Domenica 2 luglio 2017
- XIII Domenica
T.O. -
fr. Jean-Christophe
– Badia Fiorentina
Mt 10, 37-42
Gesù è venuto sulla nostra terra per darci la pace.
Ma la pace che egli dà
non è quella che ci immaginiamo.
La Sua pace non è la
tranquillità, il riposo rassicurante.
La pace, secondo Gesù
è il frutto di una sete inappagata, di uno slancio, di un sussulto.
Il luogo della sua
pace è una traversata, una pasqua verso qualcuno più grande di se
stessi. Dio è la nostra pace.
Gesù è lui stesso la
pace che promette.
E’ pacificato colui
che non guarda più alla propria vita a partire da sé, ma la guarda a
partire da Cristo.
Egli trova la propria
pace nell’accoglienza di Cristo nella sua vita.
Riceve la pace dal
momento in cui non cerca più di salvare la propria vita.
Acconsente alla croce
che lo spossessa di ciò che crede di possedere.
Tra il terrore della
morte inesorabile, dell’accettazione della nostra finitezza, il
Cristo è presente riconciliando l’inconciliabile.
Egli apre un cammino
di vita nella morte.
Spesso accade che il
cadere e il rialzarsi non siano altro che un solo e medesimo
momento.
Come morire e nascere,
perdersi e trovarsi.
Forse è proprio questa
la condizione per aver accesso a volte ad una pace che sorpassa ogni
intelligenza.
Una pace senza
condizioni e senza soluzioni.
Una pace che non
riduce le nostre contraddizioni, ma allarga il nostro cuore, la
nostra vita al di là dei pensieri contrastanti che ci tormentano.
Non dimentichiamoci
che Gesù, nella nostra pagina di Vangelo, si rivolge ai suoi
discepoli che hanno scelto di seguirlo.
Qualcuno ha fatto
irruzione nella loro vita, rivolgendo loro una chiamata: “seguimi”.
Gesù è venuto
all’improvviso a contraddire ciò che essi erano; i pescatori hanno
dovuto lasciare le loro reti e le loro barche, il pubblicano il suo
banco delle imposte, lo zelota il suo impeto nello scacciare
l’occupante romano.
Gesù è l’avversario
che semina una vita nuova.
Egli cerca nel
profondo dell’uomo la sua capacità di essere un vivente in pienezza.
La relazione di Gesù
con il suo discepolo non può lasciare incolumi, questa prova di
alterità è finalizzata ad una nuova nascita, ad una nascita
dell’alto.
Naturalmente si può
toccare senza lasciarsi toccare. Si può parlare senza sentire a sua
volta.
Si può provare ad
aggirare ciò che di inedito c’è nell’altro.
Ma chi ha incontrato
Gesù non riuscirà a dimenticare il suo volto, non riuscirà a mettere
a tacere le sue parole di fuoco che risalgono interiormente nel
silenzio.
Si, Gesù è una
minaccia per la nostra tranquillità, per la nostra comodità! Gesù
semina un amore nuovo nei nostri cuori. Un amore diverso, un amore
divino, un amore assoluto.
Un amore
soprannaturale che fa attrito con l’amore naturale del figlio verso
i suoi genitori e dei genitori verso il loro figlio.
Ed è in questo attrito
che Gesù guida non nel senso di opposizione, ma verso un
superamento.
Il suo amore non
esclude, bensì include tutti i nostri affetti legittimi. Questo
amore apre a una speranza inedita: il nostro avvenire è in Dio e non
nell’uomo, fossero anche nostro padre, nostra madre, nostro figlio.
Ormai la nostra vita è
nascosta con Cristo in Dio, il discepolo è rivolto a Cristo, tesoro
della sua vita e sua unica speranza.
Si incammina alla sua
sequela, non preferendo altro né altri al suo amore.
Signore, aiutami a
perdermi in te
E aiutami ad
accoglierti in me
Poiché tu mi ami
per primo,
come non amarti con
tutto me stesso?
Traduzione dal francese a.c. di sr. Maria Paola
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Domenica 13
dicembre 2015 - 3° Domenica
d’Avvento “Gaudete”- C – Sof 3,14-18; Is 12; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
- Fr Antoine-Emmanuel - Santuario del SS
Sacramento, Montréal
(traduzione di
Riccarda)
Le richieste del
Signore al suo Popolo
Avete sentito le
quattro richieste che il Signore fa al suo popolo, a Israele, alla
figlia di Sion?
“Rallegrati!”
“Grida di gioia!”
“Esulta!”
“Acclama con tutto il
cuore!”(Sof 3,14)
Ma come si può essere
tanto gioiosi su una terra che è così spesso una valle di lacrime ?
Perché il Signore
ha revocato la tua condanna; ha disperso il tuo nemico (v.15).
Il Signore è in mezzo a te e ti rinnoverà con il suo amore
(v.17).
Guardate la tenerezza
di Dio che vede il suo popolo impigliato nel suo peccato, i suoi
affari, i suoi vizi, i suoi tradimenti e viene a farsi prossimo.
Il cuore di Dio si
rivolta contro Se stesso e superando ogni giustizia, andando oltre
la giustizia, Dio riversa il suo perdono, libera, guarisce e rialza
il suo popolo.
Egli ci rinnova con
il suo amore. Fa di noi delle creature nuove.
Ecco la follia dell’
amore di Dio. Senza questa follia d’amore, io stesso, non potrei
stare a quest’ambone davanti a voi, perché sono peccatore.
Perché ho peccato e
dunque necessariamente, ho trascinato altri nel peccato.
