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                    OMELIE anno 2014

  

                                      Santa Maria Assunta alla Badia Fiorentina

 

 

 

 

venerdì 26 dicembre 2014 – Santo Stefano - fr. Giovanni Battista FMJ

 

La liturgia qualche volta è un po’, per così dire, prepotente; prepotente perché non si adatta a nostri sentimenti, non è lei a seguire noi e i nostri movimenti interiori, i nostri gusti spirituali o le nostre devozioni, ma siamo noi che ci lasciamo guidare, orientare, prendere per mano dal cammino dell’anno liturgico, che qualche volta ci sorprende per le vie dove ci porta. Una di queste sorprese è proprio il giorno di santo Stefano, che è addirittura una festa, neanche una memoria, ma proprio una festa che neanche l’Ottava di Natale, e in genere le ottave, di Pasqua e di Natale, prevalgono su tutto, riesce ad annullare. Ecco oggi, anzitutto, accogliamo questo contrasto forte, fortissimo, tra il Natale del Signore che ancora stiamo celebrando per otto giorni, e questa festa di santo Stefano che per quanto gloriosa è carica di violenza. Ed è proprio una violenza che la liturgia non elimina, non attenua e non nasconde. Abbiamo ascoltato le prima lettura, ma anche il vangelo, e mi dico davvero, ma quanta violenza! “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio udendo le parole di Stefano, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano. … Gridando a gran voce si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E poi ancora il vangelo si conclude con una frase che compendia tutto senza bisogno di aggiungere altro: sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Quasi, cari fratelli e sorelle, ci sentiamo presi in giro: ieri gli angeli cantavano spensierati: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà, come traduceva Girolamo, e come noi abbiamo cantato poco fa nel gloria, e oggi ci diciamo: ma dove sono andate a finire sia la gloria di Dio che la pace sulla terra. Dove sono andate a finire?
 

In genere, nei vangeli, quando gli apostoli non capivano qualcosa di ciò che il Signore diceva loro, era perché rimanevano ad un livello immediato, diretto, terreno, della comprensione delle sue parole. E allora Gesù li accompagnava nella giusta comprensione. Forse se oggi noi non capiamo è perché abbiamo bisogno anche noi di essere accompagnati verso la giusta comprensione di cosa sia questa pace sulla terra. C’è un passaggio interessante di san Massimo di Torino che dice: “Badate ciò che dissero gli angeli! Non dissero “pace agli uomini”, cioè a chicchessia, ma “agli uomini di buona volontà”, perché intendiamo che la pace del Cristo non è un diritto naturale ma una conquista morale. Infatti non la si acquista per nascita ma con la volontà, non la merita l’umana malizia ma la cristiana bontà; poiché non è regalata a tutti ma offerta ai degni, non è da distribuire gratis, ma da cercare con diligenza.” (S. LXI c.)

 

Santo Stefano che muore fissando il cielo oggi è per noi icona autentica di accoglienza di questa pace che Dio da agli uomini, un uomo che è così non tanto per una forza sua, per una capacità stoica di sopportazione del dolore, della maldicenza, degli oltraggi, di tutto ciò, insomma, che minaccia la pace e ci sprona a reagire, a vendicarci, ma perché Stefano ha il cuore pacificato, ha il cuore abitato dalla pace di Cristo a tal punto da morire, l’abbiamo visto, a morire come Lui, senza alcuna alterazione, se non in direzione mistica mentre contemplava il cielo, della sua capacità di amare e perdonare. Questa è stata la sua conquista morale, come diceva san Massimo, questo è stato il suo essere degno, il fatto di essersi lasciato conquistare dalla mansuetudine di Cristo che ha conservato il suo cuore puro come quello di un bambino. Stefano fu veramente un figlio di Dio. Pensiamo che scalpore avrà sicuramente provocato la sua morte nella chiesa nascente, perché era il primo a venire ucciso, era la prima volta che la fede in Gesù portava qualcuno a morire, era, come dire, la morte che entrava per la prima volta nella chiesa. Ma una morte vissuta così non è morte, è vita che si rinnova per lui e intorno a lui; infatti, intorno a lui, c’era un giovane chiamato Saulo.

 

Cari amici, Gesù Bambino che ancora non abbiamo finito di cantare per la sua venuta come Salvatore, è proprio così che salverà tutta l’umanità: viene per donare la vita. “Non a caso l’iconografia natalizia rappresentava talvolta il divino Neonato adagiato in un piccolo sarcofago, ad indicare che il Redentore nasce per morire, nasce per dare la vita in riscatto per tutti. (…) Per i credenti, il giorno della morte, ed ancor più il giorno del martirio, non è la fine di tutto, bensì il "transito" verso la vita immortale, è il giorno della nascita definitiva, in latino dies natalis. Si comprende allora il legame che esiste tra il "dies natalis" di Cristo e il dies natalis di Santo Stefano. Se Gesù non fosse nato sulla terra, gli uomini non avrebbero potuto nascere al Cielo. Proprio perché Cristo è nato, noi possiamo "rinascere"! (Benedetto XVI – Angelus 26/12/2006)
Ringraziamo allora quest’oggi il Signore che ci parla attraverso le scelte liturgiche della Chiesa, attraverso questo accostamento così stridente tra Natale e Santo Stefano, che ci aiuta a non rendere troppo

 

giovedì 25 dicembre 2014 Natale del Signore - Messa del giorno - fr. Giovanni Battista FMJ


 

La Messa del giorno del Natale che stiamo celebrando è un po’ come il culmine di questa festa. Una volta entrati pian piano nel Natale del Signore, prima attraverso la Messa della notte con la quale abbiamo ricevuto il grande annuncio della nascita del Salvatore, poi con la Messa dell’aurora stamattina alle 7:30 che ci ha messi in viaggio verso Betlemme insieme ai pastori, adesso, nella Messa del giorno, la liturgia ci vuole far proprio entrare nel mistero, penetrare nel mistero, vuole che tutti questi eventi straordinari che abbiamo toccato con gli occhi del cuore e cantato con le nostre labbra diventino per noi rivelazione, ossia un togliere il velo, il giungere ad un incontro non solo con un evento che ci è stato raccontato, ma in questo evento con il mistero di Dio.

 

I testi che abbiamo ascoltato si mettono a servizio di questa rivelazione, nel senso che ci vogliono fare andare al di là dell’evento, non per superarlo o eliminarlo, ma per non rimanere semplicemente in superficie, per poterlo guardare con quell’intelligenza (intus-legere leggere dentro) che consente a questo evento di entrare in noi. Qual è l’evento? L’evento che oggi celebriamo è un bambino che nasce in una grotta, povero, privo quasi di tutto, accolto, o piuttosto non accolto (non c'era posto per lui nell'alloggio) e dunque costretto ad una sistemazione di emergenza, improvvisata, la culla è una mangiatoia. Al suo fianco una giovane donna che già abbiamo imparato a conoscere durante questo tempo di Avvento, Maria; dall’altra parte un babbo volenteroso, silenzioso e buono di nome Giuseppe. Questo è l’evento. Nulla di attraente, al massimo ne ammiriamo la sobrietà, la povertà, lo spirito di adattamento di questa giovane famiglia. Nulla di divino, diremmo, anzi quasi quasi la scena ci commuove di compassione, ci mette pietà.

 

Eppure proviamo a guardare questo evento con lo sguardo che ci viene dalla Scrittura, dai testi che oggi abbiamo ascoltato:“Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio. (…) Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza.” Sentite che parole potenti! Questo bambino è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.”E poi ancora l’inesauribile ricchezza delle parole del prologo di san Giovanni: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Noi oggi, cari fratelli sorelle e amici, ci troviamo davanti ad una teofania, ad una manifestazione di Dio molto più eloquente di quella del monte Sinai. Perché questo bambino è Dio! Questo bambino è il Dio onnipotente ed eterno che ora si lascia vedere, si lascia toccare, diventa evento umano.

Noi forse siamo o troppo abituati a sapere che Gesù è Dio, oppure neanche ci pensiamo più, per cui non c’è rischio di abitudine perché nemmeno ci si pensa (e quante volte il Natale rischia di passare senza che ci si fermi un po’ a pensare al senso di questa festa). Noi oggi vogliamo aprirci a quella meraviglia dei pastori, allo stupore di Maria che ci fanno rendere conto un pochettino che Dio si è fatto uomo, Dio ha voluto prendere parte, partecipare in pieno alla nostra storia umana, così ricca di potenzialità ma anche di contraddizioni. Ormai l’Eterno ha posto, per sempre, la sua dimora in mezzo a noi. Questa è il primo lieto messaggio che la Chiesa da secoli non cessa di annunziare con ogni forma di linguaggio e in ogni cultura, fino ai confini della terra. Questo bambino, quest’uomo nato in un angolo sperduto del tempo e della storia è Dio. Dio è apparso tra gli uomini, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, ci ha detto san Giovanni. Che cosa straordinaria, cari amici! Dio viene sulla terra! Sembra quasi una cosa troppo bella per essere vera. Potremmo quasi dire che il dubbio di fede se viene non viene perché siamo davanti a un assurdo, non deriva dal fatto che può sembrarci fantascientifico pensare che Dio possa vivere con gli uomini, queste obiezioni non bastano se pensiamo che qui si parla di Dio e che Dio dunque può fare quel che vuole perché nulla a Dio è impossibile, se no non sarebbe Dio. Io direi quasi che se ci viene qualche dubbio può essere dovuto semplicemente al fatto che ci troviamo davanti ad un evento troppo bello, troppo straordinario per trovare posto nella nostra capacità di gioire e di stupirci che spesso non va al di là di noi stessi e della soddisfazione dei nostri desideri. Qui, cari amici, non si tratta eventualmente di un problema di fede ma di un problema di gioia. Abbiamo bisogno di un cuore che sappia dilatarsi fino all’ampiezza delle cose di Dio, convertirsi alla gioia di Dio, di un Dio che sceglie per amore, di vivere in mezzo a noi e con noi.

 

Ma c’è un secondo annunzio, connesso a questo primo, che si accompagna a questa rivelazione che oggi vogliamo riscoprire o forse scoprire per la prima volta. E cioè che questo evento divino che si manifesta a Nazareth, questo bambino che nasce e che abbiamo visto essere non un bambino qualunque ma la presenza di Dio stesso sulla terra e in forma umana, ha qualcosa da dirci. Anzi, dobbiamo dire di più: non solo ha qualcosa da dirci ma è Lui stesso Parola. Dio ora parla a noi attraverso il Figlio. Gesù Bambino che nasce oggi è Parola rivolta all’umanità intera e, in particolare, a ciascuno di noi. E cosa ci dice questa parola? Ci dice: io nasco per te! Come un giorno morirò per te, così io oggi nasco per te. Ma chiediamoci: cosa vuol dire che Gesù nasce per me? Che cosa viene a me, che guadagno ne ho io da questa nascita? Ancora san Giovanni ci risponde: “Venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio.” Ancora, che parole potenti, straordinarie, cari fratelli: oggi ci viene dato il potere di diventare figli di Dio. Cioè colui che noi oggi contempliamo e adoriamo con cuore stupito e ancora forse trepidante, ancora incredulo, come quando gli apostoli videro per la prima volta il Risorto e il vangelo ci dice “per la gioia così grande non riuscivano a credere” Lui non nasce per se stesso, ma per trasformare anche noi, per grazia, in ciò che Lui è. Anche noi oggi siamo chiamati, invitati, spronati fino a tal punto da far venire Dio sulla terra per dircelo con tutta la sua vita donata, a diventare figli di Dio. Che miracolo! Che prodigio! È per questo allora che noi in questo Natale non solo celebriamo il Natale di Gesù ma, in Lui celebriamo anche il nostro natale, la nostra nascita come figli di Dio. A noi ci è stata data questa nuova vita, che non distrugge la prima ma la divinizza: Dio si fa uomo, insegnavano i Padri, per farci diventare Dio, in quello che veniva chiamato, definito, il “mirabile scambio, il mirabile commercio”. E vedremo, pian piano, da qui alla Pasqua, cosa vorrà dire per questo Gesù che oggi nasce, si fa uomo per farci diventare Dio. Sarà un cammino che stravolgerà totalmente tutte le nostre visioni e di Dio e dell’uomo per rifonderle, riplasmarle secondo l’unico senso che può pensare di comprenderle, di spiegarle e di manifestarle che è l’amore, perché Dio è amore.

 

E infine vorrei concludere con una piccola considerazione su come vivere il Natale. O più che una considerazione, con una domanda che pongo a me e che invito ciascuno di noi a porre a se stesso? Una specie di test che ciascuno può proporre a se stesso: se oggi sono felice perché è Natale, perché sono felice? Qual è il senso della mia felicità? Forse perché ho preparato o mi preparo ad un bel pranzo? Forse perché ho ricevuto oppure ho fatto ad altri dei bei regali? Forse perché rivedo amici, famigliari e parenti che non vedo de tempo? Ebbene, cari amici, gioiamo certo di tutte queste cose belle, e guai se non fosse così. Ma vi prego, non permettiamo che l'ornamento valga più di ciò che viene ornato; non permettiamo, in altre parole, che i festeggiamenti prendano il posto della vera festa, della vera gioia che deve abitare il nostro cuore. Cos'è la vera gioia? Chi è la vera gioia? È Gesù la nostra vera gioia!

Allora carissimi, lo dico a voi come lo dico a me, lasciamo che sia il Signore che viene tra noi ad essere la gioia del nostro Natale e scopriremo che il Natale non avrà mai fine perché colui che viene, ce lo ha promesso, sarà con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo.

 

giovedì 25 dicembre 2014 Natale del Signore - Messa dell’aurora - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Questo Messa che stiamo celebrando, cari fratelli e sorelle è detta messa dell’aurora, certo per l’orario mattutino, ma anche credo per un senso più profondo. Perché oggi è l’aurora di un nuovo giorno! Nuovo non solo perché successivo, e dunque nuovo rispetto a quello di ieri, ma nuovo in senso qualitativo, in senso superiore. Oggi, nel presente della liturgia, il presente del mistero, viviamo un giorno che è nuovo perché è illuminato da un nuovo sole, come aveva profetato Zaccaria, l’abbiamo sentito ieri, verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge. Oggi ci viene data una nuova fonte di luce e di calore, e con un sole nuovo cambia tutto, cambiano i colori, perché cambia la luce, cambia la nostra capacità di vedere, di guardare e guardarci, cambia la temperatura sulla terra, c’è una nuova percezione del calore, cambia dunque il clima, le coltivazioni cioè il frutto della terra. Tutto oggi cambia perché tutto dipende dal sole nuovo che appare all’orizzonte, da Dio è sceso sulla terra per venire ad abitare con gli uomini, l’Emmanuele, il Dio con noi.

 

Il vangelo di oggi, ma anche la seconda lettura di Paolo a Tito, ci fanno capire attraverso tutto un linguaggio fisico, un linguaggio che tocca i sensi, che davvero è entrato qualcosa di nuovo, un nuovo sole sulla terra. Proviamo a riascoltare, facendo particolare attenzione ai verbi, che sono verbi di visione e di movimento: quando apparvero la bontà di Dio; egli ci ha salvati con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo. E nel Vangelo i pastori si dicevano l’un l’altro: Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere: andarono e trovarono e alla fine, dice il testo, i pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Il Natale, cari fratelli e sorelle, inaugura un nuovo tipo di relazione con Dio, una relazione che assume i tratti dell’umano, Dio entrando nella storia come nuovo Sole che sorge investe anche tutta la creazione, e in particolare l’uomo che è l’apice della creazione, consegnandogli un modo totalmente nuovo e sconosciuto prima d'ora di relazionarsi con Lui. Perché dal Natale in poi l’uomo può relazionarsi con Dio come con un altro uomo. Dio scende per porsi al nostro livello, per dirci: io voglio che tu mi veda, che tu mi parli, che tu sia te stesso, umano, umanissimo quando ti accosti a me, e per questo mi sono fatto uomo come te, pur rimanendo Dio. Perché tu in me uomo possa vedere Dio, perché tu in me possa vedere la bontà e l’amore per gli uomini fatto carne, perché tu, tra i miei fratelli uomini, possa ancora trovarmi e toccarmi.

 

Allora cari amici, in queste prime luci di un giorno inedito che oggi sorge sulla nostra storia, riviviamo questo evento, questo incontro col mistero fatto carne insieme a coloro che per primi hanno visto questa luce nuova, che sono i pastori. Le parole d’ordine per noi stamattina sono gli stessi verbi che hanno messo in moto i pastori: andiamo, vediamo, troviamo. Gesù bambino attrae tutti a sé, eppure sono gli umili, i piccoli che vegliavano nella notte i primi ad accogliere questa chiamata, a sentirne i l fascino, ad avvertire il desiderio di vedere ciò che già, tramite l’angelo avevano conosciuto. Questo loro desiderio sia oggi il nostro desiderio: vedere ciò che già conosciamo, andare fino a Betlemme e vedere questo evento che il Signore ci ha fatto conoscere. Davvero oggi non accontentiamoci di conoscere, di sapere, di avere delle buone e sante immagini o idee in testa, ma chiediamo quest’oggi, come per i pastori, la grazia di vedere, di incontrare nel Natale del Signore quel Bambino che è la nostra salvezza e che chiede di essere accolto come uno di noi e in ognuno di noi. Questa è l'umiltà di Dio.

 

mercoledì 17 dicembre 2014 – Feria di Avvento - fr. Giovanni Battista FMJ


Il vangelo di oggi ci può sembrare un po’ noioso, e forse nell’ascoltarlo effettivamente lo è. Abbiamo tutta questa lunga serie di nomi, antenati di Gesù, un elenco che apparentemente poco ci serve per la nostra vita, la nostra meditazione, per nutrire il nostro rapporto con il Signore. Eppure se Matteo, come anche Luca in una sua versione differente, ci offrono questa specie di albero genealogico di Gesù, un motivo ben preciso ci sarà.

 

Una prima ragione è di carattere, potremmo dire, biblico ma anche giuridico. Matteo infatti con questo testo che pone all’inizio del suo vangelo vuole rendere ragione di un aspetto che, se forse per noi potrebbe essere trascurabile, non lo era per lui e per Israele. E cioè che veramente Gesù è figlio di Davide e figlio di Abramo. Gesù si pone in perfetta continuità con tutta la storia che lo precede: non è un fulmine a ciel sereno, non è un nuovo Dio che scende sulla terra come se nulla prima fosse accaduto, come se vane o inutili fossero state le promesse del Dio dei Padri, non è l’inizio di una storia diversa rispetto a tutto quello che è accaduto prima. No, Gesù è il figlio di Abramo, il nostro padre nella fede, il primo chiamato, il padre di molti popoli; ed è anche l’erede vero, autentico del trono di Davide sul quale erano state depositate tutte le attese messianiche. Ricordiamo bene la profezia di Natan a Davide: “Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? (…) ma “il Signore ti annuncia che (lui) farà a te una casa (nel senso di un casato, una discendenza)” (non tu a lui). Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno” (2 Sam 7, 5.11-12). Vedete dunque come la venuta di Gesù era preceduta da tutta questa storia in attesa, da tutte queste promesse che giacevano nel cuore di Israele e che ora, finalmente, trovano in Cristo tutto il suo compimento.

 

Tutto questo, cari fratelli, cambia il modo di concepire la storia, di leggerla, di interpretarla. Perché a questo punto capiamo bene che la storia passata, il tempo trascorso, non avevano in se stessi il loro senso ultimo; gli eventi, le nascite, e anche la comprensione che i profeti offrivano di tutto quanto era significativo per il cammino di Israele, giaceva tutto sotto un velo di incomprensione di mistero che solo con Gesù sarà tolto, sarà appunto rivelato. Ecco qui una della finalità, dei perché Matteo decide di aprire il suo vangelo con questa genealogia.

 

Ma possiamo dire di più, possiamo dire che, se la storia non ha in sé il suo senso ultimo ma lo riceve da Gesù chiave della storia, io posso muovermi nel tempo non solo con un movimento dal prima al dopo, secondo l’andamento naturale e anche necessario degli eventi, ma anche dal dopo al prima, cioè partire dall’evento di Cristo che viene, che entra nel tempo, e da qui ripercorrere tutto il passato, tutto quanto c’era prima, tornare indietro e fare di tutto il passato, spesso nebuloso e ambiguo, una rivelazione nuova. E questo cari amici è straordinario, perché qui noi abbiamo un Salvatore che spezza, che infrange l’andamento dei tempi, che non si lascia determinare dalla necessità progressiva dei giorni, dei mesi, dei secoli che passano come se fossero loro a scrivere definitivamente la storia e a decidere il futuro. No, il Cristo, alfa e omega, che è sempre lo stesso ieri oggi e sempre è Signore della storia. E questo vale anche per la nostra piccola storia personale che il Signore vuole redimere, guarire, liberare dalla definitività degli eventi. Se il tempo che passa può suscitare rimpianti, angoscia, alimentare sensi di colpa, se non perfino portare alla disperazione se davvero ci tiene intrappolati in quanto ormai è successo e non si può più cambiare, se questo determinismo cronologico può valere per noi, non può tuttavia avere alcun effetto sul Signore della storia. Cristo, cari amici, quando lo lasciamo entrare nella nostra vita così come è entrato nella storia di Israele, può cambiare anche il nostro passato.

 

Se non in senso cronologico o materiale, può cambiarne il senso, può cambiarne il peso per il nostro presente. Ecco perché, per esempio, in ambito spirituale si parla di purificazione della memoria. Purificazione della memoria non è alterazione della memoria, non è ingannarsi credendo una cosa invece che un’altra, ma è l’incontro di Gesù Signore con il nostro passato che a questo punto viene consegnato, ora, nel presente, a questo Dio onnipotente che va ad intervenire anche sulle conseguenze necessarie di quanto è già accaduto. Purificare, a questo punto, significa, inverare. E uno dei luoghi sacramentali privilegiati di questo incontro, per esempio, è il sacramento della riconciliazione in cui il passato viene consegnato a Gesù Crocifisso, e se è consegnato allora non ci appartiene più come prima, non è più una storia nostra, profana, individuale, ma diventa la sua storia, e per noi diventa storia salvifica.

 

L’anno liturgico ci offre, per così dire, varie finestre in cui il Cristo torna ad entrare, in modo speciale, nella storia. Ecco, una di queste, è proprio il Natale. Si tratta proprio di uno di quegli eventi nel nostro tempo carichi di mistero, carichi di presenza, in cui la nostra dimensione, come dire, entra in contatto con la dimensione dell’eterno, col Regno presente.

 

Davvero allora, lasciamo ancora una volta entrare il Signore nella nostra vita, nel nostro passato, lasciamolo lavorare sul nostro passato, lasciamolo, in certo senso, riscrivere il nostro passato, e scopriremo la grandiosa libertà di chi si scopre nelle mani del Signore più che nelle mani di quanto ormai è accaduto e che qualche volta sembra dominare il nostro presente più di quanto lo possa dominare Dio stesso.

 

martedì 9 dicembre 2014 II settimana d'Avvento - fr. Giovanni Battista FMJ


Questo brano si conclude con una delle frasi credo più potenti del nuovo testamento, più potenti perché ci rivela qualcosa del cuore di Dio. È Gesù che ci trasmette il pensiero, il volere del Padre: il Dio onnipotente e creatore di tutto ha un desiderio profondissimo ed urgentissimo nel suo cuore: che neanche uno di questi piccoli si perda. Vedete, neanche uno! Il Padre non segue una logica di quantità, non si preoccupa soltanto del gregge nella sua globalità, ma il cuore del Padre è un cuore che desidera ardentemente ogni membro del suo gregge, ciascuno è voluto, amato e anche cercato personalmente. Davvero questo basta per farci perdere nell’amore di Dio. Chiediamoci anzitutto se questo amore noi lo abbiamo incontrato, se abbiamo cioè consapevolezza quotidiana nella nostra vita che c’è un tale desiderio del Padre per noi. Chiediamocelo sul serio. E chiediamoci anche che cosa fa ciascuno di noi per entrare in questa relazione personale con il Signore, quanto spazio concede a questo incontro con Lui nelle proprie giornate. Questo è un primo punto su cui davvero vale la pena di riflettere un po’ stasera. Questo amore di Dio capace con ciascuno di creare un rapporto personale, un rapporto cioè che sa prendere in considerazione la diversità di ciascuno, le differenze, l’unicità di ciascuno di noi. Questo è amore, questa è l’onnipotenza di un Dio che sa adattarsi a ciascuno di noi per rivolgere ogni volta a ognuno dei suoi figli un tu diverso e speciale, irripetibile.

 

La seconda cosa che vorrei condividervi è la condizione della pecora perduta che si è smarrita. Perché la pecora si smarrisce? Chi lo sa. I Padri ricollegavano giustamente questo smarrimento allo smarrimento di tutta l’umanità e allora il Figlio di Dio lascia il seno del Padre (ecco l’incarnazione) e va a cercare quell’unica pecora che è tutto il genere umano. È forse proprio grazie a questa lettura dei Padri della Chiesa che questo passo viene letto in avvento. Ma la pecora che si smarrisce, come abbiamo visto, non è solo il genere umano nel suo insieme ma è, potenzialmente ogni singolo uomo. E cosa vuol dire quando l’uomo si perde e dunque lascia il gregge, che cosa provoca questo smarrimento? E questo smarrimento non potrebbe essere anche una fuga? La pecora che si perde di fatto si trova a lasciare sia il suo contatto con il pastore che il contatto con le altre pecore. Non è indifferente credo, cari amici, questa duplicità di relazioni perché nel gregge della Chiesa, nel gregge della famiglia di Dio, i legami non sono mai solo in verticale, io e il mio Dio, ma anche in orizzontale, io e le altre pecore del gregge. La pecora che si perde vuol dire che ha rotto uno di questi due legami e, rompendone uno, di conseguenza anche l’altro viene a trovarsi in una condizione di debolezza, di vulnerabilità. Ma la cosa più preoccupante è quando capita che lo smarrimento della pecora accade per il fatto che la pecora non riconosce più nel gregge (gregge + pastore) quel contesto vitale in cui attingere il nutrimento, l’energia, la grazia, e allora va a cercare altrove quello che lì non trova più, è alla mercé delle tante forze attrattive e seducenti che sono lupi travestiti da pecore e mercenari travestiti da pastori. Si pone una domanda allora per ciascuno di noi, una domanda esigente e responsabilizzante: che cosa facciamo noi, che siamo le pecore del gregge (per quanto compete a noi, intendo) per rendere questo pascolo del Signore un pascolo aperto a tutti?

 

 Sappiamo essere un gregge accogliente, un gregge che sa custodire i suoi membri nella loro tipicità e unicità (come si diceva prima), un gregge che di conseguenza soffre se un membro soffre così come gioisce se un membro è onorato? Questo lo domando a me, innanzitutto e anche a voi, perché sono convinto che, in una misura che non sta a noi determinare, anche il gregge sia responsabile se una pecora si smarrisce. Non è solo colpa sua e affare di Dio. Questa frase che Gesù ci ha detto: è volontà del Padre vostro che è nei cieli che neanche uno di questi piccoli si perda, non ce la dice solo per rassicurarci, per dirci, “stai tranquillo c’è Qualcuno che veglia su di te” ma forse anche per consegnarci questa volontà del Padre perché diventi anche nostra volontà, nostro desiderio e dunque nostro impegno. Anche le altre novantanove pecore hanno un ruolo specifico nell’aiutare il pastore a custodire e anche a cercare la pecora smarrita. Crediamo che il gregge non è mai un vero gregge finché non sarà completo, o finché anche sarà diviso, separato. Abbiamo visto di recente quanto il Papa e il Patriarca di Costantinopoli abbiano a cuore la ricostituzione di quest’unico gregge, un’unità che accoglieremo come un dono del Signore ma che chiede impegno, preparazione e anche sofferenza. I due hanno proprio parlato di un ecumenismo della sofferenza. “come il sangue dei martiri è stato seme di forza e di fertilità per la Chiesa, così anche la condivisione delle sofferenze quotidiane può essere uno strumento efficace di unità” (Dich. Congiunta del 30/11/2014) è naturale questo nella Chiesa perché, come dice san Paolo: “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui (1 Cor 12,26). Chiediamo davvero questa sana inquietudine per il gregge del Signore, perché sia un gregge che sa accogliere con affetto, che sa custodire con gratitudine e amore nella sua singolarità chi vi rimane, che sa attrarre e mostrare una vita buona a chi è smarrito. Anche questo credo sia un preparare nel deserto (nel deserto dell’umanità e talvolta anche nel deserto dei nostri greggi) la via del Signore.

 

martedì 9 dicembre 2014 – Commento ora media - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Se la liturgia insiste nel proporci passi della Scrittura che narrano la nascita di un bambino tanto atteso, tanto desiderato ma non possibile, almeno secondo le possibilità della carne, credo che non sia solamente per una ragione di generi letterari, così si abbinano generi simili dell’antico e del nuovo testamento. Forse c’è qualcos’altro che ha spinto i liturgisti a fare questo abbinamento, come un altro ce ne sarà tra pochi giorni con il brano della nascita di Samuele. Un qualcos’altro che vuole suggerirci qualcosa circa il modo giusto di avvicinarsi al Natale del Signore e che possiamo tentare di esprimere nei termini di una gioia particolare che è la gioia che si sperimenta quando viene al mondo un bambino. Dico “tentare di esprimere” perché si tratta di una gioia che solo chi è madre o padre sperimenta nel modo proprio, simile ai protagonisti delle vicende narrate. Ma anche chi non lo è o lo è in modo diverso può trarre uno speciale beneficio da questi racconti. E mi riferisco in particolare a questo incontro straordinario e anche folle, se ci pensiamo, tra la sterilità umana e l’intervento di Dio. Dio interviene su un grembo sterile, Dio dispiega il suo amore di Padre laddove c’è una spazio umanamente indisponibile come lo è un grembo sterile. E la cosa non può davvero non farci riflettere.

 

Anzitutto la dimensione della nascita. Ci prepariamo ad una festa liturgica così bella come il Natale del Signore meditando tutte quelle nascite che sono state il passaggio di Dio nella vita di chi l’aveva implorato, di chi aveva atteso il suo intervento. Eppure in realtà ogni nascita, anche la non attesa, anche la non voluta, anche quella che qualcuno considera imperfetta, anche quella volontariamente rigettata dalla debolezza umana, è un passaggio di Dio, è un miracolo del Dio Creatore che si rallegra dell’uomo come creatura molto buona e molto bella. E allora accogliamo anzitutto un invito ad entrare in questo Natale con questa disposizione, se vogliamo materna, che ci mette davanti all’immenso mistero di un Dio fatto uomo, con gli stessi sentimenti, semplici, famigliari, umanissimi, di chi si rallegra per un bambino. Rimaniamo davvero in questi sentimenti, proviamo a ricevere così il rinnovato annuncio dell’Incarnazione, con la gioia di una nuova vita, che poi sarà la nostra nuova vita, che ci viene donata.

 

E in seconda battuta possiamo riflettere sull’azione di Dio, azione folle, come dicevamo prima, che sembra prediligere i terreni sterili piuttosto che quelli fecondi. È una sorta di capovolgimento dei valori: Dio sceglie ciò che l’uomo esclude, Dio sceglie, come nel caso della sterilità femminile nel contesto ebraico (ma che valeva anche per la verginità), ciò che era considerato quasi vergognoso. Dio sceglie ciò di cui l’uomo si vergogna perché l’uomo non possa fare altro che vantarsi in Dio. E anche questo è il miracolo del passaggio di Dio nei nostri deserti, i deserti che neghiamo, che nascondiamo, quelle cose che riveliamo solo a poche intime persone fidate, qui, proprio qui, il Signore vuole lavorare la terra, deporre il suo seme e prendersi cura di farlo crescere con immensa tenerezza. Natale è la festa della debolezza. I grembi sterili diventano il nido della promessa perché talvolta è solo laddove siamo sterili che ci lasciamo fecondare con grande purezza.

 

Non abbandoniamo allora cari amici questo testo senza lasciarci provocare, interrogare da esso: Cosa facciamo delle nostre sterilità, ossia di quegli spazi in noi che magari ci umiliano dicendoci: tu sei un fallito, tu sei uno che non vale niente, vergognati? Le nascondiamo, le neghiamo, ce ne vergogniamo o le offriamo a Dio, lasciamo arrivare anche lì l’amore e la fiducia che Dio ha in noi? E soprattutto, dove noi andiamo a cercare la nostra fecondità? Nella carne o nello spirito, nella fede o nelle nostre capacità, nella realtà delle cose o solo nell’apparenza e nella fama, nel “si dice”. Gesù vuole nascere. A noi, in noi, il disporre la mangiatoia dove vogliamo che egli venga a dimorare e a guarirci.

 

giovedì 4 dicembre 2014 – Ia settimana Avvento - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Riceviamo oggi dal Signore queste due immagini che tante volte forse abbiamo contemplato, meditato, fatte nostre. Quella della casa costruita sulla roccia, fondata sulla roccia, e quella che si innalza sulla sabbia. E attraverso queste due immagini Gesù ci vuole presentare due modi apparentemente simili, in realtà radicalmente differenti, di vivere. Dico che sono due modi simili perché in entrambi i casi si costruisce una casa; e possiamo dire anche di più: esteriormente le due case potrebbero essere anche identiche, perfette, se non anche più ricca e meglio progettata l’una piuttosto che l’altra. Eppure, come abbiamo sentito, non sta qui la vera differenza. Non sta in quello che si vede, in quello che appare, il segreto della solidità della struttura, potremmo dire che non sta nella casa stessa in quanto tale la forza che la tiene in piedi quanto piuttosto in ciò a cui la casa si aggrappa, si appoggia, si fonda, appunto.

 

Da queste considerazioni possiamo trarre qualche spunto di riflessione: anzitutto una constatazione: la casa, da sé, non sta in piedi; una casa non può auto-fondarsi, cioè non può essere fondamento a se stessa, ma sempre, sia nel primo che nel secondo caso, la casa dovrà chiedere a qualcos’altro di sostenerla. E io credo che sia importante, importantissimo per ciascuno di noi essere consapevoli di questa fragilità esistenziale strutturale che ci caratterizza tutti, nessuno escluso. Tutti, cari fratelli e sorelle, abbiamo bisogno di qualcosa che ci tenga in piedi, qualcosa o qualcuno a cui appoggiarsi. Non c’è nessuno che possa dire: io sto in piedi da me. Dire questo sarebbe ingenuità, sprovvedutezza prima che orgoglio. Tutti abbiamo bisogno di un fondamento. È già una conquista umana, oltre che spirituale, capire questo perché finalmente ci si libera dall’ideale illusorio di essere dei piccoli mondi autarchici che devono farcela a tutti i costi con le loro sole forze. Del resto la vita di santità, non dimentichiamolo, è compimento dell’umano, è pienezza dell’umano ma non è alienazione dell’umano, non è disumanizzazione o abbandono dell'umano anche qualora si trattasse di un ideale di uomo più rispondente a valori utilitaristicamente più gratificanti, quali per esempio, l’efficienza, l’inerranza, la perfezione, la fama, o anche a quegli obbiettivi che si prefiggono pratiche come l’eugenetica, la selezione degli embrioni, per esempio, perché non considerati forse come veramente umani come lo vorremmo noi. Ringraziamo davvero il Signore per come ci ha fatto, così come siamo, uomini e donne chiamati alla pienezza di quello che sono.

 

C'è una seconda considerazione che possiamo fare: se questo fondamento c’è per forza, quali saranno le sue caratteristiche? Ce n’è una che è comune a tutti i tipi di fondamento, perché fa parte della natura stessa dell’essere fondamento che è quella, giustamente, dello stare sotto, dello stare in basso, e dunque del non essere visibile. Ciascuno ha un fondamento nascosto che solo lui può individuare, ed è per quello che lo si può anche ignorare, perché sta sotto, sta dentro, e finché noi si vive in superficie non si capirà mai qual è il nostro fondamento.

 

Ora, da quanto abbiamo detto possiamo chiederci: se ho un fondamento qual è questo fondamento? Non sempre è facile capire che cos’è ciò a cui ci appoggiamo veramente, ma il brano di oggi ci dice che nella vita arrivano delle situazioni che mettendo alla prova la solidità della casa ne rivelano anche il fondamento: cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa. Diciamo che sono degli eventi che in qualche modo possono ricollegarsi, hanno una parentela con quanto Paolo, in modo misterioso, ci descrive in una sua lettera quando dice: “Ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo … e l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno”. Ci sono situazioni nella vita che ci obbligano, se vogliamo sopravvivere ad esse, a ritornare al nostro fondamento, e forse anche a scoprirlo. Se il Signore permette che sperimentiamo un po' questo fuoco stiamone sicuri che è per un bene superiore. E qual è questo bene? Il bene di trovare il nostro fondamento, di scoprire a cosa ci aggrappiamo, ed eventualmente anche di cambiare fondamento.

 

Quanto è importante, cari amici, imparare a scavare in profondità, o piuttosto, a lasciarsi scavare in profondità prima e durante la costruzione della casa. Vedete, il SigNore ci ha offerto oggi questi 2 modelli di religiosità: quello che ascolta e fa e quello che ascolta e non fa. Ma io credo che a questi 2 tipi potremmo aggiungerne un terzo: quelli che fanno senza ascoltare; l'importante è fare, è costruire, poi se quello che stanno costruendo sia veramente "la volontà del Padre " per loro, questo è quasi secondario, forse non se lo chiedono nemmeno, perché al centro c'è la loro casa, il loro progetto. Ecco, anche questi che fanno senza ascoltare rischiano di trovarsi nella stessa situazione di chi ascolta e non fa, di chi costruisce sulla sabbia. Noi oggi vogliamo allora accogliere questo invito ad una vita e ad una crescita cristiana completa come di chi costruisce sulla roccia. Né ascolto né obbedienza possono mancare perché sono i due volti di una medesima realtà che è il radicarsi della Parola di Dio in noi. Se la lasciamo radicare in noi, se ci lasceremo scavare nel profondo, tutta la nostra vita sarà questa casa che si innalza salda sulla roccia e che le tempeste potranno scuotere ma mai sradicare.

 

martedì 3 dicembre 2014 – Ia settimana Avvento - fr. Giovanni Battista FMJ
 

Il nostro cammino di avvento, giorno dopo giorno, ci introduce sempre più profondamente in questo tempo così ricco di attesa e di speranza. Oggi accogliamo un vangelo che ci chiede non solo di ascoltarne i contenuti, capirne il senso, ma che anzitutto ci esorta ad accogliere un invito ad entrare, a prendere parte a questa gioia di Gesù nello Spirito Santo, come abbiamo sentito. Se noi riusciamo a divenire un pochino partecipi di questa esultanza così particolare che Gesù sperimenta nel brano d'oggi, tutto il resto, potremmo dire, verrà un po' da se stesso. La prima cosa è dunque questo fare nostro lo stupore di Gesù che è sbalordito, entusiasta del Padre suo che comunica, dialoga, sceglie i piccoli per rivelarsi. Questo basta a Gesù per rallegrarsi e questa gioia di Gesù credo proprio che sia la porta giusta per entrare in questo vangelo. Perchè è solo quando noi partecipiamo di questo stupore di Gesù per un Padre che si rivela ai piccoli, che anche in noi sboccia il desiderio di metterci tra questi piccoli. Fino a quando anche noi non faremo esperienza che proprio della nostra piccolezza il Signore si rallegra, avremo sempre, da un lato vergogna di ciò che caratterizza la nostra piccolezza, e, d'altro canto, smania, bramosia di appartenere a tutti i costi a quei sapienti e dotti che se, se sono tanto in vista nel mondo, rimangono però dei poveri di Dio. Oggi allora anzitutto chiediamo come grande dono, grande grazia di inizio Avvento, di entrare in questa gioia di Gesù, quella gioia che penetra così profondamente nel cuore dell'uomo (perché è esperienza dello Spirito) da guarirlo ed evangelizzarlo profondamente, in altre parole, di convertirlo.

 

A questo punto però non dobbiamo perdere di vista che questo testo la liturgia ce lo propone per il tempo di Avvento. Allora chiediamoci: che cosa vorrà dire, a noi, che ci prepariamo al Natale del Signore che sarà proprio questo grande rivivere la nascita del nostro Salvatore? Parlare di nascita del Salvatore significa parlare di rivelazione, che è proprio una parola chiave del brano di oggi: hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Oggi allora è come se, proprio mentre stiamo muovendo i primi passi nel cammino dell'avvento, il Signore ci desse un piccolo ma importante avvertimento che potremmo tradurre, parafrasare in questi termini: attenzione, solo chi è piccolo, solo i piccoli saranno i destinatari del mio Natale, nel senso che solo chi è piccolo potrà vivere il Natale come una rivelazione del Salvatore. I grandi, i sapienti, i dotti vivranno sì il Natale ma non come una rivelazione: sarà un giorno festivo, un tempo di vacanza, ma non una rivelazione, cioè un incontro con colui che si rivela nella piccolezza e ai piccoli. Infatti, come ben sappiamo, saranno proprio dei pastori i primi sui quali risplenderà il volto radioso del Dio fatto uomo. Allora, questo cammino di avvento sia un cammino non solo di attesa, ma anche, nei modi che il Signore disporrà per ciascuno di noi, un cammino di discesa in quella santa piccolezza, che in fondo si radica nel nostro essere figli di Dio, che c'è in ciascuno di noi. Una piccolezza che c'è già in noi, non va tanto creata, conquistata e, men che meno simulata, ma va accolta e abitata, perché sarà proprio lì che il Signore verrà a visitarci. Anche a noi Gesù possa dire: Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete.

 

giovedì 27 novembre 2014 – XXXIV settimana T.O.  - fr. Giovanni Battista FMJ


 

In questi ultimi giorni dell’anno liturgico la nostra lettura continua del vangelo di Luca si sofferma abbastanza a lungo su questi testi complessi, enigmatici, non facili da capire anche se la storia poi già ha offerto eventi che in modo abbastanza immediato ci consentono di capire a che cosa si riferissero parole come quelle di oggi, per esempio quando si parla di Gerusalemme, circondata da eserciti, Gerusalemme calpestata dai pagani.

Quella storica è una chiave di lettura che trova effettivamente una conferma negli eventi dell’epoca, come si diceva nei giorni scorsi, quando si faceva riferimento alla caduta di Gerusalemme dell’anno 70. Ma il vangelo di oggi credo che si presti ad un’interpretazione non solo di tipo storico, che rimane tuttavia una chiave di lettura legittima almeno per una parte del brano di stasera, una prospettiva di lettura che forse ha ancora molto da dirci, se pensiamo, per esempio, a certe espressioni che rimangono ancora un po’ degli interrogativi che probabilmente attendono, domandano un compimento: Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti. Cosa sono questi tempi dei pagani? C’è chi li considera come il sinonimo della pazienza di Dio, cioè, quel lungo e costante attendere di Dio, come il padre misericordioso sulla porta di casa, che veglia nella speranza che il figlio, l’umanità tutta, entri nella sua salvezza. Forse a qualcuno verranno in mente, a questo proposito, le parole di Paolo quando scrive ai cristiani di Roma: “L’ostinazione di una parte di Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato…” (Rm 11,25s). Dicevamo dunque che questa è una chiave di lettura legittima ma che non risolve del tutto le cose.

Detto questo però io credo che il testo di stasera voglia dirci anche qualcos’altro non solo inerente alla storia ma anche qualcosa di tipo sapienziale e spirituale. Perché la Gerusalemme che qui si descrive è la Gerusalemme su cui aveva pianto Gesù. E perché aveva pianto? Proviamo a rileggere il testo del cap. 19: “Quando fu vicino, alla vista della città Gesù pianse su di essa dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!”” E più in là il Signore conclude: “distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”. Ecco che a noi stasera è consegnata l’immagine, la descrizione, di come diventa Gerusalemme quando non riconosce la visita del Signore, la Gerusalemme cioè che uccide i profeti e resta senza Dio. È una Gerusalemme che, non per punizione ma per effetto naturale, conseguente, si espone alla rovina di se stessa, alla distruzione. È una Gerusalemme che in qualche modo diventa una Babilonia e ne subisce la medesima sorte come l’abbiamo sentito nella prima lettura.

