha ricordato tutto quello che il sangue dell’agnello pasquale

ci poteva rappresentare in segno di liberazione;

e il sangue dei sacrifici celebrati sul Sinai esprimere come sigillo di alleanza (Es 12,7; 24,8).

 

E il Verbo si è fatto carne grazie al sangue della Vergine immacolata

che ha versato per noi al Getsemani (Lc 22,44).

Nel momento della flagellazione (Mt 27,25-26) e sulla croce del Calvario (Gv 19,34).

Come ce l’ha ricordato la lettera agli Ebrei, prima offrendo sè stesso

in sacrificio perfetto, è divenuto il mediatore di una alleanza

nuova ed eterna e il Sommo Sacerdote di una felicità futura (Eb 9,11.15)

Che promessa!

Con questo presentiamo bene tutto quello che Gesù

vuole significare quando, durante la cena,

alla vigilia della sua morte prende il pane e la coppa di vino

dicendo ai suoi discepoli: Questo è il mio corpo...questo è il mio sangue (Mc 14,22.24).

 

Fratelli e sorelle, ne siamo anche troppo consapevoli:

dobbiamo andare avanti con la realtà del nostro corpo.

Dobbiamo vivere con la vitalità del nostro sangue.

E sappiamo quello che talvolta può costare agli uomini e alle donne,

ai giovani e agli adulti, agli anziani e ai bambini,

di questo nostro mondo, il dover vivere, faticare, amare, soffrire,

invecchiare, e infine morire nel nostro corpo;

e talvolta fino a vedere a versare il sangue o dover versare il proprio sangue.

Dio amico degli uomini non ha voluto tenersi fuori da questo cammino.

Restare indifferente a questo destino (2Co 5, 1-5).

Quando dice, sul pane e sul vino: questo è il mio corpo donato per voi,

questo è il mio sangue versato per voi,

Gesù con grande semplicità ci dà prova del suo amore.

Lo fa, prima di tutto, con questo gesto di sovrana libertà.

Prima di essere consegnato al Sinedrio da Giuda,

ai romani da Caifa,

alla croce da Pilato,

alla morte dai soldati,

dona se stesso (Gv 10,18).

Si offre alla morte proprio lui che viene messo a morte.

Sposandola fino in fondo, la riempie della sua vita,

in un grido di vittoria (1Co 15, 55).

Un’alleanza nuova ed eterna viene sigillata in quel giorno

tra l’umanità e la divinità.

Un’umanità talmente impregnata di vita divina

da essere portatrice, fin dalle sue radici, di un germe d’eternità.

E allora, sorella morte corporale diventa come

una pasqua fraterna!

Se crediamo con tutta la nostra anima, a questo bel mistero di fede.

Con la condivisione del pane e del vino,

un pane che indica il suo corpo

e un vino che indica il suo sangue,

Gesù dà il senso della sua morte imminente.

La sua morte, infatti, non è un fallimento,

ma una redenzione!

La sua morte non è un termine, ma un nuovo inizio.

Raggiungendoci fino all’orrore della tortura e alla fredda tenebra della tomba,

Dio viene a dirci in atti e verità, fino al punto in cui si è fatto solidale

con la nostra condizione umana.

Con quale follia d’amore ci ha amati!

Anche i più perduti e i più disperati, in questo modo,

ha affidato visibilmente, concretamente,

il dono della sua vita ai suoi discepoli - “fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19) -

perché i discepoli, lungo i secoli, lo rendano presente ogni giorno,

fino all’ora del suo Ritorno.

Con una presenza reale, e per questo non meno spirituale:

con una presenza attuale e per questo non meno definitiva;

con una presenza effettiva e per questo non meno invisibile.

In una parola: con una presenza sacramentale.

Da questo momento la nostra vita ritrova tutto il suo senso.

Ricevendo in noi Cristo in persona, riceviamo la sua pace, la sua gioia, la sua luce,

il suo amore.

“Credetemi, dice San Francesco di Sales, a forza di adorare e ricevere in questo sacramento, la Bellezza, la Bontà e la Purezza, diventerete belli, buoni e puri” (François de Sales, Introduction à la vie dévote, Aubière, 1931, p. 21)

Così, giorno dopo giorno, siamo guariti, illuminati, costruiti,

piano piano trasformati e progressivamente santificati,

passo dopo passo deificati.

In una parola, diventiamo, né più, né meno quello che siamo:

IL CORPO DI CRISTO (1Co 12, 27).

Allora la nostra esistenza trova la sua vera ragione d’essere.

Come Cristo è passato dalla morte alla vita, anche noi nel nostro

cammino di vita, una via di pasqua dove tutto sale verso la città del cielo (Fil 3, 20).

Attraverso “le piccole morti quotidiane” che sono altrettante rinuncie,

non solo al male, ma anche al fittizio, al secondario, al perituro,

gustiamo già la gioia “delle piccole risurrezioni”.

Meglio ancora, piuttosto che subire la nostra morte ultima

come un non senso assurdo, un’inesorabile disgregazione,

possiamo viverla nell’accettazione e nell’offerta.

Questa sì è una santa libertà! (Rm 8, 21-25).

Allora non si muore più e si entra nella vita!

Ecco fratelli e sorelle, il vero senso della festa di oggi.

Un pò di pane sulla patena, un pò di vino nel calice.

Ma tutte le cattedrali del mondo, tutte le basiliche della terra,

tutte le cappelle, tutti gli oratori, tutti gli eremi,

sono spuntati dal suolo solamente per far sbocciare questa presenza eucaristica.

Già da quattrocento anni, qui dove siamo ogni giorno

questa presenza viene celebrata e adorata.

Questa presenza divina, nascosta sotto il manto dell’umiltà suprema

nella quale Dio si dà a noi per trasformarci in lui.

E radicare il suo amore nel più intimo delle nostre vite.

Com’è grande il mistero della fede, che ci apre maggiormente

al mistero dell’amore di Dio.

Già da quaggiù i nostro essere gli è interamente legato.

E viviamo nell’attesa del giorno in cui il nostro Creatore si sposerà (Is 54,5).

Domani lassù non smetteremo mai di gustare con tutte le fibre del nostro essere,

fino a che punto il Signore, nelle sue delizie, si compiace d’amarci. (Sal 15, 11; 36,9:119,77; Pr 8,31; Ct 7,7; So 16,20; Is 66,11; Ef 3,19).

Dio fa di noi i suoi dei, elevandoci nell’Eucaristia, fino alla condivisione

della Gloria (Gv 17)!

Sì, in questo giorno della “Fete Dieu”, buona festa al nostro Dio!

 

©FMG manoscritto originale in francese (1 giugno 1997)

 
 
 
 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Festa della Santissima Trinità – B

 

Mistero dell’amore trinitario

 

Se abbiamo avuto da Dio stesso la rivelazione

di quello che chiamiamo mistero della Trinità,

questo non è avvenuto per portarci a credere senza comprendere.

Si potrebbe forse pensare che questa affermazione,

Dio è Uno e Trino,

abbia effettivamente qualcosa di incomprensibile?

Come cogliere, nel più profondo della nostra intelligenza umana,

come canta il prefazio di questo giorno di festa,

che Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo sono un solo Signore

nella Trinità delle persone e nell’unità della loro natura?

 

La nostra esitazione raddoppia quando vediamo

che siamo invitati a entrare, da lì, nel mistero

dello stesso Essere del nostro Dio.

Ma come scrutare l’Essere di Dio?

Tutti i credenti del mondo ammettono che Dio,

per definizione, è l’Altissimo e l’ Altro.

E che è perciò invisibile, impercettibili, inaccessibile.

Sarà anche incomprensibile?

Gesù stesso non ha esitato a dichiarare:

Voi non avete mai ascoltato la sua voce

né avete mai visto il suo volto” (Gv 5,37)

Questa prima riflessione

che potrebbe scoraggiarci ad andare avanti,

ci conduce tuttavia a una prima affermazione.

E questa è fondamentale;

se Dio è Dio (e lo è, altrimenti niente avrebbe senso),

Dio soltanto può dunque parlarci di Dio!