E noi tutti, monaci e
monache, non potremmo stare con le vesti bianche davanti a voi senza
la misericordia di Dio.
Il bianco che noi
indossiamo non è il bianco di vite impeccabili, ma il candore del
perdono.
Il papa stesso lo
diceva ad alcuni detenuti incontrati in Bolivia: “Io sono un uomo
perdonato”. “Io sono peccatore, mi sento peccatore, sono
sicuro di esserlo; io sono un peccatore che il Signore ha guardato
con misericordia”
Avete notato che da 50
anni la Chiesa parla sempre più di misericordia?
Ha cominciato Paolo VI,
poi soprattutto Giovanni Paolo II con la sua lettera “Dives in
Misericordia”, con la canonizzazione di suor Faustina e con
l’istituzione della Festa della Divina Misericordia.
E di che cosa ha
parlato papa Francesco nel suo primo Angelus? Della misericordia!
E due anni dopo, che
cosa ci offre? Un giubileo straordinario della misericordia.
E spiega:” Ho sentito
che c’è come un desiderio del Signore di mostrare agli uomini la sua
misericordia.
Non si tratta di una
strategia. L’ho avvertito dentro di me. Lo Spirito Santo vuole
qualcosa. E’ evidente che il mondo di oggi ha bisogno di
misericordia, ha bisogno di compassione.
Ci siamo abituati alle
brutte notizie, alle notizie crudeli e alle atrocità. Il mondo ha
bisogno di scoprire che Dio è Padre, che la misericordia esiste, che
la crudeltà non porta a niente, che la condanna non porta a niente.
Ho sentito che Gesù
vuole aprire la porta del suo Cuore, che il Padre vuole mostrare le
sue viscere di misericordia e che, per questo, Egli ci invia lo
Spirito Santo,
per metterci in moto e
scuoterci” ( tratto dall’intervista di papa Francesco alla rivista
“Credere”):
Il Giubileo non è
dunque una strategia pastorale, ma una chiamata del Signore.
Il Signore bussa alla
porta dei nostri cuori per riversare in essi la sua misericordia.
Dio nostro Padre vuole manifestare al mondo di oggi la profondità
del suo amore.
Questo amore che
simpatizza con la debolezza, che riversa il suo amore, il suo cuore,
nella nostra debolezza; questo amore che è anche indulgenza che
vuole guarire le conseguenze del peccato nelle nostre vite.
E’ “ l’indulgenza del
Padre “. Non è un commercio delle indulgenze (al plurale), ma
l’Indulgenza del Padre che ci abbraccia, ci carezza, ci ristora.
Voi percepite l’amore
del Padre che danzerà, esulterà con grida di gioia quando noi diremo
sì alla misericordia.
Da che cosa si vede
che qualcuno ha detto sì alla misericordia di Dio? Dal fatto che lui
o lei diventa misericordioso(a)
verso se stesso e
verso gli altri. Quando sentirete crescere in voi una tenerezza
nuova per tutto ciò che è povero, ferito, offensivo nell’altro e in
voi, dite a voi stessi che il Giubileo ha cominciato a portare
frutto.
Allora, che strada
prendere per questo Giubileo? Il nostro vescovo, nella sua lettera
pubblicata nel bollettino settimanale ci propone tre tappe: la prima
è contemplare questo Amore e impregnarcene.
La seconda sarà di
incominciare delle pratiche di perdono e di riconciliazione.
La terza sarà di portare alle “periferie” la buona notizia della
tenerezza di Dio.
La prima tappa è
dunque, ora, di contemplare la Misericordia divina.
Vi invito a imbarcarvi
in questa sfida contemplativa. Prendete la vostra Bibbia e leggete,
e cercate, e contemplate. Nell’Antico Testamento in particolare,
troverete tre parole chiave.
La prima è “emet” che
significa la fedeltà, la solidità dell’amore di Dio. Ti senti
povero, incostante….è vero. Ma l’amore di Dio è costante, solido
come un cammino sicuro sul quale
tu puoi avanzare con piena fiducia.
La seconda è “hered”,
che significa un favore immeritato, una benevolenza completamente
indipendente dai nostri meriti. Tu ti senti debole di fronte a Dio,
assolutamente non all’altezza di ciò che Dio si aspetta da te. La
sua “hered” ti dice che tu sei amato senza misura…
La terza infine è “rahamim”,
termine che significa le viscere materne, l’intimo. L’amore di Dio è
viscerale, non separabile dal suo Essere, non sradicabile e di una
tenerezza materna straordinaria.
A partire da questi
termini, sta a voi cercare, contemplare. Potete per esempio partire
da tutti i testi citati nella lettera del Papa: ”Misericordiae
vultus”.
Volete che la vostra
vita cambi? Volete che il mondo sia trasformato? Al lavoro!
Abbiamo anche degli
strumenti a nostra disposizione. Certamente quello che la diocesi ha
messo in rete sul suo sito, gli appuntamenti che ci sono proposti,
ma soprattutto uno strumento molto prezioso, molto efficace, il
pellegrinaggio. Siamo tutti invitati a vivere quest’anno dei
pellegrinaggi. Un pellegrinaggio è scegliere di lasciare il luogo in
cui vivo, e dunque le mie abitudini, di camminare, di stancarmi, di
pregare, di meditare per raggiungere un luogo di grazia, un luogo di
incontro con Dio e di ripartire trasformato.
Io parto, cammino,
passo da una vita poco misericordiosa ad una vita nuova in cui la
misericordia diventa potente in me. E’ un passaggio. Io passo da una
cultura del successo, della performance, dell’ individualismo ad una
cultura della tenerezza e della misericordia.