Vedete, è impressionante come, in qualche modo, la sorte di Babilonia e la sorte di Gerusalemme così come ci vengono presentate stasera nelle due letture, si potrebbero sovrapporre. “Con questa violenza sarà distrutta Babilonia, la grande città, e nessuno più la troverà. Il suono dei musicisti, dei suonatori di cetra, di flauto e di tromba, non si udrà più in te; ogni artigiano di qualsiasi mestiere non si troverà più in te; il rumore della macina non si udrà più in te; la luce della lampada non brillerà più in te; la voce dello sposo e della sposa non si udrà più in te.” La città, ma anche l’uomo, la persona, che rifiuta la visita di Dio, pian piano, non per punizione ma per conseguenza della propria scelta di rifiuto di Dio, si espone a questa perdita della vita, diventa una Babilonia, una città senza più vita, una citta che si spegne, e una città che vive in uno stato di guerra, di conflitto. “Povera quella strada – scriveva il vescovo san Macario – che non è percorsa da alcuno e non è rallegrata da alcuna voce d’uomo! Essa finisce per essere il ritrovo preferito di ogni genere di bestie. Povera quell’anima in cui non cammina il Signore, che con la sua voce ne allontani le bestie spirituali della malvagità. … Guai all’anima priva di Cristo, l’unico che possa coltivarla diligentemente perché produca i buoni frutti dello Spirito. Infatti una volta abbandonata, sarà tutta invasa di spine e da rovi e, invece di produrre frutti, finirà nel fuoco.”

Stasera allora cerchiamo di essere consapevoli che questo vangelo che abbiamo ascoltato non ha solo qualcosa da dire riguardo a Gerusalemme ma parla anche a noi, invita anche noi ad accogliere la visita di Cristo nella nostra vita e a lasciarlo davvero lavorare a 360 ° in tutta la nostra vita.

 

Domenica 23 novembre 2014 – Cristo Re – fr. Giovanni Battista FMJ


 

Questo brano evangelico è un brano che forse ci spaventa un po’, sicuramente è un testo molto suggestivo, bellissimo, anche dal punto di vista letterario, ma soprattutto, ed è qui che vorrei soffermarvi insieme a voi quest’oggi, è un testo che porta in sé una quantità enorme di speranza. Perché questo testo oggi ci fa un grande annuncio, ci consegna una stupenda rivelazione, una di quelle rivelazioni che possono davvero cambiare davvero il corso di un’esistenza come di fatto è accaduto per tanti santi che si sono lasciati trascinare da questa Parola davvero vivendola fino in fondo, alla lettera. La grande notizia che oggi risuona in tutta la Chiesa è che abbiamo un Re. È un Re che ha un regno e questo regno è l’unico regno che sussisterà per sempre, che nulla mai potrà distruggere, un regno che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai intaccare, né scalfire, né corrompere, né distruggere. Questa, cari amici, è davvero una bella notizia, perché noi siamo chiamati ad entrare e vivere di questo regno. Anzi noi già siamo stati trasferiti in questo regno che è regno di giustizia, di amore ed è un regno eterno.

Ora, di questo re, che cosa possiamo dire leggendo questo vangelo? Allora, una prima cosa che ci balza agli occhi è l’universalità della sua giurisdizione. Davanti a lui saranno radunati tutti i popoli. Non solo gli ebrei o i cristiani o i cattolici ma tutte le genti di ogni tempo, di ogni luogo e di ogni religione saranno radunate davanti a lui. È davvero un evento totale, universale quello che qui viene descritto. C’è una regalità, potremmo dire una Signoria di Cristo, come ne parla sempre Giacomo, che si estende davvero su di tutti, nessuno escluso. Noi dobbiamo essere consapevoli di questo cari amici, pienamente convinti che il nostro Dio è il Re dell’universo, il capo e il Signore di tutto e arriverà il giorno in cui di fronte a tale maestà tutti saremo convocati. Questa è la prima cosa.


 

Ma andiamo un po’ più in profondità perché questo re vediamo che è un re che non ha solo un titolo di onore, un titolo simbolico, rappresentativo come accade oggi per alcune monarchie. No, no, il Figlio dell’uomo è un re che effettivamente governa, realmente domina, e questo dominio vien qui specificato nei termini di giudizio e di separazione: davanti a lui verranno radunati tutti i popoli e lui separerà gli uni dagli altri come fa il pastore con le pecore e con le capre. All’inizio parlavo di un annuncio carico di speranza e credo che sia proprio questo potere di giudizio del re Gesù ad essere uno, come lo definiva papa Benedetto XVI, dei luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza. Perché se da un lato il fatto che saremo giudicati ci può spaventare, ci può far tremare anche perché, come dice il salmo, se consideri le colpe Signore, Signore chi può sussistere (perché nessuno si sente pulito davanti a lui), d’altro canto proviamo a pensare a che effetto liberante può avere nella nostra vita sapere ed essere profondamente convinti del fatto che c’è un re che davvero giudicherà tutti in un modo così speciale e unico come nessuno di noi saprebbe farlo? Ebbene qui a noi cari fratelli e sorelle ci si apre davanti la reale speranza e la reale possibilità di amare; ma non parlo di un amore superficiale e neanche di un amore ipocrita, quello cioè che camuffa un rancore o un’invidia, e nemmeno amore come sentimento puramente epidermico od emotivo. No, mi riferisco qui ad un amore vero, profondo, libero, addirittura un amore ragionevole e volontario. Sapete perché? Perché sapere che c’è un Dio che in modo efficace e secondo misericordia e verità farà giustizia sulla terra, questa consapevolezza mi libera finalmente dal dovermi fare giustizia da me stesso, mi libera dalle strettezze di relazioni basate sul contraccambio, mi guarirà il cuore dall’odio, dal desiderio di rivalsa, dal sospetto, dalla paura. “Dio è giustizia – affermava papa Benedetto – e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. (Spe salvi 44)” Pensate un po’ che rovina sarebbe per tutto il genere umano se non ci fosse un Dio che giudica, se spettasse all’uomo l’impossibile dovere di espiare il male, di fronteggiare e risanare tutto il male che l’uomo porta dentro di sé e sparge fuori di sé. Forse la terra sarebbe un inferno perché l’uomo non può e non potrà mai fare ciò che Dio fa quando giudica e cioè non solo il giudicare ma soprattutto il giustificare, il potere divino (chi può rimettere i peccati se non Dio solo?) di rendere giusti. “Io sono convinto – scrive sempre papa Benedetto nella sua enciclica sulla speranza – che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della vita eterna (§43)” Penso proprio che se non ci fosse la prospettiva del giudizio noi saremmo molto meno liberi nell’amare perché saremmo, come dire, sovrastati, avvinghiati, impediti da tutti i legittimi e non legittimi ostacoli all’amore. Davvero cari fratelli oggi il Signore è come se ci dicesse con questo vangelo: fratello mio, sei libero di amare; prendo su di me il peso, l’onere, la fatica e il dolore del giudizio, del togliere il male, dell’usare le bilance, ma a te, a te lascio solo il privilegio dell’amare (privilegio perché amare è il modo che Dio ha di relazionarsi dentro e fuori di sé, è attività divina prima che umana). Allora oggi davvero benediciamo il Cielo per questo straordinario dono della libertà di amare. Non è da poco, lo sapete anche voi; siamo coscienti di quanta fatica si faccia ad amare qualcuno quando abbiamo l’impressione o la sensazione che sia quasi ingiusto farlo. Oggi invece, proprio grazie al suo giudizio, il Signore ci vuole liberare anche da questo peso opprimente.


 

E concludendo, coerentemente con quanto abbiamo detto fino ad ora, possiamo fare un ultimissimo passo nella nostra riflessione e chiederci. Abbiamo visto che il Signore si prende l’onere del giudicare e a noi lascia il dono, il diritto, e a questo punto anche il dovere, dell’amare; ma allora, chiediamoci, su che cosa saremo giudicati? La risposta ormai vien da sé: se ci è dato il diritto di amare saremo giudicati proprio sull’amore. E l’amore, lo vedete dalle varie vicende enumerate nel testo, ritorna sempre a Dio; l’amore, anche quando è solo amore umano, filantropico, anche quando non lo sappiamo, appartiene a Dio, ritorna sempre a Dio. E questo circolo dell’amore funziona perché questa dignità regale che il Cristo possiede è, in certo senso, una dignità che lui non tiene per sé ma la dà, la consegna a tutti coloro che soffrono, a tutti i poveri, a tutti coloro che vivono oggi sulla terra il suo essere crocifisso. Laddove c’è una crocifissione che, in vario modo, si consuma, lì c’è ancora qualcosa della regalità di Cristo. È per questo che allora il Figlio dell’uomo potrà dire, addirittura anche a chi nemmeno si rendeva conto che stava facendo del bene a Cristo: Tutto quel che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. “Il giudizio che il re farà di noi è lo stesso che noi facciamo al povero” perché “ogni altro è sempre Altro” (Silvano Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, EDB, pag. 501). E c’è da notare che se i primi saranno accolti come i “benedetti del Padre”, i secondi non sono detti nel testo “maledetti dal Padre”, ma semplicemente chiamati “maledetti”. Capiamo che non sarà il Padre a maledirli ma saranno loro stessi ad essersi auto-maledetti con la loro indifferenza e ripiegamento su di sé.


 

Il nostro cammino allora sia veramente una benedizione, per noi stessi e per tutti coloro che incontriamo, il Cristo nascosto in ogni uomo.

 

mercoledì 12 novembre 2014 – XXXII settimana T.O.  - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Al vangelo che abbiamo ascoltato credo si possa applicare in modo particolare quanto vale in generale per tutta la Scrittura e cioè che qui noi non semplicemente riceviamo un messaggio, un racconto, una buon parola, ma abbiamo proprio davanti agli occhi Gesù che anche stasera passa di qui, entra nel villaggio della nostra vita e succede qualcosa… Perché quando Gesù passa, sempre succede qualcosa e noi questa sera davvero non vogliamo perdere nulla di questo straordinaria visita del Signore. Proviamo allora stare attenti, proviamo a vedere cosa succede proprio guardando che cosa è successo a questi personaggi che oggi diventano per noi degli amici e testimoni di questa visita del Signore anche nella loro vita.

Anzitutto, prima cosa, vediamo che quando Gesù passa entra nel villaggio, quando Gesù si avvicina all’uomo l’uomo inizia a gridare. E questo non semplicemente, credo, per un bisogno di farsi notare, per volersi mettere al centro dell’attenzione, ma perché è Gesù che per primo invisibilmente intercetta nell’uomo ciò che lo fa stare male, il desiderio inappagato, la sua insuperabile solitudine, la sua lebbra che gli rende il suo corpo come morto e morte anche le relazioni intorno a lui. E l’uomo che soffre questo amore del Signore verso di lui già lo sente, non si sa come, ma lo sente e inizia a gridare; e questo grido allora è già una risposta dell’uomo ad una prima chiamata del Signore, perché è l’intima speranza che c’è qualcuno che può davvero prendersi cura di questa piaga corporea che è ormai già diventata anche piaga del cuore. Ed ecco il grido: Gesù, maestro, abbi pietà di noi. Potremmo davvero fermarci già qui, stasera, e non andare oltre perché già solo questo grido dei lebbrosi è un insegnamento, una professione di fede. Quanto abbiamo bisogno in continuazione anche noi, cari fratelli e sorelle, di imparare a gridare di fronte al Signore. L’uomo che non grida muore. Il nostro grido è già l’inizio della salvezza. Allora veramente, anche quando sembra che Gesù non ci veda, gridiamo, alziamo la voce davanti a lui, non abbiamo paura. Anzi, possiamo dire di più. Se noi stasera siamo qui davanti al Signore che passa ricordiamoci che siamo qui non solo a nome nostro ma anche a nome di tutti coloro che non vogliono o non sanno gridare a lui. Quanta gente, lo sappiamo cari amici, non ha nessuno a cui gridare la propria sofferenza, e allora si tiene il suo male, il suo dolore, la sua vergogna, si lascia divorare nella solitudine oppure si sfoga aggiungendo male a male. Davvero noi adesso siamo qui per tutti gli altri che non sanno gridare, vogliamo portare al Signore il grido di chi non grida.


 

Come il Signore compie la guarigione? Potremmo quasi dire che non sarà il Signore a guarirli ma la loro obbedienza: o per essere più precisi, tutti è due insieme. Non solo l’intenzione di Gesù, la sua Parola, ma la Parola accolta, la Parola vissuta, la fiducia di Gesù che diventa fiducia dell’uomo. E questi allora vanno dai sacerdoti. Guarigione compiuta e il brano poteva finire qui. Ma invece c’è un ultima tappa di questa guarigione, perché la guarigione non è ancora salvezza se non si evolve in una fase successiva. C’è qualcuno che, quasi disobbedendo alla Parola del maestro, vedendosi guarito torna indietro a ringraziare Gesù. E qui noi vedremo che si compirà un miracolo ancora più grande della prima guarigione. Perché quest’uomo, Samaritano, straniero, tra l’altro, ha fatto un grandissimo salto di qualità. Quest’uomo ha capito che la vera salvezza non stava solamente nella guarigione dal suo male, la salvezza non era solo il superamento del suo bisogno e la soddisfazione delle sue angosciose necessità per quanto legittime e urgenti, ma più di ogni altra cosa stava nell’incontrare e conoscere personalmente, ri-conoscere Colui che l’aveva guarito. Gli altri, poverini, si terranno la salute ma non avranno la gioia di sperimentare questo incontro personale e pieno di gratitudine che invece vivrà quest’uomo che torna indietro.

Allora cari fratelli e sorelle, se stasera, come auguro a tutti, il Signore passasse nella nostra vita, davvero seguiamo l’esempio di questo lebbroso: torniamo indietro, torniamo al Signore, andiamogli incontro e diciamogli con tutto il cuore il nostro grazie, e allora scopriremo come la nostra lebbra, sì proprio quella lebbra che ciascuno si porta dentro e che prima quasi maledivano come la cosa peggiore della nostra vita, forse non la vedremo più come quel male maledetto da cui finalmente, grazie a Dio, ci siamo liberati, ma come quel male che miracolosamente, chissà come, ci ha portati Gesù, ci ha fatto conoscere il Signore, e allora anche a noi come al Samaritano, da un Gesù ancora più felice di quanto lo siamo noi sentiremo le parole più belle della nostra vita: Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato.

 

Domenica 9 novembre 2014 – Dedicazione Basilica Lateranense - fr. Giovanni Battista FMJ

          La festa di oggi è una festa che non si spiegherebbe se non all’interno di una particolare visione, quella autentica e cattolica, di fede e di Chiesa. Che senso avrebbe infatti estendere a tutto il mondo la commemorazione della consacrazione di una chiesa, di un edificio, che è a Roma, e che per di più molti, moltissimi cristiani cattolici forse neanche mai hanno visto o vedranno, mai visiteranno, una chiesa che potrebbe rimanere per loro sconosciuta? Un conto ricordare la dedicazione di una nostra chiesa, come abbiamo fatto due settimane fa, una chiesa che noi frequentiamo, in cui preghiamo, o se pensiamo ai borghi rurali di un tempo, una chiesa alla cui costruzione aveva preso parte tutto il popolo. Qui capiamo meglio perché celebrare ogni anno la dedicazione: sarebbe un ringraziare Dio per la casa che ci offre per incontrarlo o che ci ha dato di costruire. Ricordare il giorno in cui questo edificio è stato riempito della presenza del Signore. Ma di una chiesa come la basilica di S. Giovanni in Laterano che senso ha ricordarne la dedicazione? Ebbene qui, cari fratelli e sorelle, attraverso la festa di oggi noi riceviamo come un invito all’apertura, all’universalità che è l’universalità della Chiesa cattolica. Perché noi, lo sappiamo ma oggi ci viene ricordato, non siamo dei cristiani privati, singoli, liberi professionisti, autonomi credenti in Cristo. No, cari amici, noi siamo membra del corpo di Cristo, noi siamo Chiesa e in quanto Chiesa professiamo non semplicemente la nostra fede ma la fede della Chiesa di cui siamo parte. "la struttura di comunione, scriveva il card. Ratzinger '77, fa parte del cristianesimo. Il credente in quanto tale non è mai solo: diventare credente significa uscire dall'isolamento per dirigersi verso il Noi dei figli di Dio. (...) L'iniziazione nel cristianesimo è perciò concretamente sempre anche socializzazione all'interno della comunità dei credenti, è un diventare comunione che supera il mero Io." (Ratzinger, Perché siamo ancora nella Chiesa, pag 17). Ecco che il calendario liturgico, se quindici giorni fa ci invitava a ricordare la consacrazione delle nostre chiese, oggi ci ricorda attraverso questa celebrazione che le nostre chiese e soprattutto i gruppi di credenti che le frequentano, non sono delle isole, non sono delle sette, non sono una 'proprietà privata' appartenente a loro stessi e con una fede e una morale singolarmente a loro concesse, ma sono parte di un corpo più grande che è la Chiesa tutta, rappresentata, simboleggiata e governata dal Vescovo di Roma la cui Cattedra è proprio nella Basilica Lateranense. Si tratta proprio di un invito all’apertura del cuore e della mente quello che oggi noi riceviamo attraverso questa festa, un invito a superare i nostri piccoli orizzonti, la mia fede o il mio modo di vivere la fede, la mia chiesa, il mio gruppo, la mia comunità, per sentirci ed essere effettivamente sempre più in comunione con tutto il popolo di Dio stretto intorno agli apostoli e a Pietro.

         Le letture di oggi sono brani che ci offrono delle prospettive diverse, forse complementari, per entrare nel senso di questa festa. Abbiamo la profezia di Ezechiele, la sua visione, con questa immagine meravigliosa delle acque pure, limpide, piene di vita che escono dal tempio e si mescolano con le acque malsane del mondo. C’è il vangelo di Giovanni che ci parla di questo deciso e forse anche sconvolgente intervento di Gesù contro coloro che stravolgevano il senso del tempio. E tra le due letture c’è san Paolo che ci ricorda che il tempio siamo noi. Ma proviamo a concentrarci soprattutto sulla prima lettura e sul vangelo. Perché qui noi vediamo che abbiamo due movimenti opposti: nel vangelo c’è Gesù che entra nel tempio, in Ezechiele c’è invece l’acqua che esce dal tempio. Nel vangelo Gesù parla del tempio come della casa del Padre suo, in altri passi paralleli lo definisce anche come casa di preghiera, citando Isaia, casa di preghiera per tutti i popoli; cioè chi entra nel tempio e si inserisce nel suo culto sacrificale si unisce al Padre, è in comunione con Dio ed è un tempio potenzialmente aperto a tutti; mentre in Ezechiele non sono gli uomini che vanno al tempio, non sono gli uomini che vanno incontro al Padre, ma è questo flusso continuo che sgorga dal tempio che va incontro a loro e porta la vita, l’unione con Dio, tutti quei benefici di vita e di fecondità che la benedizione di Dio sparge sugli uomini in comunione con lui. 

        Ecco qui noi abbiamo come sintetizzata tutta la nostra vocazione unica e speciale di cristiani che Paolo racchiude nell’espressione: voi siete tempio di Dio e abitazione dello Spirito. Tutto il nostro cammino di fedeli cristiani è compreso tra questi due movimenti: Gesù che entra nel tempio e lo sconvolge, lo purifica, lo riporta alla sua vocazione originaria; e l’uscita come Papa Francesco ha detto spesso, l’invio, il portare questa potenza vitale che abbiamo ricevuto nelle acque malsane del mondo. È questa la grande duplicità di ogni cammino cristiano da un lato volto a Dio e sempre pronto ad accogliere la venuta di Cristo, talvolta sconvolgente perché purificante (e la purificazione è sempre dolorosa, puro è ciò che è passato attraverso il fuoco) e d’altro canto la gioia della condivisione, del portare la vita, la Parola e addirittura dell’essere associati alla missione di Cristo, a questo fiume immenso della grazia di Dio che da due mila anni scorre  nel mondo e offre a tutti la salvezza di Gesù nel mare della morte. Se ci pensiamo l’esperienza ecclesiale, di questi ultimi dieci anni è stata proprio visibile e splendida unione di questo duplice andamento. Un monaco benedettino caro alle nostre fraternità un giorno, credo con grande saggezza e verità, riconobbe proprio che Papa Francesco ci può oggi inviare verso le periferie perché prima Papa Benedetto ci aveva spinto, inviati verso l’interiorità. Vedete sono sempre questi i due movimenti che segnano la vita della Chiesa. Forse è per questo che tra queste due letture Ezechiele e Giovanni c’è Paolo che ci ricorda che il tempio di Dio siamo noi: il tempio che accoglie Gesù e il tempio che dona l’acqua è la nostra vocazione di cristiani di oggi. E tutti, cari amici, dobbiamo davvero sentirci parte viva e vivace, ciascuno secondo la sua vocazione particolare, di questa chiamata bellissima di tutta la Chiesa. Così ci esortava il Vaticano II: "A tutti i cristiani è imposto il nobile impegno di lavorare affinché il divino messaggio della salvezza sia conosciuto e accettato da tutti gli uomini, su tutta la terra. (AA 4) C'è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l'ufficio di insegnare, reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità. Ma anche i laici, essendo partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, all'interno della missione di tutto il popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo. (AA 2) 

      Tutto questo sarà un vero servizio a Cristo, alla Chiesa e all'umanità, se l'avremo vissuto non come battitori liberi sciolti da ogni vincolo o riferimento ecclesiale, ma come dei fratelli umili e fedeli che accolgono una chiamata del Signore e servono la vigna del Signore prima che i propri ideali o propri progetti. Il rischio infatti di fare della casa di Dio un luogo di mercato, di commercio, di ricerca di un proprio guadagno è sempre attuale. 

     Che onore, che gioia, cari fratelli e sorelle, poter vivere non semplicemente la nostra fede, la nostra vita cristiana, ma sentirci davvero parte vivente e attiva della fede e della vita della Chiesa, quel corpo di Cristo che attraverso di noi cammina per le vie del mondo di oggi e continua ad offrire la promessa di una vita superiore, di una vita piena e feconda, la vita che sgorga dall’amore di un Dio ha dato se stesso per noi.

 

venerdì 31 ottobre 2014 – XXX settimana T.O. - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Se il vangelo ci presenta una scena, la pura e semplice descrizione, narrazione di una vicenda senza soffermarsi sullo stato interiore delle persone che vi prendevano parte, la prima lettura invece è tutta un traboccare di sentimenti. Come abbiamo sentito Paolo lascia libero sfogo al suo cuore, dice davvero in tutta verità ciò che provava per questa comunità di Filippi che aveva fondato lui stesso. Ogni volta che mi ricordo di voi - dice Paolo - rendo grazie al mio Dio; cioè il vostro ricordo, quando i vostri volti o le vostre parole o i vostri gesti mi tornano alla mente, quello per me diventa un’occasione di preghiera, di rendimento di grazie. Voi per me siete fonte di gioia, perché ogni volta che penso a voi il mio pensiero immediatamente viene subito rigirato verso Dio. Sono davvero parole dolcissime e piene di umanità queste di Paolo che ci fanno intravedere a quale spessore di rapporti siamo chiamati anche noi. Davvero un rallegrarsi dell’altro, essere felici dell’altro, una gioia che si basa sulla consapevolezza che in ciascuno di noi è ormai iniziata un’opera meravigliosa del Signore della quale vogliamo essere servitori, ardentemente desiderosi che tale opera giunga a compimento. Questo è il “volersi bene” evangelico, e tutto il testo della prima lettura è un continuo susseguirsi di espressioni una più affettuosa dell’altra che certo ciascuno di noi, immagino, vorrebbe sentire rivolte a sé, ciascuno di noi vorrebbe davvero essere coinvolto in questo abbraccio fraterno e paterno insieme. Paolo è un vero ministro di Dio e dei fratelli, uno che gioisce della bellezza dell’altro, la riconosce, non la nasconde, e soprattutto non fa del suo zelo per il Signore una via “lecita”, per ignorare l’altro.

Ora, tenendo nel cuore questi sentimenti, proviamo adesso a passare al vangelo. Anche qui ci sono dei ministri di Dio che sono i farisei, ma come è diverso il loro stile da quello di Paolo! Ecco, loro sono un esempio di religiosità vissuta come dualismo, separazione, opposizione di Dio e dell’uomo. Da un lato c’è il servizio di Dio, lo zelo per il Signore, l’osservanza precisa e formale di tutto, anche se magari se ne perde il vero senso; e dall’altro c’è il rapporto con gli altri, l’umanità, quasi come un ambito meno sacro del primo, un ambito di serie B. Forse, l’atteggiamento di Gesù sconvolge proprio perché supera questo dualismo, perché ri-connette di nuovo Legge e amore, servizio a Dio e servizio all’uomo, prostrarsi di fronte a Dio e mettersi ai piedi del fratello per servire ancora Dio in lui. Gesù è il Figlio incarnato che rende anche tutta la nostra religiosità una incarnazione cioè un’unità di Dio e uomo, di ascesa e discesa. Chiediamo davvero per noi e per tutti la grazia di questa unificazione. Dio e uomo dopo Gesù e in Gesù non si oppongono più, sono uniti, riconciliati. Tale nuova realtà di fatto toglie ogni fondamento e ogni plausibilità a tutti quei fariseismi più o meno manifesti che vorrebbero fare dell’apertura a Dio una via legittima per chiudersi al fratello. E inoltre come Paolo, davvero non abbiamo paura di essere affettuosi, di essere teneri, come dice tanto il papa. L’uomo è meno uomo se non sa essere tenero e affettuoso, gli manca qualcosa. Restiamo sempre vigilanti, cari fratelli e sorelle, prudenti tenendo sempre fisso lo sguardo su Gesù per vedere come lui viveva, e come lui faceva, lui il vero cristiano, e anche l’unico e sommo ministro (sommo sacerdote) del Dio Altissimo.

 

Domenica 26 ottobre 2014 – Dedicazione della Badia Fiorentina - fr. Giovanni Battista FMJ


          In questo giorno in cui celebriamo la dedicazione di questa nostra Badia Fiorentina la Provvidenza ha voluto che ci riunissimo qui nella varietà delle nostre appartenenze alla famiglia di Gerusalemme, monaci, laici, consacrati, membri delle fraternità evangeliche o anche fedeli semplicemente venuti per la Messa o la domenica con Dio, una giornata intera con il Signore, con Lui, nella sua casa, accolti, ammaestrati e nutriti da Dio stesso e di Dio stesso.      

         Oggi quasi tutte le pietre vive che edificano il tempio spirituale della Badia sono presenti. È questo un segno bellissimo e credo anche già molto parlante, rivelativo di qualcosa di profondo che emerge ripetutamente nelle letture di oggi. San Paolo in particolare lo dice apertamente: il tempio di Dio, cari fratelli e sorelle, siete voi.

          Oggi noi, ringraziando il Signore per questa dimora che ha offerto a noi e a tante generazioni di monaci e di fedeli prima di noi, guardando e contemplando la bellezza di questo edificio, non siamo invitati semplicemente a rimanere a bocca aperta, ma a ritrovare il senso di noi stessi in queste pietre e in queste colonne, il senso cioè della nostra ecclesialità, del nostro appartenere alla Chiesa ed essere Chiesa, tempio di Dio in cui dimora lo Spirito. Facciamo parte anche noi cari amici di un grande edificio, di un grande tempio che è il corpo del Signore, ciascuno per la sua parte, ma avendo come pietra angolare, come fondamento il Cristo. È lui che regge tutto, è lui che sostiene ogni cosa, è lui che trasforma l’aggregarsi umano e talvolta faticoso e conflittuale delle persone, in un tempio vivo della sua presenza unito dal cemento della carità.

         E questa, cari fratelli e sorelle, non è solo un’immagine. San Paolo non usa la metafora del tempio solo per colorare di simboli la sua predicazione ma perché siamo davvero un tempio, siamo davvero un corpo, come diceva sempre lui in un altro testo. Un corpo che ha bisogno di stare unito per poter vivere, ma che ha bisogno anche delle sue belle diversità per non essere un corpo menomato, un corpo amputato, un corpo zoppo o un tempio pericolante e fatiscente. La prima chiesa di cui vogliamo ricordare oggi la consacrazione, cari fratelli e sorelle, siamo noi, è la nostra vita consacrata, grazie al battesimo, dalla presenza di Dio, è il nostro essere una famiglia in Cristo, unita e diversa in cui dimora la presenza dello Spirito che ci tiene uniti al Signore Gesù. Tra l’altro, storicamente, sappiamo che il nome dell’edificio chiesa viene proprio dall’abbreviazione di domus ecclesiae, cioè la casa della chiesa, l’abitazione dell’assemblea di Dio, la casa in cui si riunisce il tempio di Dio che siamo noi. La chiesa come tempio di pietra riceve il proprio nome dal grande tempio di pietre vive che noi formiamo in Gesù.

San Paolo, in questo senso, ci ammonisce con parole che risuonano come un avvertimento che non possiamo mai dimenticare. Dice: “ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo.” Cosa ricaviamo da un’esortazione tanto rassicurante quanto, anche, temibile ed impegnativa? Anzitutto che questo tempio non è terminato, non è concluso, non è un’opera finita ma è un’opera in continua costruzione.

Il tempio di Dio che siamo noi è un cantiere sempre sempre aperto, e un cantiere è qualcosa in cui ciascuno è chiamato a dare il suo contributo, è chiamato a lavorare. Ma qui il lavoro non è tanto un prestazione da fare a qualcuno o da rendere a un padrone; direi che prima di un fare si tratta di un essere o di un lasciarsi fare. Prima che dare un contributo esteriore, materiale, visibile, ciascuno è chiamato a dare se stesso, ad offrire, consegnare le proprie membra all’opera dello Spirito che come un sapiente artigiano lavora la pietra che ciascuno di noi è, pietra dura, non facilissima da levigare, la taglia, la lucida, e la sistema dove lui lo ritiene opportuno.

È importante ricordarsi questo primato dell’opera dello Spirito in noi e anche attraverso di noi, prima che mettere in evidenza ciò che noi vogliamo o possiamo fare per la chiesa-comunità. Talvolta siamo bravi ad intervenire sugli altri ma noi non ci lasciamo smuovere di un millimetro. Questa disponibilità a lavorare e soprattutto a lasciarsi lavorare dall’efficacissima mano dello Spirito è quanto mai importante se vogliamo che sia il Signore il vero operaio capo cantiere di quest’opera. Non siamo noi a costruire un tempio santo, non ne saremmo neanche capaci senza fare disastri, ma è lo Spirito Santo che lo costruisce in noi e attraverso di noi. Non sto incitando all’inerzia o alla passività, mi sembra chiaro, non sto dicendo “tranquilli, fa tutto lui, noi non dobbiamo fare nulla”, ma credo importante tenere al centro di questa grande e monumentale costruzione di Dio che tutti insieme formiamo, l’azione virile e dolce, forte e soave dello Spirito che ci plasma.

Sapete perché è indispensabile avere chiara questa visione? Perché quando siamo noi a dire: dobbiamo fare, dobbiamo costruire, dobbiamo unire e creare unità, quando è l’uomo, insomma che si mette al centro di quest’opera, l’uomo non costruisce più il tempio di Dio, l’uomo non crea più l’unità liberante che lascia respirare le diversità, ma o queste diventano una varietà incoerente una giustapposta all’altra, oppure vengono distrutte, soffocate, sacrificate per creare la nostra unità, l’idea-ideale-ideologia (vedete, tutti termini che hanno la stessa radice) di unità e così si fa male alle persone e il tempio di Dio subisce come una profanazione, una ferita, una distruzione.

La casa di Dio, come violata, smarrisce la sua vocazione, diventa una carcere, una prigione, una schiavitù. Gesù nel vangelo di oggi vediamo come si ribella allo stravolgimento del senso e dell’utilizzo del tempio di Gerusalemme, un luogo in cui ormai Dio non era più al centro, un santuario dove il culto del Signore era ormai diventato uno strumento del commercio umano, del guadagno di qualcuno: non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato. E Gesù trasformerà, rinnoverà radicalmente questo vecchio tempio e culto nel nuovo tempio e culto non tanto facendo qualcosa di nuovo, o regolamentando in modo nuovo la liturgia sacrificale o sinagogale, ma dando se stesso, consegnando se stesso al Padre per amore. È questo cari amici il nuovo culto, è Cristo il nuovo tempio, e noi edificheremo profondamente ed efficacemente nella carità il nostro tempio della Badia fiorentina, in tutte le sue piccole o grandi diversità, come anche i nostri preziosissimi templi famigliari, le piccole chiese domestiche in cui ciascuno vive, solo se saremo disposti come Gesù, non anzitutto a fare questo, dire quello, progettare quest’altro o a criticare, ma a consegnare noi stessi con Gesù al Padre come un piccolo mattone, una piccola pietra che, con umiltà e tanta carità, per amore di Dio e dei fratelli, si lascia lavorare, si lascia gettare, sistemare, incastonare laddove il Signore desidera.

Che bello, cari fratelli e sorelle, poter prendere parte a questa grande opera di Dio, che onore straordinario poter entrare con tutto noi stessi in questo tempio vivo che è il corpo di Gesù, che continua a vivere anche attraverso i nostri corpi! È così che edifichiamo davvero la Chiesa, è così che il Cristo ci chiama non solo ad essere nella chiesa, ma soprattutto ad essere chiesa, la sua chiesa, la casa di preghiera per tutti i popoli, diversi ma uniti dall’opera di Dio e dal cemento dell’amore che da Lui scaturisce.

Ma consentitemi di proporvi un’ultima riflessione su questa frase che ho citato di Paolo, quella in cui dice: “ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso che già vi si trova, che è Gesù Cristo.” Meditando, e anche un po’ approfondendo questo versetto, ho infatti capito che questo fondamento che è Gesù non è solo una base, un punto di partenza, la pietra che sta in basso come se poi non avesse più davvero una relazione diretta, diciamo così, con le altre pietre che stanno più in alto, quelle che vengono dopo. Io direi piuttosto che questo fondamento che è Gesù è il punto di partenza, ma è anche il punto di arrivo della costruzione del tempio, che è appunto il suo corpo, la fonte e il culmine, l’inizio e la fine che attraversa tutto ciò che c’è in mezzo.

Ciò significa che c’è tutto un particolare orientamento di tutte le membra di Cristo formano il suo tempio: tutte nascono da Gesù e tutte tendono ancora a Gesù, a questo stesso fondamento: l’edificio così viene su seguendo un modello, un orientamento cristologico, guardando sempre a Gesù. E questa concezione, cari amici, dato che stiamo celebrando la dedicazione di questa chiesa, è una concezione che è stata in qualche modo ripresa all’inizio della cristianità e espressa poi anche con criteri architettonici nell’edificazione delle chiese appunto rivolte verso Oriente.

E questo lo dico anche perché la nostra chiesa della Badia in origine, prima cioè che dal 2 febbraio 1628 in poi (data di collocazione della prima pietra della nuova chiesa) venisse girata nella posizione attuale, era orientata verso oriente. Non era solo per ragioni funzionali, perché così entrava più luce e ci si vedeva meglio, ma era proprio espressione di questo orientamento di tutto il popolo di Dio, pastore e fedeli, sacerdote e laici, tutti rivolti verso il sole che sorge, Cristo, Colui che era che è che viene, il Sole che sorge che viene a visitarci dall’alto, nell’attesa del giorno senza tramonto. Tutti guardavano, celebravano, pregavano insieme, rivolti verso Est.

Questa tradizione che ora non è più così frequente ma che conserva tutto il suo senso anche se talvolta viene svuotato e banalizzato quando per esempio si dice che una volta “si pregava verso la parete”, ci ricorda qualcosa di valido non solo dal punto di vista liturgico ma anche di esistenziale e cioè che se Cristo è il fondamento e la pienezza di questo tempio che tutti noi formiamo, Cristo è e rimarrà sempre l’orientamento fondamentale, la direzionalità profonda, il senso insostituibile del nostro vivere e relazionarci gli uni gli altri all’interno di questo tempio che insieme formiamo.

Venire da Cristo e andare verso Cristo significa vivere e guardare tutto e tutti in Cristo, non c’è altro sguardo che possa dirsi autentico e amante se non quello di Cristo su ogni realtà ed ogni persona. Ancora di più ora, che nella liturgia abbiamo assunto la posizione del dialogo, della relazione, il Cristo che nella persona del sacerdote incontra il suo popolo, questa posizione dice che tra noi, in mezzo a noi, tra l’io e il tu che formano il noi, c’è Cristo, dimora Cristo, e dunque devo guardare a Cristo. Ormai come cristiano non posso più dire pienamente né io né tu se tra questi due estremi non vedo Gesù e non mi oriento profondamente verso di lui. Cristo rimane la via più vera per andare verso gli altri, la direzione più autentica e profonda del nostro essere chiesa.

Per recuperare l’immagine di prima potremmo dire che nel tempio dobbiamo continuare a guardare, a volgerci verso Oriente, verso il Sole che sorge. È questa la prospettiva vera da cui guardare e in cui guardarci se vogliamo vivere non solo come un aggregazione, una società che ha degli scopi, dei progetti e degli ideali, ma come una famiglia, che non sarà mai una vera famiglia se non sarà la famiglia di Gesù, che dimora nella sua casa e si lascia animare, innamorare, infiammare dal fuoco dello Spirito che fa nuove tutte le cose.

Che dignità, cari amici, abbiamo ricevuto nell’essere chiamati a far parte del corpo del Signore mediante il battesimo. Davvero che questa dignità ci renda felici e grati di tutto quel lavoro, che spesso rimane segreto e nascosto nelle anime, che lo Spirito continua, come buon artigiano, in ciascuno di noi e nei nostri fratelli.

 

Domenica 12 ottobre 2014 – XXVIII Domenica T.O. - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Anche questa domenica siamo invitati ad inoltrarci in una parabola, in questo modo di parlare che spesso il Signore usava con la gente, linguaggio un po’ misterioso ma di un mistero che apre, che invita ad andare lontano, che spiega il senso del reale e lo illumina alla luce del progetto di Dio.

C’è un grido che risuona con forza in tutto questo testo, un grido che cari fratelli e sorelle, va oltre questa parabola, va oltre il tempo di Gesù e dice a ciascuno di noi: vieni alle nozze, vieni alle nozze! Il tuo Dio ti chiama, il tuo Dio ti invita. La parabola ci mostra reazioni diverse a queste ripetute chiamate del re: la prima reazione è la noncuranza e qui possiamo ben immaginare di chi parlasse Gesù, a chi si riferisse: era il popolo di Israele. È giusto che fosse Israele il primo ad essere chiamato perché già Israele era stato chiamato, il popolo eletto, la proprietà particolare del Signore.

Già Israele era unito a Dio, già era la sposa del Signore come anche i profeti ci avevano detto. Ma oggi la sposa non risponde: chi va al proprio campo, chi ai propri affari, nessuno pare essere interessato a questa voce regale che risuona tramite i servi: venite alla nozze! E qui, cari amici, si nasconde qualcosa di davvero preoccupante che ci interpella tanto e che ha qualcosa da dire anche al nuovo Israele che siamo noi, che è la Chiesa.

Soprattutto a chi, in qualche modo, si trova in una situazione simile a quella di Israele, ossia chi già vive una chiamata, chi già ha una sua storia con Dio, chi già conosce il Re e già gode dei beni dell’alleanza. Tutte le ricchezze anche spirituali che abbiamo, se non le conserviamo sempre orientate all’ascolto di questa chiamata, di questa voce che ancora ci invita alle nozze, a poco serviranno. Saranno forse un compiacere se stessi, un ricercare se stessi, forse un venerare se stessi ma non un adorare Dio. Questo grido del re “venite alle nozze” purtroppo ancora oggi è un grido che talvolta risuona a vuoto, un grido che rimane inascoltato, un grido che trova noncuranza e sordità.

Questa prima parte della parabola ci illumina davvero su un rischio sempre presente nella vita di ogni cristiano, come prima lo era per Israele, e cioè che questa accorata chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, sarà per abitudine, forse per pigrizia, forse per disillusione, forse perché già ne abbiamo sentite tante, non riusciamo più a percepirla e a farla entrare nel nostro cuore come una buona notizia, come la buona notizia dell’unione con Dio, delle nozze eterne con il nostro Signore, dell’ingresso nella sala di nozze della Chiesa come comunità di chiamati e di redenti, della morte e risurrezione di Cristo in cui anche noi risorgiamo. E allora, se la chiamata a questo matrimonio non è più quella buona notizia che colpisce l’orecchio e infiamma i cuori, se l’incontro personale e comunitario con il Signore non ci attrae più, non è più il senso della nostra vita, ecco che anche noi ce ne andremo chi al suo campo, chi ai suoi affari, che potrebbero essere anche dei servizi ecclesiali, doveri familiari, impegni legittimi di lavoro, perfino di annuncio del vangelo. Ma niente, cari fratelli e sorelle, può prendere il posto di queste nozze con il figlio del Re, Gesù, il più bello tra i figli dell’uomo. Se la buona notizia non è più per noi una buona notizia chiediamoci allora il perché: che cosa nella nostra vita, quali situazioni, quali scelte, quali persone o quali convinzioni hanno in qualche modo sovvertito la bellezza, o meglio la recezione da parte nostra della bellezza di questa buona notizia che è il vangelo.

Ma continuiamo a leggere la parabola: il re non si arrende. Il testo, (teniamo presente che è una parabola e che non va presa alla lettera) ci parla della morte di questi primi chiamati; come per dire: attenzione, questo è un modello di rapporto con il Signore di questo tipo che è destinato ad usurarsi, a consumarsi, ad estinguersi, non potrà avere lunga vita. Ma, dicevamo, il re non si arrende, continua a chiamare, ancora manda i suoi servi che gridano: venite alle nozze, venite alle nozze, tutto è pronto.

E finalmente si trova effettivamente qualcuno che risponde, che è affascinato da una tale proposta e sono proprio quelli che non erano invitati, che non si aspettavano nulla, quelli che non si meritavano di entrare nella reggia del re, addirittura il testo dice sia buoni che cattivi. E questa, cari amici, è proprio la logica di Dio, questo modo di fare è tipico dello stile di Dio che coglie di sorpresa, che ama donare a chi non merita, che cerca un cuore povero capace di dire sì. Davvero come dice il salmo 33: i ricchi impoveriscono e hanno fame ma chi cerca il Signore non manca di nulla. Questi poveri sono quelli per i quali il re che chiama alle nozze rappresenta davvero una buona notizia, e noi quest’oggi vogliamo metterci proprio in questo gruppo di buoni e di cattivi che partono, che lasciano, che si attivano, che alla voce dello Sposo mollano tutto ciò che hanno per entrare in questa comunione con Dio. Il povero non è colui che non ha niente, non è colui che non ha intelligenza o ricchezze, in questo caso spirituali, ma è colui che da sempre il primato a questa unione piena con lo Sposo. Il mondo ha bisogno di questi poveri, la Chiesa ha bisogno di questi poveri che non fanno delle loro ricchezze anche spirituali, di fede, di morale, delle loro qualità e capacità umane, un’alternativa a Dio, ma tutto accettano di subordinare a questo incontro totalizzante. Ce lo ricorda anche il nostro libro di vita quando dice: “Con la loro vita, il monaco e la monaca ricordano al mondo il carattere provvisorio della condizione presente e all’istituzione ecclesiale che il loro unico sposo, al di là del culto, del legalismo e della morale, rimane questa comunione totale e immediata con Dio.” “Per questo la vocazione monastica è anche profetica.” (§63)

Forse dentro di noi nella nostra vita albergano entrambi questi gruppi di chiamati, quelli che non rispondono e quelli che rispondono; forse siamo abitati da questa ambigua convivenza e talvolta prende il sopravvento l’uno o l’altro gruppo: c’è il gruppo degli invitati indifferenti, sordi, impegnati forse anche in ciò che effettivamente giova al bene della comunità e del mondo o anche che da onore e prestigio alla propria vita religiosa (anche questo può essere il campo o gli affari di cui parla la parabola) e poi c’è il gruppo dei poveri, dei non invitati, quelli che sono disponibili, che si lasciano sorprendere da un Signore che li chiama, quelli che non fanno dei doni di Dio una propria ricchezza che diventa alternativa a Dio stesso ma che sacrificano anche l’Isacco, il dono di Dio, se il Signore chiama.