 

Come cristiani abbiamo la grazia di sapere e di credere

che l’ Inviato di Dio è venuto fra noi

sotto il velo della nostra carne.

Facendosi Figlio di Dio,

ci ha fatto figli di Dio.

Che cosa ci ha dunque rivelato il Figlio Unigenito?

 

Dopo aver vissuto nella più grande santità,

parlato come nessun altro uomo, moltiplicato i segni e i miracoli,

essere morto per noi per amore, poi resuscitato e salito al cielo,

ci ha rivelato che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo.

E che nello stesso tempo c’è un solo, uno stesso e unico Dio.

Come dunque comprendere, almeno parzialmente,

quello che ci ha detto Gesù, sapendo che abbiamo

tutta l’eternità per crescere nella luce di questo mistero ineffabile?

 

Possiamo già dire questo:

se Dio è Dio, è Amore, altrimenti non sarebbe Dio!

Solo un Dio d’Amore può essere creatore e Redentore del mondo.

L'amore non può essere solo!

Non potrebbe amarsi da solo, isolatamente.

Anche in maestà e onnipotenza, l'amore non può essere egocentrico.

Per definizione, l'amore è dialogo, condivisione, comunione.

Ed è qui che Gesù illumina la sua rivelazione:

lo fa prendendo le immagini più semplici e più grandi.

Dio è l'amore che si dona: come un Padre di tenerezza.

Dio è l'amore che si riceve: come un Figlio di benevolenza.

Dio è l'amore che è condiviso: nello Spirito di perfetta comunione.

 

Fratelli e sorelle, come è così bello e accattivante

questo Dio, nostro Dio, che è la Trinità dell'amore!

Di un amore vivente, radioso, in espansione infinita. Ma davvero unico.

Ma andiamo anche oltre.

Non è sufficiente credere che Dio sia creatore.

Questo, tutti i credenti della terra lo ammettono.

Ma perché è arrivato alla creazione? Sì, perché?

Solo la rivelazione di Cristo Gesù può rispondere a questo perché.

E questo perché è Trinità d'amore.

Di un amore che non ha permesso a Dio di rimanere solo,

come dice San Tommaso d'Aquino.

E poichè è amore di irradiazione, di condivisione, di comunione, di vita,

ha iniziato la creazione. E poi la Redenzione.

E ci sta ancora preparando

un cielo nuovo e una nuova terra dove condivideremo la sua gloria!

La sua gloria trinitaria.

 

Riflettiamo un po' di più:

sappiamo che l'unità più forte e più vera

è fatta da e nell'unione, la comunione delle diversità.

Paternità, filiazione, reciproco e incessante spirito d'amore,

non separano, non dividono la Divinità,

ma la arricchiscono nell’ unità.

Prendiamo l'esempio dell'amore umano

dato che siamo stati creati a sua immagine, a sua somiglianza.

Più due esseri si amano, più sono uniti.

E più sono uniti, più rimangono sé stessi.

L'amore non è una fusione ma una promozione reciproca!

E più si amano in questa piena unità di anima, spirito e cuore,

più crescono e arricchiscono la loro personalità reciproca.

E più sono uniti in questa personalità “extra”,

più cresceranno in un approfondimento dell'unità.

E così via.

Come personalità arricchite dall'amore nell'unità, cresciute nello stesso amore,

saliamo, saliamo all'ascensione di ciò che diventa

l'infinito dell'amore, ed eccoci in contemplazione

davanti alla perfezione dell'amore trinitario!

Non siamo più di fronte al muro dell'incomprensione

ma davanti alla meraviglia entusiastica della contemplazione divina!

 

Come siamo lontani dal monoteismo solitario,

freddo, triste e alla fine sterile e distante!

Eppure siamo i più monoteisti dei monoteisti.

Ma di un monoteismo trinitario.

Prendiamo, infine, non un'ultima immagine

ma un ultimo esempio, prendendolo in prestito

da ciò che ci insegna una delle scienze più esatte

nota fino ad oggi e comprensibile da tutti.

Vale a dire la scienza matematica

o, più modestamente l’aritmetica.

Così come Dio è amore, è anche pieno di umorismo!

Ti ringrazio, Signore, per aver nascosto questo

ai sapienti e agli intelligenti e per averlo rivelato ai più piccoli” (Mt 11,35).

E così dicendo, Gesù freme di gioia nello Spirito Santo, ci dice il Vangelo (Lc 10,2).

Quindi diciamo, giustamente,

che uno più uno più uno è uguale a tre.

È tanto esatto quanto indiscutibile.

Come può dunque Dio, che è Uno, essere trino?

Uno non è mai uguale a tre.

È vero. Ma questa stessa scienza matematica, o semplicemente aritmetica,

ci mostra che uno che moltiplica uno che moltiplica uno,

non sono tre, ma sempre uno. Indefinitamente uno!

Ovviamente l'esempio può farci sorridere. Non sottraiamoci a questo!

Questo esempio, tuttavia, attira la nostra attenzione

su una delle più belle realtà riguardanti il mistero trinitario.

L’ amore tra coloro che chiamiamo Padre, Figlio e Spirito Santo

non si somma ma si moltiplica,

Si moltiplica nelle diversità. Mentre arricchisce la sua unità.

Si moltiplica, si riversa, si espande all'infinito!

"L'amore non passa né si stanca", dice San Giovanni della Croce.

In paradiso, nelle dimore della Casa del Padre, che sono così tante,

non ci annoieremo! Perché l'amore

che condivideremo tra noi e con Dio

crescerà sempre, rinnovandosi costantemente, progredendo indefinitamente.

Arriviamo a toccare lì il segreto luminoso

dalla interdipendenza di Dio, in un giubilo di gioia.

Congiunzione a cui siamo invitati

in una felicità di pienezza ed eternità.

(In paradiso, si diventa come gli angeli).

Una felicità che solo i grandi mistici ci possono raccontare.

Ma a cui tutti possiamo aspirare nella speranza e nella fede.

Forse capiamo meglio ora

perché Gesù ha concluso la sua permanenza sulla terra

chiedendo che tutti noi fossimo battezzati

nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19)?

Fratelli e sorelle, è così grande e così bello questo amore trinitario!

 

©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

Festa del Sacratissimo Cuore di Gesù B

 

Sacro Cuore

 

Giunto vicino a Gesù,

uno dei soldati gli conficcò la sua lancia nel costato (Gv 19,33-34).

Si aspettava una constatazione di decesso

e fu la rivelazione di una sorgente di vita.

 

La festa del Sacro Cuore che celebriamo in questo giorno

ci ricorda in modo tutto particolare

la realtà senza uguali del folle amore di Dio per noi.

*

Dio,il Padre da cui ogni paternità

deriva il suo nome in cielo e sulla terra (Ef 3,14),

ha tanto amato il mondo che gli ha donato il suo unico Figlio (Gv 3,16).

 

Cristo, Figlio prediletto del Padre,

ha tanto amato gli uomini che ha consegnato la sua vita per loro (Gv 15,13;Rm 8,32).

 

E lo Spirito che vivifica

ci manifesta un tale amore che si diffonde a profusione nei nostri cuori.

Si unisce lui stesso al nostro spirito (Rm 5,6;8,16)

e fa di ciascuno di noi un tabernacolo della sua presenza (1Co 3,16-17).

Vedete quale grande amore Dio ci ha dato

perchè noi si sia chiamati figli di Dio, poiché lo siamo (1Gv 3,1).

 

Fratelli e sorelle, questo amore di Dio per noi

è così alto, così profondo, così vasto e così grande

che, come ce lo ha ricordato l'apostolo Paolo,

dobbiamo ricevere la forza di comprenderne il mistero.

La forza di comprendere con tutti i santi

cos'è la vastità, la lunghezza, l'altezza e la profondità

di questo amore manifestato in Gesù Cristo

e che sorpassa ogni conoscenza (Ef 3,18-19).

E' ciò a cui ci invita la festa del Sacro Cuore

che la Chiesa ci propone di celebrare in questo giorno.

*

Il Sacro Cuore!

Questa espressione potrebbe forse sembrarci

un po' sdolcinata o superata.

Segnata in ogni caso da una spiritualità ben particolare

e propria dei secoli passati.