Per aiutarci a sentire
ed a vivere questo passaggio, papa Francesco ha voluto che si
utilizzi il simbolo della porta. Non è qualcosa di magico. Tutto
dipende dal cammino interiore che farete!
Ma può essere un
pellegrinaggio determinante per la vostra vita, perché il Signore ci
attende.
Faccio un esempio. Voi
fissate una data. Scegliete una chiesa dove c’è una porta della
misericordia. Vi preparate con delle letture, con la preghiera, con
un colloquio con un(a) amico(a) che ha esperienza spirituale.
E il giorno fissato
partite, possibilmente a piedi, o con il mezzo che volete. Partite
col desiderio di convertirvi di più alla misericordia. Partite
portando nel vostro cuore una persona viva o un defunto che ha
bisogno della tenerezza di Dio. Andate vicino alla porta. Pregate,
pregate, pregate. Attraversate la porta per dire: Sì, Padre, io
voglio entrare nella tua misericordia; dico sì alla tua tenerezza
immeritata. Poi andate a ricevere il sacramento del perdono per
entrare nella vita nuova.
In seguito, vivete un
momento di comunione, pregando il Credo della Chiesa, pregando
almeno secondo le intenzioni del papa Francesco e chiedendo al Padre
la sua indulgenza per la persona che portate nel vostro cuore. Poi
vivete con intensità la messa o un tempo di adorazione eucaristica.
Questo vi rinnova il
cuore… Ma…ad una condizione: che ci mettiate il vostro cuore! E’
infatti un vero cammino di conversione! La misericordia di Dio non
ci dispensa dalla conversione; al contrario, essa provoca in noi la
conversione.
E’ per questo che il
messaggio di Giovanni Battista è una Buona notizia. Giovanni
Battista, che era pienamente cosciente della gravità e dell’orrore
del peccato del mondo,aveva percepito che Dio non condannava il
mondo, ma offriva al mondo una via di guarigione, di salvezza, nella
persona di Gesù.
Giovanni ha capito che
Israele aveva un’ultima chance, un’ancora di salvezza. Ha
avvertito che la misericordia divina ci veniva incontro e ci
chiamava alla conversione. Conversione del cuore che si traduce, si
manifesta nelle opere di misericordia.
Cari fratelli e
sorelle, Buon Anno Santo ! Che ciascuno di noi, che noi diventiamo
più misericordiosi e saremo allora degli artigiani della rivoluzione
della tenerezza
di cui il nostro mondo
ha tanto bisogno. |
Domenica 11
gennaio 2015
– Battesimo del Signore
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La festa del battesimo del Signore è un po’ la
festa anche del nostro battesimo. Il nostro battesimo nasce qua, o
meglio inizia a nascere qua, sulle rive del Giordano, laddove Gesù
si mette in fila insieme ai peccatori per compiere questo gesto
rituale. Non possiamo non rimanere stupiti da questo Messia così
diverso da come ce lo saremmo aspettati, e soprattutto da come se lo
aspettava Israele. Perfino Giovanni Battista era stupito, perfino
lui è sorpreso e sicuramente anche imbarazzato e gli chiede: ma che
cosa fai? Io dovrei essere battezzato da te e invece sei tu che ti
presenti per farti battezzare, per chiedere perdono a Dio? Gesù è
senza peccato, Gesù, è chiaro, non aveva bisogno per sé di chiedere
questo battesimo di conversione. Però Gesù, ricordiamolo, non è
venuto per sé ma è venuto per noi e questo per noi sarà il marchio
distintivo di tutta l’opera di Gesù.
È per questo, cari fratelli e sorelle, che Gesù
oggi scende, continua quella discesa iniziata il giorno di Natale, o
meglio il giorno del suo concepimento nel grembo di Maria. Gesù
scende: scende dal cielo alla terra, facendosi uomo; e oggi scende
anche geograficamente raggiungendo da Nazareth questo luogo di
depressione in cui scorre il fiume Giordano, e si mette tra i
peccatori, la santità di Dio incontra la miseria umana. Gesù scende
nelle depressioni dell’umano, scende laddove l’uomo è più lontano da
Dio, laddove l’uomo con il male che produce distrugge perfino la sua
dignità di uomo e quella degli altri, e da qui, da questa
depressione geografica e morale, inizia il suo ministero pubblico.
In questi giorni in cui siamo sconvolti da tutte queste vicende di
violenza in Francia, ma non solo, anche in altre zone del pianeta
più facilmente ignorate dalla massa, come per esempio in Nigeria,
questa discesa di Gesù nelle depressioni dell’umano, ci ridà la
speranza che non c’è luogo o situazione tanto distanti da Dio da non
poter essere raggiunte da lui, salvata e redenta. Non c’è persona
sulla quale i cieli non si possano aprire, verso la quale Dio non
possa effondere la sua misericordia.