E vedete come Dio non si stanca di chiamare: fallita la prima volta il Signore ancora continua, dopo un rifiuto ancora ripartono i servi del re con il loro “venite alle nozze”: il nostro rifiuto non lega le mani al Signore, non mette in gabbia lo Spirito Santo, non lega la parola di Dio. Anche se nel nostro mondo e talvolta anche dentro di noi c’è chi vuole uccidere, soffocare, togliere il respiro a Dio che chiama o ai suoi servi, l’avanzata del regno non si arresta, anzi la chiamata di Dio si allarga ancora di più. Allora cari fratelli e sorelle, come dice il salmo diciamocelo anche noi: non siamo come il cavallo e come il mulo privi di intelligenza.

Davvero apriamo il cuore e la mente a questa povertà liberante che ci fa esultare alla voce dello Sposo che ci chiama. Chiediamoci sul serio se siamo felici della nostra vita cristiana, matrimoniale, religiosa, monastica, sacerdotale, chiediamoci se la nostra vocazione battesimale, di qualsiasi genere sia, è ancora per noi una buona notizia, e qualora non fosse più così, o lo fosse meno di un tempo, abbiamo davvero il coraggio di andare a fondo per vedere che cosa ci manca, qual è il problema, cosa mette a freno la nostra gioia. Forse allora potremo anche noi gioire della nostra povertà come fa un Paolo liberato dall’incontro con Gesù: so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza, ormai mi va bene tutto, nulla più è di ostacolo alla mia gioia, alla mia vita, al mio desiderio profondo, perché tutto io posso in colui che è la mia forza. Trovato l’Essenziale, e messo al centro della mia vita, nulla più mi può più colpire o rattristare veramente. È questa, cari fratelli e sorelle, la libertà del vangelo.

Infine vorrei soffermarmi giusto un secondo su un ultimo aspetto di questa parabola che è la questione dell’abito nuziale. Che cosa rappresenta quest’abito? Nei miei approfondimenti ho trovato varie possibilità: c’è chi dice che sono le opere buone con cui ci disponiamo ad andare incontro, ad accogliere la salvezza che viene da Cristo; c’è chi dice che è l’amore, la carità; c’è chi dice, e io mi metterei in quest’ultimo gruppo, che l’abito nuziale è la dignità di figli di Dio, è il rivestirsi di Cristo (l’abito, nella Scrittura, rappresenta la dignità della persona): come lo Sposo Gesù si è rivestito della nostra carne umana, così noi siamo invitati a rivestirci della veste dei figli di Dio.

Ma non è su questo che voglio fermarmi ma su un particolare che mi sembra degno di nota e cioè sull’attività dei servi del re, che sono coloro che proclamano, che diffondono la buona notizia, che invitano tutti: Ecco vogliamo cogliere un particolare della loro opera ossia che non sono loro a fare la selezione a chi rivolgere l’invito, i servi semplicemente obbediscono al re, fanno quanto il re chiede. Prima cosa. E inoltre, seconda cosa, non sono loro che scorgono, che distinguono tra la folla chi ha l’abito nuziale che lo rende degno di partecipare alle nozze, e chi non lo ha. Loro solamente chiamano, invitano, anche mettendo a rischio la propria vita, vanno per i crocicchi delle strade e invitano tutti senza paura, in obbedienza al re.

Ebbene cari amici, non c’è miglior descrizione del nostro quotidiano vivere nel mondo come cristiani missionari, servi del re, cioè gente già conquistata, innamorata dello sposo, che va, che chiama, che invita, che rivolge a chiunque incontra nella città l’invito, vieni alle nozze! Questi servi missionari vivono la loro opera al ritmo del cuore di Dio, un ritmo che, come abbiamo visto, non si arrende mai, non si scoraggia mai di fronte al rifiuto, perché Dio è innamorato di tutti gli uomini e non si stanca di inviarci: vai da quello, vai da quell’altro. Anche i servi, anche noi tutti qui presenti siamo allora invitati a divenire, da chiamati alle nozze a chiamanti alle nozze, cioè a fare nostro questo battito del cuore di Dio per tutti gli uomini che grida ancora oggi a tutti, nessuno escluso, anche attraverso la nostra umile testimonianza: venite alle nozze!

 

Domenica 7 settembre 2014 – XXIII domenica T.O.  - fr. Giovanni Battista FMJ
 

Le letture di questa domenica sono consacrate al tema della comunità, della riconciliazione. Oggi il vangelo ci offre lo sguardo di Gesù su questa realtà vitale con cui tutti noi abbiamo a che fare che è la comunità ecclesiale sguardo che possiamo e dobbiamo estendere più in generale ad ogni forma di relazione. È interessante soffermarsi per cercare di capire come Gesù vede l’uomo, e lo vede come è in realtà cioè come un essere comunitario, un essere sociale, un membro di un corpo più grande senza il quale non può svilupparsi e vivere con pienezza. Ancor più in una prospettiva ecclesiale questo corpo non è più semplicemente un corpo sociale ma è un corpo divino e umano, è il corpo del Signore. “Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” dice Paolo (1 Cor 12,27) Questo sguardo di Gesù sull’uomo allora è uno sguardo che ci impedisce di comprenderci e di considerarci come esseri solitari, individuali, monadi auto sufficienti. Se facciamo così avremo sempre una visione riduttiva di noi stessi e delle nostre relazioni, una visione che ci farebbe perdere non solo la dimensione comunitaria ma anche qualcosa di essenziale del nostro stesso essere che è la relazionalità. Abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno della comunità, abbiamo bisogno della famiglia, abbiamo bisogno della Chiesa. Ecco perché Gesù ma anche le altre letture che abbiamo proclamato insistono così tanto sul custodire sia il singolo fratello sia tutta la comunità in un legame di unità. Non principalmente per una ragione strutturale o morale, giuridica o disciplinare ma perché l’uomo da solo non regge, l’uomo separato dagli altri perde se stesso, non comprende più se stesso. La comunione fraterna, la solidarietà umana non sono solamente delle realtà che si giocano all’esterno dell’uomo, come se non avessero influsso sul suo essere intimo e personale. No, noi viviamo giorno dopo giorno grazie a questa comunione, noi viviamo delle relazioni, noi viviamo anche grazie alle persone che ci stanno accanto. “La vita è un cammino – ha detto il Papa – un cammino lungo, ma un cammino che non si può percorrere da soli. Bisogna camminare con i fratelli alla presenza di Dio”

Il vangelo di oggi è preceduto e potremmo anche dire collegato, introdotto dalla parabola della pecora smarrita che si stacca dal gregge e va per la sua strada e così si perde, perde se stessa. Non semplicemente percorre una via diversa rispetto alle altre ma entra proprio in una situazione di smarrimento, non sa dove va, diventa una pecora perduta. Da qui scatta la sollecitudine del pastore che va alla ricerca della pecora, immagine del desiderio e dell’azione del Padre celeste che non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli. E da queste parole si passa al brano di oggi che ci offre una prassi molto precisa, a tappe graduali e sempre più coinvolgenti per la comunità nell’andare incontro, nel farsi prossimo del fratello ferito dalla propria colpa. È evidente il legame tra questi due brani: ciascuno di noi è chiamato ad incarnare questa sollecitudine del Padre nel farsi incontro, nell’andare a cercare il fratello smarrito. Se ci pensiamo bene, cari fratelli e sorelle, che grande chiamata oggi riceviamo, che grande fiducia il Padre ci dona per renderci strumenti vivi del suo amore misericordioso che va alla ricerca non del più bravo e del più santo, ma del più bisognoso. E questo non dobbiamo dimenticarlo mai! Perché se lo dimentichiamo rischiamo di fallire già in partenza l’opera di riconciliazione. Il Padre non ci manda a sradicare la zizzania nel mondo, il Padre non ci invita a puntare il dito in continuazione o a cercare instancabilmente motivi per esortare gli altri a ravvedersi. No! Il Padre ci manda nel mondo, e anzitutto nel nostro piccolo mondo che è la nostra casa, i nostri famigliari, i nostri fratelli e coloro con i quali viviamo e lavoriamo, come strumenti di comunione, artigiani di pace e di riconciliazione, come strumenti di unità e di carità. È una vera e propria vocazione quella che abbiamo ricevuto. Potremmo dire che l’altro per me è una vocazione cioè una chiamata. Siamo spesso abituati a comprendere la nostra vocazione solo in rapporto a Dio, e questo va bene. Ma non possiamo trascurare la chiamata che il fratello, che l’altro, in certo modo, rappresenta per me e per tutta la comunità. Il fratello e soprattutto il fratello in difficoltà, il fratello ferito dal male volontario o involontario, voluto o non voluto, colpevole o non colpevole, è una chiamata che come tale (come accade anche per la vocazione) possiamo ascoltare o ignorare. La prassi precisa che il vangelo di oggi ci consegna traduce l’urgenza di impegnarsi per fare di tutto per evitare che questa chiamata rimanga inascoltata, per evitare che il fratello rimanga solo nella sua difficoltà, solo nella sua colpa, fare di tutto per evitare che le persone con cui abbiamo a che fare si chiudano in se stesse o, ancor peggio, trovino una comunità avversa o nemica che esclude il debole. E qui arriva il bello del vangelo di oggi, perché la comunità accogliente, la comunità che sa gestire con carità, con tatto, con delicatezza anche le situazioni in cui si tocca con mano la fragilità dei suoi membri è una comunità che può vivere questa missione di riconciliazione ad una sola condizione: se essa stessa è una comunità riconciliata, non nel senso che si va tutti d’accordo e non ci sono conflitti, ma nel senso di una comunità che conosce, che ha fatto davvero esperienza dell’amore e della misericordia del Padre; solo così potrà agire come lui senza essere un giustiziere spietato. “E’ un dato dell’esperienza che la correzione fraterna è facile ed efficace quando esiste un clima famigliare di amore, perché il fratello corretto si sente amato personalmente; ma è molto difficile, per non dire impossibile, quando la comunione fraterna manca. Perciò dobbiamo impegnarci con tenacia a creare un ambiente cordiale, caldo, pieno di fiducia, tollerante e comprensivo nei nostri gruppi e comunità cristiane.” (Basilio Caballero, la Parola per ogni domenica, pag 267) L’allontanamento del membro malato di cui parla il vangelo è un fallimento per la comunità e in quanto tale dev’essere considerato come una prassi medicinale, temporanea (le famose scomuniche, che ancora esistono, sono proprio questo, sono pene medicinali, strumenti di cura per richiamare alla comunione). Perché laddove non c’è comunione, cari fratelli e sorelle, non abbiamo paura di dirlo, c’è la morte: se muore la relazione con un fratello in fondo muore anche una parte di noi stessi, muore una parte della comunità non solo quantitativamente (perché ce n’è uno di meno) ma essenzialmente, nella sua essenza di comunità di amore, è il deserto che ci entra nel cuore. Ma laddove i fratelli vivono insieme, cioè con il cuore unito, là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre, come dice il salmo.

Il fatto è, e con questo concludo, che siamo tutti, almeno un pochino, delle pecore perdute e continuamente cercate, amate, desiderate e ritrovate dal Padre per essere unte con il balsamo della sua misericordia. Dunque pecore in conversione, pecore che continuamente cercano di prendere la strada buona, la via della pace, il cammino verso l’unità del gregge e la comunione con il Padre. Insomma, l’invito alla comunione è inscindibile dall’invito alla conversione come ci ha ricordato recentemente il nostro papa Francesco: “Il dono divino della riconciliazione, dell’unità e della pace è inseparabilmente legato alla grazia della conversione: si tratta di una trasformazione del cuore che può cambiare il corso della nostra vita e della nostra storia.” (Papa in Corea 18 agosto 2014). Sia questa la strada che anche noi oggi scegliamo o riscegliamo: guardare, accogliere, cercare il fratello come lo guarda, lo accoglie, lo cerca Gesù.

 

Domenica 27 luglio 2014 - XVII Domenica Tempo Ordinario - diac. Mario Gazzeri

(1Re 3,5.7-12   Sal 118   Rm 8,28-30   Mt 13,44-52)

Nella prima lettura abbiamo ascoltato che Salomone viene guardato dal Signore con occhi di particolare attenzione perché si riconosce incapace di svolgere con le sue sole forze il compito a cui era stato chiamato e invoca da Dio il dono di poter governare con cuore docile, capace di rendere giustizia. E il Signore rivolge su di lui il suo sguardo compiaciuto e gli concede il dono della saggezza.

Dio voglia che anche per noi avvenga lo stesso: che anche su di noi il Signore volga il suo sguardo compiaciuto, perché ci sentiamo bisognosi di tutto, incapaci di affrontare le sfide della vita lontani dal suo sguardo, lontani dalla sua volontà, lontani dal suo regno. Voglia il Signore donarci quella sapienza che ci rende capaci di poter accogliere e comprendere la sua Parola di vita.

Il Vangelo di Matteo insiste ancora oggi sul regno di Dio, narrando quegli insegnamenti che insistentemente Gesù impartiva ai suoi discepoli, perché comprendessero quanto la realtà del regno era in effetti vicina alla loro vita.

Certo nelle aspettative degli apostoli, quel regno era probabilmente tutt’altra cosa, un sogno di grandezza, di potere, di prestigio, di rivalsa su tutti coloro che li avevano oppressi fino a quel momento. E invece quel regno annunciato da Gesù per mezzo di parabole è davvero altro, presentato con esempi semplici, banali, che scaturiscono da una sapiente attenzione ai fatti della vita quotidiana.

Questa presentazione del Regno di Dio occupa l’intero capitolo 13 del Vangelo di Matteo, che contiene il cosiddetto racconto delle parabole. Il brano di oggi termina questo discorso che era stato introdotto due domeniche fa dalla parabola del seminatore che definisce l’annuncio della Parola di Dio come Parola che parla direttamente del Regno di Dio.

Il brano evangelico della scorsa settimana e quello odierno costituiscono in effetti una sola unità in cui le due pericopi si completano e si illustrano a vicenda: tutto è per così dire racchiuso fra le due parabole del grano e della zizzania da un lato e quella dei pesci buoni e dei pesci cattivi dall’altro.

All’interno di questa cornice il Signore pronuncia due coppie di brevissime parabole, in cui il Regno viene paragonato al chicco di senape e al lievito in un caso e a un tesoro nascosto e ad una perla preziosa nell’altro. Il brano della settimana scorsa si concludeva con una esortazione: Chi ha orecchi, ascolti! Il brano odierno si conclude invece con una domanda: Avete compreso tutte queste cose?

Se il brano della settimana scorsa metteva l’accento sul nascondimento con cui il Regno di Dio si manifesta, quello di oggi parla invece della sua preziosità: una volta scoperto, il Regno viene trovato così prezioso da coloro che lo hanno rinvenuto, da meritare di investire tutto ciò che possedevano pur di poterlo avere per sé.

Poco importa il modo in cui questi tesori vengono rinvenuti, poco importa se l’agricoltore che lavora il campo si trova davanti il tesoro in modo inatteso e poco importa se la perla preziosa viene trovata perché oggetto di ricerca accurata da parte di un esperto mercante: non il modo con cui si viene a contatto con la cosa preziosa è importante, ma l’aver scoperto la sua preziosità, l’aver realizzato che quello che è davanti agli occhi increduli dell’agricoltore o del mercante è davvero cosa inestimabile, cosa per la quale merita lasciare tutto ciò che si ha pur di poterla avere.

I Padri della Chiesa hanno spesso interpretato queste due parabole considerando il tesoro come l’immagine di Dio che è in ciascun uomo, quell’immagine che è spesso sepolta sotto le macerie e la sporcizia della vita di tutti i giorni. Quando ci viene concessa la grazia di rimuovere questa sporcizia ed entrare in contatto con questa immagine radiosa, tutte le altre cose diventano d’improvviso meno importanti e possiamo trovare in questo nucleo prezioso la vera vita per cui possiamo vendere tutto il resto.

È importante quindi, anzi fondamentale, rendersi conto che tutto ciò che si possiede, che ha finora dato senso alla nostra vita, è davvero ben poca cosa di fronte alla grandiosità del dono ricevuto, riscoperto. Come scrive il Card. Piovanelli in una sua riflessione sulla liturgia odierna, il cristiano non è uno che lascia, ma uno che trova: trova un tesoro che non finisce mai di scoprire.

E se l’esortazione finale di domenica scorsa invitava personalmente ciascuno di noi ad avere occhi ed orecchi attenti per scorgere e accogliere i semplici segni con cui il Regno ci viene proposto, la domanda di oggi ci invita invece a riflettere.

Avete compreso tutte queste cose? Il Signore rivolge questa domanda a ciascuno di noi, ad ognuno chiede se abbiamo davvero compreso il messaggio contenuto nel racconto del Vangelo. I discepoli rispondono “Sì”, ma sappiamo bene che quel loro sì era ben lontano dall’essere davvero consapevole, sappiamo bene come tutti abbandonarono il Signore nel momento cruciale della sua vicenda umana, sappiamo bene come, aldilà delle buone intenzioni del momento anche per loro, che pur avevano vissuto a lungo assieme al Signore, fosse difficile comprendere davvero, accettare davvero, amare davvero.

E così oggi Gesù ci invita a riflettere, a chiederci se anche per noi, che magari celebriamo regolarmente l’Eucaristia e siamo fedeli alla “lectio divina”, c’è il rischio di fare abitudine alla perla preziosa, al tesoro nascosto, così che il privilegio di avere questa ricchezza non soltanto non ci meraviglia più, non ci fa più sobbalzare di stupore, ma lo viviamo come una cosa scontata e senza conseguenze per la nostra vita di tutti i giorni.

Gesù Risorto ha spiegato ai discepoli tutto il senso della Scrittura: “tutto ciò che nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi è scritto di me” (Lc.24, 44). E io, tu, ci sentiamo invitati a renderci conto, a prendere coscienza, attraverso la riflessione seria sulle Sacre Scritture, dell’immenso dono che abbiamo ricevuto da Dio?

Di più, il Vangelo mi incalza: Dio per te e per me è un tesoro o soltanto una fatica? È perla della vita o solo un dovere?

Probabilmente, presi alla sprovvista, magari per il timore di fare un brutta figura, anche noi siamo spinti a rispondere con un sì indeciso come quello dei discepoli, per poi accorgerci della fragilità di questa affermazione.

Quando si prende poi coscienza che davvero per ognuno di noi fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare infinito della nostra piccolezza, potremmo essere tentati di divenire preda dei sensi di colpa, di avvolgerci in una spirale di demoralizzazione che porta diritto verso il nulla, verso l’annientamento.

Ma proprio le due parabole del grano e della zizzania, come quella dei pesci buoni e dei pesci cattivi, quelle due parabole che il Signore ha voluto mettere in una luce particolare, tanto da dedicare loro una spiegazione specifica, ci vengono in soccorso, perché ci parlano dell’infinita pazienza di Dio, della sapienza con cui egli accetta che in noi siano contemporaneamente presenti accenti di bene e accenti di male, per poter al momento opportuno eliminare ciò che è cattivo in noi e lasciare in luce solo la parte buona, la parte migliore, quella che è modellata sull’amore stesso di Dio, in modo da far avverare anche per noi la sua parola: Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro.

Signore Gesù, Figlio del Dio vivente e presente in mezzo a noi nella Santa Eucaristia, che ci hai donato quell’immenso tesoro che è la tua Parola, che il tuo Spirito Santo non cessa di sussurrare ai nostri orecchi e ricordare al nostro cuore, non permettere che il tesoro immenso del Regno di Dio, quel regno che si concretizza con la tua persona, con la tua parola viva, con l’azione sommessa, ma instancabile dello Spirito Santo che continuamente ci parla e ci rivela l’amore del Padre, non permettere che tutto questo passi senza essere notato, senza essere scoperto con stupore rinnovato, non permettere che l’Eucaristia, questa Eucaristia che anche oggi stiamo celebrando, cessi di essere per noi faro della vita, certezza di grazia, sorgente di amore.

Trasforma, ti preghiamo Signore i nostri flebili e incerti “sì” in coraggiose e consapevoli affermazioni che sappiano mettere completamente in gioco la nostra vita, abbandonando ogni nostra certezza e valore precedente, per consegnarci completamente, finalmente inermi, senza più difese né false certezze, alle tua braccia spalancate per noi sul legno santo della croce.

Anche a noi, ti preghiamo Signore, rivela il senso delle scritture, come hai fatto ai discepoli di Emmaus, in modo che le nostre dure orecchie possano scoprire gli immensi tesori della tua grazia e finalmente consentire ai nostri cuori di aprirsi alla meraviglia, alla contemplazione, al rendimento di grazie, alla volontà di voler tutto abbandonare per tutto ricevere dalla immensa bontà del Padre.

Amen

 

mercoledì 25 giugno 2014 – XII settimana T.O. - fr. Giovanni Battista FMJ

 

La parola del vangelo di oggi sembra rinnegare, contraddire, quella di due giorni fa dello stesso discorso della montagna. Due giorni fa, se ci ricordiamo, Gesù ci invitava a non giudicare gli altri perché con la misura con la quale misuriamo sarà misurato a noi. E abbiamo visto come la via della revisione personale, della conversione personale, il togliere la trave dal proprio occhio prima di andare a curare l’occhio del fratello, fosse il percorso, che mai si esaurisce in questa vita, che il Signore ci aveva additato. Oggi invece, più in là solo di qualche versetto nello stesso discorso della montagna, Gesù ci invita ad avere uno sguardo critico, cioè capace di guardare e di valutare come si comporta il profeta e, sulla base dei frutti che porta nella sua vita, capire se sia un profeta che viene da Dio oppure no.

Come mai questa differenza? Prima Gesù ci dice di non giudicare e oggi ci invita a riconoscere, smascherare e dunque valutare i frutti buoni o cattivi del profeta? Lascerò a voi scavare meglio la questione e trovare delle piste di approfondimento dell’argomento; io mi limito ad offrirvi una possibile chiave di lettura.

Gesù, nel parlare ai discepoli dei falsi profeti, sembra riferirsi ad altre persone, a terzi. E questa supposizione è plausibile. Ma non possiamo escludere una possibilità: e se invece Gesù, nel parlare dei profeti non si riferisse solo a terzi, ad altri, in quel momento assenti, ma si riferisse ai discepoli stessi e, dunque, a ciascuno di noi che oggi l’ascolta? Del resto anche noi, lo sappiamo e lo crediamo, siamo profeti perché grazie al battesimo abbiamo ricevuto il munus profetico dei figli di Dio. Anche noi siamo responsabili della diffusione Parola di Dio nel mondo mediante l’esercizio del nostro munus profetico battesimale. Se questo è vero, come è vero, allora significa che grazie al battesimo abbiamo anche noi le carte in regole, il diritto e la conseguente responsabilità di considerarci parte effettiva, veri membri del gruppo dei profeti perché il battesimo ci ha abilitati a questo. Ecco che se le cose stanno così pian piano la situazione diventa più chiara, perché se anche noi siamo profeti la parola di oggi non è più invito a giudicare gli altri ma ad esaminare ed emendare noi stessi. Anche qui, come due giorni fa, rimane la stessa urgente necessità: se prima si parlava di trave nel proprio occhio, ora si parla di lupo nascosto sotto il manto di una mite pecorella. Non possiamo essere veri profeti nel nostro mondo, non possiamo togliere la pagliuzza nell’occhio del fratello, non possiamo annunciare e testimoniare con efficacia la Parola di Dio se siamo delle belve, se non rendiamo pecora anche la belva che c’è dentro di noi; in altri termini, se non lasciamo che la Parola (che è profezia) che annunciamo agli altri ferisca noi per primi, ferisca il lupo che siamo e lo renda docile e mite come un agnello, che riconosce, la voce, la Parola, del buon Pastore. Lupi riconciliati con Dio e con gli altri. Se la prima lettura ci ricorda lo stracciarsi le vesti del re Giosia alla proclamazione della Legge ritrovata nel tempio, il profeta, di fronte alla stessa parola, non si straccia le vesti ma si straccia il cuore, come tra l’altro altri profeti, per esempio, Gioele, invitavano a fare: laceratevi il cuore e non le vesti.

La via che il Signore ci indica è semplice, nel senso di non doppia, non ambigua: se il Signore cresce dentro di noi faremo qualcosa di buono in suo nome, se no rischiamo di essere anche noi lupi travestiti.

 

martedì 24 giugno 2014 – Natività di san Giovanni Battista - fr. Giovanni Battista FMJ


         La solennità di oggi è fonte di gioia per noi, per tutta la Chiesa e in particolare per la nostra città di Firenze che festeggia il suo patrono. Nasce Giovanni Battista il precursore del Signore.

La sua nascita, così come ci viene presentata nei vangeli, è accompagnata da gioia grandissima; i testi insistono più volte su questo aspetto della gioia come è naturale che sia per la nascita di un bambino così, e di qualunque bambino. Ogni vita è un dono che viene da Dio, nessuno nasce per caso, ma ogni uomo che viene al mondo è segno visibile, concreto del Dio creatore che continua la sua opera sublime nel plasmare nel mondo la sua immagine che è l’uomo, “cosa molto buona”, secondo la Genesi.

Dietro ogni nascita, o meglio dentro ogni nascita, c’è il mistero del Dio presente nella vita del mondo e degli uomini che immette, se così si può dire, un nuovo segno della sua presenza e del suo amore nella comunità umana. Accogliere la vita significa accogliere Dio stesso che attraverso questa vita ci viene incontro, ci dice qualcosa, ci dona qualcosa: la vita stessa è un dono per il semplice fatto che chiede di essere accolta come tale. E il dono porta in sé la dimensione della gratuità: ha valore in sé e ha valore perché ci ricorda e, nel caso dell’uomo, ci rappresenta, qualcosa del suo donatore. In un tempo come il nostro in cui anche alla vita umana si vuole sottrarre, o piuttosto celare, questo carattere unico e gratuito del dono, in un tempo in cui si vuole programmare e organizzare tutto (anche le nascite dei bambini e persino, secondo alcuni, le caratteristiche genetiche) la nascita di oggi del Precursore del Signore e la gioia che pervade tutti coloro che sono coinvolti in questo evento ci ricorda che ogni vita umana è sacra perché non è solo un dato biologico, ma ogni vita umana, anche qualora, parlando per estremo, non fosse voluta dai genitori o addirittura venisse da un atto di violenza, ogni vita umana è sempre una “chiamata alla vita” e tale rimane fino alla morte.

La prima lettura ci da di ascoltare il secondo canto del servo del Signore, e il profeta, nel parlare della vocazione di questa misteriosa figura, fonda tutto su questa chiamata originaria e fondante che precede ancora la sua visibilità esterna e pubblica: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome.” Anche per noi, cari fratelli e sorelle, c’è un nome singolare ed unico che Dio ha pronunciato su ciascuno di noi e un nome che, in certo senso, continua a ripetere lungo tutto l’arco della nostra esistenza. Quanto abbiamo bisogno di recuperare questa chiarezza della “provenienza divina” di ogni uomo.

Perché noi, purtroppo, qualche volta abbiamo il potere, o piuttosto la sventura, di trasformare i doni di Dio in pesi per la nostra vita, in ostacoli da superare, eliminare o strumentalizzare (cioè ti accolgo nella misura in cui mi servi a qualcosa). Solo se i doni di Dio sono accolti come tali possono essere davvero fonte di gioia non solo per chi li riceve direttamente ma anche per chi assiste o è in qualche modo coinvolto in questo chinarsi di Dio sugli uomini. La nascita di Giovanni Battista è anzitutto questo: fonte di gioia in quanto riconosciuta come dono, ancora più evidente in una coppia anziana e sterile come erano i due coniugi Zaccaria ed Elisabetta. Ricordiamo bene che la sterilità, in quel tempo, era concepita come una specie di assenza della benedizione divina, come l’essere dimenticati da Dio. “Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita…” (Lc 1,13-14). E così la gioia di una famiglia diventerà la gioia di molti che si domandavano: Che sarà mai questo bambino?

Ben presto questo interrogativo, diventerà un’incognita che perdurerà sempre sulla figura del Battista, un uomo di Dio tanto simile al rabbi Gesù, lampada così somigliante alla luce vera che veniva nel mondo, da suscitare perplessità sulla sua identità, anche e soprattutto tra le autorità religiose. Il vangelo di Giovanni ci riporta proprio quella specie di interrogatorio di cui fu oggetto Giovanni Battista quando sacerdoti e leviti vennero da Gerusalemme per capire meglio chi era: “Chi sei tu?” Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono il Cristo” Ma allora che cosa dici di te stesso? Io sono voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia.”(Cfr Gv 1,19-23) In questa definizione che Giovanni da di stesso si racchiude tutto il segreto della sua missione.

La grandezza di Giovanni Battista è che non si è limitato a fare qualcosa per il Signore a dare una testimonianza, ma ha saputo leggere la propria vita, tutta la propria vita, in ogni ambito nulla escluso, alla luce di una relazione fondante, tanto da applicare a sè una categoria del tutto relativa, che presa in se stessa cioè non ha consistenza se non è abbinata a qualcos’altro: io sono voce di una che grida. La tradizione patristica sintetizzerà l’identità del Battista in ‘voce della Parola’. Giovanni Battista si definisce voce non delle sue parole, ma voce della Parola di un altro. La grandezza di Giovanni Battista è proprio questa: ha saputo relativizzarsi, ha relativizzato se stesso sempre di più, fino a scomparire, per lasciare posto al Dio veniente. A noi il relativo ci piace poco perché noi vogliamo la nostra identità, il nostro spessore, la nostra autorevolezza, vogliamo valere qualcosa di fronte agli altri, avere un peso ed un’importanza e guai a chi non ce la riconosce.

San Giovanni quest’oggi ci insegna la via del vero umanesimo cristiano che è la via del ‘relativo al Signore’: L’uomo non è mai così valorizzato come quando si fa relativo a Dio mettendo il Signore al centro della propria vita. Se vince Gesù vinciamo anche noi, se no rimaniamo nel nostro piccolo microcosmo a fare i leoni, i re della giungla. Questo vivere la propria vita e la propria missione, quanto mai importante, come un relativo al Signore, come un servo inutile, è quanto ha custodito Giovanni nella gioia: quella gioia che alla nascita aveva rallegrato molti, quella gioia che aveva fatto esultare il piccolo Giovanni nel seno di sua madre all’incontro al saluto di Maria e di Colui che lei portava nel grembo, è la stessa gioia che si compie, che diventa perfetta e piena in quel “Egli deve crescere e io invece diminuire” che riassume tutta la missione di Giovanni e che tra l’altro è anche cosmicamente simboleggiata dalle due solennità liturgiche: quella di oggi all’inizio dell’estate quando la luce del sole inizia a diminuire, e il Natale del Signore, all’inizio dell’inverno, quando torna a crescere.

Giovanni Battista, grazie della tua radicalità. Hai amato Gesù più di quanto amavi te stesso e rimani per tutti noi un testimone autentico, un solitario per Dio sempre in ricerca, un amico della verità a cominciare da quella di te stesso. Hai odiato doppiezze e ambiguità, sia nel popolino che nei palazzi dei re, e fino all’ultimo hai respinto le false immagini che la gente si faceva di te sapendo che nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo (Gv 3,27). Da te, caro Giovanni, impariamo che non c’è radicalità senza verità, e che non c’è vera testimonianza di Gesù senza mettere se stessi da parte. Guidaci al Signore, come un tempo facevi con le folle, perché possiamo anche noi esultare di gioia alla voce dello Sposo come tu esultasti nel grembo di tua madre Elisabetta, alla voce della sposa.

 

Domenica 22 giugno 2014 – Solennità del Corpus Domini - fr. Giovanni Battista FMJ

 

C’è come una specie di provocazione che il Signore in dialogo nella sinagoga di Cafarnao lancia ai Giudei e alle persone che aveva di fronte. Una specie di sfida: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Già molti nell’ascoltarlo erano perplessi: Come può costui – mormoravano – darci la sua carne da mangiare? – Ora addirittura Gesù parlando in questo modo è come se dicesse loro: guardate che voi non siete vivi, voi non avete vita! Eppure loro erano vivi e stavano di fronte a lui. Bisogna cercare di capire di che vita stia parlando il Signore Gesù con loro, ma anche con noi quest’oggi perché quando una lettura viene proclamata in chiesa non è Dio che parlava ma è Dio che parla ora a noi qui presenti.

Gesù parla di vita a persone viventi: dicendo: attenzione voi rischiate di non avere in voi la vita. Ma di che vita si tratta? Si tratta proprio del mistero che quest’oggi la Chiesa ci invita a contemplare, ad adorare, ad accogliere: Il Corpo e Sangue del Signore. Siamo forse così abituati a nutrirci dell’Eucaristia che rischiamo di celebrarla più come una pratica religiosa che come un incontro trasformante, più come momento individuale che come ingresso nella comunione per Cristo con tutto il suo corpo, speriamo almeno non come una specie di speciale pozione magica da ricevere in modo superstizioso. Perché l’Eucaristia non è anzitutto una “cosa”, un “oggetto” più sacro degli altri, ma è un mistero di vita e di amore che chiede di essere celebrato, accolto e vissuto in quelle “eucaristie quotidiane” che dovrebbero essere le nostre giornate.

Ma lasciamoci illuminare un po’ dalla Parola di Dio, in particolare da san Paolo. San Paolo ripete cose che già sappiamo e che anche i Corinzi a cui scriveva certamente già sapevano, dato che usa la forma letteraria della domanda retorica: “il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?” Ecco che, se stiamo attenti a quello che Paolo dice, soprattutto all’ordine delle sue parole, vi scopriamo una teologia eucaristica straordinaria. Paolo scrive: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”. Per cui Paolo non parte dall’assemblea dei credenti per arrivare a formare l’unità della stessa, cioè non dice: noi poiché siamo molti riunendoci formiamo un corpo solo. Ma è esattamente il processo opposto: non è la comunità che fonda la comunione in un solo pane ma è questo pane che fonda la comunione della comunità. E questo è assolutamente importante e direi anche la dinamica discriminante tra la comunione in Cristo e le altre varie forme di unione fatte dagli uomini. Senza nulla togliere a quanto di buono ci siano nell’associarsi umano, però la comunione nel corpo di Cristo è un’altra cosa.

 C’è un pane, un solo pane, e poiché vi è un solo pane, noi, benché molti, siamo un solo corpo. È esattamente l’opposto. In quel pane c’è l’identità profonda, il dna della comunità che è il dna di Gesù. E infatti, se ci pensiamo bene, quando le comunità si sfasciano? Quando qualcuno in questo corpo di Cristo nel cui siamo inseriti immette del sangue, un dna, diverso, incompatibile per quel corpo (sapete no, ci sono i gruppi sanguinei compatibili e incompatibili ; fuori di metafora, dei criteri di unità, di legame, dei collanti che non derivano da quel solo pane che è il corpo di Gesù, ma da un corpo estraneo. Può essere opera umana, errore umano, ma può essere anche opera del Divisore, il diabolos, che vuole a tutti i costi iniettare il suo veleno in questo corpo, non tanto per ucciderlo, perché sappiamo che il Corpo del Signore in se stesso è divino ed immortale, ma per separare, dividere in se stesso, il suo corpo mistico che siamo noi. Non è difficile separarlo perché è un corpo che è già di suo multiforme, distinto, variegato come diceva sempre san Paolo: “Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la stessa funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all’insegnamento; chi esorta si dedichi all’esortazione.

Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.” (Rm 12,4-8) Ma se questa varietà così bella e voluta da Dio è a servizio del buon funzionamento del corpo e della sua crescita, il Divisore o i divisori, che vogliono opporre tra loro le varie membra con le gelosie, le invidie, le competizioni, le fazioni, fanno di tutto per mettere in cattiva luce e frantumare questa unità nella diversità. Come la Pentecoste anche l’Eucaristia possiamo considerarla l’antiBabele, la comunione fatta da Dio per gli uomini. La solennità di oggi è invito per tutti a cercare, a vivere, a costruire non in senso fondante, perché è qualcosa che ci precede, ma in senso, diciamo, coadiuvante, cioè assecondandola attivamente, questa unità tra noi e tra tutte le membra del corpo di Cristo che nel pane eucaristico è non solo simboleggiata ma soprattutto sacramentalmente ricapitolata. Ognuno di noi, ciascuno per la sua parte, è responsabile e custode di questa unità. Non dimentichiamo, cari fratelli, sorelle e amici che ferire l’unità tra noi che facciamo parte delle membra di Cristo significa in fondo ferire la comunione in Cristo, perché i due piani tendono a congiungersi ed ad assorbirsi nell’unico corpo di Cristo.

Fonte e culmine della vita cristiana insegna il Concilio parlando dell’Eucaristia. Abbiamo visto come è fonte: è quest’unico pane nel quale siamo un solo corpo. Ma l’Eucaristia è anche culmine, cioè qualcosa che non solo precede, fonda il nostro essere comunione e comunità, ma anche lo segue e lo compie. Ed è a questo punto che si colloca il nostro vivere eucaristico. L’Eucaristia non è solo adorabile ma è anche vivibile. Noi potremmo stare giorno e notte davanti al tabernacolo con i migliori sentimenti, e voltare le spalle al Corpo del Signore quando siamo a casa, al lavoro, in cucina, con gli amici, con la moglie, la fidanzata, i confratelli. Una specie di doppia vita: dalle estasi ai rancori, dalle mani giunte alle porte sbattute in faccia, dai sorrisi e i complimenti allo sparlare. L’Eucaristia resterebbe per noi un fiume che non arriva mai al mare, grazia sprecata e svilita. Ancora una volta, corpo ferito.

Tra l’Eucaristia fonte e l’Eucaristia culmine c’è la nostra vita che può essere un canale libero, che lascia sempre scorrere la grazia, o può essere come quelle arterie otturate che bloccano il sangue. Come un fiume, anche per l’Eucaristia: tra la sorgente da cui scaturisce e la foce a cui giunge l’acqua può scorrere ad una sola condizione: se scende! L’Eucaristia in noi ci fa percorrere lo stesso movimento di Gesù che è stato movimento di discesa: io sono il pane vivo disceso dal cielo. Gesù per nutrirci scende e anche per noi non c’è altro cammino: vivere l’Eucaristia significa scendere. Ma lo scendere di Gesù è preceduto da un altro movimento: l’uscire! Lo scendere di Cristo non è stato solo movimento dal cielo alla terra ma soprattutto movimento da Dio all’uomo. Per scendere bisogna uscire, è l’esodo, il cammino sostenuto dalla manna, di cui ci ha parlato la prima lettura e che anche Gesù ha vissuto.

Gesù accetta per amore di vivere questa discesa per dare a noi se stesso, e perché noi fatichiamo così tanto a scendere dal nostro piccolo cielo in cui talvolta ci auto collochiamo, a uscire nel nostro piccolo castello in cui stiamo tanto bene? Se l’Eucaristia è cibo vero e proprio, come dice Gesù: “la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda”, ecco che anche tutta la nostra vita, alimentata da questa manna celeste, è chiamata a diventare, come diceva sant’Agostino, ciò di cui si nutre: pane, vino, nutrimento per gli altri. In Cristo possiamo dare noi stessi come cibo. Ma solo chi esce e scende diventa cibo. L’Eucaristia è il sacramento dell’uscita da sé e della discesa per abbandonarci nelle mani del Padre consegnandoci nelle mani degli uomini, come fece Gesù. Nutrire l’altro di sé significa lasciarsi mangiare, ma non può essere fonte di nutrimento, non può essere cibo in Cristo, se non ciò che per Cristo, con Cristo e in Cristo è stato precedentemente offerto al Padre. È quanto vogliamo ripetere adesso in questa celebrazione del sacrificio di Gesù, memoriale della Pasqua. In questo calice e in questo pane noi non solo vogliamo contemplare l’uscita e la discesa di Gesù per giungere fino a noi, ma vogliamo contemplare anche il nostro Esodo, la nostra Pasqua, cioè la nostra uscita e la nostra discesa per diventare in Cristo, in certo senso, pane e vino per il mondo, a partire da coloro che ci sono più prossimi.

 

venerdì 20 giugno 2014 – XI settimana T.O. - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Nel vangelo di oggi Gesù va ancora più in là nell’esporci, in modo sempre più concreto, la logica delle beatitudini che aveva enunciato all’inizio del discorso della montagna. E se aveva parlato prima sia del rapporto che dobbiamo avere con Dio e con la Legge, sia del rapporto che dobbiamo avere con le persone, ora si arriva al rapporto che siamo invitati ad avere con le cose.

Nel fare questo Gesù non ci dice anzitutto: fate così e così, cioè non ci da, su questo punto, un manuale di indicazioni da applicare in modo meccanico. Gesù, nell’introdurre il discorso sul nostro rapporto con le cose non ci offre delle regoline da applicare in modo automatico su come fare beneficienza o come gestire i beni, perché Gesù non vuole fare di noi dei robot perfetti o dei computer ben programmati. Gesù va più in profondità, Gesù sollecita la nostra libertà e ci parla di un tesoro. “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Il nostro cuore, volenti o nolenti, consapevoli o non consapevoli, cerca un tesoro, insegue un tesoro. Il nostro cuore è sempre, come dire, in uno stato di sequela verso ciò da cui è attratto, verso ciò che ritiene prezioso. Il nostro cuore è un vuoto che cerca pienezza, e dopo averla trovata la cerca ancora e con un desiderio ancora più forte. Non esiste, nell’uomo, un cuore libero nel senso di slegato, emancipato da tutto e da tutti, ma il cuore dell’uomo è sempre un cuore in ricerca di questo tesoro e da esso dipendente. Tutto il resto nasce da qua, da qual è il tesoro che il nostro cuore brama: da qui scatta la logica conseguente dell’accumulo di questo tesoro, come dice il vangelo. Arricchire presso gli uomini e arricchire presso Dio sono le due vie che ci sono poste davanti.

L’invito che Gesù allora, tra le righe, rivolge a tutti noi e che stasera vogliamo accogliere in quanto di vitale importanza è proprio quello di scegliere il tesoro giusto perché dalla nostra scelta, dal nostro tesoro, dipenderà di conseguenza, il senso, la direzione che daremo alla nostra vita.

 

Secondo Gesù il buon tesoro è quello che si accumula non qui in terra ma in cielo. Cosa vuol dire questo nel concreto? Vuol dire che il buon tesoro non è altro che il nostro rapporto con il Signore, la comunione con Dio; questa è la perla, la più preziosa per la quale vendere tutto il resto, e questo diventa anche il criterio che deve animare il nostro operare su questa terra. Quando noi lavoriamo per ciò che nutre, fa crescere questo rapporto con il Signore in noi e negli altri, stiamo accumulando questo buon tesoro; quando noi ci facciamo riempire il cuore da altre cose, ecco che il nostro cuore, che è chiamato a contenere l’Infinito, di conseguenza si rimpicciolisce, si contrae e pian piano si chiude. Non si tratta di opporre terra e cielo, beni materiali a beni spirituali, e neanche di disprezzare i primi per esaltare fanaticamente i secondi, ma si tratta di guardare tutto alla luce di quel tesoro in cui il nostro cuore trova riposo. Perché che cosa giova all’uomo guadagnare, accumulare il mondo intero se poi perde e rovina se stesso?