Ma la verità è più profonda

poiché affonda le sue radici nel cuore della storia biblica

e di ciò che costituisce il meglio della nostra condizione umana.

 

Il Cuore!

Dove sarebbe il tesoro della nostra vita se non in fondo al nostro cuore?

Dove sarebbero i tesori della saggezza e della scienza divina (Rm 11,33)

e i torrenti straripanti dell'amore di Dio per noi

se non nel più intimo del nostro cuore?

Un cuore che sia, né più né meno, a immagine del suo.

In questa prospettiva cosa possiamo dire

che Dio ci ha donato e, contestualmente, rivelato?

Ci ha donato e rivelato

non solo un cuore amante, ricco di misericordia,

straripante di generosità e benefici;

ma un cuore aperto e trafitto (Gv 19,37),

un cuore da cui sono colati, come annunciato,

fiumi di acqua viva (Gv 7,37).

E non solo l'acqua, ma l'acqua e il sangue (1Gv 5,6).

E' veramente quel giorno, giunta l'ora,

che siamo nati alla vera vita

vale a dire nuova ed eterna. A partire dal suo cuore!

 

Il primo giorno del mondo, il mistero era già prefigurato.

E' dal costato di Adamo, dal suo cuore in qualche modo aperto,

che verginalmente, è nata la donna (Gen 2,21s).

E' dal costato del nuovo Adamo, dal suo cuore trafitto,

che verginalmente ancora, è nata la Chiesa sua Sposa (Ef 5,22s).

In cielo, ci dice Gesù, non saremo

né moglie né marito, ma come degli angeli (Lc 20,36).

E tuttavia promessi alla gioia delle nozze eterne.

 

Ecco levato il velo sul mistero

verso il quale il discepolo prediletto ci invita a rivolgere gli occhi del nostro cuore,

al seguito del profeta Zaccaria,

per contemplare il trafitto (Zc 12,10;Gv 19,37).

 

Non vi è infatti più bella prova d'amore

che dare la propria vita per coloro che si ama (Gv 15,13).

Non vi è dunque più grande fecondità

che amare, come Gesù, con tutto il suo cuore.

Come il Padre di ogni paternità e lo Spirito di ogni vita.

Sì, nel cuore stesso di Dio, Trinità di amore in infinita espansione,

canta l'allegria di una generazione eterna.

La festa di questo giorno ci ricorda

che l'umanità tutta intera vi è convitata.

E anche ciò, è un bel mistero in divenire:

il mistero della nostra generazione divina che possiamo già contemplare

poiché noi la vivremo un giorno in condivisione!

*

Fin da quaggiù le nostre vite possono dunque essere radicate e fondate in questo amore.

Al termine del cammino se sappiamo seguire

la via dell'amore a esempio di Cristo (Ef 5,2),

allora, sì, noi entreremo come promesso,

con tutta la nostra pienezza in tutta la pienezza di Dio (Ef 3,19).

E vedremo infine il Cuore di Cristo nella sua luce divina!

Cosa vuole da noi il Signore, aspettando quel giorno?

Che lo si ami con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutto il nostro spirito.

E che sul suo esempio, si sappia, anche noi,

amarci gli uni gli altri (Gv 15,12).

Poichè se noi ci amiamo gli uni gli altri, Dio dimora in noi

e il suo amore raggiunge in noi la sua perfezione (1Gv4,12).

 

Fratelli e sorelle bisogna che il mondo sappia che il Padre ha inviato il Figlio

e che questo mondo porta per sempre i segni del suo amore per noi e fra di noi!


 

©FMG manoscritto originale in francese

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

X Domenica T.O. B
 

Camminare nella luce

 

In questa pagina di Vangelo, tutto ci sorprende,

apparentemente, senza una logica, disperso ed eteroclita.

 

All’inizio compare una improvvisa irruzione dei famigliari;

subito dopo, una veemente accusa degli scribi.

Come replica a questo, le parole di Gesù

tanto difficili da capire quanto da ascoltare

a proposito del peccato imperdonabile.

E per finire, una designazione completamente inattesa

della sua vera parentela.

 

I primi pensano che Gesù sia diventato folle.

I secondi lo trattano da posseduto da Beelzebul.

Lui li mette in guardia riguardo al rischio di una rottura definitiva.

E, attorno a lui, la cerchia dei discepoli

si vede diventare come una nuova famiglia.

  • Cosa spinge allora “i suoi”

a dire che Gesù “è fuori di sè” (Mc 3, 21)?

  • Perché gli scribi lo trattano, così di soppiatto, da Satana (3,22)?

  • Cosa vuole dire Gesù, parlando della “casa dell’uomo forte” (3,27)?

  • Che cosa vuole intendere con questa “bestemmia contro lo Spirito Santo”.

tanto imperdonabile, quanto non remissibile (3,29)?

  • Come può dire di tutto un gruppo di peccatori

che per lui diventano “sua madre e i suoi fratelli” (3,35)?

  • Che cosa succede, da quel momento, nell’anima di Maria,

che assiste di persona a questo rude affronto?

 

Seguiamo, passo dopo passo, l’articolazione degli incontri e delle repliche

e vedremo che, attraverso di loro, poco a poco viene abbozzata la logica di un insegnamento.

 

Tutto comincia con l’irruzione intempestiva dei parenti di Gesù.

Siamo in Galilea, nella sua provincia natale.

Da quando Gesù ha ricevuto il Battesimo nel Giordano non è più lo stesso.

La sua vita tranquilla di falegname a Nazaret (Mt 13, 55),

Improvvisamente, si è mutata in una vita pubblica,

che lo porta, senza interruzione e senza transizione,

“di città, in città” (Lc 8,1),

e “di sinagoga in sinagoga” (Mc 2, 39; 3,1; 6,1-2).

Parla come “inviato di Dio”, lui, “il figlio di Maria” (Mc 6,3),

si comporta come profeta, lui, l’artigiano cresciuto in paese.

Chiama i discepoli a seguirlo (Mc 3, 13-19)

li istituisce nel numero di dodici,

col titolo, mai udito prima, di “apostoli”.

E il suo ritmo di vita è tale che,

“Le folle venivano a lui da ogni parte” (Mc 1,45; 2,2; 3,20),

e lui e i suoi discepoli non hanno “neanche il tempo per mangiare” (Mc 6,31).

Si capisce l’inquietudine dei suoi!

Davanti ad un tale cambiamento nello stile di vita del loro congiunto,

e vedendo quello che giudicano come il frutto pericoloso di un eccesso,

fanno presto a pensare che stia “perdendo il capo”.

E san Marco dice che vengono, letteralmente,

“per catturarlo”, utilizzando in greco lo stesso verbo

che viene usato per l’arresto di Giovanni Battista da parte di Erode (Mc 6,17)

e di Gesù al Getsemani (14,46).

 

Possiamo immaginare la scena:

lo sconforto di queste persone, con Maria, forse, in mezzo a loro,

e, davanti a loro, mentre circonda il giovane Rabbi da ogni parte,

questa folla eteroclita di malati, di peccatori, di discepoli, di curiosi…

Confronto faccia a faccia doloroso, teso, drammatico,

tra i “suoi” che non lo riconoscono

e non l’accettano più (Lc 4, 28-30),

e tutti coloro che ora “lo ricevono”,

in quella che diventa “la casa” (Mc 3,20);

pronti a costituirsi come una nuova famiglia.

 

Ma a questo momento, per ora,

Gesù non risponde, almeno non risponde ancora.

Anche a noi, quando non l’accogliamo, non lo ascoltiamo,

non lo seguiamo, Cristo guarda spesso in silenzio.

Tace, ci ama dolorosamente e, silenziosamente, ci aspetta.

Perchè non ce ne rendiamo conto subito che “questo Gesù”,

venuto dal cielo, è effettivamente folle!

Ma folle d’amore per noi!

Bisogna proprio abbia “perduto la testa” per guadagnare a sè i nostri cuori,

per parlare, comportarsi, agire come ha fatto lui, in mezzo a noi,

rinunciando a tutto, la sua Famiglia del Cielo e la sua famiglia della terra,

fino a barattare la sua gloria divina con la condizione dello schiavo in nostro favore (Fil 2,11)!

“Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione “(1 Co 1,21).

*

Per gli scribi la cosa è ancora più grave.

Supera l’incomprensione e l’accusa di pazzia.

Hanno osservato bene questo giovane maestro.

E’ evidente che compie dei segni da profeta.

Non è stato lui ad espellere un demonio (Mc 1, 21-28),

a guarire un lebbroso (1, 40-45), a risanare una mano inaridita (3, 1-6)?

Ma in nome di chi si permette di rimettere i peccati?

“Solamente Dio può farlo” e, esprimendosi così

“bestemmia!” (2,7).

Come ha osato toccare il lebbroso (1,14)?

Chiunque lo fa diventa impuro, recita la Thora!

E perchè, sceglie “il giorno di Sabato”, nella sinagoga, per guarire l’uomo dalla mano paralizzata?

Chiunque si faccia nemico della legge in questo modo non può essere l’Inviato di Dio!

E come prestar fede a qualcuno che dice: “Seguimi!” ad un pubblicano,

sta a tavola con i peccatori e le prostitute (2, 13-17),

lascia che i suoi discepoli raccolgano le spighe in pieno Shabbat (2,24),

e credere che possa essere un giusto agli occhi di Dio Santissimo?

 

Per gli scribi che conoscono a memoria tutto quello che insegnano le Scritture,

é chiaro che “questo Gesù” è un “bestemmiatore” e un “impostore” 1

E se scaccia i demoni, è dunque

per un privilegio che gli rendono questi demoni!

Alle spalle, vien colpito da un’accusa chiara e netta:

“Costui è posseduto da Beelzebùl

e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni” (3, 22).

 

Cosa dice e cosa fa Gesù?

Comincia “chiamandoli a sé” (3, 23).

Anche quando siamo tentati di rimproverare Dio,

il Signore non ci respinge, anzi il più delle volte viene

davanti a noi, si manifesta accanto a noi.

Ma ci vien detto che parla loro “in parabole” (3, 23).

In questo modo potranno riflettere, farsi delle domande,

prendere il tempo di chiedere consiglio, di pregare, di convertirsi forse?

E anche per noi parla “in parabole”,

perchè possiamo essere istruiti “sul mistero del Regno di Dio” (Mc 4, 11).

 

L’insegnamento che segue,

chiarisce sia la scena famigliare dell’inizio,

che l’animo degli scribi accusatori.

Nessun regno e nessuna famiglia che siano divise possono tenere.

Neanche Satana potrebbe dividersi contro sé stesso,

perchè crollerebbe, si autodistruggerebbe.

 

A questo punto, emergono due conclusioni molto chiare:

la prima per dire che l’accusa di Gesù

che lotta contro i demoni, ci essere d’accordo con loro,

é semplicemente illogica, insensata e assurda!

La seconda, per mostrare che se i suoi

si ergono contro di lui,

il regno che è stato promesso loro non potrà né sorgere, né tenere.

 

“ Non date occasione al diavolo” (Ef 4, 27).

Poichè anche se c’é l’”uomo forte”,

un uomo forte come può esserlo “un figlio di Abramo” (Gv 8, 39-40)

o un discendente della razza di Davide,

può facilmente “cadere nella sua rete” (Mc 3,27)

e trovarsi tutto “legato”.

Dice l’apostolo Paolo, “bisogna non cadere in balìa di satana,

di cui non ignoriamo le macchinazioni” (2Co 2,11).

 

Ma non è finita qui, per gravità.

E a questo punto l’insegnamento di Gesù

si apre in tutta la sua forza e chiarezza:

“In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini

e anche tutte le bestemmie che diranno” (Mc 3,28).

E san Luca precisa: “ anche quelle contro il Figlio dell’uomo” (12,10).

“ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo,

non avrà perdono in eterno:

sarà reo di colpa eterna” (Mc 3, 29).

 

Che cosa bisogna intendere con questo e cosa vuole dirci Gesù?


Un primo abbozzo di risposta si può fare

ascoltando la precisazione di san Marco:

“Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito immondo»” (3,30).

E’ molto logico in effetti.

Ecco un uomo che passa dappertutto “facendo il bene”.

vivendo “da giusto” e dicendo sempre la verità.2

Guarisce gli ammalati, libera gli indemoniati,, moltiplica i pani,

risuscita i morti e parla a tutti con autorità e umiltà.

Annuncia la pace e riassume tutto nell’unica legge dell’amore.

Non si può fare di lui la caricatura di Satana!

Non solo sfida la logica,

ma condanna, come da sé e definitivamente, chiunque si inceppi così

con una tale ostinazione e accecamento.

 

Allora ecco apparire “il peccato contro lo Spirito” (Mt 12,31-32; Lc 12,10).

E’ di chiunque davanti alla luce, neghi la luce;

di fronte alla vita, si rifiuti di riconoscere la vita;

messo davanti all’amore, dichiari che non c’è amore!

“Questo peccato conduce alla morte” dice san Giovanni (1Gv 5,16),

e vi “rinchiude” letteralmente chi lo commette.

Costui si getta allora, per sua volontà, in quello che Gesù chiama:

“le tenebre esteriori”, dato che rifiuta la luce (Gv 3,20).

 

In cosa consiste il fatto che questo peccato sia irremissibile

e come ontologicamente opposto ad ogni specie di perdono?

Perchè si tratta specificatamente del “peccato contro lo Spirito”,

cioè contro la luce, sia esteriore - come quella che è venuto a portare

il Figlio dell’uomo sulla terra (Gv 8,12; 12,46) -

e anche interiore, che illumina dal di dentro,

poiché lo Spirito abita dentro di noi (Rm 1-2).

 

Se dunque, per assurdo,

qualcuno volesse, in suprema libertà,

con ogni lucidità e cognizione di causa,

dire un no totale alla luce, alla verità, all’amore, alla vita,

in una parola, a Dio stesso, ne avrebbe la terribile possibilità,

l’immensa e spaventosa libertà.

Allora, semplicemente, egli si annienterebbe “per sempre”, dice il Vangelo.

Poichè, anche se nessuno ha scelto di vivere, è vero,

possiamo tutti scegliere di sopravvivere,

e di fare questa scelta, un giorno, in piena luce,

in favore di Dio o contro Dio.

In modo di essere tutto o niente in Lui.

 

La luce finale di questa pagina di Vangelo

può esserci data da Gesù ritornando alla domanda della vera parentela:

Poiché l’incontro finisce con la stessa scena con cui era iniziato

con una domanda di identificazione e di appartenenza familiare.

“Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?

 

Non sono coloro che “da fuori” (Mc 3, 31)

cercano di accaparrarsi Dio o di frenare il suo cammino.

La vera famiglia di Cristo non si erge contro di lui

ma “fa cerchio intorno a lui”

Non basta per essere “della casa di Dio” (Ef 2,19),

far parte della famiglia tribale di Nazaret col titolo di cugini

nè essere contati nel numero degli scribi, familiari delle Scritture.

“Ecco mia madre e i miei fratelli!” (3,34).

E allora Gesù allarga il suo sguardo alle dimensioni della Chiesa universale

dove “Tutti sono chiamati” (Mt 22,14; 2Ts 2,14),

“Giudei e Greci, uomini e donne, padroni e schiavi” (1Co 12,13; Gal 3,28).

“sani e malati”; “giusti e peccatori” (Mc 2,17),

bambini, stranieri, pubblicani, prostitute.

“Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (3,35).

E Gesù precisa ancora che:

“Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio

e la mettono in pratica” (Lc 8,21).

 

Ecco ristabilita la grande unità

e donata la luce piena:

NO! Gesù non ha perso la testa!

Anzi, lui è esattamente, “il Capo” (Ef 1,22; Col 1,18).

Il Capo di tutto un Corpo e questo Corpo è la Chiesa.

Sia la famiglia naturale di Nazaret

sia l’assemblea della famiglia del popolo eletto

può riconoscerlo:

è venuto a riconciliare gli uomini, tutti gli uomini con Dio.

Vuole fare di tutti loro un nuovo popolo

di “veri figli di Dio” (Rm 8, 14-17; 1Gv 3,2).