Purtroppo, sapete, c’è un problema più grande
ancora del peccato in sé, non perché visibilmente faccia più danni,
ma perché sta alla radice di tutto il male, tutti i disastri che
l’uomo può compiere. E sapete cos’è? È il cuore chiuso, è il cuore
indurito. Il cuore chiuso è l’uomo che rifiuta la visita di Dio,
rifiuta di vedere e di riconoscere le opere del Signore, è l’uomo
che si chiude perfino quando il cielo si apre sopra di lui. Questo è
il vero problema. Ma noi se oggi siamo qui a celebrare il Battesimo
di Gesù è anche per riaffermare, e soprattutto per credere con tutte
le nostre forze, che Gesù continua a scendere in questi inferni
dell’umanità per portare in essi la sua presenza che, come abbiamo
sentito, è un cielo aperto in cui tutto il divino, Padre e Figlio e
Spirito Santo, vogliono manifestarsi. La nostra preghiera allora
oggi vuole favorire questa apertura dei cuori; noi possiamo fare
tanto perché i cuori si aprano; anzitutto aprendo i nostri cuori;
non pensiamo che noi, perché siamo cristiani e perché veniamo in
chiesa, siamo garantiti a vita contro l’indurimento del cuore;
proprio due o tre giorni fa c’era il vangelo che ci parlava del
cuore duro, non dei farisei ma degli apostoli, dei discepoli intimi
di Gesù, e tra l’altro un cuore indurito e dunque cieco, proprio
dopo un miracolo così grande, plateale, qual era la moltiplicazione
dei pani e dei pesci; come vediamo il rischio del cuore duro, e
dunque l’urgenza di lasciarsi sempre spalancare il cuore dallo
Spirito, riguardano anche noi. Ma, con la fedeltà e l’insistenza
della nostra preghiera di intercessione, siamo in certa parte
responsabili del cuore di tutti gli uomini, responsabili di
lavorare, operare perché i cuori di tutti, soprattutto i più
induriti, si aprano. Questo Spirito che oggi discende in forma
corporea, discenda davvero su tutti i cuori induriti, li
ammorbidisca, li disponga alla pace, alla bontà, purifichi davvero
le intenzioni dei cuori e le opere che da essi sgorgano.
All’inizio che questa festa del battesimo è anche
la festa del nostro battesimo. E questo lo dico non tanto perché il
battesimo di Gesù sia il nostro battesimo. Il battesimo che Gesù
oggi riceve, non dimentichiamolo, è il battesimo di Giovanni non è
il battesimo cristiano. Il battesimo cristiano è molto ma molto di
più rispetto a un rito di penitenza e di conversione. Noi siamo
battezzati nella morte e risurrezione di Cristo. Nel nostro
battesimo veniamo immersi in tutta la Pasqua di Gesù, non è solo
penitenza ma è perdono effettivo e definitivo di tutti i peccati; e
inoltre, come sappiamo, diventiamo per sempre dimora della Trinità.
Dunque il nostro battesimo è decisamente superiore a quello di
Giovanni (che prefigurava il nostro, almeno nella forma e anche
nella dimensione penitenziale). Però quando Gesù si fa battezzare
abbiamo visto che accadono due cose inedite, straordinarie, che
contengono già qualcosa del nostro battesimo. A tal punto che
potremmo dire che nel battesimo di Gesù diventa visibile ciò che nel
nostro battesimo rimane invisibile; e mi riferisco in particolare a
due cose: la prima sono i cieli che si aprono e lo Spirito che
scende. Ecco, ricordiamoci bene che laddove c’è un cristiano,
laddove c’è un battezzato, ci troviamo di fronte a qualcuno sul
quale i cieli si sono aperti e, diciamo di più, rimangono aperti
(cfr. testimonianza di Stefano). Un cristiano, ancora di più se è un
cristiano fedele a ciò che è, con la sua vita porta sulla terra il
cielo aperto di Dio. E questa, cari amici, sono una dignità, e anche
una missione straordinarie che non possiamo trascurare né in noi né
negli altri. Anche le relazioni cambiano perché io so che in te,
fratello mio, Dio è sceso, c’è un cielo aperto in te e sopra di te.
Prima cosa.
La seconda anticipazione del nostro battesimo sta
in questa voce del Padre: Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho
posto il mio compiacimento. Sono parole che si applicano a Gesù in
modo unico e speciale. Lui, e solo Lui è il Figlio di Dio, l’amato.
Ma, siccome, come dicevo prima, Lui è venuto non per sé ma per noi,
ecco che in Lui anche noi, per grazia, siamo destinatari di queste
parole, di questo compiacimento del Padre. E qui noi riceviamo una
vera e propria chiamata a entrare, vivere in questo compiacimento
del Padre. Che cos’è questo compiacimento? È il Padre che riconosce
il suo Figlio come il suo vero servo, il servo di YHWH che Isaia
aveva annunciato (Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto
di cui mi compiaccio) proprio nel momento in cui inizia a farsi
salvezza per i peccatori, laggiù, al Giordano, in mezzo a loro.
Proprio quel servo che, come aveva profetizzato Isaia, morirà per i
peccatori, porterà il peccato di molti e intercederà per i peccatori
è Gesù. Nelle parole del Padre è racchiusa in nuce tutta la missione
di Gesù servo di YHWH, la sua Pasqua e la nostra Pasqua. E dunque
questo compiacimento è anche per noi cioè quando ci mettiamo anche
noi tra i peccatori, ci lasciamo salvare e ci mettiamo, come Gesù, a
servizio della salvezza degli altri, siamo coloro che rallegrano il
cuore di Dio, compiacciono il Padre. “Di nulla il Padre si compiace
dell’uomo come della sua conversione e della sua salvezza –
affermava san Gregorio di Nazianzo”. Che cosa stupenda sapere che il
Padre si compiace di noi, è contento di noi, sapere che il Padre ci
guarda nello stesso sguardo con cui guarda il suo Figlio amato.
Anche questa è una vera chiamata a rimanere in questo sguardo, a
fare di tutta la nostra vita un cammino di compiacimento del Padre e
anche ad aiutarci a vicenda a guardarci come ci guarda il Padre.