 

Signore Gesù, unico tesoro e sola speranza della nostra vita, riempici di te e fa’ che ci lasciamo riempire, perché sappiamo vivere la nostra terra come via al cielo, ed essere segno per tutti gli uomini della vita bella, piena ed eterna che ci attende nella tua casa e che già pregustiamo quando stiamo presso di te.

 

Domenica 15 giugno 2014 – Santissima Trinità - fr. Giovanni Battista FMJ
 

         Parlare della Trinità non è mai cosa facile perché si tratta di un mistero insondabile. Arrivare ad ammettere l’esistenza di Dio questo è possibile alla sola ragione umana, anche se la Rivelazione, come ci ricorda il Vaticano I, facilita questa comprensione. Ma arrivare a dire che questo Dio non sia solo Unità ma sia anche caratterizzato al suo interno dalla relazione questo è un passo che l’uomo non può compiere da solo se non è Dio stesso a dirlo, a rendere partecipe l’uomo di sé. “Dio, nessuno lo ha mai visto – scrive san Giovanni nel prologo, e noi potremmo aggiungere che Dio, di per sé, nessuno può comprenderlo, capirlo nella sua realtà trinitaria, ma continua l’apostolo - il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato." (Gv 1,18)È dunque Gesù, la perfetta immagine del Padre, che ci apre l’accesso alla realtà intima e sublime di Dio che oggi contempliamo in tutta la Chiesa.

Il vangelo che ci è dato per questo giorno ci accenna qualcosa di questa relazione che Dio vive; ma non ce lo dice parlandoci di cosa accade dentro di Dio ma di cosa fa Dio fuori di sé quando si mette in relazione con gli uomini. Gesù usa tre parole importanti, tre parole chiave che sono: “amore” (Dio ha tanto amato il mondo), “dono” (da dare il suo Figlio, unigenito) e “vita eterna” (perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna). Tre parole che descrivono il perché Dio si rivela all’uomo (per amore), come si compie tale rivelazione (dandosi, dando se stesso), e il fine di questa rivelazione (perché tutti noi abbiamo la vita eterna, abbiamo parte, insomma alla vita di Dio). E tutto questo si compie attraverso Gesù. Ecco in queste tre parole: amore, dono e vita, si sintetizza tutto il mistero trinitario. Perché l’amore è dono per la vita dell’Altro. Del resto, come qualcuno ha affermato, il dogma trinitario non è altro che “lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui ‘Dio è amore’ (1Gv 4,8)” (Rémi Brague).

Se vogliamo conoscere Dio anche noi dobbiamo passare di qui, per la via dell’amore e del dono verso la vita eterna. Il modo migliore di comprendere il mistero trinitario è di viverlo. L’amore di Dio ha una caratteristica particolare, che essendo Dio stesso amore, non dice qualcosa di semplicemente emotivo, superficiale, marginale su Dio, ma esprime l’essere stesso di Dio: Dio è amore, e chi dimora nell’amore dimora in Dio. Cosa significa amore? L’amore Dio è dono di sé, amare significa uscire da se stesso, volgersi verso l’altro con un movimento così personale da offrire non qualcosa ma se stessi. Chi ama non solo dona ma si dona. Anzi l’esperienza umana ci insegna che quando uno dona qualcosa per amore senza donare se stesso in fondo non è vero amore. Dice proprio così il Cantico: “Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio”. Ma sappiamo anche che non c’è vero compimento di questo amore se non c’è anche qualcuno che accolga questo dono di sé. Il dono è il primo movimento di una relazione e chiede di essere accolto: è il mistero della libertà umana che emerge anche nel vangelo di oggi: “Chi crede in lui (chi accoglie lui, potremmo aggiungere) non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato.” Ecco che allora amore non è solo dono di sé all’altro ma anche accoglienza dell’altro che si dona. Il dono rimane incompiuto, incompleto se non c’è qualcuno che lo accolga, lo riconosca, lo faccia suo. E infine l’accoglienza di questo dono di sé che l’altro mi fa non può rimanere un movimento unilaterale ma è chiamata alla reciprocità, ad una risposta: risposta al dono di sé dell’altro con il dono di me medesimo. Così si compie l’amore, nella reciprocità del dono e dell’accoglienza.

In tutto questo che sembrano concetti aleatori, senza spessore concreto, cari fratelli e sorelle, si delinea per noi tutto un cammino di vita diverso, trasformato dall’amore, segnato nella sua essenza dall’amore in questa sua dinamica di dono, accoglienza e risposta al dono. Il cammino della santità si racchiude in fondo in questi tre movimenti che aprono la nostra vita ad una dimensione trinitaria. Basterebbe una domanda per farci riflettere: quanto, nelle nostre relazioni in casa, in comunità, al lavoro, nelle parrocchie, abbiamo a cuore di creare un ambiente, uno spazio, dei tempi, un’atmosfera che faciliti questo libero movimento di dono e di accoglienza tra di noi. San Paolo, nella seconda lettura ci da proprio dei consigli in questo senso, delle applicazioni concrete alla nostra vita di questo amore trinitario di cui Dio ci rende partecipi: “Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”. Significa, in poche parole, assumere quegli atteggiamenti che favoriscono il dono e l’accoglienza reciproca, quelle modalità che danno spazio all’altro. La cultura di oggi sappiamo che non è una cultura che ci aiuta in questo perché ci insegna più a imporci agli altri che a donarci agli altri. Sappiamo che l’imposizione è diversa dal dono, l’imposizione è obbligo, ha un nucleo di violenza e di aggressività; l’amore è dono che si propone, è offerta che chiede accoglienza libera e invita ad una risposta fiduciosa. Nessuno è perfetto nel vivere le sue relazioni però questa festa della Trinità ci aiuta a camminare verso questa perfezione di Dio (tendete alla perfezione dice san Paolo) che è la perfezione dell’amore. Smussare gli spigoli e le parti ruvide del proprio carattere e delle nostre abitudini, imparare ad accogliere gli altri così come sono senza pretendere sempre che siano diversi secondo i miei gusti, riconoscere, rispettare e amare l’alterità, la diversità dell’altro, chiedere la grazia di una vera riconciliazione, l’umiltà nel presentarsi e nell’accogliere, ritirarsi, quando occorre, per far riuscire l’altro, trovare più gioia nel dare che nel ricevere concedendo a sua volta anche agli altri questa gioia di dare, sono tutte piccole indicazioni concrete che ci aiutano ad assumere lo stile di Dio che è relazione e comunione: Non è un singolo, individuale che entra in comunione ma è comunione nella sua essenza.

Se non entreremo in questo mistero con la vita difficile potrà esserne la comprensione e la trasmissione agli altri. È questo il dono che quest’oggi invochiamo dall’alto come primizia di quella vita eterna nella Gerusalemme del cielo che non sarà vita solitario a tu per Tu con Dio, ma sarà vita di comunione in cui Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, sarà tutto in tutti.

 

sabato 14 giugno 2014 – X settimana T.O. - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Ci troviamo in quella parte del discorso della montagna detta “delle antitesi”. Sappiamo che tutto questo discorso è collocato in una cornice di carattere legislativo perché che il fatto che Gesù salga sul monte e si ponga a sedere con i suoi discepoli vicini, ha un forte carattere simbolico per l’uomo biblico, gli richiama subito Mosè, la Legge, il Sinai, e la cattedra, lo stare seduto che è la posizione di chi insegna. Gesù, in questo discorso, preciserà qual è il suo rapporto con la Legge di Mosè: ne parla in termini non di abolizione ma di compimento, per cui non si tratta di opporre Legge e Beatitudini, Mosè e Gesù, ma di vederli in continuità e compimento: Gesù cioè riprende il cuore, il senso della Legge e lo porta più in là, lo invera, compie i valori più profondi che le erano sottesi e talvolta, con il tempo, anche un po’ usurati, pensiamo, per esempio, al discorso del matrimonio. A Gesù però, e questo è molto importante, non preme innanzitutto di darci una nuova produzione legislativa, un nuovo codice di leggi, quanto piuttosto delineare, anche attraverso delle indicazioni concrete, un nuovo modello di umanità, l’uomo nuovo a cui ciascuno di noi è chiamato. Anche l’antitesi di oggi possiamo dunque leggerla e comprenderla su questo sfondo. Che cos’era il giuramento? Era una prassi molto diffusa nell’antichità attraverso la quale si avvalorava ciò che si diceva, se ne prometteva la autenticità, ricorrendo ad una testimonianza esterna ed eventualmente superiore (il vangelo di oggi cita il cielo perché è il trono di Dio, la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, Gerusalemme perché è la città del gran re). Ora Gesù, nell’invitarci non solo a non spergiurare ma a non giurare affatto, ci vuole dunque aiutare a camminare verso questa umanità nuova che sta sotto tutto il discorso della montagna. La chiarezza a cui il Signore ci invita non è dunque né solo una nuova legge né semplicemente un’esortazione ad essere più onesti, ma racchiude una visione più profonda che è quella del nuovo stile di vita dell’uomo nuovo. Oggi, in questa antitesi, è come se Gesù ci dicesse: abbiate un modo di parlare tale che la gente si possa fidare di voi senza dover ricorrere ad altre garanzie, giuramenti, parole d’onore. Sia la vostra vita una garanzia di quello che dite! Se la logica del giuramento è quella che dice: se non hai fiducia in me, avari fiducia almeno in colui per il quale giuro, il discorso della montagna ci chiama invece ad una chiarezza e ad una semplicità nell’uso della parola che non è solo buona deontologia, o linguaggio politicamente corretto, ma impegno per costruire una società e delle relazioni non più dominate dal timore della menzogna o dalla sfiducia reciproca. Pensiamo quanto al giorno d’oggi la parola sia ormai logora, usurata. Anche tra i mezzi di comunicazione sociale talvolta la verità rischia di essere sacrificata rispetto ad altri criteri quali, per esempio, quello della curiosità, dello scoop, dell’attrazione più o meno percettibile a livello conscio, del potere. Anche in questo la nostra vita è chiamata ad una profezia che non è altro che assumere in toto, anche nel modo di parlare, lo stile di Gesù. San Paolo dice che in Cristo tutte le promesse di Dio sono divenute sì. Come per dire che il Padre era così sicuro della fedeltà e dell’amore del Figlio Suo che gli ha affidato tutti i suoi giuramenti, le sue alleanze, tutti i suoi voti. E Gesù, dal canto suo, li ha compiuti con la parola e con le opere, con la lingua e con il corpo, fedele addirittura fino alla morte. Anche noi siamo chiamati a questa libertà, libertà nel vivere, libertà nel parlare, libertà che esprime la vita nuova radicata nella carità di Cristo. “Ama e fa’ ciò che vuoi. Se taci taci per amore. Se parli parla per amore. Sia il tuo cuore radicato nell’amore. Da questa radice non può uscire che del bene” Sant’Agostino

 

mercoledì 11 giugno 2014 – San Barnaba - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Nel nome dell’apostolo Barnaba è racchiuso tutto un programma di vita. Il nome di Barnaba lo traduciamo comunemente come figlio dell’esortazione, anche le nostre traduzioni della Bibbia ci presentano questa versione. Però il testo greco ci consente di tradurre il nome di Barnaba anche in modo differente con una sfumatura interessante e cioè non solo figlio di esortazione, ma anche figlio di consolazione. Qui abbiamo una prima luce di questo nome così bello che, in qualche modo, già illumina la vita e il ministero di san Barnaba ma anche di ogni apostolo e di ogni testimone. Perché san Barnaba così come ogni apostolo, ogni inviato, ha ricevuto una missione e di esortazione e di consolazione. La consolazione nasce dalla consapevolezza che il regno dei cieli è vicino, i tempi nuovi, i tempi messianici, ossia quelli della salvezza e della consolazione eterna sono ormai alle porte: è giunto il tempo della consolazione che è anche tempo di misericordia. È la misericordia, l’amore di Dio che attrae, converte i cuori e li apre alla speranza della vita nuova. Come non ricordare le profonde parole di san Paolo in cui, in qualche modo, raccontava la sua grande consolazione: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede.” (1 Tim 12-13) La consolazione è fiducia, è forza che trasforma i cuori e li apre alla speranza di vita nuova.

 L’apostolo, in questo senso, dev’essere anzitutto un consolatore, qualcuno che rende presente la consolazione divina, il Dio che ci consola. Il vangelo elenca vari segni prodigiosi che accompagnano la parola dell’apostolo: “guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni” Cosa sono questi se non segni visibili, presenti, tangibili, della consolazione efficace di Dio. L’apostolo dunque è qualcuno che prima di tutto sa consolare: non impone dei doveri, ma offre, sparge l’amore di Dio che è anzitutto accoglienza e amore. E, se ci pensiamo bene, quanto il nostro mondo e noi stessi abbiamo bisogno di questa profonda consolazione che non è tanto una coccola sdolcinata, ma è energia che fortifica e ci da nuovo vigore nel cammino. Si può proprio dire che forse oggi più che mai il mondo ha bisogno di autentici consolatori che vincano, con le loro parole, il loro affetto, la loro presenza, la tristezza e la solitudine del mondo che è sempre in agguato per tutti.

Ma l’apostolo, proprio perché testimone di questo amore divino che non solo ‘vuole bene’, ma ‘vuole il bene’ delle persone a cui è inviato, si fa anche portatore di un’esigenza. Sempre san Paolo raccomandava a Timoteo: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta, con ogni magnanimità e insegnamento. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole. (2 Tim 4,1-4)” La consolazione va sempre di pari passo con la verità che, con dolcezza, rispetto e anche gradualità quando occorre, l’inviato propone a se stesso e a tutti. Qualche volta i maestri che sembrano i più severi sono quelli che ci aiutano davvero nel nostro cammino dietro a Gesù e ci vogliono davvero bene, quelli invece tutti sorrisi e compiacenze pur apparendo, ad un primo istante, più gratificanti ci lasciano nelle nostre immaturità. L’apostolo, l’uomo di Dio, come dice sempre Paolo, è l’uomo completo, che unisce carezza e forza, dolcezza e vigore per la crescita dei suoi figli. In fondo è colui che, come docile strumento di Dio, fa sue le proprietà dello Spirito Santo il Paraclito, l’evangelizzatore per eccellenze, colui che consola ed esorta. Il Signore rinnovi l’effusione del suo Spirito Santo nei nostri cuori, ci infiammi della consolazione divina e ci esorti ad una scelta radicale di vita evangelica.

 

martedì 10 giugno 2014 – X sett. tempo ordinario - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Il fatto che Gesù applichi ai suoi discepoli i simboli del sale e della luce è senza dubbio una scelta ardita da parte sua. Chi di noi, in quanto tale intendo dire, se la sentirebbe di ritenere se stesso sale della terra e luce del mondo? Posso io dire di essere luce per una persona, per una comunità, per una città? Sappiamo quanto i santi non si siano mai considerati gran cosa e attribuivano a Dio più che a se stessi, ciò che di buono potevano fare. Ricordiamo bene cosa san Paolo diceva di sé e dei suoi: “E Dio, che disse: “rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi.” (2 Cor 4,6-7)

Da questo possiamo capire che Gesù, forse, applicando ai suoi discepoli e dunque anche a noi delle immagini, dei simboli così significativi nell’orizzonte umano e particolarmente in quello ebraico e semita, non voleva tanto esprimere un dato di fatto, qualcosa che appartiene a noi in quanto tali, ma piuttosto delle proprietà che sono sue e di cui ci fa partecipi.

La Scrittura ci viene in aiuto nel comprendere il senso delle parole di Gesù: se partiamo dalla prima immagine, nella cultura biblica e semita, sappiamo che il sale, oltre alle sue proprietà chimiche di conservazione e di conferimento di sapore ai cibi, significava anche la sapienza della vita. L’ideale dell’ebreo era il vivere con sapienza obbedendo alla volontà di Dio espressa nella Legge: “Io - dice la sapienza che fa il proprio elogio – sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra … Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele” … Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele”. (Si 24, 3.8.19.20)

 Il cristiano in questo senso, in quanto sale della terra conferisce sì un gusto, un sapore alla terra, ma non un gusto qualsiasi e neanche il gusto che viene da se stesso, ma più che altro quel sapore che viene dalla sapienza di Dio di cui egli ne è portatore. San Giacomo fa una descrizione squisita di questa sapienza che sembra, esattamente come le beatitudini che abbiamo ascoltato ieri, un autoritratto di Gesù: “la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera” (Gc 3, 17) È questo il sapore che siamo chiamati ad avere in noi stessi: la sapienza, la conoscenza di Gesù, il rapporto vivo, personale e profondo con il Signore, così personale da diventare persona in noi. È questo il sale che ha sapore. Ma come il sale può perdere il suo sapore, così c’è anche un’altra sapienza che non è quella che viene dall’alto, ma è quella che viene dal basso: “Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa – continua san Giacomo –, non vantatevi e dite menzogne contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica.”

Lo stesso vale per il titolo di “luce”. Luce è un titolo divino, prima di tutto: ricordiamo il Credo (Dio da Dio, Luce da Luce); ma è anche un titolo cristologico che Gesù dice di sé nel vangelo di Giovanni: “io sono la luce del mondo.” Se poi arriviamo alla terza immagine, quella della città sul monte, il discorso si chiarisce del tutto: una città, se è visibile non dipende da lei ma dipende dalla luce che riflette. È questa luce che la rende visibile, non è lei da sola che si rende visibile da se stessa. Come rimane nascosta una città posta sul monte? C’è solo una maniera di rimanere nascosta e consiste proprio nel rimanere al buio. È grazie solo quella luce di cui lei per prima è beneficiaria, che anche la città può diffondere luce e può essere vista, consegnare la sua immagine ad altri.

Da tutto questo capiamo allora che forse Gesù, così come ieri nelle beatitudini descrivendo la vita beata a cui chiama i suoi discepoli, in fondo non faceva altro che descrivere se stesso, così anche nel brano di oggi, che è l’esatta continuazione del suo discorso di ieri, Gesù non si limita a guardare noi così come siamo, ma guarda a ciò che noi siamo chiamati ad essere: vede, in certo modo, se stesso nei suoi discepoli. Non è una descrizione quella che oggi abbiamo ascoltato, ma è una chiamata, una vocazione ad incarnare nelle nostre vite, ciascuno secondo la grazia, il dono ricevuto da Dio, la presenza di Gesù: è Lui quel sale che non perde mai sapore perché gli compete come cosa propria, aderente al suo essere (sapienza sopra ogni sapienza e bellezza sopra ogni bellezza, cantiamo in un nostro inno); è lui la luce che può rendere anche noi luce anche se non siamo fonte di luce.

Ancora una volta tutto nella vita cristiana si regge, tutto si spiega, tutto si comunica e si diffonde se, nella fede, lo teniamo perennemente unito, inseparabilmente unito a Gesù. È questa adesione profonda e vitale con Gesù che vogliamo rinnovare anche ora nell’incontro con il Cristo Crocifisso e risorto, potenza di Dio e sapienza di Dio.

 

Domenica 8 giugno 2014 – Pentecoste - fr. Giovanni Battista FMJ

 

La conclusione del tempo pasquale non è una conclusione ma un nuovo inizio per la comunità cristiana che riceve questa effusione dall’alto che la trasforma e la invera. La pentecoste è la festa della novità cristiana! Lo Spirito che fa nuove tutte le cose scende oggi sulla Chiesa intera come un tempo era sceso su quel piccolo gruppo di apostoli che pregavano, attendevano, speravano e anche temevano, avevano paura, come ci attesta il Vangelo.

I testi che ci sono proposti per questo anno A del ciclo liturgico, come abbiamo ascoltato, ci riportano non una sola Pentecoste ma due Pentecoste, due effusioni dello Spirito. I Padri della Chiesa si erano già accorti della presenza all’interno del nuovo testamento di questa duplice pentecoste e avevano tentato anche di dare delle risposte che armonizzassero tra loro questi due eventi. C’era perciò chi diceva che “il dono dello Spirito di cui parla Giovanni era un dono parziale, ristretto, sia quanto al contenuto sia quanto al numero dei riceventi, una specie di primizia, rispetto al dono più completo e universale che sarebbe stato elargito cinquanta giorni dopo.” (Cantalamessa, “Il mistero di Pentecoste” Ed Ancora, pag 58). In pratica i Padri non distinguevano tanto la qualità del dono, il tipo di dono, ma più che altro l’ampiezza della sua diffusione. Capito questo noi vogliamo chiederci allora: qual è questo dono, di che tipo di dono si tratta?

Chiaramente la prima risposta che in modo immediato ci viene alla bocca è lo Spirito: è lo Spirito Santo il dono che oggi viene fatto a tutti. Ma lo Spirito nessuno l’ha visto né allora né oggi. Nei vangeli si parla qualche volta di colomba in forma corporea, oggi di vento, fragore, lingue come di fuoco, oppure del soffiare di Gesù sugli apostoli. Sono tutte immagini per indicare la presenza dello Spirito ma lo Spirito in se stesso rimane invisibile, inafferrabile nessuno lo può mettere in gabbia perché non sai da dove viene né dove va. Eppure, dice Gesù, ne senti la voce. Dunque lo Spirito è donato oggi alla Chiesa, in sé non lo si vede, ma, e arriviamo alle due Pentecoste dei vangeli di oggi, se ne vedono gli effetti.

Quali sono questi effetti? Limitiamoci alle tre letture di oggi. La prima lettura è la narrazione della Pentecoste lucana cinquanta giorni dopo la Pasqua. Gerusalemme è piena in questo giorno di gente straniera, giudei osservanti perché la Pentecoste era già una festa ebraica e allora molti giudei che vivevano all’estero per quel giorno venivano a Gerusalemme per offrire le primizie dei raccolti. La Pentecoste era una festa agricola che dava compimento alla Pasqua che pure, nella sua remota, arcaica origine, era una festa agricola-pastorizia. In mezzo a questo grande movimento di gente diversa c’è un piccolo gruppo che veglia, prega, attende, insieme la venuta dello Spirito fedele alla parola di Gesù. Il miracolo che si compie è questo: “tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”. Il grande evento è la capacità di parlare lingue nuove, o meglio, di esprimersi secondo il potere che ciascuno riceveva dallo Spirito.

Questo è il grande miracolo, questo è il grande segno della presenza dello Spirito: dei galilei, erano tutti galilei, dice il testo, riescono a superare, ad andare oltre lo spazio limitato della loro lingua, della loro cultura, del loro modo comunicare, cioè di tutte quelle connotazioni, se vogliamo naturali e culturali che li connotavano indelebilmente, e riescono ad entrare in comunicazione, in dialogo, addirittura si parla di una lingua nativa – dice il testo – quasi per esprimere la profondità, l’intimità, la capacità di un linguaggio diretto – senza bisogno di traduzione - che va al cuore al cuore dell’uditore, con persone diverse, persone che vengono da altri luoghi e che, tra l’altro appartengono ormai a quel gruppo religioso da cui i discepoli si guardavano impauriti, come ci dice il vangelo. Lo Spirito non si vede ma se ne vedono gli effetti, e questi effetti sono l’incontro, la capacità di incontrare l’altro, di andare verso l’altro, di dialogare. Se ci pensiamo un attimo vediamo quanto è lontano questo evento spirituale (dello Spirito), dall’idea di spirituale che qualche volte aleggia nel nostro modo di parlare o di pensare, cioè di uno spirituale non tanto inteso come aggettivo di Spirito santo, ma come sinonimo di immateriale. Lo spirituale come contrario ad materiale, corporeo. La Pentecoste smentisce totalmente questa che in fondo è un’idea più pagana o platonica che cristiana, perché qui, ma non solo, vedremo anche nel vangelo, possiamo dire che la Pentecoste è il trionfo dell’incarnazione, è una vera e propria festa dell’incontro, festa dell’umano, del diverso, dello straniero: anche a te posso parlare, nella tua lingua, delle grandi opere di Dio.

Il vangelo ci racconta l’altra Pentecoste, quella del giorno stesso di Pasqua. Gli apostoli sono sempre nello stesso luogo come negli Atti, ossia nel cenacolo, le porte sono chiuse, l’atmosfera è di paura. Hanno paura dei Giudei perché temevano che avrebbero fatto fare loro la stessa fine di Gesù. Ora in questo spazio chiuso arriva Gesù dona la pace e da compimento a questo dono della pace con l’effusione dello Spirito. Però tra questi due momenti, tra la Pace e lo Spirito, c’è un passaggio fondamentale. Dice il testo: Gesù, mostrò loro le mani e il fianco. È questa l’icona, la visione che i discepoli hanno davanti agli occhi quando ricevono lo Spirito: un Gesù ferito che dona la pace. Cosa farà lo Spirito? Lo Spirito sarà allora Spirito di misericordia, Spirito di perdono, Spirito cioè che ricostruisce la relazione tra Dio e gli uomini, ma anche tra gli uomini tra loro e dell’uomo in se stesso (perché la riconciliazione è anche questo) mediante le piaghe di Cristo che sono piaghe eterne. Anche qui, come negli Atti, lo Spirito si fa artefice di un incontro, lo Spirito realizza una pace totale mediante le ferite di Gesù. Da questo capiamo tuttavia una cosa in più rispetto agli Atti: capiamo che se la Pentecoste è festa di un incontro, cioè passaggio da una relazionalità assente o ferita ad una relazionalità nuova, questo movimento pentecostale si vive sempre attraverso la Pasqua di Cristo che lo Spirito ci rende presente. Lo Spirito oggi ci consegna le piaghe di Cristo per mostrarci qual è la via dell’incontro e della comunione che anche qui non è una via astratta, aleatoria, spirituale nel senso di immateriale, ma è via di perdono ricevuto è donato attraverso le piaghe di Cristo. “Perdonare – dice Luciano Manicardi – è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti.” (…) Ma “Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?” Questo “dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso”. Ma il “credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.” (LUCIANO MANICARDI - Comunità di Bose - Eucaristia e Parola-Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A)

Se Cristo regna in noi, se per grazia dello Spirito anche noi con san Paolo possiamo dire con tutto il cuore e con tutta la nostra vita: “Gesù è il Signore”, ecco che si realizza pian piano questa grande pace pasquale che è la pace del Cristo Crocifisso e Risorto. Così lo Spirito crea comunione, così lo Spirito ci rende accessibile quello spazio relazionale nuovo in cui noi possiamo comprendere noi stessi non più secondo “il vivere per se stessi” che genera divisioni, discordie, rivalità, vendette, competizione e desideri di rivalsa, ma secondo la legge dell’amore, della tenerezza, della dolcezza, del perdono, della comprensione e accoglienza del diverso, la legge del bene comune: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”. Questo nuovo spazio è la Chiesa: nata dalla Pasqua di Cristo, inviata nello Spirito ai confini della terra nella Pentecoste, oggi rinasce come primizia di un’umanità rinnovata, ringiovanita nello Spirito. È questa l'esperienza dello Spirito Santo che noi oggi vogliamo vivere.

 

sabato 7 giugno 2014 - Veglia di Pentecoste - diac. Mario Gazzeri

 

(Gen 11,1-9 - Es 19,3-8a.16-20b - Ez 37,1-14 - Gl 3,1-5 - Rm 8,22-27 - Gv 7,37-39)

 

Al termine del periodo pasquale, in questa veglia che ci introduce alla grande festa di Pentecoste, momento in cui, tramite il dono dello Spirito Santo, inizia a nascere la Chiesa, vogliamo anzitutto ringraziare il Signore per averci convocati, per aver messo nel nostro cuore il desiderio di ritrovarci assieme per pregustare il dono dello Spirito, ma anche per prepararci a riceverlo di nuovo. Un grazie dunque per farci sentire, ma soprattutto per averci reso davvero un piccolo cenacolo, anche noi riuniti in preghiera assieme a Maria nostra Madre, anche noi timorosi per tutto quello che la vita ci prospetta e che ci spaventa, per tutto quello che ci fa sentire inadatti, inadeguati, per tutte le angustie che spesso ci paralizzano, ci tolgono entusiasmo, voglia di vivere e di operare, mettono alla prova la nostra speranza.

E quindi, anche in mezzo a noi è arrivato il Signore per rincuorarci, per rinsaldare la nostra fede in lui, per consentirci di rinnovare il nostro affidamento alla sua azione salvatrice.

Abbiamo già avvertito la presenza del Signore che ci ha abbondantemente nutrito con la sua parola che ci ha fatto percorrere un lungo cammino attraverso il tempo in cui Dio non ha mai cessato di guidare il suo popolo, e questo senso della sua presenza si farà sempre più vivo dentro ciascuno di noi, durante questa solenne liturgia.

Insieme quindi, con tremore e semplicità vogliamo riflettere sul messaggio che la Parola ci ha consegnato, leggerlo alla luce di quella Pasqua di risurrezione che, sola, da un senso alla nostra vita e alimenta la nostra speranza.

Dai brevi versetti del Vangelo che insieme abbiamo appena udito, emerge il grido di Gesù al culmine della festa delle capanne, festa che commemorava il lungo viaggio compiuto dal popolo di Israele dopo la liberazione dalla tirannia del faraone.

Gesù grida a gran voce perché chiunque ha sete possa venire a lui, possa facilmente trovarlo, possa dissetarsi. Gesù grida perché chi crede, possa trovare in lui liberazione, speranza, salvezza.

Il Signore cita poi un brano della Scrittura tratto dal libro del profeta Zaccaria, in cui afferma che dal grembo di colui che si disseta in Gesù (paragonato alla Gerusalemme celeste), sgorgheranno fiumi di acqua viva. E l’evangelista Giovanni è pronto a mettere subito in relazione questa acqua viva con l’azione dello Spirito Santo che ancora però non era stato donato.

Anche Sant’Ireneo in una sua riflessione sulla missione dello Spirito Santo mette in relazione Acqua e Spirito:

come la farina non si amalgama in un'unica massa pastosa, né diventa un unico pane senza l'acqua, così neppure noi, moltitudine disunita, potevamo diventare un'unica Chiesa in Cristo Gesù, senza l'«Acqua» che scende dal cielo. E come la terra arida se non riceve l'acqua non può dare frutti, così anche noi, semplice e nudo legno secco, non avremmo mai portato frutto di vita senza la «Pioggia» mandata liberamente dall'alto.

Ma in precedenza, proprio il Vangelo di Giovanni aveva messo in evidenza un’altra uguaglianza: nel colloquio con la donna di Samaria, in cui Gesù presenta sé stesso come quell’acqua viva che disseta per sempre.

L’acqua viva si identifica quindi sia con lo Spirito e la sua azione, sia con Gesù stesso; in matematica un teorema dice che se A è uguale a B e B è uguale a C, allora anche A e C sono uguali fra loro: cioè se l’acqua viva coincide con lo Spirito e l’acqua viva coincide con Gesù, allora anche Gesù e lo Spirito coincidono, sono una cosa sola.

Con il suo grido il Signore ci vuole quindi provocare e lanciare su un percorso quasi catechetico, per arrivare a mostrarci l’essenza stessa di Dio, la sua intima struttura trinitaria.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù finora ha solo accennato alcune volte al ruolo dello Spirito, ma senza troppo approfondire: la prima volta, quando annuncia ad uno sbigottito Nicodemo la necessità di rinascere da acqua e da spirito, un’altra volta, dopo il discorso sul pane di vita, quando afferma che lo Spirito da la vita. Anche nel colloquio con la Samaritana Gesù accenna alla necessità di adorare in Spirito e verità, ma senza fornire troppe spiegazioni, senza troppo approfondire.

Anche questa volta, il grido con cui Gesù annuncia la sua identità con lo Spirito, colto prontamente dall’evangelista Giovanni, non aggiunge granché alla possibilità per i discepoli di capire qualcosa in più su ruolo ed essenza di questo ancora misterioso Spirito. Bisognerà allora aspettare il momento in cui Gesù pronuncia il suo discorso di addio ai discepoli, in cui presenta definitivamente lo Spirito:

io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Gesù annuncia un Paraclito, un consolatore, un aiuto, un difensore, un ispiratore, e lo presenta come “altro”, come diverso da sé, ma, allo stesso tempo così uguale, da assicurare nel tempo della storia quella presenza fra gli uomini che Gesù interromperà, tornando nella gloria del Padre.

Lo Spirito è infatti colui che può agire in tutto e per tutto come Gesù, di disporre delle cose del Signore con quella libertà che deriva dalla sua identità con il Figlio:

lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.

Scrive il francese Joseph Moingt, gesuita e teologo, in un libretto di meditazioni sulla resurrezione di Gesù:

Lo Spirito è una persona di comunione, di convivialità, di supplenza: egli è in noi la presenza del Maestro assente, che sostituisce senza prenderne il posto, ed è in Gesù il dono che noi gli facciamo di noi stessi mediante la fede; egli è parimenti in noi di volta in volta la voce del Padre che ci chiama suoi figli e la voce del Figlio che mette sulle nostre labbra il nome di Padre; egli è Dio che tiene distinti il Padre e il Figlio l’uno dall’altro riconducendoli all’unità, e colui che permette loro di abitare l’uno e l’altro in noi e noi in loro come in uno solo.

E ancora:

Quando si rileggono gli Evangeli alla luce pasquale degli ultimi insegnamenti di Gesù, ecco che lo Spirito Santo, in virtù della sua estrema volatilità, poiché è il soffio di Dio, diventa il personaggio onnipresente dell’evangelo, colui che segue Gesù come la sua ombra, così come prosegue la sua storia in noi, presenza dell’inizio in ciò che diviene. Sì, egli è la terza persona di Dio Trinità, lui che non dice “io”, né risponde a un “tu”, ma su cui si intrattengono il Padre e il Figlio progettando di farcene dono per donarsi insieme con lui, lui che insinua il suo soffio nella nostra parola per farci pronunciare il nome di Padre e quello di Signore.

 

Coronano perfettamente questi concetti le parole di Ireneo di Lione:

Lo Spirito discese anche sul Figlio di Dio, divenuto figlio dell'uomo, abituandosi con lui a dimorare nel genere umano, a riposare tra gli uomini e ad abitare nelle creature di Dio, operando in essi la volontà del Padre e rinnovandoli: dall'uomo vecchio alla novità di Cristo.

Abbiamo quindi finora parlato dell’identità trinitaria fra Figlio e Spirito, ma tutto il vangelo di Giovanni è proteso ad affermare con forza l’identità trinitaria fra Padre e Figlio, fino dal suo prologo:

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

E anche:

Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Nei discorsi di congedo Gesù afferma poi, rispondendo a Filippo:

Chi ha visto me, ha visto il Padre… Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me.

E ancora:

Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quelli che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi.

E ancora altro si potrebbe aggiungere. Identità quindi fra Padre e Figlio, affermata con chiarezza a più riprese dalle stesse parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli.

Se quindi applichiamo ancora quel teorema di cui abbiamo parlato all’inizio, se lo Spirito è una cosa sola con Gesù e Gesù è una cosa sola con il Padre, allora anche lo Spirito e il Padre sono una cosa sola.

Ecco quindi la bellezza del messaggio trinitario che Gesù lancia con il suo grido nel mezzo della folla riunita nel tempio di Gerusalemme al culmine della festa, un messaggio ancora incompiuto per gli orecchi dei discepoli che, come sottolinea il testo di Giovanni, non avevano ancora ricevuto il dono dello Spirito, ma che, grazie alla potenza della Risurrezione, stava per essere effuso.

Anche per di noi il grido di Gesù arriva nel momento in cui il tempo pasquale, il tempo della Risurrezione, culmina nell’evento della Pentecoste. Per noi però, che questo dono abbiamo già ricevuto, è ormai tempo di contemplare la bellezza di questo Dio trino e unico, una Trinità che si alimenta del fuoco interno del suo amore, come afferma sempre Giovanni nella sua prima lettera. L’amore che è Dio rifiuta la solitudine ed ha bisogno di essere comunicato, condiviso, donato.

Questa è l’essenza intima della Trinità, e noi, del tutto immeritatamente, siamo i destinatari di questo amore sconfinato.

La bellissima e intensa icona della Trinità scritta dall’iconografo russo Andreji Rubiev ritrae i tre misteriosi personaggi che visitano Abramo e che l’iconografo riconosce come le tre persone divine. Le tre figure sono racchiuse in un cerchio perfetto nel quale si avverte, quasi si respira, l’amore che circola fra loro. Ma questo amore non è fine a sé stesso, non rimane confinato nel solo spazio trinitario: in basso, il cerchio che unisce le tre persone è aperto, spalancato verso quella umanità che siamo noi, per renderci partecipi di questa circolazione di amore, anzi, per richiamare e accogliere nel cerchio trinitario tutti coloro che non si rifiutano di ospitare questa continua pioggia di amore.

In questa notte resa santa dall’attesa della venuta fra noi dello Spirito, di quello Spirito annunciato da Gesù con il suo grido in mezzo alla folla, vorrei quindi pregare a nome di tutti il Signore di gridare ancora più forte, perché anche i nostri orecchi così facilmente resi sordi dal vivere quotidiano, siano finalmente capaci di cominciare a udire, per poi accogliere e per poi ridonare l’amore che il Signore continuamente fa piovere su di noi.

Che il nostro mondo contemporaneo abbia bisogno di riscoprire l’amore, che le tante famiglie in crisi abbiano bisogno di riscoprire l’amore, che i responsabili della cosa pubblica abbiano bisogno di riscoprire l’amore, che coloro che spargono odio abbiano bisogno di riscoprire l’amore, tutti ne siamo perfettamente consapevoli; ma ognuno di noi, nel piccolo della propria esistenza quotidiana, ha bisogno di ricentrare sull’amore la propria vita, di riscoprire l’amore come sorgente insostituibile delle piccole attenzioni verso il marito o la moglie, verso i figli, i fratelli, le sorelle, i nipoti, gli anziani, gli inopportuni, gli scocciatori, i nemici, di rimettere al centro del proprio agire e del proprio sentire proprio quell’amore che ha nella Trinità la sua sorgente

Affidiamoci dunque a Maria, presente con gli apostoli nel cenacolo e presente questa sera anche  in mezzo a noi, perché lei, che si è nutrita dello Spirito Santo, che ha nutrito con latte e Spirito Santo il piccolo Gesù e che, sola fra tutti, non era presenza timorosa, ma anzi capace di infondere fiducia e speranza negli apostoli smarriti, aiuti anche noi, ugualmente smarriti e sgomenti, ad accogliere in pienezza, nella Pentecoste ormai imminente, il rinnovato dono dello Spirito, perché egli possa con i suoi gemiti inesprimibili, intercedere per noi presso il Signore.

Amen

 

venerdì 5 giugno 2014 – VII settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


 

La liturgia di oggi ci pone di fronte agli occhi questo splendido dialogo che abbiamo ascoltato tra Gesù Risorto e Pietro. Mancano poche ore alla Pentecoste, all’effusione dello Spirito e la Chiesa ci offre un testo così bello per prepararci ad accogliere il dono dello Spirito che è un dono di potenza, di forza che viene in aiuto alla nostra debolezza. Che legame c’è tra la venuta dello Spirito Santo e il brano di oggi? Apparentemente nessuno infatti qui lo Spirito non viene nemmeno menzionato, ma forse questo legame viene proprio dal tema della debolezza, questa scoperta e accettazione della propria debolezza che ha fatto anche Pietro e che vuole diventare anche nostra scoperta per prepararci alla venuta dello Spirito.

Pietro, come abbiamo sentito, dialoga con Gesù. È un dialogo personale, privato, gli altri discepoli sono lontani, ed è il primo dialogo che Pietro ha con Gesù dopo gli eventi della Pasqua. Ricordiamo bene che Pietro durante i giorni della Passione e morte di Gesù non aveva fatto una gran bella figura. A parole aveva promesso fedeltà totale, fino in fondo al suo Maestro: “Signore, darò la mia vita per te!” aveva detto a Gesù, ma poi queste parole così cariche di eroismo saranno presto smentite dai fatti perché Pietro, come sappiamo, non solo fuggirà via quasi subito, ma addirittura mentirà apertamente dicendo di non conoscere assolutamente Gesù e di non appartenere al gruppo dei suoi discepoli. Ecco che questa è la situazione. Abbiamo un Pietro deluso, abbiamo un Pietro scoraggiato, un Pietro che ha dovuto fare i conti con la sua incapacità di andare dietro al Signore fino in fondo. Eppure Pietro attraverso questo fallimento, attraverso questa profonda delusione verso se stesso, verso le sue capacità, compie un grande salto di qualità nella conoscenza di sé e soprattutto, nella sequela di Gesù. Pietro infatti fa una grandissima scoperta: scopre che è debole, scopre che è piccolo, scopre che di suo, per quanto cioè attiene alle sue umane capacità, non è capace di essere discepolo di Gesù. Sembrerà strano ma il vero progresso per Pietro è proprio questo, ossia l’incontro con la propria fragilità. Qui Pietro fa un grandissimo passo in avanti. Non perché la debolezza umana in sé sia qualcosa di buono, ma perché finché l’uomo non incontra, non scopre, fino ad esserne profondamente convinto, che è debole e piccolo, rimane sempre un po’ chiuso alla grazia di Dio, alla sua potenza che si dona non a chi crede di essere forte, ma a chi si riconosce debole. Pietro, lo conosciamo, era infatti un tipo irruento, impulsivo. Pietro, se prendiamo per esempio il capitolo 16 del vangelo di Matteo, è quello che addirittura fa da maestro anche a Gesù quando lo prende in disparte e lo rimprovera perché Gesù aveva profetizzato la sua passione e la sua morte. Possiamo perciò bene intuire che colpo dev’essere stato per un tipo così, cioè così sicuro di sé, questo suo rinnegamento del Signore: è una catastrofe perché a questo punto Pietro non solo vede crollare, in qualche modo, il suo rapporto con Gesù, ma crolla anche l’immagine che lui aveva di se stesso: tante parole, tante promesse che non è riuscito a mantenere. Ma vediamo che il giudizio che probabilmente Pietro, col suo modo di pensare così eroico aveva dato di se stesso, non è quello di Gesù. Se Pietro non crede più in se stesso, Gesù invece continua a credere, ad aver fiducia in Pietro, e il brano di oggi è proprio questo dialogo della fiducia da cui tutto riparte per Pietro. Ma riparte da una base nuova, cioè non più dalla virtuosità di Pietro, dalla bravura di Pietro, che come abbiamo visto era stata smentita dai fatti, ma dall’incontro dell’amore di Gesù con la debolezza di Pietro.