Lui è “il primogenito della moltitudine dei fratelli” (Rm 8,29).

Gli abitanti dell’altopiano di Nazaret

e il popolo di Israele lo salutino e gridino di gioia:

“ il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi

” (Gv 1,14).

Ecco la Parola di Dio, è Lui!

 

Chiunque allora, accolga in lui questa Parola Incarnata,

diventa, attraverso di lui, come una madre che lo porta,

come un fratello o una sorella che l’accompagna.

Chiunque vuole “fare la volontà del Padre”

al punto da sposare letteralmente il suo buon volere,

diventa per questo come la madre di questo Figlio

che, per noi, si è fatto Cristo.

 

Come, è alla perfezione vissuto da Maria.

Questa risposta di Gesù, apparentemente dura per lei,

non la insulta.

Certo, lei è benedetta per aver portato nelle sue viscere il Messia di Dio.

Ma lo è più ancora

per aver perfettamente accolto in lei la Parola di Dio

fino a darle corpo;

e aver perfettamente sposato la volontà del Padre

fino a mettere alla luce, per pura grazia, suo Figlio.

Così facendo, con il suo doppio SI’,

sia alla Parola incarnata e alla Volontà d’amore così rivelata,

si è ritrovata ricolma

della luce dello Spirito Santo (Lc 1,35).

E’ cresciuta nella fede attraverso prove e domande,

ma “mille domande non fanno un dubbio”.3

e proprio nel crogiuolo delle prove si forgiano le più grandi santità.

Eccola oggi accanto a Dio, la prima,

come sposa, sorella e madre.

 

Che possiamo, come lei, non mettere mai alcuna divisione

tra Dio e noi, nè peccare contro la luce.

E diventiamo, come lei, anche noi,

veri fratelli, vere sorelle, vere madri di cristo

dicendo sì alla sua Parola e portando in noi l’Eucaristia.

E un giorno saremo tutti insieme come promesso,

con Gesù, vicino a Maria! (2Co 4,14).

 

©FMG manoscritto originale in francese (9 giugno 1991)


 

1 Mc 2,7; 14, 63-64; Gv 10,33-36; Mt 27,63.

2 Mt 27,19; Lc 23,47; Gv 8,40-45; 14,6; At 3,14; 10,38; 1Gv 2,1.

3 P. Henri Caffarel

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

XI Dom. T. O. B


 

In due piccole parabole.

quella del grano “seminato in terra” (Mc 4, 26-29)

e del granello di “senape, seminato in terra” ( 30-32).

Gesù oggi fa luce sul mistero della vita.

Mistero in cui vediamo svilupparsi l’agire di Dio

nel divenire del tempo.

 

La prima parabola è quella del seme che cresce da solo.

San Marco è l’unico evangelista a riportarcela.

“Il regno di Dio è come un uomo

che getta il seme nella terra” (4,26).

 

Apparentemente, nulla di più semplice,

potremmo quasi dire di più banale, dello sguardo su quest’uomo

che sta seminando del grano;

questo grano che resta senza muoversi e senza far rumore,

immobile e come inerte, sparso sul suolo.

 

Ma Gesù continua e il seguito delle sue parole

ci attirano di più.

“Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (4,27).

Eravamo già pronti a lodare “il gesto augusto del seminatore”

e a riposarci con lui

sulla contemplazione di quel bel lavoro compiuto;

ed ecco che, evidentemente, l’essenziale non sta in questo.

“Che dorma o che vegli”, che pazienti o che si inquieti,

“notte e giorno”, autunno, inverno e primavera,

nonostante il gelo, sotto la neve, nei momenti di pioggia o di solleone,

succede qualcosa di cui il seminatore non sa cosa dire.

“Il seme germoglia e cresce e non si sa come”.

 

Alla sola evocazione di questo seme secco, “gettato in terra” per marcirvi

e nascondersi (Gv 12,24) per produrre poi

“prima lo stelo, poi la spiga e infine il grano maturo nella spiga”,

già c’è come una luce che Gesù getta sul mistero della vita.

 

Sempre di più noi studiamo, sosteniamo, sviluppiamo la vita.

Ma fondamentalmente non sappiamo cosa sia la vita.

La riceviamo, la custodiamo,

la percorriamo...la viviamo.

Ma essa resta sempre qualcosa che ci supera.

C’é Qualcuno che la dona, la protegge, la sostiene,

e alla fine l’attira a sè.

C’è Qualcuno all’origine, nel centro e al termine della vita.

Poiché ci viene da lui, ci costruisce in lui,

e ci riconduce verso di lui!

C’è Qualcuno che ha detto quello che nessuno ha mai detto

“Io sono la Vita!”

 

Oggi sappiamo tante cose

sulla realtà del seme di grano.

Ma, man mano che aumentano le nostre conoscenze,

si dilata il nostro stupore e cresce la meraviglia.

Continuiamo a non sapere come mai quel seme che muore in terra

“riprende vita” (1Co 15,36).

E anche se conosciamo oggi infinitamente di più sui “segreti della vita”,

ci inoltriamo in un mondo di tali novità

che l’orizzonte di luce verso cui avanziamo

non cessa di indietreggiare.

 

Guardiamolo questo seme di grano nel cavo della nostra mano.

Oggi sappiamo che, da solo, contiene dei miliardi e miliardi di atomi.

Ciascuno è formato da un nucleo, attorno al quale

delle particelle di miliardesimi di millimetro si muovono a quasi

300 000 chilometri al secondo.

E’ la “verità”. Una “parte” della verità del seme di grano.

Eppur, avanzando in questa esplorazione,

noi non sapremmo rendere conto da soli del mistero della vita (1Co 15,37-38).

Questo mistero ci colpisce da ogni parte,

e riempie l’universo,

dal minerale, apparentemente il più inerte, allo spirituale, il più sottile.

Mistero della vita!

Anche se noi non facciamo altro che trasmetterla o rimetterla.

in se stessa, ci abbaglia!

*

 

Quando, inoltre, Gesù ne fa una parabola per rendere conto con questa dell’altro mistero che è “il Regno di Dio”,

non ci fermiamo semplicemente all’ammirazione,

siamo condotti alla contemplazione.

“Il Regno di Dio è come un seminatore

che getta il seme nel suo campo”.

 

Oggi l’uomo immagina facilmente che tutto sia fattibile e possibile;

che tutto possa realizzarsi e programmarsi;

che tutto dipenda dal tempo e dalle finanze.

Un tempo che si può manovrare

e un finanziamento che si può accelerare.

 

Se intendiamo bene quello che Gesù ci dice,

è chiaro che Dio agisce del tutto diversamente.

Come il grano gettato nel campo, il Regno di Dio cresce da solo,

come nascosto,

in silenzio e pazientemente (Mc 4,27).

Evade le previsioni e i calcoli,

avanza misteriosamente.

“Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,21)

 

La lezione che ne ricaviamo ora

non ci viene più dalla meraviglia davanti al mistero della vita,

ma dalla nostra attesa fiduciosa,

davanti alla pazienza di Dio.

Lungo le notti, lungo di giorni, di stagione in stagione,

lentamente, silenziosamente, il seme germoglia,

cresce lo stelo, la spiga matura.

Lo stesso avviene delle nostre vite.

 

Spesso vorremmo sveltire i risultati e affrettare la crescita.

Ma no! Gesù stesso ci dice che il Regno di Dio è, sia in noi che attorno a noi (1Co 3.9; 2Co 4,7),

avanza solo al passo di Dio.

Di un Dio infinitamente paziente,

che ci sottomette alla durata del tempo,

perchè grazie a questo lento divenire meritassimo a poco, a poco,

finalmente di entrare a nostra volta nella condivisione della sua eternità (1Co 15,23-28).

 

*

Allora quanto dobbiamo lasciar giocare in noi

la grazia del tempo e degli avvenimenti!

Questo non ha nulla a che vedere con l’inazione e la passività.

Tutto nella Scrittura ci invita, invece, all’azione e alla vigilanza,

ad essere attenti, industriosi e creativi.

Ma la ritmo di Dio.