Cari fratelli, siamo chiamati a questo perché
siamo questo: siamo figli di Dio, e lo siamo realmente! Davvero
quest’oggi, nella festa del Battesimo di Gesù, accogliamo di nuovo
il nostro battesimo. Abbiamo davanti tutto questo anno nuovo, il
tempo ordinario che inizia domani per camminare da servi di Dio nel
compiacimento del Padre per noi e per tutti i nostri fratelli.
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venerdì 9 gennaio 2015
- 2a settimana dopo Natale -
fr. Giovanni Battista FMJ
Ci sono due punti nel vangelo di oggi su cui
vorrei soffermarvi un po’, ricordandoci anzitutto che c’è una luce
particolare, un contesto privilegiato in cui noi vogliamo accogliere
e leggere il vangelo di oggi, che è il tempo di Natale che è ancora
in corso. Il tempo liturgico influisce sul modo di leggere i testi,
e il fatto che ci troviamo nel tempo di Natale e più in particolare
nei giorni che seguono l’Epifania, la manifestazione di Gesù, non è
privo di interesse.
Questo lo dico anzitutto a proposito del primo di
questi due punti del vangelo da cui vogliamo lasciare colpire
stasera: Gesù che si ritira e sale da solo sulla montagna a pregare.
Dopo aver servito la folla, averla sfamata, nutrita, Gesù sente
l’esigenza di ritirarsi, e neanche con i discepoli, che li costringe
a partire, ma proprio del tutto solo. E secondo me, forse perché
sono un monaco, ma credo anche per chi non lo sia, questa scena è
davvero straordinaria. La solitudine di Gesù è già in se stessa una
manifestazione, una epifania. Gesù ci stupisce, ci affascina, si
manifesta, non solo quando fa qualcosa per gli altri, qualcosa di
bello e di miracoloso, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci
di ieri, ma anche quando non fa, anche quando semplicemente prega,
si ritira, rimane solo con il Padre.
Questa solitudine di Gesù, così decisamente cercata e voluta da Lui,
io credo che sia davvero un orizzonte tutto da esplorare dalla
nostra contemplazione e preghiera. Perché qui abbiamo un Gesù, che è
il Figlio di Dio che viene dal seno del Padre, che è come se
sentisse l’urgenza fisica, naturale, viscerale, di ritrovare il seno
del Padre.
Lui è sempre con il Padre e il Padre è sempre con
lui, questo è chiaro, e questo è proprio il mistero del Dio che si
fa uomo senza smettere di essere Dio, però questo salire di Gesù sul
monte è come un bisogno, una specie di istinto che Gesù ha in sé di
ritrovare l'intimità di quel nido di amore in cui dimora
dall’eternità. Questa solitudine di Gesù, se la contempliamo con
sguardo intenso e tutto penetrato di preghiera, ci rivela veramente
qualcosa di affascinante, perché ci mette di fronte agli occhi una
scena nuda e semplice di questa relazione continua che intercorre
tra le tre persone della Trinità. Il Dio che in Cristo si fa tutto a
tutti è il Dio che non lascia mai seno del Padre, tanto che ci sono
dei momenti della sua vita terrena in cui questa relazione deve
prendere tutto il posto, non ci deve essere nessun altro. Anche
questa, per me, cari fratelli e sorelle, è epifania! L’uomo Gesù che
si volge a Dio in solitudine è quasi icona tangibile del mistero
intangibile, inafferrabile, invisibile, del Dio-Trinità nascosto dai
secoli più remoti. Potremmo davvero continuare ad approfondire
questa scena del Gesù solitario per chiederci, per esempio, come noi
abitiamo la nostra solitudine, se la cerchiamo come via personale di
comunione con Dio, ma vorrei piuttosto passare al secondo punto che
volevo dirvi perché mi sembra più in linea con col tempo natalizio e
il tempo della manifestazione.
Il secondo punto è chiaramente Gesù che, sceso
dal monte, cammina sulle acque e va incontro ai suoi discepoli. Qui
abbiamo un’altra manifestazione, Gesù che cammina sulle acque di un
lago. E si tratta di un segno grandioso della sua Signoria,
anzitutto sulla creazione e le sue leggi, le leggi fisiche, perché
qui Gesù non sprofonda; ma anche Signoria sulla storia che è
oscillante, instabile, insicura, ambigua e pericolosa (non si sa
cosa nasconde), come il mare; e infine Signoria sul male e sul
peccato di cui il mare è simbolo. Ecco che qui abbiamo un segno
davvero stupefacente, eppure i discepoli, scambiano Gesù per un
fantasma. E qui c’è da chiedersi il perché i discepoli equivocano
così la presenza del Signore con quella di un fantasma. La risposta
ce la dà il testo: perché, dice il testo, avevano il cuore indurito.
Vediamo, cari amici, che connessione strettissima ci sia tra il
cuore dell’uomo, le sue condizioni, il suo stato di vita e di salute
spirituale e affettiva, e il modo che abbiamo di guardare la realtà.
La situazione interiore dell’uomo può influenzare a tal punto la
nostra capacità di vedere la realtà da portarci perfino a scambiare
la presenza del Signore con un fantasma. E quante persone,
purtroppo, hanno una visione di Dio sbagliata.