Come Gesù rilancia il dialogo, la chiamata a Pietro? Come Gesù chiama di nuovo Pietro a seguirlo? Ecco, il testo di oggi ci presenta questa triplice interrogazione che sicuramente va in parallelo con il triplice rinnegamento di Pietro, a cui però Gesù non fa più riferimento. Gesù non è arrabbiato con Pietro, non gli rinfaccia le sue mancanze, non mette in luce i suoi limiti, le sue incapacità. Tutt’altro! Pietro, del resto, li aveva già scoperti da solo. Gesù, invece, va incontro a Pietro e lo prende per mano in un dialogo dalla grandissima dolcezza. Il testo greco del testo ci presenta delle sfumature bellissime che non dobbiamo lasciarci sfuggire. Gesù infatti quando chiede a Pietro: Simone di Giovanni mi ami più di costoro? usa un verbo particolare che è il verbo agapao che è il verbo dell’amore in senso forte, dell’amore che si fa dono totale, agapao significa ‘amare di amore gratuito’. E cosa risponde Pietro? Pietro risponde: Certo signore, tu lo sai che ti voglio bene. Cioè Pietro cambia verbo. Pietro non se la sente la sente di usare lo stesso verbo agapao espresso da Gesù, ma consapevole della propria debolezza usa un altro verbo. Non dice: Sì Signore, io ti amo; ma si limita ad un semplice ‘ti voglio bene’; è un altro verbo, il verbo fileo che dice un amore amicale; è certo amore vero ma più superficiale, dice un rapporto più distaccato, meno impegnativo con Gesù. La stessa cosa capita la seconda volta: Gesù chiede ancora amore gratuito, amore di dono (verbo agapao) e Pietro risponde ancora con il verbo fileo, amore amicale. La terza volta invece cambia qualcosa: Gesù per la terza volta interroga Pietro, ma questa volta non usa più il verbo del grande amore, ma usa il verbo che aveva usato Pietro nelle sue risposte, il verbo dell’amicizia, fileo: Pietro, mi sei amico? In questa sfumatura del linguaggio si nasconde per noi un grande messaggio: Gesù in questo cambio di verbo si mette al livello di Pietro: capisce che Pietro non ce la fa, non se la sente di dichiarargli il più grande amore, non è in grado di promettere un tale amore perché ormai ha toccato con mano la sua fragilità, e allora Gesù cosa fa? Usa anch’egli il verbo fileo, il verbo dell’amicizia, Gesù scende al livello di Pietro e lo accoglie a quel gradino a cui realisticamente si trova. Prima Gesù sembrava esigere un amore talmente radicale da essere al di sopra di tutto. Poi pian piano riduce quanto esige e chiede: “Almeno mi ami?” Gesù è come se abbandonasse, in un certo senso, quella che poteva essere una sua pretesa nei confronti della disponibilità di Pietro e accetta, accoglie Pietro al livello in cui si trova. Gesù preferisce un amore piccolo, un amore fragile ma vero e autentico e disposto a crescere e lasciarsi purificare, piuttosto che grandi promesse di amore che però rimangono un po’ promesse da marinaio. Gesù preferisce la sincera debolezza di Pietro piuttosto che la sua demagogica forza e fedeltà che in realtà non era che una maschera. Pietro in questo modo impara ad amare Gesù così com’è, senza bisogno di maschere, senza voler a tutti i costi sembrare migliore di quello che è o migliore degli altri, dinamica magari inconscia o inconsapevole. Sembrerà paradossale, forse assurdo, ma solo a questo punto Pietro sarà in grado di pascere il gregge del Signore, non più partendo però dalle sue pseudo - capacità, ma partendo dalla sua debolezza, così com’è, senza presunzione ma senza neanche disperazione.

In questo cari fratelli, sorelle e amici, viene dato anche a noi un messaggio di speranza fortissimo. Perché nella debolezza di Pietro noi forse riconosciamo un pochino anche la nostra debolezza. Pietro ormai ha fatto tutto un cammino di crescita, ha imparato da queste vicende e soprattutto dall’incontro con l’amore e la misericordia di Gesù, a riconoscere e ad accettare la sua debolezza, a riconciliarsi con i propri limiti. È un cammino che non ha percorso da solo ma, come abbiamo visto, l’ha fatto mano nella mano con Gesù. Ma noi, cosa ne facciamo della nostra debolezza? Ci sono infatti due atteggiamenti estremi, entrambi sbagliati, di relazionarsi con la propria fragilità: il primo è quello che un autore belga (André Louf, “Sotto la guida dello Spirito” Ed Qiqaion – Bose) definisce quello del peccatore incallito: cioè quello, che ‘ci marcia’ nella propria debolezza, sta bene nel peccato e non vuole minimamente uscirne, non vuole rovesciamenti, non vuole conversione, sta bene così: apparentemente il peccatore incallito è riconciliato con la propria debolezza, cioè la accetta in modo acritico; in realtà questa più che una sana accettazione del proprio limite è una sorta di matrimonio con il peccato e rifiuto della conversione. Anche se, tuttavia è lecito pensare che in realtà esistono pochissimi peccatori incalliti. L’altra categoria che invece è più numerosa della prima, è quella dei giusti incalliti, cioè quella delle persone che credono di potersi santificare da soli: la loro vita è tutto uno sforzo, tutto un merito, tutto si poggia sulle loro capacità, la loro bravura; una religiosità che guarda a quello che noi possiamo fare per Dio più che a quanto Dio ha fatto e fa per noi. Dietro a questo sentimento forse in fondo si nasconde una sorta di paura di Dio e per cui queste persone si sentiranno più o meno liberate da questa paura nella misura in cui riusciranno a realizzare il loro ideale di religione nella vita quotidiana. Fanno del loro meglio per allontanare, calmare questa paura di Dio a colpi di generosità e di virtù; e più vi riescono e più calmano questa paura e si persuadono, in qualche modo, di meritarsi l’amore di Dio. La loro santità sono se stessi.

Ora c’è qualcosa che accomuna queste due categorie estreme di persone e cioè che sia i peccatori incalliti che i giusti incalliti non hanno incontrato fino in fondo l’amore e la misericordia di Dio. E dunque, non avendo fatto questo incontro con un Dio che è amore, non avranno neanche un sano rapporto con la loro

 

mercoledì 4 giugno 2014 – VII settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il discorso di Paolo agli anziani di Efeso e la preghiera sacerdotale di Gesù sono due testi che si assomigliano, hanno dei tratti comuni che vogliamo far emergere un pochino. Da questa somiglianza infatti viene fuori un messaggio importante per noi che ci troviamo in questo breve spazio di tempo un po’ incerto tra l’Ascensione del Signore e la venuta dello Spirito. Incertezza che nasce dall’attesa: i discepoli attendono un nuovo battesimo nello Spirito Santo, ma non sanno bene né come avverrà né in che cosa consisterà. Sono nell’attesa e attesa vuol dire anche un po’ incompiutezza: manca qualcosa e lo attendiamo con perseveranza e nella fiducia.

Dicevamo che questi due testi si assomigliano e ci lanciano un messaggio che vogliamo illumini anche la nostra attesa dello Spirito. Il primo tratto importante di somiglianza è che sono due discorsi, come dire, degli ultimi giorni. In che senso? Nel senso che, seppur su piani diversi, sia Paolo che Gesù si trovano in fondo, verso la fine della loro missione. Le loro sono perciò parole che hanno un valore, un peso particolare perché è come se fossero una sorta di testamento. E ogni testamento riguarda un bene prezioso, il bene più importante che ha il testatore. Qual è la ricchezza, il bene più grande, l’eredità che questo testamento contiene? Dalle parole di Paolo agli anziani di Efeso e di Gesù in preghiera intima e profonda davanti al Padre Suo, noi capiamo che questa eredità preziosa è la comunità dei credenti: per Gesù sono i suoi discepoli e tutti coloro che dopo di loro e grazie a loro crederanno; per Paolo quest’eredità è la comunità di Efeso che per due anni ha accompagnato, servito e fatto crescere ed ora si appresta ad abbandonare per sempre. E in questa eredità ci siamo anche noi discepoli di oggi: noi, cari fratelli e sorelle siamo la ricchezza di Dio, l’eredità di Dio, il bene che come un testamento prezioso Paolo ma, prima ancora Gesù stesso, affidano al Padre. Questa è la prima cosa che dobbiamo ricordare sempre e mai dimenticare: ciascuno di noi entra, in questo senso, nel testamento di Dio, appartiene a questo scrigno unico e prezioso di Gesù e del Padre, quella ricchezza per la quale Cristo ha dato la vita. Ciascuno di noi è un dono preziosissimo e così, come una ricchezza dal valore inestimabile deve considerare la propria vita e quella degli altri.

A questo punto, avendo colto un pochino qual è la ricchezza di questo testamento, possiamo andare un po’ più in là e vedere che cosa Gesù e Paolo desiderano per questo tesoro preziosissimo che siamo noi. Ebbene, se diamo una lettura, anche solo veloce, a questi due testi, ci accorgiamo che c’è una parola, anzi, un verbo, che ritorna più degli altri, e questo verbo è il verbo custodire. Guardando anche solo ai testi di oggi, che sono solo una parte del discorso agli anziani di Efeso e della preghiera di Gesù, si possono contare almeno otto ricorrenze di questo verbo o di suoi sinonimi o sostantivi che racchiudono la stessa idea, cioè che questo tesoro siamo noi e che siamo un tesoro da custodire! Gesù e san Paolo sulle sue orme sentono questo forte desiderio di custodia di questa eredità acquistata dal sangue di Cristo, perché nessuno si perda. Gesù lo chiede al Padre: “Padre santo custodiscili nel tuo nome … quando ero con loro io li custodivo nel tuo nome; e ancora: non prego che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno.” E Paolo, dal canto suo, lo chiede, anzi lo ordina agli anziani di Efeso: Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi.”

Ma custodire, è anche il verbo di Maria: il pregare di Maria era proprio un custodire tutto nel suo cuore, lei che fu chiamata a custodire anche nel suo corpo quel seme divino da cui è nato Gesù, il pastore e custode delle nostre anime. Ed è sempre Maria la donna vigilante, la donna custodente, perseverante in questo stato di custodia che veglia nel cenacolo insieme agli altri in attesa dello Spirito. Da tutto questo capiamo che la Chiesa nascente, a Gerusalemme prima, ad Efeso poi, ma qualsiasi altra comunità di fede che si avvia alla crescita, cioè ad una fase più matura della sua storia, è una comunità chiamata ad imparare e a vivere quest’arte divina e materna della custodia. Arte divina, arte materna ma possiamo aggiungere anche arte feconda, perché laddove c’è custodia c’è anche dono. Il custodirsi e il custodire, l’aver cura di sé e degli altri è la condizione per portare frutto e per fare della propria vita un dono. Non ci si può donare a lungo se non ci si sa custodire.

Il desiderio di Gesù e di Paolo divenga allora anche il nostro desiderio. Forse questo è proprio il primo dono che vogliamo chiedere allo Spirito per questa Pentecoste: che ci insegni e ci prepari a ri-accogliere e a custodire quel dono che ciascuno di noi è: per se stesso, per le nostre comunità, per la Chiesa e per il mondo intero. Il mondo riconosca così, dall’amore e dunque dalla custodia, dalla cura che abbiamo gli uni per gli altri, che siamo discepoli di Cristo, suo tesoro, sua ricchezza, eredità di Dio.

 

Domenica 1° giugno 2014 – Ascensione - fr. Giovanni Battista FMJ

 

     Con la solennità dell’Ascensione del Signore giunge al suo compimento quel processo di glorificazione del Figlio di Dio che aveva avuto inizio al triduo pasquale. Padre – aveva pregato Gesù nell’ora della Passione – glorifica il figlio tuo! Una gloria che come sappiamo non era la gloria del mondo, non era fuga dal mistero della sofferenza e della morte, ma era vittoria sul peccato e sulla morte vincendo il nemico – se così si può dire – proprio sul suo campo. Come cantiamo spesso: Cristo, con la tua morte hai vinto la morte. Il mistero che oggi celebriamo è dunque compimento di questa gloria del Cristo che dopo aver compiuto fino in fondo la sua missione presso gli uomini, dopo aver amato fino alla fine i suoi che erano nel mondo, ascende al cielo, ritorna presso il Padre anche se mai, a dire il vero, si era allontanato da Lui.

     Cosa resta ai suoi discepoli che fino ad ora l’avevano seguito, l’avevano imitato, l’avevano amato pur con tutte le debolezze di uomini dalla fede incerta? Apparentemente rimane un vuoto: non vedranno più il volto di Gesù che avevano conosciuto di persona. Pensiamo alla gioia profonda degli apostoli nel giorno di Pasqua e per tutti questi quaranta giorni: Gesù è vivo - Si gridavano l’un l’altro - ed è apparso a Simone! Ora questo nuovo allontanamento sembra smorzare un po’ gli entusiasmi e lasciare dei discepoli ancora più incerti nella loro solitudine. Questo è quanto appare ad un primo sguardo.

     Eppure prima di ascendere al cielo Gesù rivolge ai suoi e anche a noi che oggi celebriamo questa festa, una parola, una promessa che accompagna tutta la storia, attraverso i secoli per sempre: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.” è una parola nota, che abbiamo sentito tante volte e che interpretiamo immediatamente come presenza invisibile, spirituale. Ma proviamo per un attimo ad accogliere quest’oggi questa Parola con gli orecchi degli apostoli. Quel “essere con voi” aveva per loro un significato ben preciso, per loro che erano stati fisicamente, materialmente con Gesù: era una vera e propria compagnia, sequela, amicizia, era un camminare al passo con Gesù e un continuo ascolto della sua voce.

     Pensiamo a quanti eventi si risvegliavano nella memoria dei discepoli pensando agli anni trascorsi con Gesù, pensiamo a quante cose potevano mettere gli apostoli in questo “con voi”! ecco che tutto questo ora che Gesù ascende al cielo non finisce: non è l’epilogo di una bella fiaba ma è l’inizio di un’epoca nuova per la storia dei discepoli, per la storia della Chiesa e per tutta la storia. È l’ingresso in quell’universalità della presenza di Cristo che ormai, proprio perché asceso presso Dio non solo come Figlio di Dio, ma anche come figlio dell’uomo in eterno, è davvero ancor più vicino a tutti. Come Gesù era con loro, ora lo è realmente con noi. Questo ‘sono con voi’ questa divina compagnia di Gesù è ormai una compagnia potenzialmente universale, al di là del tempo e al di là dello spazio, perché ormai Cristo è presente laddove c’è un cuore che lo voglia accogliere. “credi in lui – diceva sant’Agostino – e lo vedrai; non sta davanti ai tuoi occhi e tuttavia il tuo cuore lo possiede”

     Sì, un cuore, perché questo cielo che accoglie Gesù che ascende sappiamo che non è semplicemente il cielo come realtà materiale, fisica. L’ascensione di Gesù non è un viaggio negli spazi infiniti dell’universo, tra gli astri e le stelle, che in fondo sono ancora elementi materiali come la terra. Il cielo che Gesù raggiunge è la dimora di Dio: mai il Figlio dell’uomo aveva abbandonato questa dimora neanche durante gli anni della sua missione terrena, ma ora ci ritorna non come prima ma con tutta la nostra natura umana in Lui glorificata. Il cielo allora non è tanto un luogo ma è una presenza, ed è la presenza di Dio: laddove c’è Dio, laddove Dio dimora si forma, se così possiamo dire, un cielo, anche se questo luogo fosse sulla terra. Il nostro cuore può diventare così un cielo, le nostre comunità, la Chiesa possono essere ormai questo cielo nel senso di stabile dimora di Dio.

     Se il regno di Dio è dentro di noi è quindi dentro di noi anche questo cielo in cui Dio vuole abitare e regnare. Vista da questa prospettiva l’ascensione del Signore non è più allora allontanamento, assenza, ma è inizio di una nuova forma di presenza ormai disponibile a tutti coloro che vogliono vivere la loro terra come un cielo. La distanza tra cielo e terra si assorbe e si annulla in questa presenza di Dio che cerca dimora in ciascuno di noi. È questo, potremmo dire il paradosso di questo evento dell’Ascensione del Signore! Si allontana dalla terra ma resta con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo; abbandona il mondo ma per avvicinare il mondo a sé e preparare, anticipare quella comunione di vita eterna che attende tutti i santi nel cielo. La beatitudine futura infatti, è bene ricordarlo, non sarà negazione della terra ma glorificazione della terra. La vita eterna non è morte della vita presente ma pienezza della vita terrena, una pienezza che già è disponibile per chi vuol fare della propria terra un cielo.

     Infine un ultima cosa importante: Gesù sparisce dalla vista dei discepoli, non lo vedranno più. Ma, possiamo chiederci, finisce anche il cammino dei discepoli? Nel senso: prima era ormai chiaro, inculcato nella mente dei dodici l’idea di sequela: chi non viene dietro di me, chi non rinnega se stesso – diceva Gesù, non può essere mio discepolo. Essere discepolo di Gesù significava andare dietro a Gesù. Ora che Gesù non lo si vede più cosa significa seguirlo? È questa una questione a cui oggi non possiamo rispondere pienamente, bisogna aspettare domenica prossima, la venuta dello Spirito, la festa di Pentecoste. Ma una cosa possiamo già dirla: Gesù che ascende al cielo non cessa di guidare i suoi; non solo perché rimane presente ma anche perché salendo al cielo ci mostra, in fin dei conti, il cammino definitivo che è un cammino verso il Padre. In questo Gesù ci offre la bussola perennemente valida per ogni cammino cristiano, una bussola che è la volontà del Padre. Gesù aveva fatto sempre di questa volontà il suo sostentamento, il suo cibo: mio cibo – diceva – è fare la volontà del Padre.

     Ora questo nutrimento vuole darlo anche a noi. Gesù, via, verità e vita, ascendendo al cielo ci indica, ci insegna ancora una volta, a vivere la nostra vita come un cammino, un’ascesa verso il Padre. Cosa vuol dire cercare le cose di lassù – come ci esortava Paolo? In fondo vuol dire proprio questo: ricordarci che siamo in cammino con Gesù verso il Padre: nel concreto vuol dire saper organizzare, vivere la nostra vita avendo il coraggio di volgere lo sguardo, i pensieri, la nostra ricerca verso l’alto, verso Cristo che ci precede (Cfr. S. Giovanni Paolo II omelia in Lussemburgo). “Ma gli uomini di oggi – riconosceva san Giovanni Paolo II in una sua omelia – accecati dal progresso e dal benessere, volgono spesso il loro sguardo solo verso la terra; non guardano più in là del mondo in cui si chiudono, accettano la secolarizzazione. Si organizza coscientemente il proprio stile di vita in funzione delle sole realtà di questo mondo, senza curarsi di Dio e della sua volontà. È da sempre questa stessa tentazione di dimenticare Dio, o almeno di vivere come se non esistesse. Questa maniera di vivere, nella quale ci si rifiuta di guardare al Padre che è nei cieli, non può tuttavia soffocare l’aspirazione profonda dell’uomo, perché il suo destino è un destino di eternità.” Colui che ci ha preceduto e che ci prepara un destino di eternità è anche colui che ci accompagna e ci attende e che un giorno ritornerà per regalarci un cielo e una terra nuovi in cui dimorare nella gioia per sempre. Non lasciamoci rubare, soffocare, uccidere l’aspirazione, la sete di eternità che il Signore ha posto nella nostre anime, ma seguiamo Gesù fino in fondo verso il Padre.

 

giovedì 29 maggio 2014 – VI settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


          Paolo fabbricante di tende ci riporta, forse casualmente, ad un elemento simbolico dal grande valore. La tenda luogo di incontro, luogo di intimità, luogo in cui Dio, lo ricordiamo, parlava faccia a faccia con Mosè. La tenda dunque come spazio di incontro famigliare, in cui gli uomini si riconoscono uniti, legati, da un vincolo parentale o di amicizia, di fraternità o anche solo di prossimità. Ma anche la tenda come luogo di intimità con Dio, lo sposo, l’amico.

Paolo prima è costruttore di tende e poi, dice il testo, comincia a dedicarsi tutto alla parola; è uno strano passaggio eppure c’è una continuità: per Paolo, a Corinto, si tratta ancora di fabbricare una tenda, anzi una nuova tenda, un nuovo spazio di incontro tra gli uomini e dell’uomo con Dio in una città sconosciuta e pagana dove il vangelo non era ancora giunto. Ed è proprio quanto davvero Paolo farà a Corinto, comunità cristiana a cui indirizzerà due lettere bellissime e quanto mai attuali anche per il nostro tempo di neo paganesimo.

Corinto era conosciuta come una città della trasgressione, una trasgressione fatta culto (il fiorente culto di Afrodite); una città che cerca così, a modo suo, la felicità. A Corinto Paolo annuncia la gioia del vangelo, una gioia diversa, una gioia cioè che non disprezza i beni della terra, che non disprezza neanche la bellezza dell’uomo, della donna e della sessualità, ma che sa che tutto questo ha due caratteristiche fondamentali: è passeggero, cioè, connota il nostro carattere pellegrinante di questa nostra vita che attende la venuta del regno (fratelli il tempo si è fatto breve!); e, seconda caratteristica, tutto questo non ha in sé il suo senso ultimo, cioè non porta in se stesso il suo compimento ma lo riceve da quella Bellezza piena e ulteriore, che è Dio stesso, verso cui tutti beni di questo mondo, se rettamente ordinati, ci portano.

Paolo in questo, lo diceva lui stesso, si definisce “collaboratore della vostra gioia” ed è con questo spirito che porta il Vangelo in una città come questa. La gioia di Paolo che è la gioia del vangelo, vince sulla cultura del piacere che anche oggi rattrista molti e forse tenta di rattristare anche coloro che già hanno sperimentato la gioia che viene da Dio. Proprio questa gioia Gesù ci promette in modo solenne nel brano di oggi: “la vostra tristezza si cambierà in gioia”. Ricordiamolo e crediamolo anche quando la nostra gioia è messa alla prova, viene purificata, viene convertita e sembra che vera gioia non sia.

 

venerdì 23 maggio 2014 – V settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

Non c’è bisogno di particolari intuizioni spirituali o di speciali spiegazioni esegetiche o filologiche per capire che Gesù, nel trasmettere ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore non fa altro che consegnarci, come dire, la sua stessa regola di vita. Ciò che chiede a noi non è per nulla diverso da quanto Gesù vive in prima persona. Quanto è motivante per noi tutti avere un Maestro così! Noi in genere scherzando quando qualcuno ha un linguaggio un po’ sofisticato o un po’ diverso dallo stile che ha di solito nell’atteggiarsi, gli diciamo: parla come mangi. Ecco di Gesù invece potremmo dire senza pensarci due volte che lui ‘parla come vive’. A tal punto che lui stesso può dire: quello che vi dico fatelo, non come lo capite voi ma come lo vivo io. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Questa seconda parte della frase, se ci pensiamo, è più importante della prima. La prima infatti c’era già anche prima, ricordiamo l’antico precetto dell’amore: ama il prossimo tuo come te stesso. L’antico testamento già ci dava un comandamento, ma non ci dava nessun modello.

Ora Gesù in questo “come io vi ho amati” ci spalanca davanti un universo davvero nuovo. Potremmo addirittura dire che la prima parte di questo comandamento avrebbe anche potuto non esserci, sarebbe bastato guardare a Gesù per capire come dobbiamo vivere. Gesù avrebbe potuto dire: Vi do un comandamento nuovo: guardate me e fate come me. Questa è la vera novità e questa rimane non soltanto una sfumatura dell’amore ma il contenuto dell’amore stesso, quello vero intendo. Se parliamo dogmaticamente diciamo che con Gesù siamo arrivati alla pienezza della Rivelazione; ma se parliamo in chiave morale, spirituale, esistenziale non possiamo non riconoscere che con Gesù siamo arrivati alla pienezza dell’amore. Mai nessuno ha parlato come parla quest’uomo, dicevano le guardie che erano venute per arrestarlo. Ma cosa c’è dietro questa esclamazione? Forse sotto sotto c’è già un’intuizione, certo ancora inconscia in queste guardie, sicuramente più sconvolgente: mai nessuno ha vissuto come ha vissuto quest’uomo! Cos’è allora l’amore? Ebbene, l’amore è Gesù, l’amare è Gesù. La vita e le relazioni viste da questa prospettiva cambiano totalmente. L’altro cambia, persino Dio appare in una luce nuova, noi stessi cambiamo, le dinamiche umane cambiano per inserirsi sempre più in questo “come io vi ho amati” che rimane per noi il nuovo comandamento.

Nella liturgia di oggi però non c’è solo il vangelo, c’è anche la prima lettura presa dal libro degli Atti. E in questa prima lettura, anche qui vediamo che si parla di comandamenti, più precisamente, di obblighi necessari. “è parso bene allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi alcun obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete bene a stare lontani da queste cose”. Per cui la Chiesa di Gerusalemme, animata dallo Spirito, si sente autorizzata, anzi si sente in dovere di dare delle norme concrete per i discepoli, norme che identifica, definisce con due espressioni che dicono un po’ la stessa cosa: ‘cose necessarie’ cioè essenziali, non possono non esserci, cose che non si possono non fare, e ‘obblighi’ (per cui cose da fare per forza, ancora, cose necessarie). Per cui queste indicazioni che venivano date per i pagani, nel contesto del discernimento Legge di Mosé sì o Legge di Mosé no, diventano, come dire, il minimo da seguire per loro per poter essere ammessi alla Chiesa. Ebbene, tra un minimo normativo di base e l’amore più grande (nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici) che ci viene dal comandamento nuovo del vangelo di oggi, si colloca anche il nostro essere cristiano di oggi. Andiamo dal minimo di cose da fare, precetti da osservare, comandamenti da rispettare, la famosa “morale naturale”, che si esprime anche nel Decalogo, alla pienezza dell’amore di Gesù che ci stimola sempre a dare di più, che ci stimola ad entrare in questa pienezza dell’amatevi “come io vi ho amato”.

Nella nostra vita cristiana ci troviamo un po’ così in bilico tra la sufficienza, “il sei” tra virgolette, e il desiderio di una misura più alta, la misura dell’amore che, a questo punto, chiede la vita: non basta più fare delle cose, ma ci si dà, ci si perde in questo amore di Gesù che vogliamo diventi anche il nostro. Vediamo, tra l’altro, che tra questo minimo e questo massimo, a questo punto non c’è più legge che tenga, ma non rimane altro che il sì libero dell’amore che si dona liberamente e volontariamente. E questo sì che anche oggi, stasera, il Signore vuole pronunciare insieme a noi. Insieme a Gesù che ci chiama a prendere parte all’offerta di se, al suo sì, anche noi vogliamo pronunciare il nostro sì, il sì dell’amore più grande che da la vita per i suoi amici.

 

Domenica 18 maggio 2014(S.Messa di San Procolo) V Domenica di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Questa V domenica di Pasqua è detta domenica dei ministeri perché è questo uno dei temi principali che viene fuori dalle letture di oggi, soprattutto dalla prima e dalla seconda. La prima lettura ci parla della famosa istituzione dei diaconi che sono una figura nuova per quel tempo. Prima i diaconi non c’erano i 12, il gruppo degli apostoli costituito da Gesù e poi c’erano gli altri discepoli. Ora, per la prima volta dopo la Pasqua di Gesù, la Chiesa comincia a organizzarsi in modo nuovo, nasce un gruppo nuovo all’interno della Chiesa, un nuovo ministero che esiste tutt’oggi. Possiamo soffermarci un po’ su questo e chiederci una cosa importante: perché nasce un nuovo ministero nella comunità cristiana?

La lettura di oggi degli Atti ci dice che stavano nascendo dei contrasti tra i credenti perché quando si assistevano le vedove, nell’esercizio della carità e della solidarietà tra i fedeli, qualcuno di loro veniva trascurato. Stava cioè nascendo un disagio nella comunità cristiana che poteva mettere in pericolo l’unità della comunità, poteva creare divisione. Per evitare questa disgregazione, per sanare queste tensioni che nascevano da un bisogno reale della comunità, i 12 convocano il nuovo gruppo dei diaconi. La Chiesa già era formata dai 12 + i discepoli, adesso si organizza ancora di più in quella che oggi chiamiamo la gerarchia ecclesiastica. E qui tocchiamo un punto importante: l’esistenza di una gerarchia, di ministeri diversi nella Chiesa è a servizio di questa unità della Chiesa. Qualche volta il rischio nostro è quello di vedere i ministeri nella Chiesa come una carriera, tipo quella militare o professionale, ma non è così.

La parola carriera nella Chiesa non esiste perché se è vero che ci sono membra diverse nel corpo della Chiesa con ruoli e diverse, è vero anche che tutte hanno la stessa dignità e sono tutte finalizzate allo stesso scopo, e cioè l’unità del popolo di Dio, essere a servizio dei bisogni della comunità dei credenti come accadeva nella prima comunità cristiana. E questo non è solo cosa di vescovi, preti e diaconi, ma tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo nella Chiesa e nel mondo. e arriviamo qui alla seconda lettura. La seconda lettura da uno speciale appellativo ai credenti, a tutti i credenti senza distinzione: tutti siamo della pietre vive da impiegare nell’edificio della chiesa. Avvicinandovi al Signore, pietra viva, dice san Paolo, anche voi quali pietre vive siete costruiti come edificio spirituale. Tutti siamo delle pietre, dei mattoni della Chiesa e il mattone da solo serve a poco, il mattone serve anzitutto se ce ne sono altri e se lo si mette insieme agli altri, prima cosa. E soprattutto il mattone serve se lo si usa per costruire, se lo si inserisce nella costruzione armonica di un edificio.

Ecco che questi mattoni siamo noi e ciascuno di noi, a modo suo secondo la propria vocazione, è chiamato dare il proprio contributo, a mettere la propria pietra, il mattone che egli è a servizio di quest’opera comune che è la Chiesa, opera non solo umana ma divino- umana. Dirò di più: ciascuno deve amare il posto che ha nella comunità dei credenti anche se sembra piccolo, poco importante, perché ciò che conta non è che questo mattone sia inserito in un posto importante, strategico o visibile, l’importante è che questo mattone faccia il suo lavoro, dia il suo contributo laddove l’ha messo il Signore (perché è il Signore che costruisce la Chiesa). Anzi qualche volta le pietre più nascoste e meno visibili di un edificio sono proprio quelle che servono di più, che lo sostengono anche se non si vedono. Ecco, ricordiamoci che queste pietre siamo noi, siamo delle pietre vive che non possono vivere per se stesse ma che sono nella Chiesa, in questo grande edificio che è la casa di Dio.

Infine arriviamo al Vangelo: il Vangelo tra le altre cose, ci riporta questa esclamazione forse un po’ ingenua ma certo straordinaria di Filippo a Gesù: “Signore, mostraci il Padre e ci basta.” E Gesù cosa risponde: da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre”. In altre parole Gesù rimprovera Filippo perché non è saputo andare al di là dell’apparenza, di quello che vedeva: guardava Gesù e vedeva Gesù, senza saper vedere il Padre in Lui. Qualche volta questa cecità, questo sguardo un po’ miope ce l’abbiamo anche noi nei confronti della Chiesa. Guardiamo la Chiesa e ci fermiamo alla sia dimensione umana, sociale, la Chiesa come Istituzione, la Chiesa come entità politica, la Chiesa come Stato. Vediamo tante cose della Chiesa tranne quella fondamentale: che la Chiesa è il Corpo di Cristo e che noi facciamo parte di un corpo prima che di un club o una istituzione.

Siamo membra vive di un corpo vivo. Se Gesù dice a Filippo e agli altri: credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me, in certo senso potremmo fare una variante di questa frase: che la Chiesa è in Cristo e che Cristo è nella Chiesa. Molte cose della Chiesa non si capiscono se non riusciamo ad acquistare questo sguardo di fede, questo sguardo contemplativo che la riconosce nella sua identità più profonda: la Chiesa è più che un’istituzione, è più che un club, il papa ha ripetuto tante volte che la Chiesa non è una ONG ben organizzata, ma la Chiesa già il regno di Dio stesso presente in mistero, il primo germoglio che va lentamente crescendo, come abbiamo sentito nelle letture di oggi e in cui il Signore ha posto la sua dimora, per attirare a sé tutte le genti. Per conoscere davvero la Chiesa nella sua realtà intima abbiamo davvero bisogno di vivere la Chiesa cioè di partecipare con entusiasmo alla sua vita di fede, di speranza e di carità. Chiediamo tutto questo per noi e per coloro che sono ancora lontani dalla Chiesa, come dice la preghiera di Giorgio la Pira.

 

sabato 10 maggio 2014 – Festa dei Santi Zanobi e Antonino - fr. Giovanni Battista FMJ

 

La festa dei santi Zanobi e Antonino è una bella occasione per noi per riflettere un pochino sulla nostra appartenenza alla Chiesa universale, un’appartenenza che non è astratta, non è aleatoria, ma che, se si può definire universale, lo è proprio perché si radica nell’appartenenza ad una Chiesa particolare che è per noi la Chiesa di Firenze. Ricordando questi due santi potremmo dire che la Chiesa è universale, in questo senso, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, perché noi oggi beneficiamo, ereditiamo, viviamo della fede che i nostri padri ci hanno consegnato, facciamo parte della loro stessa Chiesa e della loro stessa fede che è stata un anello, seppur piccolo e lontano da noi, che ci tiene saldi a quella Tradizione con la T maiuscola che in ultima istanza risale al Cristo stesso.

I santi Zanobi e Antonino sono due santi vescovi di grande rilievo per il loro tempo e dunque anche per noi. Ognuno ha dato un contributo particolare a seconda della sua epoca.

Per quanto riguarda san Zanobi, vissuto a cavallo del terzo-quarto secolo, sicuramente decisiva fu la sua azione pastorale per la crescita e la maturazione della fede cristiana nel nostro territorio. Il nome di Cristo già aveva raggiunto le nostre terre, ma solo grazie a san Zanobi la Chiesa fiorentina assumerà un’identità sociale decisamente più profonda ed incisiva in una provincia ancora molto segnata dal paganesimo. Inoltre san Zanobi come dovette fronteggiare il paganesimo fuori della Chiesa, si misurò anche con l’arianesimo dentro la Chiesa, un fuori e un dentro che ci ricordano come lo spirito del mondo può soffiare anche tra coloro che dovrebbero essere guidati dall’autentico Spirito di Cristo. L’arianesimo infatti era un’eresia che soddisfaceva più un modello umano di elaborare i dati della Rivelazione, che la fedeltà al ‘depositum fidei’ trasmesso dagli apostoli. Gesù nell’arianesimo non era Dio ma era un grande uomo, il più grande degli uomini, la prima e la più alta delle creature ma pur sempre creatura e niente più. Un modello soddisfacente, ragionevole per chi vuol credere senza scomodarsi troppo, senza cioè fare il salto della fede. Il confine tra il dentro e il fuori della Chiesa, cioè tra mentalità fedele a Cristo e mentalità influenzata e asservita al mondo è un confine che forse anche oggi può essere ancora un po’ ambiguo, talvolta anche tra i cristiani. La prima lettura di oggi ci apre proprio gli occhi rispetto a queste deviazioni, alterazioni del vangelo: “Perfino di mezzo a voi – dice san Paolo – sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate.” Quando uno vuole attirare persone dietro di sé non agisce più in nome di Cristo. La vigilanza, stare con gli occhi aperti, è l’abito che san Paolo ci invita a rivestire, una vigilanza che si rafforza nella fedeltà ai Pastori a cui il Signore ci ha affidato nella Chiesa e al loro magistero. Tra l’altro, proprio la prima lettura di oggi contiene il motto dello stemma episcopale del nostro Cardinale arcivescovo Giuseppe: “(affidato) a Dio e alla parola della sua grazia.”

Sant’Antonino Pierozzi, vescovo domenicano, vive in tutt’altro periodo, a cavallo tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo. Oltre che per il suo episcopato fiorentino, sant’Antonino è ricordato anche per il suo importante ed equilibrato contributo nell’ambito della teologia morale. Esigente con gli altri sant’Antonino lo era ancor più con se stesso; fu un grande amico per i poveri e un uomo dall’intensa vita interiore fin dai suoi trascorsi domenicani quando fu priore del convento di san Marco che rese un centro di grande spiritualità.

Al di là, o meglio, all’interno di tutte le particolarità che differenziano la missione svolta da questi due santi vescovi, lontani tra loro nel tempo ma vicini nella missione e nella fede, c’è una cosa sopra tutte, che dà un senso, il più profondo, al loro ministero. È quanto il vangelo di oggi esprime con le parole di Gesù: “Come il Padre ha amato me anch’io ho amato voi”. I santi Zanobi e Antonino, scelti e inviati da Cristo ci hanno portato l’amore del Padre, hanno manifestato l’amore del Padre alla nostra Chiesa diocesana. Il Padre, attraverso di loro, ha amato Firenze. Sul loro esempio anche noi siamo invitati ad essere non solo eredi del nostro passato ma a rispondere alla nostra specifica chiamata per essere testimoni e continuatori di questo torrente di fede e di amore che da Cristo e gli apostoli in poi non cessa di attraversare secoli e terre diversi. Così si compia la speranza di Gesù: non voi avete scelto me ma io ho scelto voi … perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga.

 

venerdì 9 maggio 2014 – III settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ
 

Il discorso sul pane di vita che quest’oggi entra nella seconda parte possiamo provare a leggerlo alla luce della prima lettura che ci parla della conversione di san Paolo. Sembrano due testi diversi, lontani tra loro e invece entrambi si toccano e si illuminano a vicenda. In che senso? Nel senso che entrambi ci parlano di diverse forme di presenza del corpo di Cristo, diverse modalità ,eppure è sempre lo stesso Gesù.

San Paolo incontrando Gesù entra per tre giorni in uno stato di cecità: vive la sua Pasqua, vive il suo battesimo. Ma questa cecità non deriva da un’assenza di luce ma proprio dal suo contrario, cioè proprio da un eccesso di luce, da una illuminazione e rivelazione che gli fa scoprire due cose che cambieranno radicalmente il suo stile di vita. La prima scoperta che Paolo fa è che Gesù è il vivente, non era un falso profeta come pensava e non era una menzogna quella che andava diffondendosi a Gerusalemme e dintorni: Gesù è veramente Dio, è veramente il Risorto. Solo incontrandolo Paolo lo capirà: non con ragionamenti o convincimenti particolari da parte di altri, ma solo incontrando Gesù. Qui c’è la sua conversione.

Ma la rivelazione di cui Paolo è partecipe non si ferma qui, perché Paolo non solo incontra Gesù ma fa anche un altro incontro e un’altra scoperta: che Gesù ha un corpo e quel corpo siamo noi, siamo tutti noi che battezzati in Lui siamo diventati, ciascuno a modo suo, sue membra. Proviamo a pensare quanto questa scoperta lavorerà nel cuore di Paolo che ci regalerà poi delle meditazioni meravigliose proprio su questa realtà mistica del corpo di Cristo che è la Chiesa. Paolo, incontrando Gesù incontra in lui anche tutto il suo corpo vivente che è la Chiesa.

A questo punto assumono allora un significato del tutto speciale anche le parole di Gesù nel suo discorso sul pane di vita: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Davvero in questo cibo e in questa bevanda ci viene comunicata la vita di Gesù, davvero Gesù vive in noi e se vive in noi vive anche negli altri, nei miei fratelli e in tutti coloro che formano il suo corpo. Ci troviamo di fronte al grande mistero della presenza di Cristo che se certamente è mistero sublime nella celebrazione del sacramento dell’Eucaristia, tanto che lo proclamiamo “mistero della fede”, non dobbiamo tuttavia dimenticare che questo mistero della fede non si ferma qui, ma che c’è un mistero della presenza di Gesù, seppur in modo diverso, anche in tutti noi che siamo suoi fratelli. L’Eucaristia allora non si celebra solo nella Messa ma, in certo senso, si celebra laddove c’è incontro con questa presenza di Gesù che chiede di essere accolto e amato. Come possiamo infatti onorare, adorare, rimanere in Cristo se poi lo disprezziamo o siamo indifferenti alla sua presenza che chiede ancor più di essere accolta nei nostri fratelli? Che senso avrebbe offrire se stessi nel rito in unione a Gesù, la vittima spirituale, come pregheremo tra poco, se poi tutta la nostra vita non fosse un prolungamento reale di questa offerta? Forse esagerando un po’, in un certo senso potremmo dire che l’Eucaristia si celebra in chiesa, ma anche si celebra nelle case, nelle comunità, nelle strade, di giorno e di notte. Ognuno di noi sa dove, più che altrove, è chiamato a celebrare e incontrare questa presenza di Cristo. È tale realtà, potremmo dire, estesa, del corpo di Cristo che ci consente di vivere una vita eucaristica: l’Eucaristia come fonte, culmine e paradigma di tutta la nostra vita così in questo modo simboleggiata e unificata in questo pane vivo che ora riceveremo.

Il Signore, come medico, ci guarisca dalla nostra cecità, faccia cadere anche dai nostri occhi, come da quelli di Paolo, quelle squame che ci impediscono di vedere e capire ciò che un giorno, come giudice, ci dirà: ogni volta che avete fatto (o non fatto) queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto (o non fatto) a me. (cfr. Mt 25, 40.45)

 

giovedì 8 maggio 2014 – III settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

Come ci ha ricordato recentemente il Santo Padre Francesco nella sua esortazione apostolica, la Chiesa non cresce per proselitismo ma «per attrazione». Gesù nel vangelo di oggi, tocca, sfiora, questo argomento quando dice: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato.” Dio ci attira, se siamo qui è perché tutti possiamo affermare di essere stati, almeno un pochino, affascinati, attratti, persino sedotti dal Signore. Perché Dio possiede l’arte di attrarre: come diceva sant’Agostino: “attrarre è l’arte di Dio (…) Sì, attrarre è proprio di Dio” (omelia 26 sul Vg. Di Gv).

Tante cose, oggigiorno, ci attraggono, tante cose stimolano il nostro desiderio, ma “non tutto giova” direbbe san Paolo. È importante per noi allora imparare a vigilare sul nostro desiderio, imparare ad ascoltarlo e a discernerlo perché non ogni desiderio è buono. Del resto anche Eva, leggiamo nella Genesi, si avvicinò all’albero della conoscenza del bene e del male proprio perché lo riconobbe “gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3,6). Ci sono desideri buoni che vengono da Dio e desideri, fascini, luci di cui bisogna un po’ diffidare. E c’è una grande differenza tra queste due spinte, cioè tra l’attrazione che Dio esercita su di noi e quella che non proviene da lui e che arriva magari da altro o da altri: Dio, attirandoci a sé, potremmo addirittura dire, legandoci a sé, ha il potere di renderci davvero liberi: è paradossale ma è così: legarsi a Dio, stringersi nella fede a Dio è un legame liberante: Gesù pone su di noi un giogo soave, un giogo liberante. Le altre attrazioni invece, l’attrazione cioè che proviene da cose o persone, talvolta ci rendono schiavi, creano dipendenze, anche se non sempre l’uomo sul momento se ne rende conto.

L’invito che vogliamo accogliere dalla Parola di oggi è allora quello di porci in ascolto, aprire l’orecchio del cuore per ascoltare la voce di Dio che ancora oggi non cessa di farsi sentire nel mondo, nella Chiesa, nella nostra coscienza. “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me”: è questa la strada che Gesù nel vangelo di oggi ci propone per andare a lui, per accogliere dentro di noi quel desiderio buono che è spinta, è attrazione che ci conduce ad una vita piena, ad una vita libera.

 

mercoledì 7 maggio 2014 – III settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

 

La prima lettura di oggi si pone in una specie di continuità esistenziale con il vangelo, che è una parte del famoso discorso sul pane di vita, cioè il discorso in cui Gesù applica a sé la categoria del pane: io sono il pane della vita chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai. È un discorso sicuramente inedito per i suoi uditori, ma non per noi che conosciamo lo stile di Gesù che è uno stile fatto di dono, di offerta di sé per trasmettere la sua vita agli altri. Già qui c’è un punto straordinario che segna, necessariamente, il modo di relazionarsi con un Dio fatto così. L’idea umana, l’idea pagana del divino è quella infatti di un Dio che sta in alto e là rimane, nelle altezze, tra le cose eccelse: la divinità si merita l’adorazione dell’uomo che sta in basso e, del resto, conviene all’uomo adorare, e anche propiziarsi la divinità, renderla benigna, trovare grazia ai suoi occhi per sfuggire ad eventuali calamità e sventure. Nell’antica Roma la religiosità era un po’ così: un tenersi buone le divinità. Ecco che in questo discorso che abbiamo ascoltato Gesù ribalta radicalmente le cose: Dio è certo il Dio trascendente, Colui che sta aldilà di tutti, l’eccelso, il glorioso che merita tutta l’adorazione che compete al suo nome, ma la grandezza di Dio non segue il modello umano, perché come cantava san Francesco, Dio è umiltà, è un Dio che si fa pane, è un Dio che prima di ricevere qualcosa dall’uomo è Lui che si da all’uomo e gli offre la sua vita. La gloria di Dio non sta più solo nelle cose eccelse, ma ormai ha posto la sua dimora in quelle umili, semplici e vere.