Senza dimenticare che, anche se abbiamo la nostra parte da assumere nella semina,

nella crescita e nella mietitura,

è Dio il vero seminatore e il vero mietitore.

Ed è sempre e comunque Dio “che dà l’accrescimento” (1Co 3,6).

Scrive san Giacomo:”Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Osservate come l'agricoltore aspetta il frutto prezioso della terra pazientando, finché esso abbia ricevuto la pioggia della prima e dell'ultima stagione”(Gm 5,7).

 

Questa vita spirituale che vorremmo veder crescere,

quel difetto che vorremmo correggere,

tutto si fa con la grazia del tempo.

Se il Regno di Dio è seminato nel mondo,

cresce piano piano, nella vita degli uomini

e attraverso i secoli vive e cresce.

Il Regno di Dio è in cammino

e lo Spirito rinnova la faccia della terra.

Canta il Salmo, “la terra ha dato il suo frutto,

ci benedica Dio il nostro Dio” (Sal 67,7).

Noi, fiduciosi e mossi dalla forza della nostra fede,

sicuri della potenza e dell’amore di Dio, ogni giorno ridiciamo:

“Venga il tuo Regno” (Mt 6,10).

E il seme germoglia nel campo.

Il Card. Marty, giustamente amava ripetere:

“Bisogna saper intendere il rumore del grano che cresce”.

 

La seconda parabola è quella del granello di senape seminato in terra.

Se la parabola del seme gettato nel campo ci spinge a contemplare

la pazienza di Dio e il mistero della vita,

questa parabola ci porta a fondare la nostra vita sulla speranza e sull’ umiltà.

Senza umiltà non si costruisce nulla di solido e di vero.

Gesù ci dice che che il granello di senape “è il più piccolo di tutti semi

che sono sulla terra” (Mc 4,31).

 

In questa affermazione c’è qualcosa che è detta proprio per stupire.

Il Regno di Dio, ai suoi inizi, è simile “al più piccolo di tutti i semi

che sono sulla terra”.

Sia infinitesimale che poco diffuso! “L’essenziale, dunque,

è invisibile agli occhi”.

Nascosto nel fondo del cuore, scritto nel profondo dell’anima

“Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” dice la lettera agli Ebrei (4,12).

Allora non bisogna mai disperare,

accettare gli inizi modesti e laboriosi,

senza riconoscimento e senza sostegno.

La vera crescita è interiore ed è opera della grazia di Dio!

 

Tutta la storia della vita spirituale e della Chiesa

ce lo insegnano:

gli imprevisti del cammino, le prove, i contrattempi

e pure i fallimenti, quello che noi chiamiamo “la notte”, “il nero”, “il tunnel”.

Tutto questo contribuisce alla crescita del Regno di Dio e anche la favorisce.

Tempo fa, ci parlava un sociologo polacco.

Dalla sua confidenza emergeva che, in definitiva,

al di là dei drammi e delle ingiustizie nel suo Paese,

il miglior alleato del Cristianesimo era paradossalmente

il comunismo ateo!

 

“Ecco, colui che protegge Israele non sonnecchierà né dormirà.” (Sal 121,4)

Ed è lui e lui solo a costruire la casa (Sal 127,1)

anche quando dormiamo.

Ma la parabola del granello di senape non ci limita a questa chiamata

originaria all’umiltà e a questa constatazione di piccolezza.

“ granellino di senapa appena seminato cresce” dice Gesù “

e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra».

“Ci si aspettava un ortaggio”, dice un mistico d’Oriente, “e si sviluppa una albero!”.

La parabola di Cristo, allora ci dona il suo insegnamento più profondo:

non solo la piccolezza è la condizione della grandezza,

ma ancora la massima grandezza, vien fuori dalla piccolezza estrema.

Lo scopo del Regno di Dio, infatti,

non è di restar nascosto e misconosciuto,

ma di crescere e di diffondere la sua luce. (Gv 15,8)

Gesù-Messia ha cominciato essendo piccolissimo,

e alla morte è solo (Gv 16,32),

ma nel bel mezzo di questa solitudine e di questo abbandono,

attira già tutti gli uomini a sè.

 

Soltanto alcuni discepoli, alla periferia di un borgo di Galilea,

un giorno hanno inteso confidenzialmente,

la parabola del granello di senape.

E ci sono dei milioni di cristiani che in questa domenica,

come noi qui, si sono riuniti dai quattro orizzonti della terra,

per riascoltarla e meditarla.

Noi vorremmo a volte e oggi ancora,

che Dio si manifesti maggiormente,

che il suo Regno sia più visibile,

meno ignorato,

meglio celebrato.

E a ragione, ci angustiamo

di veder crescere il maggese

e aumentare la convergenza di tutto il gregge

verso l’unico ovile (Gv 10,16).

E’ proprio questo il fine del Regno di Dio (Gv 17,21).

Ma continua a tendere verso la sua grandezza definitiva

attraverso la piccolezza di ogni giorno.

 

Allora non dobbiamo disperare,

l’umiltà più vera, poggia sulla forza della speranza.

Bisogna adoperarsi a fianco di Dio

per l’incessante venuta del suo Regno.

Così come dice san Paolo.

tutta la nostra vita ci prepara a morire,

ma morire non significa finire.

Vuol dire solamente cambiar casa,

passare dalla casupola barcollante dove siamo,

al solido palazzo d’eternità.

Dalla tristezza, alla calda dimora di Dio.

 

“Quando è seminato, fa dei rami tanto grandi,

che all'ombra loro possono ripararsi gli uccelli del cielo”

Morire è incontrare la Vita!


 

©FMG manoscritto originale in francese - 16 giugno 1991

 

Omelia fr. Pierre-Marie Delfieux

Solennità della Natività di San Giovanni Battista


 

IL PRECURSORE-IMITATORE

 

Dio che trascende lo spazio e il tempo,

ama rivelarsi a noi

attraverso le realtà più concrete

dello spazio e del tempo.

Per questo “il Figlio generato prima dei secoli”

si è incarnato “alla pienezza dei tempi”

e “il Creatore dei mondi” ha vissuto

i giorni della sua carne “dentro le realtà terrene”

del “più piccolo di tutti i popoli”.

 

Dio, dando alla terra un angolo di inclinazione

che fa parte delle mille e una meraviglia

che il Signore ha messo nel mondo creato

ha determinato che la nostra terra, di fronte al sole, viva al ritmo delle stagioni.

Ed ecco che la liturgia della Chiesa

contemplando Giovanni Battista e Gesù,

li pone come di fronte uno all’altro.

 

Uno, “il più bello tra i figli degli uomini”,

il Figlio unigenito di Dio, divenuto Figlio dell’uomo,

al solstizio d’ inverno. Natività di Gesù a Betlemme.

L’altro “il più grande tra i nati di donna”,

il Figlio miracoloso della vecchiaia sterile,

al solstizio d’estate. Natività di Giovanni a Gerusalemme.

E la liturgia canta, come abbiamo appena fatto anche noi,

in san Giovanni Battista “l’astro luminoso che mostra il vero giorno

e l’aurora gioiosa che manifesta il mattino glorioso”.

 

Quante volte ci è capitato di notare questo fatto?

Ma sappiamo pregare sul senso profondo

di questo simbolo tanto ricco di significato?

Sì, proprio nei due momenti più significativi del tempo,

quando i giorni cominciano a declinare

e quando le notti cominciano a diminuire,

entrambi sono lì per istruirci.

Al crocevia dei due Testamenti

si fanno uno di fronte all’altro.

E Giovanni Battista ci indica Gesù.

E Gesù ci mostra Giovanni Battista.

E questo anno dopo anno nel proseguo dei tempi.

 

In effetti tutta la santità di Giovanni Battista

di cui oggi celebriamo la Natività

ha consistito nel vivere l’imitazione di Gesù Cristo.

Sì, se Giovanni Battista è “il più grande tra i nati di donna”

é perchè resta il più vicino “al Primogenito di ogni Creatura”.

E questo principalmente in tre domini:

l’umiltà, la verità e l’amore.

 

Conosciamo l’umiltà impareggiabile

de Signore che si è fatto servo

che ha preso a tal punto l’ultimo posto

che nessuno potrà mai toglierglielo.