Anche tra noi cristiani talvolta Dio, Gesù che ci
viene incontro, è qualcuno che fa paura proprio come il fantasma che
credevano di vedere i discepoli. E poi come cristiani spaventati
dall’idea spaventosa di Dio che abbiamo, diffondiamo lo spavento. Il
mistero di Dio, già di suo ha qualcosa, parlo ora in termini di
religione naturale, di spaventoso. Sono sotto i nostri occhi eventi
che rendono la religione qualcosa di spaventoso, di terrificante,
eventi di fronte ai quali uno dice: se la religione porta a queste
cose meglio non essere nemmeno credenti, meglio essere atei e
ciascuno si faccia i fatti suoi. E anche nella Bibbia la visione di
Dio è spesso un po’ connessa con la paura, il Dio tremendo che si
rivela. E infine ci spaventa, anche un po’ giustamente in questo
caso, la connessione della morte dell’uomo con il divino: nessuno
può vedere Dio senza morire, e poi il fatto che ci sarà un Dio che
ci giudicherà. Ecco che di fronte a questa naturale paura dell’uomo
verso il sacro, verso il mistero, ci viene dato un Salvatore, che
sia quando entra nella storia (come Bambino), sia quando se ne
uscirà (come Crocifisso), farà di tutto per guarirci da questa paura
di Dio e donarci la pace, la pace che nasce anzitutto dall’avere
Dio, proprio colui che ci terrorizza, come amico. “Con questa
Rivelazione – leggiamo nella Dei Verbum § 2 – Dio invisibile nel suo
grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con
essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé.”
Quand’è che la paura cessa per i discepoli?
Proprio quando accoglieranno Gesù nella barca. Come per noi quando
diventiamo amici di questo “avversario” che ci fa paura con il quale
siamo in cammino lungo la via perché non ci consegni al giudice.
Meno male che erano in mezzo al lago perché se fossero stati sulla
terra avrebbero potuto fuggire; il fatto di essere sulla barca li
ha, come dire, obbligati, ha non subire la paura ma ad attraversarla
fino all’incontro con colui che libera, risana, l’uomo dalla sua
paura.
Davvero chiediamo oggi al Signore, ancora immersi
nella luce dell’Epifania, di non temere le sue manifestazioni, in
qualsiasi modo si presentino e da qualsiasi parte arrivino, ma di
aprirci con fiducia al suo dono che è dono di pace, è
dono della sua amicizia, è dono di sé. “Io sono
venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.” (Gv 10,10).
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Domenica
4 gennaio 2015
– II domenica dopo Natale
- fr. Giovanni Battista
FMJ
Le letture di oggi si soffermano nuovamente
nell’esplorare l’inesauribile mistero dell’incarnazione del Figlio
di Dio. Infatti abbiamo nuovamente il prologo del vangelo di
Giovanni, che è la stessa lettura che abbiamo ascoltato nel giorno
di Natale. E non è inutile risoffermarsi su questo testo così bello
che ci rivolge uno degli annunci più straordinari della storia della
salvezza: il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Si tratta di
una frase un po’ misteriosa. Parlare di un Verbo, del Logos, per noi
che siamo abituati a questo linguaggio, forse risulta normale, ma
non scavalchiamo così velocemente l’intensità di questa espressione.
Il Verbo si fa carne, il Verbo, ossia ciò, o meglio colui, che rende
intelligibile, comprensibile, che strappa al non senso tutta la
realtà creata e, soprattutto l’uomo. L’uomo è un mistero, l’uomo
rimane spesso sospeso in un groviglio di domande, in un fascio di
desideri, bisogni che chiedono soddisfazione, sete di assoluto.
L’uomo ha bisogno di essere spiegato, svelato, ha bisogno di una
chiave che renda ragione del suo esistere. L’uomo è un grande perché
che invoca senso in ogni momento della sua vita, e in ogni tappa del
suo cammino sulla terra. Da giovani o da vecchi le situazioni
potranno essere diverse ma sempre rimane in noi questo acceso
desiderio di un di più che spesso tentiamo di soffocare o di
soddisfare in malo modo. A quest’uomo che, di suo, cioè per quanto
attiene alla sua naturalità, non sa da dove viene e dove va, viene
offerto un Verbo fatto carne, un Logos (logos vuol dire anche
ragionamento, discorso) cioè una Parola che lo illumina, una chiave
che apre questo mistero che l’uomo è ai suoi stessi occhi. Veniva
nel mondo la luce vera, dice Giovanni, quella che illumina ogni
uomo.
Soffermiamoci
un pochino su questa frase del prologo provando a chiederci come, in
che modo, questo Verbo fatto carne illumina l’uomo?
Anzitutto
possiamo dire che gli svela la sua vera origine, un’origine che va
addirittura al di là della sua nascita, del suo essere creato, della
storia e del tempo e che risale fin nel pensiero di Dio: in lui,
cioè in questo Verbo, dice Paolo, Dio ci ha scelti prima della
creazione del mondo. Siamo scelti da Dio. E la scelta non è solo
pensiero ma è decisione, è un movimento della volontà di Dio, del
suo desiderio. Ciascuno di noi dunque esisteva non solo nel pensiero
ma nel desiderio di Dio stesso, ancora da prima che il mondo e
l’universo intero venissero creati. Fino a tal punto siamo voluti.