 

Gesù, proprio nel vangelo di oggi da una bella definizione di sé, si definisce il “disceso dal cielo”, indicando con questo non tanto un movimento spaziale quanto uno stile relazionale: per entrare in relazione Dio scende! non rimane lassù nella sua gloria, non aspetta che sia l’uomo a scalare la montagna della sua grandezza e della sua santità, ma è lui che per primo scende per andare incontro all’uomo, addirittura facendosi cibo per l’uomo. Una prima grazia che possiamo chiedere, la prima preghiera che volgiamo formulare è forse proprio quella di avere sempre più fame di questo cibo, fame di questo pane di vita. Il pane di vita ci è dato, ci è offerto gratuitamente ma noi abbiamo davvero fame di questo pane? Vogliamo davvero essere nutriti, vivere della vita di Dio? Individuare, capire qual è la nostra fame profonda, che tipo di fame abbiamo, ci aiuta anche a capire di che tipo di pane andiamo in cerca, qual è il nutrimento che vogliamo sostenti la nostra vita e la nostra umanità.

 

Dicevamo all’inizio della continuità che c’è tra vangelo e prima lettura, continuità esistenziale perché le vicende della prima comunità cristiana, se lette solo umanamente, cioè dal punto di vista della cronaca, del fenomeno, sembrano una disgrazia dietro l’altra (ieri l’uccisione di Stefano, oggi la dispersione della comunità); ad un livello immediato ci sarebbe davvero da pensare che questi primi passi della comunità cristiana siano invece gli ultimi, sia l’inizio della fine; ma noi, che veniamo dopo questi eventi, sappiamo che non è così, anzi sappiamo che questa dispersione dei discepoli di Gesù non è dispersione ma è missione, è la Parola che corre e agisce, che si diffonde, che genera vita attraverso la persecuzione di questi poveri testimoni. Se leggiamo tutto questo con gli occhi di fede, cioè con quello sguardo che non si limita a vedere ma cerca anche di capire il senso delle cose nella luce di Dio, possiamo addirittura affermare una cosa straordinaria (ed è per questo che parlavo di continuità esistenziale): sulle orme del suo Signore, Gesù, il pane che dà la vita al mondo, anche la comunità sta attraversando questo processo, potremmo dire, di “panificazione”, cioè sta diventando, pian piano, pane per gli altri. E sappiamo bene che per essere pane per gli altri non basta essere pane ma bisogna essere pane spezzato, pane da condividere, bisogna passare per la Croce. Pian piano la comunità sta assumendo lo stile del suo Signore: nutrita dal pane di vita diventa anch’essa, unita a Gesù, pane per il mondo. Una cosa interessante è che san Luca negli Atti degli apostoli fa una sottolineatura piccola ma importante: che solo dopo questa persecuzione, lo leggeremo più avanti, i discepoli saranno chiamati cristiani. Non prima, ma solo quando saranno divenuti pane spezzato potranno portare il nome di Cristo.

 

Anche noi allora quest’oggi vogliamo chiedere queste due cose al Signore: non solo, come la folla del Vg chiedergli ‘Signore dacci sempre questo pane’, ma soprattutto, dacci sempre la fame per questo pane, perché non andiamo a saziarci di altro. E la seconda cosa che chiediamo è che questo pane di vita ci trasformi e renda anche noi pane per gli altri, solo così saremo davvero cristiani, cioè portatori, in noi stessi e per gli altri del nome di Cristo.

 

4 maggio 2014 – III domenica di Pasqua – fr. Giovanni Battista FMJ
 

Riascoltiamo quest’oggi lo splendido brano dei discepoli di Emmaus, un racconto appassionante, un racconto che ci offre vari ingressi, potremmo dire così, nella situazione narrata perché anche noi ne prendiamo parte non come spettatori esterni ma come partecipi della vicenda che si narra. Anche noi vogliamo quest’oggi prendere parte a questo cammino dei due discepoli di Emmaus perché si tratta di un’esperienza che ha tanto da dirci. Anche in questo testo come negli altri che ci raccontano degli eventi accaduti dopo la Pasqua le apparizioni di Gesù sono sempre presentate non tanto come eventi prodigiosi o spettacolari, e nemmeno come eventi dalla grande pubblicità; si tratta piuttosto di incontri semplici, normali, umani, forse troppo umani per essere riconoscibili sull’istante e infatti all’inizio la cecità dell’uomo ha il sopravvento. Gesù risorto non è immediatamente visibile, si presenta come un estraneo, un forestiero. L’umiltà della condizione umana che il Figlio di Dio aveva assunto con l’Incarnazione è un’umiltà che caratterizzerà anche il suo stile relazionale dopo la Pasqua. Gesù Risorto non interviene in modo eclatante e non umilia nemmeno i suoi crocifissori trionfando su di loro come un vendicatore. Il suo modo di farsi conoscere è un modo umile, un modo umano: è il camminare con l’uomo, farsi umilmente e nascostamente vicino all’uomo. Gesù sceglie di andare al passo dei due pellegrini e di adattarsi al loro modo di capire, alla loro lettura dei fatti, alla loro capacità di vederlo. La cosa che sorprende, la cosa perfino faticosa per noi è forse proprio questo modo incredibilmente umile e umano di Gesù di entrare in relazione con l’uomo.

È un incontro a cui non sempre siamo preparati, è un incontro davanti al quale spesso forse anche noi siamo dei ciechi, dei non vedenti, non in modo assoluto, ma dei ciechi perché andiamo a cercare il Signore tra le cose grandi, eccelse, di una superiorità più umana che divina, e poi magari ci sfugge la percezione che Gesù è al nostro fianco, cammina con noi, ci si è affiancato. È un po’ l’esperienza che fece anche sant’Agostino nella sua appassionata e anche sofferta ricerca di Dio: ti cercavo fuori di me e tu invece eri dentro di me. Cioè, praticamente, io ti cercavo e invece tu mi avevi già trovato. Forse è accaduto così anche per i due discepoli di Emmaus: pensano di parlare di Gesù e non si rendono conto invece che stanno parlando con Gesù, che Gesù è lì, li ascolta, e dialoga con loro. Già questo aspetto ci ricorda un primo punto importante, e cioè che è nella nostra vita che il Signore si manifesta, nella nostra vita così com’è, lungo questo cammino, a volte lineare, a volte tortuoso, a volte entusiastico, a volte angosciante e deludente. Qualche volta forse noi aspettiamo dal cielo ciò che è già sulla terra, vicino, vicinissimo a noi. Qui e non altrove il Signore si affianca e parla, ci parla, e nel parlare ci guida. E qui arriviamo ad una seconda porta di ingresso nel brano di oggi.

I due di Emmaus sono delusi, sono tristi ma se rileggiamo bene il testo notiamo che questa tristezza non viene tanto dal fatto che Gesù sia morto. Cioè non sono tanto addolorati per l’evento in sé della morte di Gesù. Non ci troviamo di fronte, per esempio, al dolore di Maria presso la croce che vede il suo Figlio soffrire e morire. No, la loro tristezza, è di un altro tipo, potremmo dire un po’ più autoreferenziale: cosa dice il testo? Dice: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”. È interessante questo perché ci fa capire che la disgrazia, secondo loro, era sì certamente la perdita di Gesù ma soprattutto il crollo di tutte quelle aspettative che loro avevano coltivato su di lui. Piangono una persona importante, il rabbì, il profeta, ma piangono soprattutto il fallimento della loro attesa di liberazione. Come allora il misterioso pellegrino dialoga con questa delusione? Gesù cerca a questo punto di guidare i due ad un passaggio, ad un esodo, dalla loro idea più politica che biblica, più mondana che divina del progetto di librazione di Israele, alla comprensione dell’autentico disegno divino che si era compiuto in Gesù Cristo morto e risorto. È strano ma è così: ciò che loro consideravano fallimento, era invece il vero compimento delle Scritture, la realizzazione della liberazione che tanto speravano. Questa dinamica, per quanto strana, ci interroga, ci fa riflettere sul nostro essere delusi, ci invita a chiedere a noi stessi: quando siamo tristi e delusi perché lo siamo? Siamo tristi perché davvero è tramontato, è fallito il piano di Dio, o perché è caduto il nostro progetto, il nostro modo di vedere le cose. Interroghiamo la nostra tristezza per vedere se è fondata, se ha ragione d’essere, o se forse non siamo noi che stiamo cercando tra i morti colui che è vivo e ci sta guidando, anche attraverso questa delusione, ad entrare nella novità della sua Risurrezione. Anche questo significa fare Pasqua, anche questo significa lasciare che la risurrezione di Gesù non sia solo cosa sua, ma sia anche la nostra risurrezione, la risurrezione del nostro pensare, del nostro sperare, del nostro fidarci della mano di Dio che ci guida anche attraverso degli eventi della nostra vita che non sembrano essere espressione della volontà di Dio.

Infine, un ultimo aspetto di capitale importanza di questo brano, sono i due spazi, diciamo così, in cui Gesù tocca e trasforma i due discepoli, li fa rialzare, perché,come abbiamo visto, i veri morti erano loro, non era lui. I due discepoli, come abbiamo sentito, alla fine cambieranno strada, faranno inversione a U e ritorneranno a Gerusalemme. Ma prima di arrivare a questa vera conversione, attraverseranno due tappe preziose. Attraverseranno due spazi, due luoghi, che potremmo definire anche luoghi teologici e liturgici, sono la Parola e la Mensa: qui Gesù spiega la Scrittura e così illumina il cuore la mente dei discepoli, qui Gesù spezza il pane e in quel gesto, in quello spezzare viene riconosciuto. In queste due tappe cambia qualcosa in loro, crescono, maturano, o per usare un linguaggio più appropriato, risorgono interiormente. Consolati dalla parola di Gesù e illuminati dal suo gesto di spezzare il pane, si compie per loro una vera rivelazione! Cioè incontrano un volto, cade il velo dai loro occhi e contemplano, anche se per poco, il Cristo Risorto. Ebbene, solo a questo punto, solo dopo aver scoperto che dietro quelle parole così ardenti e quella compagnia così famigliare c’era Gesù, potranno ritornare con gioia a Gerusalemme, il luogo della delusione e della sconfitta, la città da cui stavano fuggendo.

È l’esperienza che vogliamo fare anche noi quest’oggi: consolati dalla Parola di Dio e nutriti dal corpo e sangue di Gesù, vogliamo tornare sui luoghi delle nostre speranze ancora incompiute, delle nostre morti e fallimenti, con una luce nuova nel nostro cuore e sul nostro volto; la luce del Risorto che si leva dentro di noi, che ci cambia dal di dentro per farci partecipi, già fin d’ora, della vita eterna.

 

sabato 3 maggio 2014 – Festa dei santi Filippo e Giacomo - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Quando la Chiesa celebra la festa degli apostoli sperimenta una gioia particolare perché ricorda coloro grazie al quale il messaggio evangelico si è diffuso, è giunto e continua a giungere fino ai confini della terra. La Chiesa, lo ripetiamo nel Credo, ha nella apostolicità una delle sue note essenziali: la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Cosa vuol dire che la Chiesa è apostolica? Vuol dire tre cose: che è stata e rimane costruita sul fondamento degli apostoli; secondo: che custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito, l’insegnamento, il deposito della fede, le sane parole udite dagli Apostoli; terzo: che fino al ritorno di Cristo la Chiesa continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori che sono i Vescovi. (Cfr. CCC §857) Festeggiare gli apostoli significa allora in modo specialissimo festeggiare anche la Chiesa che vede proprio nella sua apostolicità uno dei suoi caratteri distintivi, delle sue note essenziali.

Venendo ai santi Filippo e Giacomo c’è un aspetto, una caratteristica particolare del loro cammino che ci può interessare: si tratta del fatto che loro non sono presentati dalla tradizione come protagonisti di fatti straordinari. Sono apostoli nel senso di chiamati dal Signore e inviati a collaborare con lui, partecipi della sua missione, punto e basta, o poco più. Nella loro vita semplice e neanche particolarmente appariscente si sono però fatti portatori della salvezza di Gesù a beneficio di tanti: pensiamo che Filippo pare, secondo una tradizione, si sia spinto in Asia minore fino ad arrivare addirittura su in Scizia che sarebbe l’attuale Ucraina; mentre Giacomo, che dovrebbe essere (ma gli studiosi su questo sono un po’ incerti) il fratello del Signore che resse la Chiesa di Gerusalemme fino al 62, arriverà a tutto il mondo grazie al suo scritto ispirato, la lettera di Giacomo, testo breve ma splendido e ricco di sapienza, l’unico scritto di carattere sapienziale del nuovo testamento. Ancora una volta possiamo raccogliere da questo stile dei due apostoli un insegnamento assolutamente prezioso per il nostro cammino, e cioè che non serve essere dei grandi, dei famosi, dei potenti, per portare il nome di Gesù a tutti; anzi il Papa ci ha ricordato quanto faccia male il carrierismo! di una cosa però c’è bisogno in modo imprescindibile: bisogna essere innamorati di Gesù, infiammati d’amore, se no il vangelo va avanti poco. Il vangelo di oggi ci riporta un altro testo, ma se noi andiamo all’inizio il vangelo di Giovanni ci colpisce non poco scoprire qual è la prima parola che, nel Nuovo Testamento, Filippo pronuncia: è nell’occasione di un incontro con un suo amico, Natanaele, un altro che sarà pure apostolo; ecco dopo aver incontrato Gesù, Filippo annuncia con chissà quale trepidazione a un Natanaele scettico e titubante: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth” (Gv 1,45) Anche oggi chi ha trovato il Signore, chi è innamorato di Gesù vibra naturalmente, spontaneamente dello spirito dell’apostolo; magari non farà nulla di appariscente, nulla di vistoso, ma la sua vita sarà una vita illuminata, sarà un cielo illuminato che, come abbiamo cantato nel salmo, narra la gloria di Dio. Il salmo non a caso parla del cielo, perché il cielo, nella cosmologia biblica, è il più vicino al sole, e se ne fa allora testimone luminoso, si lascia attraversare, percorrere dal sole che esce come sposo dalla stanza nuziale perché la sua luce giunga a tutti. L’opposto di tutto questo è la tiepidezza: i cristiani “tiepidi, senza coraggio – ha detto il Papa – fanno tanto male alla Chiesa”, perché il tepore fa rinchiudere in se stessi.

Chiediamo al Signore, per intercessione di questi nostri padri, amici e fratelli che sono i santi Filippo e Giacomo, di farci innamorare un pochino di più di lui: il resto verrà da sé.

Signore rendi anche noi dei cieli che si lasciano attraversare, percorrere da te, il Sole che illumina le nostre tenebre. Circola liberamente nelle nostre vite, dall’alba fino al tramonto dei nostri giorni e illumina tutto! Fa’ che non siamo dei cristiani tiepidi ma degli apostoli che, come san Paolo, trasmettono ciò che hanno a loro volta ricevuto.

 

venerdì 2 maggio 2014 – II settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Cominciamo quest’oggi la lettura del sesto capitolo del vangelo di Giovanni, un capitolo impegnativo, denso, non facile da ascoltare, il capitolo del discorso sul pane di vita. Un capitolo duro da ascoltare perché Gesù farà affermazioni a cui noi oggi, forse siamo abituati, fin troppo abituati, ma per quel tempo erano affermazioni sconcertanti, in certo senso scandalose, cioè che ponevano un ostacolo alla fede di chi le ascoltava, un ostacolo di fronte al quale o la fede fa un salto, un salto di qualità per superare l’ostacolo, o se no c’è l’abbandono. E così infatti accadrà per molti che sentendo parlare Gesù in tal modo, quando diceva che avrebbe dato la sua carne e il suo sangue da mangiare e bere, se ne andranno via. Ecco, ci troviamo all’inizio di un discorso così impegnativo da essere in gioco la fede di chi lo ascolta.

Gesù sapeva già prima cosa sarebbe successo ed è per questo che non inizia subito a fare questi discorsi ma prima compie un segno straordinario, miracoloso, che è la moltiplicazione di pani. Cioè prima di illuminare le menti, Gesù conduce la folla ad un’esperienza. Attraverso questa esperienza Gesù parla alla folla, comunica con la folla, le trasmette qualcosa di sé. Qualche volta capita anche nella nostra vita una dinamica simile: una cosa detta non è la stessa cosa di una cosa provata sulla propria pelle: ecco che Gesù non solo parla, ma Gesù guida, conduce, comunica non solo con i discorsi ma rendendo partecipi queste persone di un evento particolare. E già solo questo aspetto potrebbe essere per noi un grande insegnamento: il Signore non parla solo quando siamo di fronte alla Bibbia o in chiesa, che rimangono certo dei contesti privilegiati di ascolto e di dialogo con Dio, ma anche le esperienze, le circostanze, gli eventi della nostra vita possono farsi portavoce di una parola che il Signore indirizza a ciascuno di noi. L’importante è saperli vedere, ascoltare e soprattutto capire.

Cosa dice Gesù alla folla attraverso questo segno dei pani moltiplicati? Gesù, per prima cosa fa fare a questa folla l’esperienza di una sazietà, di una pienezza. Questo è il risultato dell’incontro con Lui. Gesù sazia, Gesù riempie, Gesù dà quel sostegno che consente all’uomo di stare in piedi, di camminare, di andare avanti. Queste persone non sanno ancora bene chi sia Gesù, infatti lo definiranno solo come un profeta, però una cosa la capiscono: costui è in grado di saziarci, costui ci nutre. Questo è il segno che Gesù da loro. Di una cosa sicuramente tutta questa gente si ricorderà bene: Gesù ci ha dato da mangiare a tutti!

Ma c’è una seconda cosa, una seconda esperienza che questa gente fa attraverso questo segno che Gesù compie. Le folle saziate da Gesù fanno una scoperta che è forse ancora più importante della prima, e cioè che c’è un uomo, un profeta, come lo chiamano loro, che è stato in grado di leggere, di percepire e farsi carico della loro fame, anche se siamo ancora solo ad un livello di fame naturale, fisica. E qui credo che possiamo già intravedere una delle più grandi scoperte che una persona può fare di fronte a Gesù. Nel testo di Giovanni non si dice che sono loro a chiedere da mangiare, e neanche che sono gli apostoli a sollecitare Gesù, come per esempio accade in altre versioni quando invitano Gesù a congedare le folle perché vadano a cercarsi da sole da mangiare. No, qui tutta l’iniziativa è di Gesù e solo di Gesù. È lui che alza gli occhi e vede le folle arrivare, è lui che interroga Filippo per metterlo alla prova, per fare entrare anche lui in questo sguardo, in questa responsabilità, in questa compassione di Gesù, è ancora lui che distribuisce direttamente alle genti il pane e i pesciolini. Gesù capta, percepisce e si fa carico della fame di queste folle, della fame del mondo. È questo forse il più grande dono, il segno maggiore che Gesù compie, per loro e anche per noi. L’uomo ha fame, l’uomo, e credo che ciascuno di noi se ne sia reso conto nel suo piccolo, perennemente in uno stato di bisogno, di carenza, l’uomo è bisogno, è mancanza, è fame e sete di pienezza, di una sazietà della propria vita che è profetizzata in questo cibo così abbondante che viene offerto gratuitamente quest’oggi alle folle. Il problema è quando l’uomo riempie a modo suo questo vuoto che lo abita, questo bisogno che lo caratterizza: questo vuoto da un lato è un’opportunità, dall’altra è un pericolo: è opportunità perché è come una cronica, ontologica disposizione ad accogliere Colui che si è fatto pane per noi, per renderci partecipi della sua vita, è ontologica implorazione di aiuto e di salvezza. È pericolo perché può capitare che questo vuoto l’uomo vada a riempirlo di tutto tranne che di Colui che davvero può saziarlo. È un rischio che corse anche questa folla che vide il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci e si fermò al segno, le bastò il segno, si accontentò della pancia piena e volle fare di Gesù il re che riempie la pancia. Ma Gesù rifiuta perché lui non vuole regnare in questo modo, Gesù voleva solo dare un segno per guidare, condurre pian piano queste folle più lontano, e cioè a capire che il vero pane donato è Lui stesso.

In mezzo a questa folla ci vogliamo mettere anche noi quest’oggi, per farci guidare da Gesù, attraverso i segni, i doni, le esperienze che egli pone sul nostro cammino all’incontro con Lui. Saziati da Gesù vogliamo andare più lontano, non vogliamo fermarci ai benefici, alle emozioni forti, alle gratificazioni, alle euforie passeggere, ma arrivare dal dono al Donatore. Sia Lui la nostra mèta, sia Lui il nostro traguardo perché solo Lui è le pienezza della nostra vita.

 

martedì 29 aprile 2014 – Santa Caterina da Siena - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Della vita di santa Caterina da Siena, di cui oggi celebriamo la festa, c’è tutto un lato pubblico, visibile e anche particolarmente affascinante per la fecondità e l’influenza che ha avuto sulla vita della Chiesa del suo tempo. Ricordiamo infatti che è proprio grazie alla sua mediazione che il papa Gregorio XI decise di ritornare da Avignone a Roma. Caterina ha dato davvero un grande contributo per il rinnovamento e l’unità della Chiesa. Queste sono le cose visibili, se così possiamo dire, della sua opera, di ciò che Caterina ha fatto.

Le letture di oggi ci aiutano però ad andare oltre quello che si vede, a scendere alla radice profonda dell’attività di santa Caterina per coglierne il centro nascosto, il nucleo da cui tutta questa energia si sprigiona. E questo nucleo non è tanto un luogo fisico ma è una relazione viva. Santa Caterina ha vissuto per tutta la vita una straordinaria relazione con Gesù, un rapporto intimo e continuo che è quanto sta alla base della sua opera luminosa. Per quanto l’opera di mediazione e anche di riconciliazione politica ed ecclesiale, perché le due cose erano legate in quel tempo, di santa Caterina fosse stata attiva ed efficace, per quanto fosse un vero e proprio “andare” e “uscire”, tanto che Firenze scelse proprio lei come inviata ad Avignone e convincere il papa di togliere la scomunica alla città, il vangelo di oggi non ci parla di un “andare”. Il vangelo di oggi ci parla piuttosto di un “venire”, e più precisamente, di un “venite a me”, venire a Gesù. Se c’è stato un “andare” in Caterina, un intervenire anche su personalità molto importanti del suo tempo, questo aspetto della sua vita viene dopo, è certamente secondario; ciò che primeggia è questo “venite a me”. Lo dirà un giorno anche ai suoi discepoli, immersi nelle molteplici attività terrene: “Fatevi una cella nella mente, dalla quale non possiate mai uscire”. Questa cella era il vero luogo, il primo spazio di azione di Caterina, dove incontrava colui dal quale si lasciava incontrare.

Ma le parole di Gesù del vangelo di oggi gettano anche un’altra luce sulla vita, interiore ed esteriore di santa Caterina, perché Gesù dopo aver detto “venite a me” aggiunge un altro invito: “imparate da me”. Imparare è il verbo del discepolo che non solo segue passivamente il Maestro, cioè non solo gli va dietro distrattamente, ma lo segue attivamente, cioè lo imita, con ascolto obbediente, mette in pratica quanto ricevuto, esprime nella sua vita l’appartenenza a Cristo. In questo “imparate” noi troviamo tutta una scuola di vita per Caterina, tutto l’ambito delle scelte, della volontà, dei desideri e delle decisioni. Ebbene anche santa Caterina aveva una volontà (e anche molto forte e decisa) e aveva anche dei desideri, che era giunta ad unificare in un unico desiderio fondamentale: scegliere sempre nella sua vita soltanto ciò che l’avvicina, anzi unisce a Cristo.

È un’indicazione semplice, un criterio di vita quasi scontato, ovvio, ma quanto mai importante anche per noi. Da santa Caterina quest’oggi vogliamo dunque accogliere, come da feconda discepola di Gesù, questi due consigli semplici: il primo è un invito ad abitare la nostra interiorità, ad imparare a stare con noi stessi in presenza di Dio anche durante le occupazioni terrene, quotidiane e, se vogliamo, perfino stressanti, di ogni giorno. “La cella attuale poco potrete avere; ma la cella del cuore voglio che sempre abbiate, e sempre la portiate con voi. Perché, come voi sapete, mentre che noi ci siamo serrati dentro, i nemici non possono offendere.” E il secondo è, di fatto, un’estensione a tutto il nostro ambito di vita di quell’”imparate da me” che Ge3sù rivolge ai suoi fedeli; è ricordarsi che a seconda delle scelte che facciamo, piccole o grandi che siano, noi possiamo avvicinarci o allontanarci da Gesù, essere più o meno suoi discepoli. Caterina sapeva, anzi era profondamente convinta che solo le persone rinnovate dal vangelo potevano rinnovare la Chiesa. In altre parole, il rinnovamento della Chiesa e anche del mondo, inizia dal nostro rinnovamento personale. Non è qualcosa che si attende passivamente dal di fuori, dagli altri, ma è un’energia che ci smuove dal di dentro. In fin dei conti è l’energia della Pasqua di Gesù che ci fa andare sempre un po’ più in là nella trasformazione dell’uomo vecchio in uomo nuovo. La luce del Risorto, per intercessione di Santa Caterina da Siena, ci illumini, ci purifichi, ci rinnovi.

 

giovedì 24 aprile 2014 – Giovedì di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il vangelo di stasera, che è la continuazione di quello di ieri, ci presenta un'altra apparizione di Gesù Risorto. Un’apparizione però contrassegnata da alcune novità rispetto a quelle che abbiamo ascoltato nei giorni scorsi. Ne vogliamo mettere in luce, tra le varie, una sola: la prima novità è il saluto di Gesù, che è un dono di pace, “pace a voi”. È un saluto, ma più che un saluto, è una consegna, è il primo dono che il Signore risorto fa ai credenti che è il dono della pace. In questa pace noi vogliamo cogliere non semplicemente un sentimento, non semplicemente l’augurio di una tranquillità, di un benessere psicofisico, ma riceviamo come un annunzio di vittoria. In questo “pace a voi” è come se Gesù volesse rendere partecipi i suoi discepoli di quella pace che è ormai certezza che Dio non abbandona il suo Cristo, il suo consacrato, chiunque ha fiducia in Dio. Possiamo stare nella pace perché Gesù, il Risorto ha vinto davvero la morte, ha vinto davvero il mondo. Il venerdì santo aveva sconvolto tutti, era un fallimento, fallimento di Gesù che muore da solo o quasi, fallimento dei discepoli che sono incapaci di seguirlo fino in fondo. Era la prova suprema della fede, quella prova che forse aveva insinuato il dubbio, lo scoraggiamento, la delusione. In questo annuncio di pace noi troviamo tutta l’energia, tutta la potenza del Risorto che ci consegna la certezza che il Signore è più forte della morte, è più forte della sofferenza, è più forte del male, una forza che fonda la possibilità di una pace solida, vera e duratura.

Ma, seconda cosa, questa pace non è una pace facile, non è neanche una pace immediata: Gesù ce l’aveva detto: Vi lascio la pace, vi do la mia pace – ci aveva promesso Gesù aggiungendo – non come la da il mondo io la do a voi.” Come Gesù realizza, come Gesù diffonde la sua pace? È una pace che viene dal sangue, viene da un sacrificio d’amore, è una pace che è frutto della lacerazione della Croce. La pace che Cristo ci dà non è disgiunta dalla sua persona: san Paolo intende dire proprio questo quando afferma di Gesù che “è lui la nostra pace”. Se la pace è il primo dono che Gesù fa ai suoi discepoli per renderli partecipi della sua risurrezione, per fare entrare anche loro in quell’evento che lui aveva vissuto, capiamo allora che si tratta di una pace pasquale, cioè di una pace che porta l’impronta, il segno della Pasqua, porta l’impronta del suo donatore, della morte e risurrezione di Gesù. I discepoli possono godere della pace del Cristo Risorto, sono in qualche modo abilitati, pronti a ricevere finalmente questo dono, perché sono passati attraverso le sue prove, seppur a modo loro, con poco coraggio e, per quasi tutti di loro, fuggendo via. Non dimentichiamo che Gesù stesso, quando aveva inviato i discepoli in missione aveva posto come prima parola sulle loro labbra proprio la parola Pace, ma poi aveva anche aggiunto: se ci sarà un figlio della pace la vostra pace scenda su di lui se no ritorni a voi. Ebbene, dalla Pasqua di Cristo in poi, essere figli della pace significa essere figli della Pasqua. Senza passare per la Pasqua tutta intera non ci può essere pace vera, non ci può essere pace stabile e duratura. La croce del Signore sbarra la strada alla pace facile. La pace che il Signore effonde anche su di noi in questi giorni è una pace che porta la firma di Gesù, è una pace cristiforme che ne assume perciò i tratti, le cicatrici che segnano ormai per sempre anche il corpo di Gesù. Forse è anche per questa ragione che Gesù, dopo aver donato la pace, chiede di guardare le sue mani e i suoi piedi.

Di questa pace noi vogliamo diventare partecipi in questo giorno di Pasqua, vogliamo accoglierlo come primo dono che ci fa il Signore risorto. Dal fonte battesimale sono nati in questi giorni tanti figli di Dio, anche noi allora possiamo chiedere questa grazia: di nascere o rinascere come figli della pace, cioè come persone capaci di fare spazio nel nostro cuore e nei nostri pensieri, ad una pace diversa da quella che da il mondo, ad una pace che non annulla le eventuali nostre fatiche, sofferenze, pesantezze e anche, magari, delusioni, ma ce le fa vedere e sentire in modo diverso, ce le fa portare in modo diverso. Forse esternamente non cambierà nulla, i problemi e le ansie rimarranno gli stessi, ma saremo diversi noi, saremo noi ad essere cambiati, ad avere quella marcia in più che è proprio la potenza e l’energia che scaturiscono dalla Pasqua di Gesù, che adesso ci prepariamo a celebrare e ricevere nel sacramento.

 

mercoledì 23 aprile 2014 – Mercoledì di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


         L’ottava di Pasqua che stiamo celebrando è illuminata questa sera da un vangelo che ci fa un duplice annuncio, ci consegna due certezze che vogliamo fare nostre in questi giorni così ricchi di grazia: la prima è che il Signore è vivo: Gesù è vivo, è il Vivente; e la seconda è che questo Dio vivente cammina con noi, è al nostro fianco. Anche oggi siamo invitati a fare questo incontro straordinario con questo Gesù Risorto, il Dio totalmente altro ma che è anche il totalmente prossimo, il totalmente vicino, tanto da camminare al nostro fianco.

 

Ieri eravamo accompagnati verso questa scoperta da Maria di Magdala, quest’oggi è invece il turno di due discepoli di ritorno da Gerusalemme. Anche per loro si verifica lo stesso strano fenomeno che era accaduto per Maria di Magdala: anche loro non riconoscono Gesù. Gesù c’è, si pone al loro fianco, cammina con loro, ma loro non lo riconoscono. Si tratta certamente di una cosa stranissima, però Gesù, da parte sua, rispetta questa loro cecità, non dice: “guardate che sono io”, no, si adatta alla situazione, si adatta ai loro discorsi, si pone al loro passo e addirittura accetta di essere considerato un forestiero, un estraneo ai fatti che erano accaduti a Gerusalemme, quei fatti che appesantivano il cuore dei due viandanti, li rendevano tristi, senza speranza. Se ci pensiamo, qualche volta si ripete un po’ la stessa scena anche a nostri giorni: Gesù è considerato un forestiero, un estraneo, uno che non c’entra con i nostri problemi, le nostre sofferenze, con ciò che appesantisce il nostro cuore e la nostra mente, uno che ha poco da dirci di concreto per la nostra vita. In quest’ottica la fede non sarebbe altro che una fuga dalla realtà, una bella fiaba o poco di più. Un pochino quest’aria si respira anche su questa strada che porta ad Emmaus, quest’aria un po’ fiacca, triste, di desideri frustrati e di speranze deluse: “noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele”.

 

Come Gesù si rivela loro, come Gesù si fa conoscere? Dicevamo che il Signore non si presenta direttamente ma si rivela pian piano, indirettamente parlando e dando dei segni che culmineranno nella visione autentica. Gesù usa tutta una pedagogia con questi due discepoli tanto che, lungo questo cammino, fa fare loro un vero pellegrinaggio interiore che li cambierà dal di dentro.

Il primo organo a venire trasformato in questo pellegrinaggio interiore è il cuore: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” La parola del forestiero Gesù parla al loro cuore, non è una parola qualsiasi, li raggiunge, li smuove, fa ardere il loro cuore. È un dettaglio importante anche per noi: saper ascoltare il nostro cuore quando ci troviamo alla presenza di Dio, saper avvertire il nostro desiderio, riconoscerlo, quello vero intendo, non i capricci, perché questo desiderio, questo fuoco interiore può essere il segno che il forestiero Gesù ci sta accanto.

 

La seconda tappa di questo cammino interiore, il secondo organo ad essere trasformato dalla misteriosa presenza di Gesù sono gli occhi: dice il testo che allo spezzare del pane, si aprirono loro gli occhi. Colui che prima era solo nascosto in un ardore interiore ora diventa visibile: è Gesù, ma non solo Gesù, è Gesù che spezza il pane. “Una volta che le menti sono illuminate e i cuori riscaldati – diceva il beato Giovanni Paolo II - , i segni parlano.” (MND 14) Sappiamo che questo spezzare il pane è il gesto che Gesù aveva usato per ritualizzare, diciamo così, la sua Pasqua, il suo donarsi per amore e così consegnarsi a tutte le generazioni. Ebbene, laddove c’è del pane spezzato, laddove c’è dono, laddove c’è consegna di sé per amore, laddove c’è Eucaristia celebrata e autenticamente vissuta, Gesù si rende visibile e i nostri occhi si aprono, lo vedono, diventiamo dei vedenti, non in senso superficiale, ma nel senso di veri contemplativi che vedono il Signore.

 

Ma non finisce qui: dopo il cuore e gli occhi, la trasformazione interiore tocca le orecchie e le labbra: i discepoli ritornano indietro alla loro comunità e qui ascoltano la testimonianza degli Undici apostoli (Davvero il Signore è risorto) e, a loro volta narrano cosa era loro accaduto. Cioè sono usciti, come ieri Maria di Magdala, dai loro pensieri oscuri, e sono capaci di ascolto dell’altro e di testimonianza. Ecco la comunità, la Chiesa, come quel luogo dove circola la testimonianza del Signore Risorto, dove si impara ad accogliere e condividere la propria esperienza di Dio, i doni che Dio ci ha fatto, come si è manifestato a noi come il Vivente.

 

Cuore, occhi, orecchie e labbra, la trasformazione che la risurrezione opera nei discepoli dall’interno (cuore) arriva pian piano fino alla superficie, fino a quegli organi che ne rendono possibile l’annuncio, la testimonianza, la trasmissione: l’incontro diventa così racconto, un racconto che giunge anche a noi quest’oggi. Non però come parola vuota, ma come esperienza possibile anche per noi che stiamo rivivendo lo stesso itinerario dei discepoli di Emmaus: Parola ascoltata, pane spezzato, vita e testimonianza condivisa, accolta e donata. Entrare nella Pasqua di Gesù ci coinvolge interamente, dal cuore alle labbra, tutto in noi è chiamato a risorgere, ad entrare nella novità della risurrezione.

 

martedì 22 aprile 2014 martedì di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


           Come ci è stato ricordato nell’omelia della Veglia Pasquale, della risurrezione di Gesù non ci sono testimoni, cioè nessuno ha visto il Signore nell’atto di risorgere, ma ci sono testimoni di Gesù già risorto, del Gesù vivo. Il Signore è apparso, il Signore si è lasciato vedere, si è manifestato a molte persone, ma nessuno l’ha visto risorgere. La cosa non è di poco conto per noi che in questa ottava di Pasqua stiamo celebrando la risurrezione del Signore perché questo incide sulla modalità di celebrare la Pasqua del Signore. In che senso? Nel senso che si pone una questione: come conoscere, come sapere che Gesù è davvero risorto?          Ci siamo ripetuti diverse volte in questi giorni il saluto-annuncio “Cristo è risorto - è veramente risorto” ma come riconoscere questo evento della risurrezione? Ebbene noi, come gli apostoli e tutti coloro che hanno visto Gesù risorto, prima che essere testimoni dell’evento della risurrezione, dobbiamo essere testimoni di un incontro. E questo è fondamentale: non scopriamo la risurrezione di Gesù, ma scopriamo Gesù vivo: l’evento della risurrezione ci raggiunge non come uno spettacolo da osservare, ma in una Persona da incontrare e accogliere. È nella categoria dell’incontro che si pone e si diffonde la fede nella risurrezione. I vangeli che ascoltiamo in quest’ottava sono proprio il racconto di questi incontri con Gesù risorto. Vogliamo dunque cercare di cogliere un paio di dinamiche di questi incontri, vedere se c’è qualche costante che può avere un valore, una similitudine anche con il nostro andare incontro al Signore Risorto.

Oggi coinvolta in questo incontro è Maria di Magdala che piange perché non trova il Signore nel sepolcro: il sepolcro vuoto invece che essere fonte di gioia perché è uno dei segni della risurrezione, è per lei fonte di pianto. Ecco che la Maddalena cerca il Signore ma non lo trova. O meglio non lo trova finché non è lei ad essere trovata: e abbiamo qui una prima caratteristica di questa dinamica di incontro con Gesù: non siamo noi che scoviamo Gesù risorto, che arriviamo a comprenderlo, a teorizzarlo e testimoniarlo se non nella misura in cui accettiamo di essere noi cercati, trovati, sorpresi da lui. Questa è la prima cosa, la prima dinamica: è il Signore che anche in questo ci precede, ci è davanti, ci anticipa. Non siamo noi a trovare lui ma è lui che trova noi.

Detto questo possiamo chiederci anche un’altra cosa: come si è raggiunti, trovati da Gesù? Come si compie, come si realizza questo incontro? Se guardiamo al vangelo di oggi vediamo che Maria incontra Gesù in una voce, in una chiamata a cui accetta di rispondere voltandosi. In questa chiamata Maria incontra Gesù risorto. San Giovanni ci dice che Maria si voltò: è il verbo della conversione. Maria per un secondo lascia perdere i suoi pensieri di morte e di tristezza, lascia perdere la sua interpretazione del segno di un sepolcro vuoto (secondo la quale qualcuno avrebbe portato via il corpo di Gesù) e si volta verso quella voce, verso una chiamata, ha il coraggio di guardare in faccia Gesù e così incontra il Vivente. Pensavamo forse che l’esigenza della conversione fosse solo un tema quaresimale e invece no: c’è un’urgenza di conversione anche a Pasqua e per fare davvero Pasqua. Se udite oggi la sua voce, abbiamo cantato tante volte in quaresima, non indurite il vostro cuore: ecco ora la voce del Signore risorto che ci chiama e aspetta che ci voltiamo. Anche per noi, cari fratelli e sorelle, c’è una chiamata del Signore risorto che attende una risposta, attende che ci voltiamo, attende che lo guardiamo in faccia. Forse non pensavamo che fosse lui quella voce, che fosse lui a chiamarci, forse pensavamo che fosse un uomo qualsiasi (il custode del giardino), una parola qualsiasi, un evento qualsiasi o e invece in quella voce forse c’è il Signore che vuole incontrarci. Solo allora celebreremo davvero la Pasqua. Solo allora conosceremo che davvero il Signore è risorto.

 

sabato 19 aprile 2014 - Omelia Veglia Pasquale - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   Quando - prima della Passione - Gesù aveva spiegato ai suoi discepoli che dopo tre giorni dalla morte sarebbe risuscitato, i discepoli non compresero le sue parole.

   Quando nel Cenacolo appare Risorto e Tommaso è assente, quest'ultimo sentendo il racconto dei suoi amici non crede.

   Quando il mattino di Pasqua appare nel giardino del sepolcro a Maria di Magdala lei lo scambia per il giardiniere.

   Quando Risorto cammina da Gerusalemme ad Emmaus con  due dei suoi discepoli, questi non lo riconoscono subito.

   Quando sulla riva del lago attende i suoi discepoli delusi che tornano dalla pesca essi lo scambiano per un fantasma.

    Quando Pietro dopo il dono dello Spirito inizia a predicare con franchezza che il Padre ha resuscitato dai morti quel Gesù che era stato ucciso, non trova grandi entusiasmi, anzi si scatenano le persecuzioni.

   Quando Paolo nell'Aeropago di Atene, alla grande e illustre assemblea dei sapienti dell'antica Grecia, l’apostolo parla della Resurrezione, in modo gentile ma sottilmente ironico Paolo è semplicemente snobbato: " ...su questo ti ascolteremo un'altra volta."

    Fratelli e sorelle tutto questo ci mostra che: non è scontato, non è semplice credere alla Resurrezione.

  Dobbiamo confessarlo con semplicità: anche noi siamo un po' come i discepoli scendendo dal monte Tabor dopo la Trasfigurazione, quando Gesù anche quella volta aveva parlato della sua resurrezione. Essi annota San Marco nel suo Vangelo ".....si domandavano che cosa volesse dire "risuscitare dai morti" (Mc 9, 10).

   Anche noi ci domandiamo ....ma cosa vuol dire credere alla Resurrezione? Cosa vuol dire per noi oggi credere alla Resurrezione di Gesù? Che cosa è la Resurrezione di Gesù? Come è avvenuta, cosa è successo.....e tante domande simili anche noi ce le poniamo.

    Non è immediato credere alla Resurrezione di Gesù.

   Ma occorre fare attenzione ad una cosa, che ha una notevole importanza!

    A ben guardare i Vangeli mai spiegano l'avvenimento della Resurrezione, mai dicono come Gesù sia Risorto, mai descrivono il momento della Resurrezione. Non esiste  nessun testimone della Resurrezione. Nessuno ha visto Gesù risorgere. I Vangeli non ci dicono quindi come, è lasciato al mistero della Potenza di Dio, ma ci dicono la cosa più importante. ciò che conta, ciò che cambia tutto, la nostra vita, la storia, l'universo, e cioè che è Risorto, che Gesù è vivo. Tutto non si è concluso con la deposizione nel sepolcro. Lì proprio lì dove tutto pareva finito e finito per sempre, Dio il Padre ha preso la Parola: ha resuscitato Gesù. E - sempre i Vangeli - sebbene non ci indichino testimoni della Resurrezione, ci dicono - magari all'inizio timorosi e dubbiosi - testimoni del Risorto. Uomini e donne che lo hanno visto, incontrato toccato vivo, realmente vivo.

    E questi sono davvero tanti: Maria di Magdala, gli apostoli, i discepoli di Emmaus.  Ma anche poi fuori dai Vangeli tutta la lunghissima storia della chiesa è costituita dall’interminabile lista dei testimoni del Risorto: i santi.

 

     Fratelli e sorelle allora noi questa notte abbiamo un solo motivo per essere qui: celebrare Gesù Risorto, incontrarlo ancora nella Parola, nei segni liturgici: Siamo qua per fare una volta di più l’esperienza che Gesù è Risorto, è davvero Risorto; è vivo, è il vivente, ha sconfitto la morte, ci ha reso la libertà, ci porta in una vita che non ha fine. Siamo qui perché vogliamo confessare che l’ultima parola sulla nostra vicenda terrena e sul destino dell’umanità non è della morte come vorrebbe farci credere la ideologia materialista del momento, ma della vita, di una vita piena che scaturisce per sempre dal Signore Risorto.