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.

Ma Giovanni Battista, con “l’umile serva del Signore”,

viene subito dopo.

Lui che amava dire; “Bisogna che egli cresca

e che io diminuisca”

Una umiltà senza smancerie,

assetata di giustizia e desiderosa di verità.

Una umiltà cresciuta nella buona terra,

lavorata dall’ascesi, dalla solitudine e dalla preghiera.

Prima di tutto Giovanni Battista ci insegna

che tutti siamo chiamati a imitare Cristo con questa virtù di base,

condimento di tutte le virtù, che è l’umiltà.

Sappiamo la sete di verità di Cristo Gesù.

Lui che l’ha incessantemente vissuta, proclamata,

difesa, al punto di poter dire, un giorno:” Io sono la Verità”.

Possiamo dire di san Giovanni Battista

che era stato durante tutta la sua vita,

il servo di questa santa libertà

per cui ridiventiamo figli di Dio.

Verità, nella sua vita tutta intessuta di ascesi,

di dirittura morale, di spogliamento, d’amore in atto.

Verità nelle sue parole, senza compromessi,

di cui tutte le scorie sono state bruciate al suo passaggio come un fuoco.

Verità fino alla profondità stessa del suo cuore, avido di riconoscere di annunciare

l’unico Dio.

In questo Giovanni Battista ci istruisce e ci ricorda l’esigenza di vivere

e di parlare nella verità che è Dio stesso.

 

Perchè è proprio “perchè fossimo liberi

che Cristo ci ha liberati”-

 

Sappiamo con quale immenso amore

Cristo Gesù ci ha amati,

noi gli uomini e questo mondo dove viviamo

sotto lo sguardo del Padre:

“In lui ho posto tutto il mio amore.”

Cosa potremmo dire di Giovanni Battista

tutto infiammato di un amore di Sorgente e di Fuoco?

Un amore che non cercava neanche di compensare il caritativo

o l’affettivo. Un puro amore teso a tradurre in atti la chiamata di Gesù

che ci ricorda che la più bella prova d’amore é di dare la sua vita per chi amiamo.

Lo ha vissuto come Cristo

fino al martirio, affrontando come lui la prova estrema della derisione,

della solitudine e dell’abbandono.

Anche a noi è chiesto di amare

e siamo tutti invitati a perdere la nostra vita,

per salvarla, con atti di puro amore, per quanto possibile.

 

Fratelli e sorelle,

giorno dopo giorno, d’inverno come d’estate,

nel deserto o nella città,

nella solitudine o nella comunione fraterna,

eccoci chiamati a vivere anche noi come Giovanni Battista,

come imitatori e precursori di Cristo.

E Giovanni Battista e Gesù ci ridicono semplicemente questo:

“se volete essere dei veri precursori, siate degli autentici imitatori,

poichè il modo più bello di essere grandi per Dio è di diminuire davanti a lui.

 

©FMG manoscritto originale in francese-24 giugno 1998

 

Omelia di fr. Pierre-Marie Delfieux

XIII Domenica T. O. B


 

Testimoni dell'eternità'


 

Il prete è un uomo che Dio ha incaricato

di rispondere, in suo nome, al senso della vita

e dunque al perchè della nostra morte.

 

Da ieri, tre nostri fratelli

Antoine-Emmanuel, Laurent-Nicolas e Regis-Marie

sono preti del Signore.

Concelebrano insieme oggi

la loro prima messa in questa chiesa di Saint-Gervais.

E' per aver creduto a questa Parola che è Vita eterna (Gv 6,6-8)

e aver liberamente scelto di consacrarvi la loro vita,

che sono adesso e per sempre sacerdoti di Gesù Cristo (Eb 6,20).

E, dopo tanti altri, da 20 secoli,

essi lo sono divenuti per il tempo e per l'eternità (7,3.17).

 

Ma, cos'è dunque l'eternità?

Tutto su questa terra ci parla, come nelle letture di questo giorno,

del tempo che passa e della morte che ci attende.

Lasciamoci interpellare da quello che, di volta in volta,

l'autore del libro della Sapienza, l'apostolo Paolo

e Gesù Cristo stesso ci invitano a meditare.

Al fine di poter un po' meglio comprendere forse

il senso di questa vita che si scontra

con l'obbligo implacabile della morte.

 

*
 

Dio non ha fatto la morte.

Non si rallegra di veder morire gli esseri viventi,

proclama chiaramente il Libro della Sapienza (1,13).

E aggiunge: Egli ha creato tutte le cose perchè sussistano.......

La potenza della morte non regna sulla terra,

poiché la giustizia è immortale (1,15).

Ciononostante la morte è in agguato ovunque in questo mondo,

poiché resta inesorabilmente iscritta

al termine di ogni esistenza di quaggiù!

E se è vero affermare che Dio non ha voluto ciò,

come pensare nello stesso tempo

che un Dio Onni-potente e Onni-amante

possa tollerare la morte inevitabile dei suoi figlioli?

Oppure qualcosa gli sarebbe sfuggito,

e, in tal caso, sarebbe egli, ancora, Onni-potente?

 

Oppure accetterebbe di vederci soffrire e morire,

e, allora, sarebbe egli veramente Onni-amante?

Il prete, per primo, non ignora queste questioni.

 

L'apostolo Paolo, nel tentativo di condurci oltre,

si sforza da parte sua, di mostrarci la prodigalità di Dio,

ricordandoci la generosità di nostro Signore Gesù Cristo.

Ed egli ha questa ammirabile formula:

Egli, da ricco che era, si è fatto povero

per arricchirci della sua povertà (2Co 8,9).

Certo, il Cristo è venuto, con la sua promessa di salvezza.

Ma molti si compiacciono anche di constatare, ancora qui,

che numerosi problemi non sono stati risolti in quanto

si vede quale peso di ingiustizia e di miseria

continua a gravare sul mondo e sull'uomo!

E se si vuole ribattere che qui si tratta innanzitutto

di ricchezza spirituale,

si deve ugualmente riconoscere che dopo 20 secoli di Cristianesimo,

rimane ancora da far partecipare il tesoro del Vangelo

a tutta una parte della nostra umanità!

Anche questo, più di chiunque altro, il prete lo sa.

 

I miracoli di Gesù che ci riferisce il Vangelo

sarebbero finalmente più incoraggianti o più eloquenti?

E' vero (lo abbiamo appena sentito)

che Gesù guarisce qui una donna malata, un caso clinicamente disperato (Mc 5,25-34)

e risuscita persino una ragazza morta che riprende a camminare (5,35-43).

Ma, si direbbe, cos'è qualche guarigione

di fronte a tante malattie che rimangono?

E qualche resurrezione, per un prolungamento di tempo,

a fronte di tutti i decessi a cui è impossibile sfuggire?

Anche queste obiezioni, e che non sono minori, il prete,

come ogni cristiano, come ogni uomo, le conosce.

 

Siamo dunque costretti a disperare?

Oppure, almeno, come si dice, a “farcene una ragione”,

mentre si cerca mille e una occasione di “svicolare”?

No, fratelli e sorelle,

poiché la risposta a tutte queste domande

non è tanto nello scetticismo o nella disperazione

quanto nel fatto che la realtà non è interamente compresa nelle apparenze

fin qui prospettate.

 

*

Cosa vediamo in effetti, già a livello dei fatti?

Constatiamo inizialmente uno strano fenomeno.

Se la morte sembra veramente presente un po' dappertutto sulla terra,

non si può concludere frettolosamente che essa vi abbia l'ultima parola.

Vediamo anche, come in un continuo concatenarsi,

tutta una serie di morti passeggere generare nuove forme di vita.

Niente si perde, niente si crea, tutto si trasforma”, si è detto.

Fra tanti altri possibili esempi, ecco

quello che si potrebbe chiamare “le piccole pasque del chicco di grano”

e “le successive tappe della vita”.

 

Ricordiamoci:

il seme che muore in terra diventa il grano in erba.

L'erba essiccata al calore del sole dà le spighe mature.

Le messi duramente battute danno grano per riempire il granaio.