Questo, cari amici, è il punto di partenza di tutta la storia
dell’uomo e della nostra storia personale. È difficile, se non
impossibile, capire l’uomo se non partiamo da questa scelta che Dio
fa dell’uomo. Non siamo frutto del caso, non veniamo neanche
semplicemente da una volontà umana che può essere la volontà dei
nostri genitori. In realtà il nostro essere affonda le sue radici in
questo desiderio che Dio ha per ciascuno di noi. Ora proviamo a
pensare a quante visioni riduttive esistono dell’uomo oggigiorno e
anche in passato, letture cioè che non prendono nemmeno in
considerazione questa origine divina del nostro essere, letture ad
un piano puramente psicologico, umano, oppure teorie che guardano
solo alle dinamiche fisiche, chimiche o sociali che regolano la
naturalità dei meccanismi umani e della loro genesi. Addirittura c’è
chi sostiene che l’uomo sarebbe stato creato in laboratorio da degli
scienziati extraterrestri provenienti da un altro pianeta. Io avrei
sicuramente un modo del tutto diverso di relazionarmi con me stesso,
con la mia corporeità, con la mia affettività, con la mia
intelligenza come anche con quelle degli altri se pensassi di essere
un prodotto di laboratorio degli alieni. Rendiamoci conto allora di
quanto sia importante, di quanto sia davvero cosa sacra avere
chiaro, anche nel nostro tempo, che l’uomo viene da Dio, non solo
come creatura ma come desiderio: il Signore ci ha voluti
personalmente, abbiamo Dio per Padre! Talvolta noi pensiamo che se
crediamo, se abbiamo fede è perché siamo noi che abbiamo scelto Dio,
come se il punto di partenza fosse nella nostra volontà che ha
scelto di credere, sceglie di pregare, sceglie di entrare in
relazione con l’assoluto; questo un po’ è comprensibile perché noi
avvertiamo il nostro anelito, il nostro desiderio di Dio, ma non
quello di Dio per noi; ecco che però Paolo ribalta la prospettiva e
allora la nostra fede, il nostro desiderio di Dio non è altro che
una risposta a questo desiderio che Dio ha dell’uomo; anzi, è come
se fosse proprio una traccia di sé che Dio, che ci ha creati a sua
immagine e somiglianza, ha lasciato in noi, come un cordone
ombelicale che sempre ci lega alla Madre che ci ha generato. Quanto
è davvero importante per noi e per il nostro tempo accogliere questo
primo raggio di luce che il Verbo incarnato getta su tutta la nostra
vita e su tutta la natura umana e ritornare sempre a questa origine,
e da qui sempre ripartire: siamo nati da Dio.
Un secondo
raggio di questa luce del Verbo che illumina l’uomo la cogliamo
dalla prima lettura che è tratta dal capitolo 24 del libro del
Siracide. C’è tutto un filone, come sappiamo, della letteratura
biblica, che va sotto il nome di scritti sapienziali, tra cui
appunto il libro del Siracide. E in questi scritti vediamo che
compare in maniera sempre più nitida la figura della Sapienza,
secondo modelli e linee differenti a seconda dell’antichità dei
testi. In Siracide 24 fa capolino questa idea quasi personificata
della Sapienza che viene ad identificarsi con la Legge di Israele:
“Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge
che Mosè ci ha prescritto.” (24,23) La Sapienza, secondo Siracide,
si è “incarnata” nella Legge di Israele, nella Torah. Ora, la nostra
Legge, la nostra Sapienza incarnata è Gesù. Gesù è la nuova Legge
del nuovo Israele. Nel Verbo incarnato ci viene consegnato l’uomo
nuovo che vive nella piena adesione alla volontà di Dio. Il secondo
raggio di luce che si sprigiona oggi dal Verbo che illumina l’uomo
riguarda allora l’agire dell’uomo. Per rimanere in
questa dignità di figli di Dio che ci è stata
data nel battesimo, Gesù consegna all’uomo la Sapienza che egli è;
non dà semplicemente una Legge ma dà se stesso sia come modello di
vita (come io vi ho amato così amatevi anche voi), sia come mezzo,
come via per agire (io sono la via la verità e la vita), Lui che
agisce in noi. È molto importante secondo me tenere ben salda questa
dimensione anche pratica, concreta, morale dell’illuminazione che
l’uomo riceve dal Verbo Incarnato. La luce che illumina l’uomo non è
solo sentimento, non è solo intuizione mentale o emotiva, non è
neanche solo intenzione o desiderio, come se fosse qualcosa da
relegare al mondo dei sogni (la vita che vorrei), e non possiamo
nemmeno limitarla alla dimensione spirituale e interiore del nostro
rapporto con Dio come se tutto il resto della nostra vita fosse
altra cosa, ma riguarda anche l’ambito delle nostre scelte. Perché
noi, con le nostre scelte quotidiane, con le nostre opere più o meno
rilevanti, possiamo o rimanere nella luce e di conseguenza
diffondere luce intorno a noi, o allontanarci nella luce e ricadere
nelle tenebre. È difficile credere di aver conosciuto questa luce se
questa illuminazione ci lascia come prima, non ci apre all’amore:
“Chiunque ama è stato generato da Dio – scrive san Giovanni – e
conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.”
Vedete, cari
amici, cosa significa che la Sapienza pone la sua tenda in mezzo a
noi, cosa vuol dire Dio si è fatto uomo. Davvero oggi entriamo con
rinnovato ardore in questa luce che già ci avvolge e che le tenebre
non hanno vinta.
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venerdì
2 gennaio 2015
– Santi Basilio e Gregorio
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fr Giovanni Battista FMJ
È interessante notare come i testi proposti per
la memoria di oggi, in qualche modo, si integrino a vicenda, perché
nel vangelo abbiamo sentito quanto Gesù insiste, nel riportare le
relazioni all'interno della comunità al loro fondamento comune, alla
loro base autentica che è la figliolanza, il nostro essere tutti
figli dello stesso Padre in Cristo, e di conseguenza, il nostro
essere tutti fratelli e, infine, tutti discepoli (non fatevi
chiamare Guide perché uno solo è la vostra guida). Così in questo
modo viene esclusa per sempre ogni possibilità di ritenersi
superiori, in quanto a dignità, degli altri; non ha senso, non ha
fondamento ritenersi superiori, per due ragioni: perché ciò che
siamo non viene da noi, ma è dono di Dio, è l’adozione figliale che
ci rende figli e fratelli, che ci dà la nostra dignità; e poi perché
questo dono non è un dono fatto solo a me ma è un dono che si basa
sulla scelta di Dio, sulla chiamata di Dio che è rivolta a tutti.