    Gesù è Risorto! E' davvero Risorto! La pietra è stata ribaltata, la tomba è vuota.

Se siamo qui è perché certo, pur con le nostre debolezze e forse anche dubbi e stanchezze, vogliamo dire al Signore: io credo che sei Vivo e che non cessi di venirmi incontro! Io credo che sei Risorto e non cessi di parlare alla mia vita! Io credo che sei Risorto e che anche a me vuoi mostrarti sempre più.

     Gesù non è solo vivo, risorto, ma ci chiede di aprire una volta di più i nostri occhi perché ci vuole incontrare e si fa incontrare. A Lui per primo non è sufficiente che io lo creda risorto, ma vuole che io possa dire personalmente: Ho visto il Signore, l'ho incontrato, parrebbe uno sproposito: l'ho toccato.

   Discepolo infatti non è chi può dire Gesù è Risorto, ma chi può e vuole gridare:” Ho visto il Signore”.

    I luoghi, le opportunità, le occasioni che il Risorto ci porge, prepara, indica per farsi incontrare sono molteplici: la Sua Parola che fa sussultare il cuore, i Sacramenti che operano meraviglie di grazia, la chiesa la cui fede mi sostiene, mi accompagna, mi nutre nel cammino.

     Ma questa notte voglio invitarvi a guardare più da vicino una icona che ci propone il Vangelo ascoltato. San Matteo ci dice che un angelo dal cielo scese rotolò la pietra e si mise a sedere sopra. Alle donne impaurite che cercavano un morto annunzia che non è più lì perché appunto è Risorto.

   Un angelo seduto su una pietra sepolcrale rotolata via che annuncia che Gesù è Risorto.

  Fratelli e sorelle proviamo a pensare nel nostro cuore: forse è capitato nella nostra vita che il Signore ci ha posto accanto un angelo seduto su un luogo, in una situazione, in una esperienza che credevamo di morte e lì c'è stata annunciata la vita. Lì proprio lì l'angelo ci ha indicato la strada per continuare a cercare, a sperare a credere che Gesù Risorto avrebbe fatto brilla re la potenza della sua Risurrezione ......e così è stato.

      

     Ma di più,  fratelli e sorelle, siamone certi il Signore invierà sempre il suo angelo nella morte che abita tante situazioni, sofferenze, difficoltà paure, a rotolare il masso su cui lui siederà per  annunciarci che anche quella morte che viviamo Gesù l’ha già vinta.

     Sempre il Signore manderà, manda, ha mandato il suo angelo a proclamare che Gesù è Risorto, veramente Risorto e che la vita che Lui ha inaugurato non si ferma mai più, che la nostra morte è il primo passo per questa vita, che su ogni situazione di morte già oggi il Padre interverrà così come è intervenuto per strappare  dalla morte il Suo Figlio Gesù.

      Fratelli e sorelle su ogni situazione di morte, così come sulla nostra ultima morte il Signore invierà il suo angelo a dirci: Gesù è risorto e la morte, la tua morte è vinta.

     Credere nella Resurrezione allora è credere che non esiste nessun buco così oscuro o profondo – parole del Papa Francesco – da cui Dio non possa tirarci fuori.

    Forse con più fiducia e rinnovata gioia possiamo accogliere le Parole del Papa nella Veglia Pasquale dello scorso anno che diceva:” Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo:ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole.”

       Fratelli e sorelle davvero anche se tante preoccupazioni ci pesano sul cuore, tante sofferenze paiono schiacciare la nostra vita, la paura della morte ci assilla, tanta disperazione pare avere il sopravvento attorno a noi, stanotte ripartiamo da Lui, ricominciamo con Lui, crediamo a Lui: Gesù è vivo per te, e la sua Resurrezione è profezia, caparra e certezza di ogni altra Resurrezione.

    Ha detto mercoledì scorso il Papa preparando la Chiesa a questo triduo pasquale:

 " La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre là dove si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita. Gesù, che ha scelto di passare per questa via, ci chiama a seguirlo nel suo stesso cammino di umiliazione. Quando in certi momenti della vita non troviamo alcuna via di uscita alle nostre difficoltà, quando sprofondiamo nel buio più fitto, è il momento della nostra umiliazione e spogliazione totale, l’ora in cui sperimentiamo che siamo fragili e peccatori. È proprio allora, in quel momento, che non dobbiamo mascherare il nostro fallimento, ma aprirci fiduciosi alla speranza in Dio, come ha fatto Gesù"

       Carissimi fratelli e sorelle in questa notte chiediamo al Signore Risorto la grazia di un rinnovato incontro con Lui; la pace di una esperienza rinnovata della sua presenza; la gioia di una infinita fiducia nel Padre che, non solo sulla nostra ultima morte, ma su ogni piccola o grande esperienza di morte non ci abbandonerà mai e manderà il suo angelo a sedere su ogni pietra sepolcrale che ci ripeterà: Gesù è risorto! Gesù è vivo....per te! E chiediamo anche la grazia che quando siamo inviati a essere noi questo angelo per i fratelli sappiamo con generosità, disponibilità e gioia proclamare:” Gesù è risorto ha vinto la morte ed è con te per sempre.”

      

venerdì 18 aprile 2014 – Venerdì santo - fr. Giovanni Battista FMJ

 

In questo giorno in cui celebriamo la Passione e la morte del Signore, vogliamo avvicinarci alla Croce con un atteggiamento, potremmo dire, cauto, prudente, lontano dai ragionamenti e da troppe riflessioni. Cioè oggi vogliamo andare incontro alla Croce con una consapevolezza profonda nella quale radicare sia la nostra preghiera, sia il nostro pensare. È una consapevolezza che pervade tutte queste ore così solenni ed importanti del triduo pasquale ma soprattutto l’ora che celebriamo adesso, l’ora del compimento, del tutto è compiuto. Qual è questa consapevolezza? È che la Croce è un mistero! Cosa forse scontata, cosa ovvia, lo sapevamo già che in questo triduo pasquale avremmo celebrato il mistero della nostra salvezza. Ma questa cosa ovvia e scontata oggi per noi dev’essere assolutamente centrale nella nostra preghiera, deve abitare profondamente tutta la nostra interiorità. Ci troviamo davanti ad un mistero! Il mistero della Croce.

 

La liturgia, intesa in senso lato, cioè non solo la liturgia che si celebra ma anche la liturgia che si vive anche fuori dalla celebrazione, ci accompagna e ci introduce quest’oggi in questo mistero con alcuni strumenti che vogliamo ricordare, ma che soprattutto vogliamo vivere, fare nostri, che sono il silenzio, la preghiera nel suo grado sommo che diventa adorazione, e il digiuno. In questo giorno è come se tutta la Chiesa, tutto il popolo di Dio, si fermasse, sospendesse ogni giudizio, ogni valutazione, ogni tentativo anche legittimo di afferrare con mano, di comprendere. Oggi la Chiesa si ferma davanti alla Croce e solo guarda, contempla, adora, implora, accoglie, rimane. È questo l’atteggiamento che il mistero quest’oggi suscita in noi tutti, sono questi gli strumenti che abbiamo fatto nostri per lasciare che questo mistero della Croce di Gesù ci raggiunga, ci tocchi, ci trasformi.

 

Le letture che abbiamo proclamato ci hanno introdotti in questo mistero con un senso di speranza e anche con un profondo senso di pace, sentimenti che si fondano sul fatto che oggi non stiamo celebrando un funerale, non stiamo facendo il lutto di nessuno, ma stiamo celebrando un mistero vittorioso di amore, lo ripeto, un mistero vittorioso di amore. Gesù muore per amore. Tutto quanto abbiamo ascoltato del racconto della passione e anche prima è contrassegnato da questo libero dono di amore che è la consegna che Cristo fa di se stesso al Padre per mezzo della Croce. È importante riconoscere questo carattere essenziale, discriminante della Croce di Gesù. Quando diciamo che il Signore ha preso l’ultimo posto non vogliamo esaltare la mortificazione in sé stessa ma l’amore; quando diciamo che il Signore si è fatto servo non vogliamo considerare anzitutto la sottomissione e la dipendenza, ma l’amore; quando diciamo che il Signore ha dato la vita per noi, non è nostra intenzione esaltare la morte o la sofferenza ma l’amore, che ha reso questa morte un sacrificio. Non possiamo separare l’umiliazione dall’amore, la sofferenza dall’amore, la morte dall’amore. La Croce liberamente accolta è il modo con cui Gesù oggi vuole dire al Padre e a ciascuno di noi il suo “ti amo”. Un ti amo non solo detto a parole ma col sangue, non solo detto a tutti ma detto a ciascuno di noi, come anche san Paolo riconosceva per sé: “mi ha amato e ha dato la sua vita per me”. Nel rito dell’adorazione della Croce noi vorremo proprio appropriarci, fare nostro, sentire ed accogliere nel nostro cuore questo “ti amo” di Gesù che si da a noi.

 

Ma abbiamo detto che quello che stiamo celebrando non si tratta solo di un mistero di amore, ma di un mistero vittorioso di amore. Perché vittorioso? La prima risposta è la più immediata e anche la più vera: perché sappiamo che Cristo vincerà la morte e noi oggi, in questo abbandono di Gesù nella braccia del Padre, nel modo in cui Gesù vive la sua Passione, intravediamo già quella fiducia che presto diventerà realtà, diventerà carne viva ed eterna. È quanto colma il nostro cuore di speranza: nessuno può uccidere veramente l’autore della vita, nessuno potrà mai eliminare davvero ciò che viene da Dio. Nel mondo avrete tribolazione, ci aveva detto Gesù, ma non abbiate timore, io ho vinto il mondo. Ma detto questo potremmo tirarne un’altra conseguenza e spingerci a dire una cosa ancora più estrema: noi ora sappiamo come andrà a finire con Gesù, perché sono eventi già accaduti, fanno parte del passato, della storia, pur essendo sempre presenti nel mistero. Ma quando tocca a noi vivere la nostra Passione, la nostra morte, la nostra sofferenza, non possediamo questo sguardo futuro, non sappiamo subito nella realtà come andrà a finire; rimaniamo ancorati, forse talvolta tragicamente al nostro presente, alla nostra Croce, quasi incatenati a ciò che ci fa soffrire. Ebbene, da questo venerdì santo, guardando a Gesù che muore per noi, e soprattutto guardando a come Gesù muore per noi, noi possiamo affermare una cosa del tutto stupefacente e perfino assurda se non ci fosse stata la Croce di Cristo, è cioè che chi vive e agisce per amore, anche se muore, anche se soffre per questo amore, ha già la propria ricompensa. Quanti santi e quanti martiri, pur non avendo davanti agli occhi il risultato immediato, il successo del loro sacrificio, sono stati abitati da questa pace profonda che li ha accompagnati in ogni tribolazione, in ogni lotta, in ogni angustia, nella certezza che solo rimanendo nell’amore si ha la vera libertà. Guardando a Gesù Crocifisso oggi noi vogliamo imparare anche questo: che vale davvero la pena di fidarsi delle vie di Dio, vale davvero la pena di seguire la via dell’amore perché ormai sappiamo che proprio questo amore, proprio questo dimorare nella volontà del Padre, è già per noi ricompensa superiore ad ogni altra gratificazione terrena. L’amore è più potente della morte, più potente del peccato. La Croce di Gesù interroga, interpella e anche giudica il nostro modo di soffrire, per trasfigurare la nostra sofferenza da sofferenza schiavizzante e deprimente in sofferenza amante e liberante per la forza della Croce di Cristo.

 

Se questo è vero come crediamo che sia vero allora sorge spontaneo dentro di noi un grido quasi folle, un’esclamazione forse troppo esuberante: Gesù, anche noi vogliamo soffrire e morire con te, anche noi vogliamo soffrire e morire come te. Insieme a Maria, la Madre Tua Addolorata, rendici segno per il nostro tempo di un nuovo modo di soffrire, insegnaci a vivere con amore il nostro dolore per rendere tutta la nostra vita un sacrificio gradito al Padre per la salvezza di tutti.

 

martedì 15 aprile 2014 – Martedì santo - fr. Giovanni Battista

 

Siamo entrati nei giorni santi di questa settimana e pian piano la liturgia ci introduce alla celebrazione del triduo. Le letture di oggi ci offrono molti spunti per illuminare le ore che precedono la Pasqua di Gesù. Abbiamo sia la lettura del vangelo di Giovanni che ci presenta una parte del dialogo che Gesù tenne nel cenacolo con i suoi discepoli, ma prima ancora c’è uno dei quattro canti del servo in cui il profeta Isaia ci tratteggia il volto di questo personaggio misterioso, di questa figura singolare in cui la tradizione cristiana non tarderà a riconoscervi Gesù, il servo giusto e sofferente che offre la vita per i peccatori. Ecco che ci vogliamo concentrare un pochino su questo servo obbediente perché in questa descrizione del servo noi scorgiamo, come dire, qualcosa di quanto abita il suo cuore, qualcosa che ci aiuta ad entrare un po’ di più nella Passione del Signore.

Questo servo, dice Isaia, porta avanti tutta la sua missione con una profonda persuasione interiore; egli dice: “il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. Gesù, il servo obbediente, cammina verso il compimento della sua missione con questo sguardo saldo, fiducioso, fisso sul Padre. Gesù non pone la sua fiducia negli uomini, nel gradimento, nel successo che riscuote tra le folle, non è questa la sua forza, ma la sua forza è il dimorare nella volontà nel Padre. Dall’inizio della sua Passione nell’orto degli ulivi fino al suo compimento sulla Croce Gesù non perderà mai la fiducia nel Padre suo. E questa comunione costante con il Padre che ha dovuto attraversare la prova dell’abbandono e della morte, come sappiamo, vincerà, produrrà i suoi frutti anche se dovrà passare per quello che umanamente parlando è un fallimento.

Il vangelo ci lascia intravedere i primi segni, le prime avvisaglie di questo fallimento, dal punto di vista umano, cioè secondo una logica mondana, trionfalistica. Potremmo quasi collocare qui l’inizio della Passione di Gesù perché qui, dice il testo, Gesù nell’annunciare nel rivelare il suo traditore, vive questo profondo turbamento. Ha sicuramente qualcosa di misterioso questo turbamento. Perché Gesù si turba se sa di essere colui che ha il potere di dare la sua vita e il potere di riprenderla? Si tratta credo di un turbamento non egoista, non pauroso non è il turbamento di chi dice: “Oddio, adesso mi fanno fuori”, ma è il turbamento di chi vede un suo amico, un suo intimo, uno dei suoi Dodici, voltargli le spalle, essere consegnato nelle mani di Satana, allontanarsi dalla luce per entrare nella notte.

Questo rifiuto è forse quanto di più doloroso il Signore vive nel suo animo, più doloroso dei flagelli, più doloroso dei chiodi, cose che saranno in fondo il realizzarsi, l’espressione concreta di questo rifiuto. Gesù vede il suo amore non compreso, non accolto, rifiutato. Il Gesù che si turba non è un Gesù risentito, non è un Gesù permaloso che si offende, ma è un Gesù che soffre per noi, è un Gesù che prende su di sé anche quel turbamento che dovrebbe abitare il cuore di chiunque fa il male, di chiunque si allontani dalla via della luce per entrare nelle tenebre. Colui che ci precede sulla via della morte e della risurrezione è anche colui che ci precede in questo turbamento. Gesù pregherà per il perdono dei suoi uccisori appunto, perché non sanno quello che fanno. Non sente solo il suo dolore personale ma soffre anche per quello che avrebbe dovuto essere il loro dolore, la loro tristezza. Anche noi allora quest’oggi vogliamo fare una preghiera particolare, vogliamo chiedere una grazia strana, vogliamo chieder al Signore di renderci partecipi di questo sano e santo suo turbamento: fa’ o Signore che ci turbiamo quando facciamo il male, fa’ che ci turbiamo quando ci allontaniamo da te, facci scoprire o Signore l’inquietudine del nostro cuore quando vaghiamo lontani dalle tue vie; quando ti tradiamo o rinneghiamo, svegliaci dalla nostra superficialità, perché possiamo ritornare a te che sei la nostra vera pace.

 

Domenica 13 aprile 2014 – domenica delle Palme – fr. Giovanni Battista FMJ


 

Con la celebrazione di questa domenica della palme, domenica di passione, stiamo entrando solennemente nella settimana che ci condurrà al cuore dell’anno liturgico quando celebreremo il mistero pasquale del Figlio di Dio. Oggi viviamo questo ingresso. Come attraverso una grande porta della città entriamo anche noi a Gerusalemme e ci disponiamo a vivere questi giorni santi che, per quanto conosciuti o già sperimentati negli anni passati, hanno sempre qualcosa di nuovo, di inedito da dirci e da darci. È un ingresso che abbiamo vissuto anche noi proprio fisicamente nei riti iniziali della Messa: dall’esterno all’interno ripercorrendo così lo stesso movimento, in qualche modo, di Gesù che entra nella città santa acclamato dalla folla. Un movimento che dice il nostro desiderio non solo di assistere a questi eventi, come se fossero uno spettacolo, ma vogliamo soprattutto prenderne parte, entrarci dentro con la nostra vita, dall’esterno delle parole, dei segni, dei gesti liturgici che compiamo, all’interno della sostanza, della realtà che significano e realizzano, e per questo anche noi, con Gesù, ci siamo messi in movimento.

I testi, le letture di oggi così abbondanti, ci consentono di dare un duplice sguardo a questo evento della passione di Gesù, cioè possiamo chiederci come Gesù partecipa alla sua passione e come vi partecipano gli altri, la folla, i discepoli ecc. Per la folla e i discepoli l’inizio è glorioso: sono tutti in festa, si acclama Gesù come il re, il figlio di Davide, sono tutti amici e seguaci di Gesù; il testo parla di una folla numerosissima che riconosce in Gesù l’atteso. Eppure, di lì a poco, questa grande ovazione cesserà, la folla si disperderà, i discepoli stessi fuggiranno quasi subito, o al massimo, come Pietro, spieranno la vicenda da lontano, lontano con il corpo, lontano con il cuore (fa finta di non conoscere Gesù). Ecco che ci colpisce, siamo profondamente interpellati da questa ambiguità contraddittoria dell’atteggiamento della gente nei confronti di Gesù: amato e abbandonato, desiderato e lasciato solo. Si tratta di una contraddizione che forse possiamo ritrovare anche in noi, nel nostro cuore; anche noi forse qualche volta facciamo come questa folla: c’è il momento della festa, quando Gesù ci gratifica, ci appaga, soddisfa in pieno le nostre aspettative, quello che noi ci aspettavamo da lui, e allora Gesù diventa il nostro Re.

E poi c’è il Gesù che ci chiede di seguirlo nel dare la vita insieme a lui, di seguirlo sulla via dell’amore che porta il segno della sofferenza, c’è il Gesù che ci chiede di rinnegare noi stessi, e allora qui cambiamo posizione, fuggiamo via, oppure, come Pietro, lo guardiamo da lontano, dalla nostra neutralità di chi non vuole riconoscersi più come discepolo di Cristo. Talvolta siamo discepoli che scelgono: di Gesù questo sì, il resto no: la festa e le acclamazioni di gruppo sì, il Gesù forte, il Gesù re, il Gesù che fa i miracoli, ma del Crocifisso ci vergogniamo, non ne vogliamo sapere: non lo conosco.

Di per sé, con questo nostro modo contradditorio di pensare, non possiamo seguire fino in fondo il Signore sulla via della Passione, non siamo capaci di fargli compagnia fino all’ultimo come riconosce anche il cantico del servo: ho cercato consolatori, ma non ne ho trovati. Finché rimaniamo saldi in noi stessi, nel nostro modo di pensare e di guardare a Gesù, in quel soggettivismo che sceglie di fronte al piano di Dio questo sì e quello no, saremo sempre un po’ dei lontani, neutrali, ambigui, contraddittori, come diceva Isaia: questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Seguire Gesù sulla via della Passione richiede che si sia disposti a soffrire insieme a lui, non esistono scorciatoie. Il discepolo di Cristo che veramente vuole essere tale è chiamato a questo amore crocifisso, a questa gloria crocifissa, come l’ha definita qualcuno.

E tutti noi forse, prima o poi, ci siamo trovati o ci troveremo di fronte a questa chiamata a seguire Gesù un po’ di più di quanto lo facevamo prima: prospettiva bella, prospettiva appagante, ma prospettiva certo anche svuotante. Paolo VI in una sua splendida meditazione per il venerdì santo, diceva che ci sono tre modi dell’uomo di accostarsi a quello che lui definiva il dovere dell’uomo, come la Croce lo era per Cristo: “tre diversi atteggiamenti ci sono davanti al dovere: l’atteggiamento di colui che l’accoglie imprecando; l’atteggiamento di colui che l’accoglie con un senso di fatalismo e finalmente l’atteggiamento di colui che lo accoglie con amore, come lo accolse Cristo.”

La chiamata che Gesù quest’oggi ci rinnova non è una chiamata alla morte ma all’amore, amore che passa sempre, almeno un pochino, per la strada della morte, delle piccole o grandi morti della nostra vita. Del resto, se ci pensiamo bene, la scelta in fondo non è tra il soffrire e il non soffrire, tra il dolore e la gioia, tra morire e non morire, ma tra il soffrire o il morire con o senza Gesù. Dal mistero di questa vita di Gesù donata sulla Croce si apre per noi la possibilità di fare anche della nostra vita, in tutto ciò che la costituisce, che la riempie o che la svuota, un dono. Padre Rupnik dice che tutti siamo degli stimmatizzati, tutti portiamo le stimmate di Gesù nel nostro corpo: a qualche santo poi queste stimmate sono diventate visibili, ma, secondo lui tutti portiamo in noi le stimmate di Cristo. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che ormai noi tutti siamo dei con-crocifissi con Cristo abilitati, per grazia sua, a seguirlo sulla via dell’amore. Il cristianesimo non è uno sport, un hobby, un passatempo, non è neanche anzitutto un’appartenenza culturale o sociale ma è una vita donata e ricevuta insieme a Cristo che anche oggi, a ciascuno di noi, mentre entriamo con lui nella città santa, alla soglia di questo Triduo di morte e risurrezione, ci rinnova questo invito: vuoi seguirmi?

 

mercoledì 9 aprile 2014 – V settimana di quaresima - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Il Signore continua quest’oggi a dialogare con quel gruppo di Giudei che nella vicenda che abbiamo ascoltato ieri, gli avevano creduto. Ecco che essendosi aperto un piccolo spiraglio, una fessura nel loro cuore, Gesù rimane in dialogo, continua a gettare il seme della sua Parola nella speranza che porti frutto.

Questi giudei pur avendo creduto sono però molto radicati nelle loro convinzioni ed essi leggono dalla loro prospettiva particolare ogni parola che Gesù dice. Il tema della figliolanza, il tema della libertà, il tema dell’essere discepoli è come se debbano essere riaffrontati, riplasmati. E Gesù parte proprio col parlare del discepolato: Se rimanete nella mia parola siete davvero miei discepoli. Ecco qui il primo punto: l’essere non solo discepoli, ma l’esserlo davvero. Una differenza linguistica ma che richiama ad una differenza sostanziale. La domanda che sorge è: cosa marca questa differenza? Gesù stabilisce il criterio di autenticità dell’essere discepoli nel rimanere nella sua parola. È un linguaggio sicuramente nuovo per quelli che lo ascoltavano, ma per noi che siamo cristiani non è nuovo. Siamo un po’ abituati a questa idea del rimanere nella parola. Come si rimane nella parola di Gesù? Potremmo rispondere capovolgendo il discorso senza per questo voler fare un gioco di parole. Potremmo dire che rimaniamo davvero nella parola di Gesù se la parola rimane in noi. Sembra questa poca cosa e invece, se ci pensiamo bene, quanto è difficile! Quanto è difficile essere abitati in profondità dalla parola di Gesù, fare sì che la sua parola sia il criterio delle nostre scelte, la spada che in noi taglia e il fuoco che purifica e cicatrizza. Ma credo che non possiamo rimanere noi nella parola se non consentiamo a lei, alla parola, di rimanere in noi; sarebbe una contraddizione, sarebbe un espellere da noi stessi ciò che vogliamo diventi il nostro habitus, la nostra casa, il nostro rifugio, il nostro credere e pensare. La vicenda del libro di Daniele che abbiamo ascoltato ci mette davanti agli occhi, tra l’altro, un esempio di fedeltà alla Parola, di opposizione a tutti i tentativi e le pressioni che il mondo, la società, di oggi come di allora, esercitano di continuo per strappare da noi questa parola. I tre giovani rispondono con libertà a questa minaccia perché, in qualche modo, già erano stati resi liberi da quella parola che li abitava, una libertà interiore che diventerà poi anche liberazione esteriore, dalla fornace, ad opera del Dio vero.

Ma tornando ai Giudei credenti, Dicevamo all’inizio che è come se Gesù stesse ri-catechizzando e prima che dare loro dei contenuti egli indica loro qual è la relazione autentica con Dio: non basta un’appartenenza formale, giuridica, esteriore (non basta dire: siamo figli di Abramo); non basta la fede di Abramo, il sì di Abramo per essere autentici figli, ma serve il proprio sì, la propria fede. Volete essere figli di Abramo? Ebbene, imitatene la fede, imitatene l’obbedienza, seguite le orme di colui che additate come vostro padre.

Questo richiamo cari fratelli, sorelle e amici, può essere utile anche per noi. Siamo sempre chiamati ad inverare il nostro essere discepoli, il nostro essere figli, e questo non solo per una ragione di coerenza umana o religiosa, ma soprattutto perché questo inverare significa, come dice Gesù, entrare nella verità che ci farà liberi. Attenzione però a non cadere nell’ideologia: Gesù dice: la verità vi farà liberi; non siamo noi da soli a farci liberi perché conosciamo o usiamo una qualche verità, ma è questa verità a rendere noi liberi. Posseduti dalla verità saremo liberati dalla verità. Anche qui non è un giro di parole ma è Gesù stesso che ci ricorda che è lui, e solo lui, il liberatore: “Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.”

 

Domenica 6 aprile 2014 – V domenica quaresima – fr. Giovanni Battista FMJ


 

Nel vangelo di questa quinta domenica di quaresima ci troviamo davanti ad un altro evento miracoloso di Gesù, un grande segno finalizzato alla fede dei suoi discepoli. Non è il primo dei segni che il Signore compie; rileggendo i vangeli questa risurrezione di Lazzaro non è che l’ennesimo prodigio di un uomo speciale, straordinario che guarisce i ciechi, sana i lebbrosi e libera chi è posseduto dal demonio. Però nel miracolo di oggi c’è qualcosa di più. È un segno che non solo vuole provocare la fede dei presenti, non solo vuole convincere che Gesù non è un uomo qualsiasi perché in lui è Dio stesso che opera e agisce. Oggi, in questo segno, ed è per questo che ascoltiamo questo testo proprio alle soglie della settimana santa, Gesù non solo compie un prodigio ma anche, rivela, attraverso questo suo prodigio, qualcosa della sua sorte futura, rivela un aspetto unico e straordinario della sua identità divino-umana: io sono la risurrezione e la vita. È questa la grande scoperta che faremo nel giorno di Pasqua e che oggi è contenuta in questo segno profetico di risurrezione dell’amico Lazzaro e nelle parole di Gesù.

La vicenda si gioca sullo sfondo di una duplicità di sentimenti da cui non possiamo non lasciarci interrogare: abbiamo ascoltato della profonda commozione del Signore Gesù quando partecipa al lutto della famiglia di Lazzaro; addirittura Gesù non solo si commuove profondamente ma perfino scoppia in pianto. Eppure all’inizio Gesù confida ai suoi discepoli una gioia strana: Lazzaro è morto – dice – e io sono contento per voi (XAIRO - mi rallegro) di non essere stato là. Cioè, se abbiamo capito bene, Gesù è contento di non essere intervenuto subito, di non aver risposto subito all’invito delle due sorelle che lo chiamavano al capezzale dell’amico malato, e infatti, volontariamente, Gesù ritarda la sua partenza per Betania.

Abbiamo qui qualcosa che davvero ci colpisce, ci interroga. O Gesù è un masochista che si diverte della sofferenza dell’uomo, cosa che certamente non possiamo ammettere conoscendo il Signore e soprattutto avendo ascoltato che anche lui soffre con i famigliari di Lazzaro; oppure, e qui credo sia la posta in gioco, in questo ritardo, in questa assenza, in questi 4 giorni di Lazzaro nel sepolcro, si racchiude un mistero particolare. Perché il Signore attende prima di intervenire? Perché lascia che la morte emani il suo odore prima di portare la vita? Qual è il significato di questa attesa, di questi quattro giorni? Ci stiamo certamente inoltrando in un argomento molto delicato, ma alla luce della fede e della Parola di Dio possiamo provare a dire qualcosa. Questi 4 giorni di attesa potremmo considerarli come l’emblema delle attese umane frustrate, delle preghiere rimaste inascoltate, dell’incontro mancato. Questi 4 giorni sono il tempo della delusione: possono arrivare anche nella nostra vita tempi in cui davvero tutto sembra perduto, in cui sembra non aver più senso continuare ad attendere, a pregare, a sperare e ad aver fiducia perché le sventure si moltiplicano e sembra che ci sia un destino cieco e indifferente, se non spietato, che vada avanti senza che nulla possa cambiarne la direzione. In questi 4 giorni noi avvertiamo tutta la nostra solitudine umana, avvertiamo tutto il nostro bisogno di salvezza.

Ma già questa possiamo considerarla come una prima grazia di questa attesa: la scoperta consapevole, cioè non solo a livello intellettuale ma proprio nel profondo della nostra coscienza, che siamo incapaci di salvarci da soli e che abbiamo bisogno di un salvatore, abbiamo bisogno di un redentore, abbiamo bisogno di Gesù. Dobbiamo definire questa già una grazia che viene da Dio perché è il momento in cui l’attesa e la delusione possono trasformarsi in speranza, che è una virtù non umana ma teologale. La mentalità del nostro tempo, quella che punta alle felicità facili ed immediate certo non ci aiuta nell’acquisizione di questa speranza. Anzi in genere fa di tutto per non farci percepire il vuoto, per colmare quell’assenza che ci riporta al profondo di noi stessi di tanti rimedi superficiali che ci allontanano dalle domande profonde di fronte alle quali dobbiamo porci se vogliamo capire il senso profondo della nostra vita. Il mondo considererebbe uno scandalo inutile e nocivo questa attesa di quattro giorni. Perché Dio non interviene? Perché Dio non evita il male? Sono queste domande che possono abitare in noi e che, tra le righe, in certo senso ritroviamo in parte anche nella fede in crescita di Marta e di Maria, seppur con un’apertura alla novità della presenza ritrovata di Gesù.

L’attesa frustrata di questi 4 gg sembra superiore alle forze di Gesù: Signore se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto. E anche i Giudei presenti al lutto pensavano ormai che tutto si fosse giocato: Lui che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse? Anche noi qualche volta avremmo voluto dire: Signore se tu fossi stato qui! Perché non sei intervenuto? E qui si gioca l’intervento di Gesù. Per Il Signore non è mai troppo tardi. Il Signore non vince il male evitandolo, ma vince il male attraversandolo e annientandolo e qualche volta fa fare ai suoi amici (Lazzaro era un suo amico) la stessa esperienza. Anche di fronte al fatto compiuto il Signore interviene e ridona la vita. È questo forse il salto di qualità a cui il Signore invita la nostra fede con questo segno della risurrezione di Lazzaro: accogliere nella nostra speranza una certezza: che per il Signore non si può mai dire: tutto è perduto!

Il braccio del Signore non è mai troppo corto da non poter salvare. Se i quattro giorni ci obbligano a riconoscere che da noi stessi non possiamo nulla, d’altro canto ci rendono attenti, aperti e disponibili a quella chiamata di risurrezione e di vita che dilata le aspettative umane ad una speranza impossibile all’uomo ma non a Dio. Lazzaro vieni fuori! È questo un grido rivolto anche a noi, cari fratelli e sorelle, a uscire dalla delusione e dalla morte che può prendere spazio nei nostri pensieri ancor prima che nella nostra carne. Il puzzo della morte può abitare un cuore senza speranza anche se è un cuore che è vivo e batte. Ma se il soffio dello Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in noi, come abbiamo ascoltato da san Paolo, tutto riparte, tutto riprende vita. Da questa specie di anticipazione della Pasqua di Gesù che la liturgia oggi ci offre vogliamo allora attingere quel coraggio e quella speranza che ci consentono di seguire il Signore fin sul monte Calvario. Li vivremo la Sua Pasqua e la nostra Pasqua se siamo disposti con Gesù ad attraversare con Lui il sepolcro per entrare nella vita nuova.

 

mercoledì 2 aprile 2014 – IV settimana quaresima - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Più il nostro cammino quaresimale avanza verso la Pasqua, e più la nostra attenzione è chiamata a staccarsi da noi stessi per volgersi a Gesù. Se ricordiamo bene infatti le letture dei primi giorni della quaresima, erano letture che ci invitavano a rivalutare il nostro modo di vivere la fede, la preghiera, il digiuno, l’elemosina. Da qualche giorno abbiamo iniziato questa lectio continua del vangelo di Gv che racchiude come un implicito invito a non guardare più tanto a noi stessi ma a lui. Lo sguardo della quaresima inizia a spostarsi da quello che noi possiamo fare per la nostra conversione a quello che Gesù ha fatto per la nostra conversione. C’è davvero un cambiamento di prospettiva che culminerà nel mistero pasquale, culmine e nuovo inizio di tutta la storia della salvezza.

Dicevamo guardare a Gesù, c’è un dinamismo nella liturgia quaresimale che ci porta a guardare a Gesù. Il vangelo di oggi si apre proprio con uno sguardo, che è quello dei Giudei, su Gesù. Essi sono perplessi, più che perplessi, ostili a Gesù, per due ragioni: una ragione di osservanza della Legge (Gesù guarisce di sabato, cosa che non si poteva fare secondo la loro interpretazione della Legge) e per una questione di identità (Gesù chiamava Dio suo Padre facendosi uguale a Dio). Più che la prima ragione è probabilmente questa seconda ragione ad infastidire di più i giudei (sembrava quasi una bestemmia per loro). Gesù tratta Dio in un altro modo, si relaziona con lui in un modo del tutto diverso da quello degli altri, famigliare, confidenziale, e soprattutto figliale. Gesù è il Figlio di Dio e persino coloro che gli sono avversi se ne rendono conto, anche se poi non gli credono. Pensiamo se anche di noi si potrebbe dire da parte di chi ci guarda: davvero si vede che tu sei figlio di Dio, davvero si vede, è evidente da come vivi che hai Dio per Padre.

Carissimi questa è la nostra vocazione comune: avere Dio per Padre; la vocazione che ci rende tutti fratelli è proprio questo essere figli. Un essere ontologico perché con il battesimo siamo stati come marchiati, segnati per sempre di questo carattere, ma non basta questo carattere metafisico, ontologico, essenziale della nostra identità. Questo carattere di per sé non si vede se noi non gli diamo visibilità, o piuttosto se non lo lasciamo risplendere. E come dargli visibilità? Non si tratta di fare del teatro, ma credo anzitutto che si tratti di rendercene conto noi per primi, scoprirlo e riscoprirlo ogni giorno.

Scoprire o riscoprire ogni giorno che ho Dio per Padre significa di conseguenza scoprire o riscoprire che io sono figlio. Se il nostro stato di figli non ha in noi stessi il suo fondamento ma trae origine da Dio ecco che nella misura in cui siamo in contatto, in relazione viva con il Padre, in noi e forse anche fuori di noi cambia tutto, cambia il nostro modo di essere e di vivere. È un problema di identità prima che di morale, di essere prima che di fare. È una rinascita: i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. Quei morti, cari fratelli e sorelle, siamo noi, fatti uomini nuovi in Cristo ma ancora, dal punto di vista esistenziale, in fieri, in divenire, verso la pienezza del nostro essere. Disse un giorno Abba Poimen ad Abba Giuseppe: “Dimmi, come potrò diventare monaco?”. Rispose: “Se vuoi trovare pace in questa vita e nell’altra, di’ in ogni cosa: “Io chi sono?”, e non giudicare nessuno”. Anche noi allora chiediamoci ogni giorno, ogni momento, e soprattutto prima prendere una decisione importante o di fare qualcosa: io chi sono? Dalla nostra risposta a questo quesito dipenderà in gran parte il nostro agire. E tale ricerca sarà per noi via quotidiana di ritorno alla nostra profonda ed autentica identità, laddove il nostro io trova pace e pienezza in Dio che è Padre di tutti.

 

venerdì 28 marzo 2014 – III settimana di Quaresima - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Nei primi secoli del cristianesimo, tra i padri della Chiesa ma anche già nel nuovo testamento, per cui già tra gli apostoli, era diffusa una convinzione che poi è penetrata autorevolmente nella Tradizione della Chiesa, e cioè che tutta la Scrittura ebraica, cioè tutto l’antico testamento parla di Cristo. Se l’antico testamento potremmo definirlo a grandi linee come la testimonianza ispirata del dialogo del Dio dei padri con un popolo eletto, il popolo d’Israele, un dialogo che chiamava ad amicizia, a fare alleanza con Dio, in tutte queste parole e in tutte questi eventi già Cristo era nascosto, prefigurato invisibilmente a tal punto che addirittura tutti noi riconosciamo che le Scritture si compiono in Cristo. Questa alleanza, amicizia tra Dio e uomo trova il suo compimento in Cristo perché Cristo è Dio e uomo insieme, cioè nella sua carne racchiude sia la pienezza dell’amore di Dio offerto all’uomo, sia la pienezza della risposta dell’uomo a questo amore. Ed è per questo che, come sappiamo, giunti alla pienezza della rivelazione e dell’alleanza in Cristo, non c’è più nulla da aggiungere: tutto ormai è stato detto, fatto, stabilito per sempre. La storia che segue è un lento e anche libero, perché è proposto agli uomini non imposto, ricapitolare tutto in Cristo come scriveva san Paolo.

Ora, venendo al vangelo di oggi, possiamo provare a tirare le conseguenze di quanto abbiamo detto. Il brano ci racconta una disputa tra uno scriba, cioè un esperto di scrittura, di Bibbia, e Gesù. Nel passo iniziale omesso dal lezionario si dice perché questo scriba si avvicina a Gesù, e ci dice Marco, perché Gesù, nella disputa precedente, aveva risposto bene, e allora questo scriba, affascinato dalla persona di Gesù ma anche più che affascinato in senso emotivo, potremmo dire anche soddisfatto, convinto razionalmente dal suo modo di spiegare la Scrittura, va da Lui e gli pone la domanda su qual è il primo dei comandamenti. La risposta l’abbiamo sentita: il primo comandamento è Dt 6 lo shema Israel, l’amore totale di Dio, e il secondo è l’amore del prossimo come se stessi. Lo scriba è soddisfatto di questa risposta.

Ma noi come cristiani siamo soddisfatti di questa risposta o no? Chiediamocelo. Ci basta per vivere pienamente la nostra vocazione cristiana avere presente questi due comandamenti (ama Dio e ama il prossimo) oppure no? Ciascuno dia la sua risposta. Io risponderei di no. Cioè come cristiano non mi basta sapere che devo amare sommamente Dio e il prossimo come me stesso. Non mi basta perché ho bisogno di qualcuno che non solo mi dica di amare ma che soprattutto mi spieghi come amare Dio e il prossimo e questo qualcuno è Gesù. Io non posso amare totalmente se non ho un Maestro che mi insegni e che soprattutto mi testimoni nel concreto questo duplice comandamento dell’amore. Ecco che ritorniamo al discorso di prima. Gesù che compie la Scrittura, Gesù che incarna nella sua persona il Figlio di Dio stesso e così compie, perfeziona in se stesso, nella sua vita, tutto quanto Dio aveva detto e fatto prima, compresi questi 2 comandamenti di oggi. Gesù mi spiega, mi dimostra, mi testimonia e mi insegna come amare Dio e i suoi fratelli che siamo noi. Da cristiani, discepoli di Gesù, chiamati ad essere altri Gesù nel nostro mondo, come possiamo ormai amare se non guardando a Gesù. L’amore rischierebbe di diventare quello che vogliamo noi, come vogliamo noi, e soprattutto, con chi lo vogliamo noi. Ma l’amore cristiano, possiamo dire, ha una sua oggettività che deve rimanere per sempre un faro per le nostre azioni, e questa oggettività è in Gesù che la troviamo.

A questo punto possiamo fare un’ultima precisazione e con questa concludere: se è da Gesù che impariamo ad amare vuol dire che noi siamo e, aggiungiamo pure, saremo sempre degli alunni, degli scolaretti di Gesù alla scuola dell’amore. In amore non c’è la laurea, il diploma, il baccalaureato o il dottorato, ma siamo sempre sui banchi di scuola, sempre in ricerca, avremo sempre qualcosa da imparare dal Maestro Gesù. E in questa scuola di Gesù c’è un esercizio di base un esercizio costante, poi ce ne saranno altri, per imparare ad amare. Ma questo è il primo esercizio se vogliamo poi riuscire a fare bene quelli che vengono dopo. Il primo esercizio è il lasciarsi amare da Gesù. Questa è la base di tutto: lasciatevi raggiungere, toccare, trasformare dall’amore di Gesù. Come infatti possiamo amare come ama Gesù se non abbiamo fatto esperienza del suo amore? Chiediamocelo: ho fatto esperienza dell’amore di Gesù? Hanno un senso vero e concreto per me le parole “Dio mi ama?”. È questo il senso della quaresima e in particolare di queste “24 ore per il Signore” che si sono aperte adesso: scoprire l’amore che Gesù ha per ciascuno di noi. Amore personale e unico. Lasciatevi riconciliare con Dio dice san Paolo, cioè lasciatevi amare da Dio in Cristo, conoscete, fate esperienza dell’amore di Gesù, fate esperienza che l’amore di Gesù è un amore attivo, efficace, che consuma il peccato che è non-amore, e allora poi sarete diversi, avrete quella marcia in più nell’amore che il cuore umano lasciato ai suoi soli sentimenti umani non conosce, una marcia in più sia con Dio sia con gli altri. Lasciatevi amare da Gesù e allora sia Dio che il fratello avranno per voi un volto diverso.

 

venerdì 28 marzo 2014 – III sett. Quaresima – Commento ora media - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il testo del profeta Osea che abbiamo ascoltato è un insistente invito alla conversione, un cammino di purificazione dal peccato e dall’iniquità per entrare nella novità di Dio. E il profeta presenta questo cammino di conversione non come il prendere una direzione qualsiasi, che potrebbe essere quella di compiere determinati precetti morali, della ricerca di un particolare ideale di perfezione, o di fare qualche opera di pietà, tutte cose senza dubbio assolutamente valevoli e importanti, ma non principali. La direzione proposta dal profeta per questo cammino è un’altra ed è il ritorno al Signore: torna dunque Israele al Signore tuo Dio. Convertirsi significa ritornare al Signore. Il Signore stesso, il ritornare nella sua amicizia, in una relazione profonda e sincera con lui, è questa la direzione da prendere, la meta del cammino di conversione. Il restaurare la relazione con Dio, il rimetterla non solo a nuovo ma soprattutto al suo giusto posto nella nostra vita, e cioè al centro della nostra vita, è quanto, per bocca del profeta, il Signore propone oggi al suo popolo.