Il grano macinato si trasforma in meravigliosa farina.

La pasta impastata e cotta dà del buon pane.

E il pane morso, mangiato, diventa per l'uomo fonte di vita.

Di una vita che andrà forse fino a significare

la Presenza reale del Dio vivente,

sulla mensa delle nostre Eucarestie!

Quale concatenarsi di morti e di vite!

 

Così è anche delle tappe della nostra vita dove, successivamente,

dall'embrione al nuovo nato, dal bebè al bambino,

dal bambino all'adolescente, dall'adolescente all'adulto,

dall'adulto all'anziano e dall'anziano al patriarca,

si vede, come altrettante fini apparenti,

generano nuovi inizi.

Osserviamo bene le cose della vita,

sia a livello dell'uomo che della natura o dell'universo,

e vedremo, stupefatti, che si va spesso,

tanto nella sfera materiale quanto in quella spirituale,

da piccole morti quotidiane a piccole resurrezioni.

 

E ci si compiace allora a ripetere, con l'autore del libro della Sapienza,

che in verità Dio ha creato tutte le cose affinchè sussistano;

e che, finalmente, contrariamente alle apparenze,

la potenza della morte non regni sulla terra (Sa 1,13-15).

Certamente, questa colpisce.

E noi sappiamo che è il peccato che l'ha provocata (Rm 5,12).

Ma essa non ha l'ultima parola!

E' la vita che esiste e, dappertutto la si vede

avanzare, salire, rinnovarsi, propagarsi, crescere.

 

E come spiegare quel desiderio innato in noi,

tanto universale quanto visceralmente iscritto nel più profondo del nostro essere,

questo desiderio inestinguibile di immortalità?

Chiaramente scopriamo rapidamente

che il più essenziale delle nostre vite resta meno visibile.

E che, oltre le “realtà” che noi già sperimentiamo o constatiamo,

esistono delle realtà che noi non vediamo, ancora non conosciamo.

La vita trascorre perchè avanza, e non certo perchè sparisce.

 

Al seguito del popolo biblico

che ne ha fatto, certamente meglio di chiunque altro, l'esperienza,

noi percepiamo rapidamente che Qualcuno ci ha creati.

Venuti da Lui, noi ritorniamo verso di Lui.

Vi è nell'uomo qualcosa che supera l'uomo.

La vera morte non è dunque alla fine quella che si pensa.

La vera morte è la morte dell'uomo vecchio (Ef 2,22;Col 3,9-11)

- ed è vero che in noi egli cade in rovina (2Co 4,16) -;

E la morte di questo mondo che passa (1Co 7,31)

- poichè può sussistere solo ciò che ha valore di eternità (1Co 15,50-52).

Affinchè questo essere corruttibile si rivesta di incorruttibilità (15,53),

occorre che si distacchi inizialmente dalla sua corruzione (15,42).

E affinchè questo essere mortale si rivesta di immortalità,

occorre che si separi prima dalla sua mortalità.

Così, la vita non è più fermata. Essa è trasformata!

La nostra esistenza non è più interrotta. Essa è mondata (Gv 15,1-15).

E' con l'invidia del diavolo, dirà la Scrittura,

che la morte è entrata nel mondo (Sap 2,24).

Ma è venuto qualcuno che riscattando i peccati,

ha fatto barriera al principe di questo mondo (Gv 12,31),

e ridato, ancora più meravigliosamente agli uomini la speranza della vita!

Ciò, più di ogni altro, il prete lo crede e lo sa.

Poiché gli è stato dato come ad ogni credente cristiano,

di poter ripetere con l'apostolo Pietro all'Inviato del Padre:

Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16).

 

Con Gesù infatti tutto è nuovamente illuminato.

Tutta è ristabilito, raddrizzato, riscattato, restituito alla vita.

In Gesù Cristo, Dio si è fatto bambino.

La pienezza della sua Divinità ha raggiunto la pienezza della nostra umanità.

E a tutti quelli che l'hanno ricevuto, a quelli che credono nel suo nome,

ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12).

Sì, è vero, Lui da ricco che era,

si è fatto povero, per arricchirci della sua povertà (2Co 8,9).

Certamente, ogni disuguaglianza, ogni miseria, ogni ingiustizia

non sono per questo eliminate dalle nostre strade.

Ma un vero tesoro ci è promesso a tutti in cielo (Mt 7,19-20)!

La via del paradiso ci è riaperta (Gv 14,1-3).

La sola morte da temere è la seconda morte (Ap 2,11;20,6;21,8).

Non quella che uccide il corpo,

ma quella che potrebbe definitivamente perdere la nostra anima (Mt 10,28;1Gv 5,16).

 

Certamente, guarendo qualche malato e resuscitando qualche morto,

il Cristo non ha alleviato tutte le pene del mondo;

né liberato quaggiù gli uomini dalla dura legge del morire.

Ma risuscitando quella giovane morta

e liberando quella donna condannata,

ha dimostrato al mondo che è più forte

delle forze del male e della morte.

 

Ecco il vero mistero, non un'assurdità, ma la luce da contemplare.

Per salvarci, Gesù non ha voluto appoggiarsi

sulla sua Potenza divina;

ma è volontariamente disceso

fino a sperimentare l'impotenza della nostra morte.

Cosa è successo allora, fratelli e sorelle?

La morte è morta con l'entrata in essa della vita stessa di Dio!

Egli l'ha colmata della sua presenza:

essa non è dunque più una solitudine.

Egli l'ha trapassata con la sua speranza:

essa non è dunque più un muro invalicabile e oscuro!

Da essa Egli ha sprigionato la luce della sua resurrezione.

Le tenebre non sono più tenebre davanti a Lui e la notte illumina come il giorno (Sal 139,12)!

Offrendola per i suoi amici, ne ha fatto

la più bella prova d'amore

e l'atto sovrano della più alta libertà.

Se qualcuno vive e crede in me, non vedrà mai la morte (Gv 11,26).

Passandola, come si passa da una porta egli entrerà a piè pari in paradiso (Gv 10).

Dov'è o morte la tua vittoria?

Dov'è o morte il tuo pungiglione? (1Co 15,55).

Non fidiamoci più delle apparenze.

La bambina non è morta, dorme (Mc 5,39)!

Non temere, credi solamente.

*

Cari fratelli Regis-Marie, Laurent-Nicolas e Antoine-Emanuel,

avete ricevuto ieri dalle mani del vescovo di Parigi,

successore degli apostoli, il presbiterato.

Più che voi abbiate scelto il Cristo,

é Lui, il primo, che vi ha scelti ed istituiti (Gv 15,16).

Più che mai, voi diventate i testimoni di quel Dio d'Amore

che vi ha creati, vi ha riscattati e vuole santificarvi.

Presi tra gli uomini, eccovi adesso scelti da Dio.

Donati a Dio, eccovi inviati da Lui presso gli uomini.

Monaci e preti,

in doppia missione di lode e di intercessione,

in doppio segno di rottura e di comunione,

siate delle “ sentinelle sulle mura della città (Is 62,8;Gv17,15).

 

Per definizione, eccovi adesso degli anziani.

Voi sapete già e saprete sempre di più ciò che significa

la fragilità, la precarietà e la condizione umana fallace e mortale.

Ma avete ricevuto nelle vostre mani, per grazia di Dio,

il potere di benedire, di lavare, di perdonare, di guarire, di consacrare.

Altrettanti segni, sacramenti, che vi mettono pienamente

al servizio della Vita.

Avete riconosciuto nel Cristo colui che ha parole di vita eterna (Gv 6,68).

Voi portate nelle vostre mani il corpo e il sangue di Cristo che danno la vita eterna (Gv 6,54;1Co11,23-27).

Diventando preti per l'eternità,

eccovi più che messaggeri della sua gioia e della sua pace,

annunciatori della sua misericordia e operai dell'unità nella carità.............

Voi siete testimoni dell'eternità!

 

Grazie Signore, di averci rivelato, a tutti,

che siamo i figli della Resurrezione.

 

©FMG manoscritto originale in francese del 25 giugno 1995

 

 

 

 torna alla pagina iniziale       

       @ per informazioni      

       A maggior Gloria del Signore