Però dobbiamo confrontarci anche con la prima lettura nella quale si
riprende in modo abbastanza chiaro questa idea di una origine comune
di ciò che siamo, di ciò che valiamo (un solo Dio e Padre di tutti,
che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente
in tutti); ma Paolo, a questo punto, fa un passo ulteriore. Scrive:
“A ciascuno di noi (per cui ora non c’è più solo uno sguardo
comunitario ma personale), tuttavia, è stata data la grazia secondo
la misura (katà tò métron – secondo il metro) del dono di Cristo (il
latino ha “donationis Christi”, quasi, potremmo dire, del suo
donarsi). Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di
essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di
essere pastori e maestri … allo scopo di edificare il corpo di
Cristo.” Nel nostro linguaggio spirituale ed ecclesiale in genere
questa articolazione tra ciò che è comune e ciò che è personale
siamo soliti esprimerla nei termini di unità nella diversità, unità
nella pluralità.
Ora, perché oggi il lezionario dei santi ci
propone questi due testi? Sicuramente per diverse ragioni ma una,
credo, è per il fatto che Basilio e Gregorio erano davvero grandi
amici, veramente grandi e nell’amicizia noi troviamo questo stesso
criterio di unità nella diversità che abbiamo visto prima. Ci basti,
per renderci conto di quanto erano davvero una cosa sola, ascoltare
cosa scrisse Gregorio in un suo epigramma, il primo, dedicato a
Basilio che era morto prima di lui (lui morirà 10 anni dopo): “Che
un corpo vivesse senz’anima credevo, non io senza di te, Basilio,
servo caro di Cristo.” Davvero si volevano bene con un affetto
intenso, un amore così vero che non ha mai soffocato la loro libertà
di essere se stessi e neanche la libertà di dirsi ciò che pensavano,
non senza momenti di forte tensione. Ecco l’unità nella diversità.
Questi due amici che la Chiesa ricorda insieme
oggi ci fanno pensare allora a una dimensione che forse, nel
linguaggio cristiano e catechetico, rimane un po’ trascurata, che è
quella dell’amicizia. Anche l’amicizia, come la fraternità, è un
dono di Dio, è qualcosa che viene dal Signore. Ma è un dono che, a
differenza di altri doni, per esempio una grazia specifica o un
beneficio materiale che noi chiediamo perché magari ne abbiamo
bisogno e lo otteniamo da Dio, punto e basta e qui si conclude
l’atto di donazione di questo bene da parte di Dio, con l’amicizia
non è così. Perché l’amicizia è un dono che va custodito, è un dono
che noi possediamo se conserviamo sempre anche il donatore cioè il
Signore che continua a donarci il bene dell’amicizia. Forse mi
spiego meglio usando le parole di san Tommaso che contempla due modi
di essere amico. Dice: “Si può amare una persona in due modi. Primo,
per se stessa: e in questo non si può avere amicizia che per un
amico. Secondo, si può amare qualcuno a motivo di un’altra persona:
come quando, per l’amicizia che uno nutre verso un amico, ama tutti
coloro che gli appartengono, siano essi figli, servi, o in qualsiasi
altro modo a lui attinenti. E l’amore può essere così grande da
abbracciare per l’amico quelli che gli appartengono anche se ci
offendono e ci odiano. Ed è così che l’amicizia della carità si
estende anche ai nemici, i quali sono amati da noi con amore di
carità in ordine a Dio, che è l’oggetto principale di questa
amicizia.” (Somma teologica II-II q. 23, art 1)
A noi dunque, cari fratelli e sorelle, Gesù che
nel Suo Natale viene nella carne proprio per intrattenersi con gli
uomini come con amici, viene consegnato questo nuovo e straordinario
modo di essere amici, un modo che, a questo punto diventa
potenzialmente universale. Non sarà più basato solamente sulla
nostra scelta umana dell’amico o degli amici (seleziono quelle
persone con le quali posso stabilire una relazione migliore, che mi
vanno a genio, rispetto ad altre che non ritengo valide per questo
fine) ma sarà un rapporto che si appoggia, si inserisce, diciamo
così, nella scelta che Gesù fa dei suoi amici (che diventano anche i
nostri). L’amicizia cristiana è dunque un movimento non
semplicemente diretto, immediato uomo-uomo (sarebbe ancora parziale)
ma mediato dall’Amico Gesù. È dono di Dio, è dono del Signore che ci
offre la sua amicizia verso gli uomini, ma è impegno per noi a
rimanere in questa mediazione dell’Amico Gesù. Se noi escludiamo,
non mettiamo al centro l’Amico Gesù, crolla ogni possibilità di
amare coloro che andrebbero al di là della nostra scelta personale,
soggettiva. L’essere amici, in questo senso, supera addirittura la
semplice e già altissima, dimensione della reciprocità per
collocarsi piuttosto in un rapporto a tre che ha Dio al centro.
Davvero allora, grazie alla testimonianza dei due
amici Basilio e Gregorio, che a questo punto sono anche nostri
amici, possiamo oggi scoprire che grandi doni, anche umani, cioè che
rendono bella e piacevole la nostra vita, il Signore venuto nella
carne, ci fa. Benediciamolo di cuore per questo e benediciamo anche
tutti i suoi e nostri amici.
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