Ma c’è di più. Nel testo che abbiamo ascoltato si mette in luce anche un altro aspetto di questo ritorno al Signore, un aspetto speculare, conseguente al primo, un aspetto che qui viene espresso con il richiamo all’Assiria quel paese straniero così potente che rappresentava per Israele il rifugio umano in cui trovare sicurezza mediante le alleanze politiche. È la tentazione di sempre: farci grandi senza Dio ma con i nostri mezzi, cercare sicurezza e fondare la nostra forza non sul Signore ma sul potente di turno, il vittorioso di turno, quello che umanamente sembra sostenere meglio la nostra fragilità e appagare la nostra fame di realizzazione. Potente che potrebbe essere anche dentro di noi, la nostra intelligenza, le nostre capacità, la nostra giustizia. Insomma chiamare ‘dio nostro’ non Dio ma l’opera delle nostre mani. Ebbene qui il testo ci riporta un passaggio straordinario: Assur non ci salverà .. perché presso di te l’orfano trova misericordia. Attraverso questa immagine dell’orfano che presso Dio trova misericordia, viscere di misericordia, potremmo quasi dire l’orfano che presso Dio trova il grembo che lo accoglie, attraverso questa immagine così debole ma anche così materna del ruolo di Dio nei confronti di Israele, ci viene offerto un messaggio splendido che potremmo parafrasare in questi termini: per trovare rifugio presso Dio bisogna forse attraversare, sperimentare una certo stato di orfanità. Forse, qualche volta, il nostro cammino dovrà passare di qui, dovrà passare per quella solitudine, per quell’assenza di quei riferimenti rassicuranti, anche legittimi, che un tempo avevamo o che andavamo a cercarci, per entrare in una relazione nuova con il Signore, sperimentare che Dio è Padre e Madre come non l’avevamo sperimentato prima e che davvero si prende cura di noi. Ecco perché il cammino di conversione non è presentato da Osea come un andare al Signore ma come un tornare al Signore, differenza verbale in cui ritroviamo questa sorta di cammino al rovescio, un tornare indietro, quasi un tornare bambini e orfani, per sperimentare una vita nuova sotto la paternità di Dio. E infatti il testo, da questo punto in poi, proseguirà costellato da espressioni e immagini che indicano questa rinascita: sarò come rugiada per Israele (simbolo di una nuova alba, un nuovo mattino), fiorirà, metterà radici, faranno rivivere il grano.

Tornare al Signore significa allora per noi ripartire dal Signore in novità di vita. È questa la grazia che chiediamo per tutti noi.

 

giovedì 27 marzo 2014 – III settimana quaresima - fr. Giovanni Battista FMJ


 

          Ci potrà forse sembrare straordinario, impossibile, assurda la scena del vangelo di oggi: Gesù compie un esorcismo eppure tra i testimoni oculari c’è qualcuno che non crede. Anche avendo davanti agli occhi Gesù che libera una persona dal Male e la restituisce alla Vita, non è automatico credere, la possibilità di restare nelle tenebre anche avendo di fronte la Luce rimane. Si tratta sicuramente di un mistero, il mistero della libertà dell’uomo, un mistero che Dio custodisce, rispetta, salvaguarda fino in fondo pur sapendo che alle volte, con questa libertà, possiamo farci del male. Il buio può possederci fino a tal punto da impedirci di vedere le opere della luce che il Signore compie. E così noi crediamo di vedere, pensiamo che sia la realtà quella che vediamo con i nostri occhi, ma forse qualche volta stiamo solo guardando attraverso le nostre ombre e così il bene diventa il male o viceversa, e addirittura, nel vangelo di oggi, Gesù da figlio di Dio è etichettato come un adepto di Beelzebul. Se questo accadeva a chi aveva davanti Gesù in persona non è impossibile che anche noi possiamo trovarci nello stesso genere di cecità. Come guarire, come ritornare a vedere bene?

         La prima lettura ci parla con insistenza di uno dei temi tipici del tempo della quaresima che è l’ascolto. L’esortazione del profeta si apre con un imperativo che viene da Dio: Ascoltate la mia voce! E si chiude con lo scopo, il frutto ultimo di questo imperativo: perché siate felici, perché siate felici. È questo il senso profondo e l’orientamento definitivo di questo invito all’ascolto: perché siate felici. Davvero non dovremmo mai dimenticare che tutto quello che Dio ci chiede è per la nostra gioia. Come sarebbero diverse le nostre giornate se sempre, in ogni momento, fossimo profondamente persuasi che tutto quanto viene dal Signore per la nostra salvezza è orientato a questa stabile felicità che non sempre sappiamo scorgere nella nostra vita. Ma questa felicità non è un bene isolato, a se stante, come se fosse un’esperienza staccata da Dio stesso. No, la nostra felicità, in fondo lo possiamo riconoscere, è Dio stesso. È Dio la nostra felicità e noi possiamo essere felici solo all’interno di questa relazione con Dio. Tra l’imperativo dell’ascolto e l’orizzonte della felicità c’è proprio questa relazione con Dio: Ascoltate la mia voce: io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. L’ascolto, anche se poi si deve tradurre in azione se no non è davvero ascolto, è anzitutto ingresso in una relazione di fiducia con il Signore. La fede, dice san Paolo, nasce dall’ascolto. Dicendoci: Ascoltate, è come se il Signore dicesse: apritevi a me! L’ascolto è attività e passività nello stesso tempo, è ricevere e dare, è accoglienza e offerta. Ascoltare significa lasciarsi raggiungere dalla chiamata di Dio che quando chiama rivela se stesso e ci coinvolge in una relazione personale con lui.

          L’attitudine dell’ascolto potremmo anche esprimerla con l’immagine della luce e della tenebra. Ascoltare è aprirsi alla luce, da tenebre che siamo scegliere di non proiettare la nostra oscurità fuori di noi perfino sulle opere che Dio compie, per lasciare che sia la Luce a brillare, che sia la Luce a lasciarsi vedere, e che sia questa stessa Luce a rendere anche noi vedenti. Quelli che credono di vedere in realtà sono ciechi, ci insegna il vangelo.

Ascolto obbediente, felicità, luce, sono questi gli ingredienti del nostro cammino di discepoli dietro a Gesù: è Lui che ci guida, è Lui che ci illumina e ci rende davvero vedenti, noi però dobbiamo fidarci, scegliere la via della fiducia che ci aprirà ad una relazione sempre più profonda con il Signore, ci renderà non solo praticanti e osservanti ma soprattutto capaci di seguirlo con gioia verso Gerusalemme.

 

Domenica 23 marzo 2014 - Domenica III di Quaresima - fr. Massimo-Maria FMJ. 

     Un elemento che senza dubbio oggi è particolarmente presente nella Parola e in tutta la liturgia di questa terza domenica di Quaresima è l'acqua.

     Nell'oriente, in cui la scena evangelica è ambientata, l'acqua del pozzo è quanto l'uomo cerca con ansia in un paesaggio spesso assolato, con la consapevolezza che essa non è solo strumento di purificazione e di refrigerio, ma soprattutto è radice di vita e fecondità.

   L'acqua infatti permea il suolo e feconda la terra facendo sbocciare germogli verdeggianti; l'acqua è capace di combattere la morte nel deserto insediandovi la vita; l'acqua - è soprattutto la nostra esperienza - rinvigorisce l'uomo nel suo cammino quotidiano.

    Ora ascoltando la pagina evangelica siamo in primo luogo spinti a considerare il fatto che Gesù, nonostante sieda al pozzo e chieda da bere alla Samaritana, abbia Lui un' acqua che disseta in modo particolare.

   La Samaritana coglie bene questo e lo prega infatti con queste parole: " Signore dammi di quest'acqua perchè non abbia più sete. " 

   Gesù stesso in realtà lo afferma chiaramente più avanti nel brano evangelico: " Se qualcuno ha sete, venga a me e beva."

    Ma forse in questa domenica ci fa bene nel cammino quaresimale contemplare più da vicino la sete di Gesù. Nel testo infatti è Lui che si pone in situazione di bisogno. Nel brano evangelico è il Signore che chiede mendicante: " Dammi da bere". Una richiesta che senza fatica ci rimanda ad un'altra richiesta del Signore.  A quel grido sulla croce: " Ho sete."

   Il Signore che chiede da bere. Dio che ha sete.

   Che grande mistero!

   Colui che ha creato i mari e che ha fatto scaturire le sorgenti chiede acqua.

   Colui che ha in mano gli abissi e provoca le piogge chiede da bere.

   E' evidente. Lo sappiamo. Il Signore non chiede l'acqua del pozzo. Tutto è suo.

   Non reclama di essere refrigerato dal caldo è il Signore dell'universo.

   Ed è' proprio qui il grande mistero che oggi ci deve interpellare, commuovere ed una volta di più farci fare un passo in avanti nel cammino di conversione.

   Gesù non ha sete di prendere, ma di donare!

   Sì! Il suo desiderio insaziabile non è prendere, ma donare.

   Sedendo  a quel pozzo in Samaria infatti, Gesù siede idealmente al pozzo del cuore di ogni uomo, al pozzo della storia di ognuno di noi, e si fa mendicante rivolgendoci la stessa domanda, confessandoci lo stesso desiderio, esprimendo lo stesso bisogno:

   " Dammi da bere ". " Ho sete! "

    Dammi da bere: dammi cioè il permesso di entrare sul serio nella tua vita; dammi la possibilità di farti dono della mia misericordia; di rafforzare la tua fede se vacilla o di restituirtela se la stessi perdendo. Dammi l'opportunità di farti sperimentare ancora una volta la potenza dell'acqua dello Spirito che crea, ri-crea, infonde forza, dona pace.

   Che grande mistero fratelli e sorelle, Dio si fa mendicante alla porta della nostra vita, alla porta della vita di ogni uomo non per reclamare qualcosa, ma per colmarci del suo dono.

   Oggi la liturgia lo dice splendidamente nel prefazio  con le parole di Sant'Agostino.

   Il sacerdote pregherà infatti, prima della preghiera eucaristica, con queste parole: " Egli - Gesù - chiese alla Samaritana l'acqua da bere, per farle il grande dono della fede e di questa fede ebbe sete così ardente da accendere in lei la fiamma del suo amore."

   In questa domenica allora lasciamo risuonare la parola di Gesù che ci chiede da bere, che ci chiede di lasciarlo fare nella nostra vita. Di lasciare la presa della nostra vita cedendo a Lui il comando. Ci chiede di accogliere la grazia, lo Spirito, la misericordia, la vita!

   Un'ultima considerazione può essere preziosa.

   Se in questo episodio scopriamo lo stile di Dio che per donare si pone in posizione di mendicante, non ci risulta difficile scorgere quale debba essere lo stile di chi voglia vivere evangelicamente; portare il Signore evangelicamente, amare evangelicamente.

    Uno stile di grande umiltà! Uno stile di grande abbassamento! Uno stile che è - viene da dire - davvero anti-mondano: si  domanda per dare, si chiede per offrire, si bussa per donare.

    Tutto ciò ci sorprende, ci disarma, ci sconvolge - diciamolo pure ci scandalizza. Ma Dio ancora una volta si rivela come il totalmente Altro, perché è amore, e l'amore non cessa di sorprendere, di stupire, di scandalizzare. Questo amore però che splende con forza sul volto di Gesù deve brillare potentemente anche nelle nostre vite. In questa quaresima con audacia e insistenza al Signore chiediamogli che ce ne faccia la grazia. Amen

 

Domenica 23 marzo 2014 – III domenica di quaresima  – Messa di S.Procolo - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il tempo quaresimale che stiamo vivendo è uno dei 4 tempi forti dell’anno liturgico: avvento, Natale, Quaresima e Pasqua. Si chiamano tempi forti perché sono tempi che sono portatori di una grazia particolare che è legata al fatto che si celebra o ci si prepara a celebrare un aspetto particolare della vita di Cristo, si vuole entrare un po’ di più nel mistero di Dio. Anche il tempo della quaresima è perciò portatore di una grazia particolare. Qual è questa grazia? È una grazia particolare di conversione. Siccome Pasqua è il cuore dell’anno liturgico ed è anche quell’evento in cui veniamo immersi quando siamo battezzati, così la quaresima che precede la Pasqua, è come se fosse un nuovo cammino di preparazione al battesimo, un nuovo cammino in cui vogliamo tornare all’essenziale della nostra vita di cristiani. La quaresima infatti ci pone questa domanda: cosa è essenziale nella tua vita di uomo e donna, di cristiano e cristiana? Le cosiddette penitenze quaresimali, i fioretti, i buoni propositi che si fanno in questo tempo, i digiuni, le privazioni, sono proprio orientati a far emergere nel nostro cuore questa domanda fondamentale per la nostra vita: cosa è l’essenziale.

 

Nella prima lettura tratta dal libro dell’Esodo Israele cammina nel deserto. Sta facendo un cammino di liberazione. Dio l’ha chiamato dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa, ma questo cammino di liberazione è faticoso, mette alla prova Israele. Israele nel deserto perde tutte quelle sicurezze che aveva prima in Egitto, sicurezze che però erano frammiste alla schiavitù e alla sottomissione al faraone. Nel deserto, sparito il faraone e sparite le sicurezze, il cibo, la stabilità, l’acqua da bere, il popolo inizia ad avere bisogno, il popolo, dice il testo “soffriva la sete”. Nel deserto Israele scopre la sua sete che se certo era bisogno di acqua da bere, possiamo vedere in questa sete anche il simbolo della sete dell’essenziale della nostra vita, di qualcosa che è necessario per vivere come lo è l’acqua. E nel deserto senza l’acqua, lo sappiamo, si muore. La quaresima è anche per noi questo tempo nel deserto dove forse spariscono un po’ le sicurezze ed emerge in noi la sete dell’essenziale, cosa davvero rende piena e bella la nostra vita.

 

Quanto è importante per noi, cari amici, avvertire questa sete interiore di una vita piena, di una vita bella, di una vita felice. Ma quanto è importante anche saper dissetare questa sete alla sorgente giusta, al pozzo giusto. Nel vangelo che abbiamo ascoltato Gesù parla con una donna samaritana che incontra al pozzo e le fa capire che ci sono due categorie di acqua con cui dissetare la nostra sete: un’acqua che disseta per un momentino e poi fa tornare la sete, e un’acqua che chi la beve, dice Gesù, non avrà più sete in eterno. E questa seconda acqua non è un’acqua normale ma è un’acqua soprannaturale, è un dono che viene da Dio, che viene da Gesù. Allora oggi Gesù forse ci rivolge una domanda: a quale pozzo tu vai a dissetare la tua sete? Quale acqua cerchi nella tua vita? Cerchi l’acqua che disseta per 5 minuti e poi ti fa tornare la gola secca o cerchi l’acqua che, come dice Gesù nel vangelo di oggi, diventa in te un sorgente che zampilla per la vita eterna, cioè quell’acqua che ci fa già vivere un po’ della vita beata che avremo in cielo? Questa, cari amici, è forse la domanda che Gesù rivolge a ciascuno di noi quest’oggi e a cui siamo invitati a dare risposta. Il problema non è l’avere sete, il soffrire la sete come Israele nel deserto, anzi è proprio la grazia specifica di questo tempo quaresimale lo stimolarci a prendere coscienza di questa sete, ma il problema è andare a dissetarci al pozzo giusto. Di pozzi che non dissetano davvero, lo sappiamo, ne è pieno il mondo e qualche volta sembra che la nostra società abbia più desiderio di questi pozzi, di questi divertimenti di cui sono disseminate le nostre città, che non dell’acqua che ci da la vera felicità che viene da Dio. Come cristiani abbiamo il dovere di vivere, di testimoniare e di annunciare ai nostri contemporanei, che non si lascino ingannare dai surrogati, da ciò che sembra fare la felicità dell’uomo e invece la deprime, la distrugge, ma questo lo possiamo fare se abbiamo scoperto noi per primi quest’acqua che viene da Dio e che può saziare davvero la nostra sete e darci la felicità piena.

 

giovedì 20 marzo 2014 –  II settimana di Quaresima - fr. Giovanni Battista FMJ


            La parabola del ricco epulone, pur appartenendo al genere letterario delle parabole, per cui ad una letteratura che non dobbiamo prendere alla lettera, ci indirizza tuttavia un messaggio importante, un messaggio forte, che se da un lato forse ci può spaventare, d’altro canto è anche consolante. è un testo di fronte alla cui parola vogliamo lasciarci raggiungere, convertire, forse ferire e giudicare; questa è la disposizione di base di fronte a un messaggio da un lato severo, ma anche, senza dubbio, consolante.

Il problema principale della parabola credo non sia tanto la ricchezza o la povertà, chi ha di più e chi ha di meno, come situazioni considerate in se stesse. Il problema principale è l’indifferenza dell’uomo, in questo caso del ricco nei confronti del mendicante Lazzaro. Un indifferenza che rivela lo stato interiore di quest’uomo, il suo cuore, un cuore che si indurisce, si chiude e non riesce ad andare oltre a se stesso. Il cuore duro scava un abisso tra noi e gli altri di cui la vita esterna, come insegna anche il Concilio, la società , il mondo, non sono altro che il riflesso, il riverbero all’esterno di questa situazione interiore che viene a materializzarsi fuori dell’uomo. Il lavoro di conversione è dunque anzitutto interiore, non solo interiore, ma soprattutto interiore. Come dice il nostro Libro di vita: nel tuo cuore troverai la via più breve per andare verso gli altri.

Anche la prima lettura parla del cuore dell’uomo, un cuore, dice il Signore per la bocca del profeta Geremia, che è difficilmente guaribile e difficilmente conoscibile: Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno, secondo il frutto delle sue azioni. Di fronte alle complicazioni del cuore dell’uomo, ai suoi meandri abissali, ai suoi indurimenti e anche alle sue eventuali perversioni, talvolta siamo impotenti, i nostri mezzi umani non sempre sono efficaci; ma c’è un Dio che scruta la mente e i saggia i cuori. Questa è la nostra speranza di fronte ai molti interrogativi che l’uomo rivolge a se stesso, di fronte a quell’interrogativo che l’uomo è anzitutto per se stesso: l’uomo e quanto lo costituisce come tale, la coscienza, la volontà, gli affetti, l’intelligenza, sono un enigma, sono un abisso, ma un abisso abitato. C’è un Dio che conosce le menti e scruta i cuori. È Cristo, che davvero svela l’uomo all’uomo, ci consegna la piena umanità di noi stessi e la verità di noi stessi! E come dice il vangelo di Giovanni: la verità vi farà liberi.

Ma questa libertà fonda anche un altro aspetto che la parabola ci ricorda e che non possiamo tralasciare: nella misura in cui l’uomo è libero e agisce volontariamente l’uomo è anche responsabile delle sue azioni, delle scelte che fa in vita, e con queste scelte costruisce il suo futuro. Ci sono certamente responsabilità comuni, strutture di peccato che condizionano il nostro agire, condizionamenti che limitano la nostra libertà di scelta e di azione, cose tutte che il Signore conosce e considera meglio di noi, ma accanto, o dentro tutto questo, si pone in grado variabile la nostra responsabilità. E l’opera di ciascuno, dice san Paolo, sarà messa alla prova. Se il cammino di fede non diventasse, tra le altre cose, anche assunzione consapevole e matura di questa responsabilità personale, se come figli di Dio ci rendessimo insensibili e deresponsabilizzati circa il valore del nostro agire e delle sue conseguenze, come se poi tutto fosse lasciato in modo indifferente all’opera riparatoria del Dio “tappa buchi”, come lo definiva Bonoeffer, il nostro cammino di fede rischierebbe di restare un po’ fiabesco, un po’ infantile nelle miglior delle ipotesi, un po’ ideologico nelle peggiori. La quaresima forse ci ricorda anche questo, ci ricorda che c’è un margine variabile di responsabilità che tocca il nostro agire e che siamo invitati, come cristiani innestati in Cristo, ad assumere, e che un giorno saremo giudicati sull’amore.

 

Domenica 16 marzo 2014 – II domenica quaresima – fr. Giovanni Battista FMJ


 

Sembra strano, nel cuore della Quaresima, ascoltare un testo così carico di Pasqua, così denso di luce, così intriso di risurrezione e di vita. Sembra strano perché la quaresima è un tempo che, forse talvolta, lo viviamo con un pizzico di mestizia, un tempo che si apre con il ricordo del nulla che siamo: polvere sei e in polvere ritornerai, un tempo in cui l’urgenza di convertirsi si fa più pressante, più visibile, perché siamo invitati entriamo a contatto con quello sguardo più realista su noi stessi che ci impedisce di nascondere l’immondizia sotto un tappeto e ci sprona invece a tirarla fuori, a presentare al Signore tutto ciò che in noi non va, è lontano da lui, è distante dalla logica del vangelo. Secondo questa prospettiva non c’è tempo, in quaresima, per pensare alle cose belle e dunque il testo di oggi sarebbe un po’ fuori luogo, andrebbe letto in un altro tempo liturgico. Ma se questo testo si legge oggi un motivo ci sarà e anche dalla liturgia e da come la tradizione della Chiesa ha distribuito le letture e scelto i testi da proclamare alla Messa, anche in questo c’è un significato prezioso da scoprire, ed è ciò che vogliamo provare a fare anche oggi in questa domenica della trasfigurazione. Perché dal deserto delle tentazioni, tema più tipico, normale, per la quaresima, si passa oggi al monte della trasfigurazione?

 

Un primo significato importante è legato al legame che c’è tra trasfigurazione e crocifissione; il Cristo trasfigurato non è un Cristo diverso del Gesù della Croce, e questa identità è un identità che la totalità dei discepoli scoprirà dopo la risurrezione; ricordiamo il famoso discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste: “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36). I discepoli, e noi con loro, avevano bisogno di questa anticipazione, di questa illuminazione che, in un certo senso, anticipava la luce dello Spirito che avrebbero ricevuto poi, e questo per rimanere fedeli nel cammino, soprattutto, per resistere allo scandalo della Croce. Gesù non diventa Dio risorgendo, Gesù era Dio anche prima, sia al Tabor quando è trasfigurato, sia al Golgota dove è sfigurato: sia la gloria e il fulgore quanto il disprezzo, la solitudine il buio della morte e della tortura della Croce, sono entrambi gli eventi rivelatori della divinità di Gesù. E questo è davvero straordinario. Dio non lo troviamo solo nel successo, nella gratificazione, nei momenti estatici, sentimenti che umanamente parlando colleghiamo più facilmente con la sfera del divino; Dio rivela se stesso, la sua vera natura (che, non dimentichiamolo, è amore) non solo nella luce ma anche nella tenebra della morte, non solo nello splendore ma anche e, potremmo dire, soprattutto, nel dono di sé fino alla morte e alla morte in Croce. Perché questo? Perché Dio, essendo amore, non può rivelare autenticamente se stesso se con il linguaggio dell’amore. Dunque grazie a questo evento che accade oggi sul monte Tabor Gesù vuole far capire qualcosa ai tre apostoli e anche a noi: rimanete fedeli sempre, sia quando siete nella luce che quando vi trovate immersi nelle tenebre, sia nel trionfo che nelle sconfitte, sapendo che la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini, e che la sapienza degli uomini è stoltezza agli occhi di Dio. Quanto è umano un Dio che si rivela così!

 

Se siamo stati attenti alla proclamazione del vangelo ci saremo accorti sicuramente che, tra i vari elementi dall’alto valore simbolico che descrivono la scena, ce n’è uno molto particolare: la nube luminosa: c’è una nube luminosa che, se così possiamo dire, toglie la parola a Pietro, e copre i tre discepoli con la sua ombra, e in questa nube il Padre parla: Ascoltate il mio Figlio prediletto! Dico che questa nube luminosa è un elemento dall’alto valore simbolico per varie ragioni bibliche, e non solo. Anzitutto la nube che guidava Israele nel deserto, una nube che per gli amici di Dio faceva luce, mentre per il faraone persecutore era buio, tenebra, dispersione. Ma anche nel nuovo testamento si parla di una nube, o meglio di un’ombra: Maria, lo Spirito Santo scenderà su di te e ti coprirà con la sua ombra. Sul monte Tabor non c’è solo luce quest’oggi ma c’è anche una strana oscurità; non c’è solo evidenza della natura divina di Gesù, ma c’è anche ingresso in una sorta di mistico nascondimento che svela e nasconde insieme, c’è visione ma anche cecità e invito all’ascolto da parte di Dio Padre. In altre parole il monte Tabor non è solo anticipazione della gloria futura del Gesù risorto, ma anche ingresso in quella nube luminosa, in quella paradossale “cecità vedente” che caratterizza il nostro tempo attuale, la nostra vita terrena. Chi vuole camminare verso la terra promessa che, in fin dei conti, è il Cristo Risorto, chiunque voglia camminare e vivere la Pasqua di Gesù e, in Lui, la propria Pasqua, deve entrare in questa nube luminosa che è cecità per l’occhio umano, ma che è luce per la fede di chi ascolta la chiamata di Dio e si lascia guidare. Abram vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò; Abram entra nella mia nube luminosa, non seguire ciò che vuoi tu, gli idoli che tuo padre adorava o i tuoi progetti che ti danno sicurezza e stabilità, ma ascolta la mia chiamata e va dove io ti indicherò. E Abram partì senza sapere dove andava e solo così è diventò una benedizione per tutte le famiglie della terra. Elia non cercarmi nel vento impetuoso che spacca le rocce e neanche nel terremoto, e nemmeno nel fuoco: cercami nel sussurro di un vento leggero, ascolta questa flebile voce che ti chiama, che ti guida, che ti conduce all’incontro con me. È questa, cari fratelli e sorelle, l’esperienza che oggi siamo invitati a fare, il cammino che siamo esortati a percorrere: entrare nella nube luminosa. La nostra beatitudine attuale non sta nella visione ma nell’ascolto, non nel decidere dove andare o cosa fare ma nel lasciarsi guidare da questa voce che si ode nella nube, laddove cessa la voce di Pietro, laddove si calmano le nostre voci interiori ed esteriori ed entriamo nell’ascolto. Il nostro cuore non può consegnarsi a Dio se non passando attraverso questa tenue luce dell’ascolto. Chi capisce questo non ha più paura del buio, della prova, della Croce perché sa che anche lì il Signore è presente, il Signore non ci abbandona: la notte è notte per noi ma non per Colui che ci guida. In presenza della luce del Cristo Trasfigurato, diventiamo ciechi per non vedere più con i nostri occhi ma con gli occhi di Gesù.

 

Infine, non possiamo non soffermarci un istante su questa sincera e forse anche un po’ ingenua esclamazione di Pietro: Signore è bello per noi essere qui. La quaresima è tempo di penitenza: digiuno, preghiera,elemosina, tre opere che non sono fini a se stesse e non sono neanche degli atti di eroismo spirituale, ma sono esercizi che la Scrittura ci offre per ammorbidire il nostro cuore, distendere, rilassare, dilatare il nostro cuore che l’egoismo tende a restringere. Ebbene, questo allargamento del cuore non si compie solo nella mortificazione ma ancora di più nell’incontro con la bellezza di Gesù. Gesù, oggi, sul Tabor, ci attira a sé senza parlare, ci seduce, senza dire niente. È la bellezza di questo sguardo che dobbiamo cercare in questa quaresima e in tutta la nostra vita. Come camminare senza contemplare? Come strapparci dall’uomo vecchio che è in noi senza innamorarci di quell’Uomo nuovo che oggi vediamo in tutta la sua bellezza? Come abbandonare ogni cosa o Signore senza intravedere nella tua bellezza il tutto che ritroveremo, la mèta finale che ci attende? Alla tua luce o Signore noi vediamo la luce che è in noi! La luce di Cristo è la sola luce che non rimane esterna all’uomo, ma lo penetra, lo illumina, e prende dimora in lui. Dall’incontro con Gesù, il più bello tra i figli dell’uomo, noi facciamo una scoperta che cambia la nostra vita: che non c’è bellezza o Signore fuori di te e che nulla è davvero bello se non porta a te. Insieme agli apostoli atterriti scopriamo, come diceva sant’Agostino, che “non c’è che un solo Dio che può rendere beata l’anima. Essa diventa beata partecipando alla vita di Dio.” Il nostro cammino di conversione sia allora una cammino di ritorno alla bellezza: quella luce che il Signore ha posto dentro di noi vuole ritornare a Lui. Spinti, sedotti, attratti da questo desiderio soprannaturale si compia il nostro cammino verso la Pasqua.

 

venerdì 14 marzo 2014 – I settimana Quaresima - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Il cammino quaresimale che abbiamo intrapreso è un cammino che si è aperto la settimana scorsa con un invito non solo a fare penitenza, ma soprattutto a convertirci. Convertitevi e credete al vangelo, ci è stato detto durante l’imposizione delle ceneri. Ora, che cosa è la conversione? È importante chiederselo per evitare di andare fuori strada, di vivere qualcosa di diverso da ciò che ci è proposto. Perché se noi non abbiamo chiaro che cosa voglia dire convertirsi, di conseguenza tutto il cammino di conversione, tutte le pratiche di conversione e di mortificazione si espongono all’errore, rischiano di essere fuorvianti, di portarci fuori dalla via, alla deriva. Il vangelo di oggi ci dice infatti che c’è una conversione che non è quella cristiana, c’è, potremmo dire, un itinerario quaresimale che non è davvero un cammino di conversione, non è ricerca della vera giustizia. Dice Gesù: se la vostra giustizia non supererà, non andrà oltre quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Ecco il primo consiglio, la prima dritta che riceviamo dal vangelo di oggi. C’è una forma di giustizia che non è sufficiente per un cristiano, una forma di giustizia di fronte alla quale il discepolo di Gesù non può accontentarsi, non può dire: adesso mi sento a posto, ed è la giustizia farisaica, cioè quella giustizia che si accontenta di fare delle cose, di osservare delle regole, di compiere delle pratiche, ma poi, come diceva il profeta Isaia, il cuore è lontano anche se le labbra cantano le lodi di Dio, la persona, intesa nella sua totalità, rimane distante da Dio, non compie un autentico cammino di conversione che, il profeta Gioele, presentava appunto come un ritornare al Signore: ritornate a me con tutto il cuore, laceratevi il cuore e non le vesti. Questa è la conversione che ci viene proposta, interiore, profonda, che tocca il cuore, che mette davvero in gioco la volontà, l’intelletto e tutte le facoltà della nostra persona per volgerle al Signore, per tornare a Dio.

 

Ritornare a Dio, è semplice a dirsi, ma se prendiamo sul serio il vangelo di stasera vediamo che non è poi così facile ed immediato. O meglio, diventa semplice se facciamo una scelta previa, cioè se accettiamo di non vivere questo itinerario, questo ritorno a Dio, a metà. Per tornare al Signore bisogna volerlo davvero. O questo ritorno lo vogliamo vivere, almeno nelle intenzioni, in tutte le dimensioni e sfaccettature che compongono la nostra esperienza umana, oppure rimarremo sempre un po’ come questi farisei e scribi, osservanti ma con il cuore lontano. La totalità è il contrassegno, la caratteristica di una conversione che veramente vuole essere tale, una totalità che include dunque non solo il nostro rapporto con Dio ma anche con tutto ciò che compone la nostra vita dentro e fuori di noi: il nostro rapporto con gli altri e anche il nostro rapporto con noi stessi. Potremmo dire che la via per ritornare a Dio, non è una via diretta, privata, che posso vivere solo in una dimensione intimistica, a tu per tu con il Signore, o formale, cioè con l’apparenza, come se fosse un galateo di buone maniere, ma è un cammino che attraversa due tappe importanti che sono il fratello e la propria coscienza. Andare a Dio scavalcando queste due relazioni, questi due interlocutori, significa, come abbiamo detto, convertirsi a metà.

 

Venendo al primo di questi due interlocutori, ossia il fratello, vediamo che Gesù assegna addirittura un posto di precedenza, di priorità a questa relazione piuttosto che al culto divino. Il culto divino, il sacrificio a Dio, può aspettare, anzi dice Gesù, addirittura deve rimanere incompiuto (lascia lì il tuo dono) se non si va all’altare con il cuore riconciliato con gli altri, con il cuore pacificato. Prima fai la pace con il tuo fratello, lascia lì la tua offerta, dimenticatela, non pensarci più per ora, e vai dal tuo fratello che ha qualcosa contro di te, e poi torna. E quella la prima offerta che attendo da te: quella della pace ricevuta e donata. Il primo dono che il Signore vuole non è tanto a Lui ma al tuo fratello, quello con cui sei in discordia, quello che non puoi vedere: fai la pace con lui (e delle volte, lo sappiamo, bastano piccoli gesti) e poi torna. Ritorna a Dio, ma prima ritorna anche al tuo fratello. Questo è il primo passo della conversione.


        Leggendo ancora un po’ il testo vediamo che il fratello non è l’unico con cui c’era bisogno di riconciliazione, ma si menziona anche un altro nemico con cui riconciliarsi, un altro avversario con cui mettersi in regola. Chi è questo avversario che cammina con noi e che può gettarsi in mano al giudice e il giudice in prigione? Sono state date varie interpretazioni: ne raccogliamo una, tra le possibili, da un antico monaco vissuto nella prima metà del V secolo e che si chiama Isaia Anacoreta. Lui fa un lettura interessante di questo versetto, dice: “il nemico è la coscienza che si oppone all’uomo che vuole fare la volontà della carne. Se l’uomo non lo ascolta viene consegnato ai suoi nemici.” In quest’ottica allora la coscienza può diventare nemica dell’uomo, quando l’uomo non la ascolta o non la sa ascoltare, e vive alla periferia di se stesso, non raggiunge il cuore profondo di sé in cui parla quella voce santa che è la voce di Dio. Così l’uomo si frantuma, si separa, non solo dal fratello ma anche in sé stesso. L’uomo può rendersi addirittura nemico di se stesso. Il ritorno a Dio, la conversione, ci porta allora anche questo ritorno a se stessi che implica il mettersi in ascolto, ascoltare cosa c’è davvero dentro di noi, nel nostro cuore, saper porgere l’orecchio a quella Verità che ci abita e che può guidarci per la strada giusta se sappiamo darle retta e anche se sappiamo distinguerla dalle false voci (talvolta falsamente amiche) che si levano in noi.

 

Ritornare a Dio con tutto il cuore, con tutto se stessi, è una strada che passa allora anche per il fratello e per la nostra coscienza. Tutto ciò che è in noi e che orbita fuori di noi e tocca la nostra esperienza, rientra in questo entusiasmante itinerario che ci porta al Signore. E da lì poi, ripartirà un nuovo cammino, una nuova vita non come prima ma come nuove creature, ma a condizione che la nostra vita l’abbiamo giocata sul serio e non solo a metà o in una percentuale ancora inferiore.

 

Sia questa allora l’offerta che vogliamo presentare al Signore, per celebrare la Sua Pasqua con azzimi di sincerità e verità.

 

Domenica 2 marzo 2014 - VIII Domenica del T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ

 

     Una parola che ritorna spesso oggi in svariati ambiti, da quello sociale a quello familiare, amicale e persino politico è la parola: fiducia. Nel nostro mondo che sempre più appare spaventato, disorientato e persino angosciato tanti parlano di fiducia, molti la invocano e tutti però con tanta fatica la accordiamo.

     Nella Parola del Signore di questa domenica la fiducia è il tema di fondo.

     In essa  ci è rivelato  dove, piuttosto in chi  occorre riporre davvero ed interamente la propria fiducia.

     Evidentemente è in Dio, nel Padre Potente, Fedele e Misericordioso la Parola ci invita con chiarezza a riporre la nostra fiducia.

     Due domande possono guidarci nella riflessione e aiutarci ad approfondire il senso della Parola ascoltata: Perché e Come!

     Perché avere fiducia in Dio? E Come occorre fidarsi di Lui?

     Perché quindi avere fiducia in Dio?

     Il profeta Isaia ci dona la prima risposta: " ....io no ti dimenticherò mai!"

    Dio non si dimentica di noi. Mai! Mai! Mai! Facciamo fatica è vero a crederlo. Quello che Isaia pone come una cosa irreale oggi è spesso triste ed inquietante realtà. Nel nostro mondo capita di tutto: persino appunto che una madre si dimentichi del suo bambino;  che lo sopprima quando la sua vita è appena germogliata nel suo grembo.

     Isaia a nome di Dio assicura ad Israele, ed oggi a noi: a differenza di ciò che anche una madre può fare, non avverrà mai che Dio dimentichi chi si è affidato a Lui.

        Quando nella vita a causa di contrasti, incomprensioni, disavventure o agitazioni spirituali, fallimenti o cose non riuscite, sofferenze morali o fisiche si insinua la convinzione - come era capitato ad Israele - che non siamo più nella memoria di Dio occorre ritrovare la fiducia in questa parola degna di fede, in questa Parola che è di Colui che è fedele: " ...Io non ti dimenticherò mai!"

       Di Dio occorre fidarsi ciecamente perché mai si dimentica di noi. La nostra vita, il nostro respiro ne sono la più convincente prova. Se Dio per un solo istante dimenticasse non solo noi, ma l'universo intero, ogni cosa svanirebbe nel nulla.

         Fidarsi di Dio perché non ci dimentica. Ma ancora: perché si prende cura di noi, perché è Padre Provvidente.

   Fratelli e sorelle il mondo non è in balia della capricciosità, nulla in esso, proprio nulla è trascurato: neppure gli uccelli e nemmeno i fiori, pur dalla stagione così effimera e dalla consistenza così fragile.

  A giudizio di Gesù anch'essi portano l'indice dell'attenzione del Padre, il quale a maggior ragione non può trascurare chi conta più di loro: " Non valete forse più di loro?"

    Fratelli e sorelle poichè noi valiamo più dei gigli e degli uccelli, e perché noi siamo preziosi per il Padre più dei campi con mille fiori e dei monti così pieni di fascino per il nostro cuore così imponenti e maestosi, bisogna aver fiducia in Dio non premettendo che il nostro domani sia fonte di ansietà e definito angosciante come se manchi un Padre che conosce, si ricorda e si prende cura di tutti i suoi figli. Ogni volta che perdiamo di vista questo - pensiamoci e rispondiamo nel nostro cuore se non è così - ragioniamo da pagani, ci preoccupiamo come i pagani e viviamo da pagani.

      In Dio solo riposa la mia anima ci ha fatto cantare il salmista, Lui solo è mia rupe e mia salvezza, in Lui la mia speranza non potrò vacillare.

        In Dio occorre riporre la propria fiducia perché non dimentica, perché si prende cura meglio, perché ci prende a cuore.

       Ma c'è ancora l'altra domanda: Come avere fiducia?

       Una parola del Vangelo è per questo capitale: " Nessuno può servire due padroni.....non potete servire Dio e la ricchezza....."

     Di Dio non ci si può fidare con riserva, la fiducia o è totale o non è fiducia, non esiste la fiducia a metà: il Padre non ammette rivali. In questo siamo molto in pericolo.

Gesù denuncia spesso la poca fede. Si crede sino ad un certo punto. Ci si fida sino ad un termine. Ma la fiducia deve essere totale perché sia fiducia, e perché possiamo ammirare i suoi frutti nella nostra vita.

         Fratelli e sorelle Gesù oggi nella sua Parola  ci pone davanti al problema più importante della nostra vita: aver fiducia di Lui:  sceglierlo cioè senza dubitare e senza tergiversare, amarlo, servirlo e seguirlo senza alteranti ed ambigue frammistioni, prendendo decisamente la distanza dalla più frequente tentazione quella cioè di porre accanto a Lui ulteriori appoggi che lo affianchino e ci tutelino dalle sue eventuali dimenticanze o ritardi.

       Gesù oggi ci mostra il Padre, meglio ci indica il Padre e ci dice: " Cercate Lui e non preoccupatevi del domani" Non ci sta certo invitando alla faciloneria e alla superficialità, ma alla fede, ad una fede solida, rocciosa, a tutta prova.

         Ci aiuta certo guardare a Gesù, al suo rapporto speciale con il Padre, per noi esempio da imitare.

     Due episodi della vita di Gesù, tra altri possono essere preziosi.

Nel racconto della moltiplicazione dei pani Gesù si dice rende grazie prima di compiere il segno. Ora questo rendimento di grazie non è proprio la preghiera prima dei pasti, piuttosto un atto di fiducia nel Padre, che già qualcosa ha dato - cinque pani e due pesci - e che non dimenticherà lui e tutto quel popolo.

       In effetti la situazione non è semplice. La situazione è di grave carestia con cinquemila uomini da sfamare in un luogo deserto. Altri sarebbero stati presi da affanno, ansia ed angoscia - è il caso dei discepoli che propongono una soluzione tutta umana: Mandiamo ciascuno a casa.

      Gesù invece rendendo grazie dice la sua fiducia nel Padre e questo contatto fiducioso con il Padre sblocca la situazione incresciosa. Con la sua fiducia Gesù ha aperto la strada alla bontà divina e il Padre ancora commosso apre la mano e sazia la fame di ogni vivente. 

     Quante volte anche noi se anziché lamentarci ci fidassimo di più di Dio vedremo tante situazioni trasformate e noi stessi faremmo con la sua grazia cose meravigliose: le anime che si fidano del Padre fanno sempre cose stupende.

    C'è poi un altro episodio più sorprendente: Gesù davanti alla tomba di Lazzaro.

     Se nella moltiplicazione dei pani si trattava di evitare un pericolo ora il pericolo non è più inevitabile, l'irreparabile è già avvenuto: Lazzaro è morto.

      In questa situazione la fiducia è ancora più evidente. Gesù prega: "     Padre ti rendo grazie perché mi hai ascoltato, perchè sempre  mi ascolti...."

  

    Lazzaro è morto, ma Gesù non ha dubbi sull'intervento del Padre e con una straordinaria pienezza di fiducia filiale rende grazie prima di vedere il segno della vittoria.

      Questo episodio costituisce una straordinaria testimonianza della vita interiore del Signore, della sua unione filiale con il Padre, della sua fiducia di superare anche gli ostacoli più terribili.

 

     Fratelli e sorelle,

    quanta luce in questi testi della Parola, quanta forza per la nostra vita.

    Davvero occorre ri-programmare la nostra vita, ri-ordinarla, ri-orientarla sulla fiducia.

    Il tempo della Quaresima che arriva sia occasione propizia per convertirci alla fiducia nel Padre che non ci dimentica mai, mai mai  e che sempre sempre sempre si prende cura di noi. Amen.

 

venerdì 21 febbraio 2014 – Venerdì VI settimana T.O. – Commento Ora media - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il brano che abbiamo ascoltato si conclude con un’immagine tanto eloquente quanto, forse, diversa, da quello che abitualmente saremmo istintivamente portati a pensare. Giacomo dice che come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta. Perciò qui il corpo è immagine della fede e lo spirito, cioè la parte immateriale dell’uomo, è immagine delle opere. Questa allegoria, dicevamo, è diversa da quanto penserebbe la logica comune dove la fede essendo qualcosa di invisibile e di immateriale sarebbe forse più sensato connetterla con lo spirito dell’uomo che, appunto, non si vede; e invece no, le fede è il corpo, le opere sono lo spirito che tengono in vita il corpo, sono quella fonte di vita che anima la fede.

Questa allegoria è interessante per comprendere il resto del brano dove Giacomo ci mette in guardia da un pericolo per tutti, e questo pericolo è la morte della fede, la fede può morire: la fede, ci dice il testo, se non è seguita dalle opere è morta in se stessa. E si riprende l’esempio di Abramo, un esempio o meglio una testimonianza di questa consequenzialità del rapporto fede-opere perché Abramo prima credette (capitolo 15 della Genesi) e poi agì obbedendo alla voce del Signore che gli chiedeva di offrire Isacco (capitolo 22 della Genesi): un’offerta che come sappiamo si conclude con l’esclamazione dell’angelo: “ora Abramo so che temi Dio”. In altre parole: ora Abramo conosco, so, vedo che tu hai fede. Potremmo chiederci, che cosa sarebbe delle fede di Abramo, il nostro grande padre nella fede, se quel suo atto di fede che gli fu accreditato come giustizia, esempio tanto elogiato e richiamato sia da Paolo che da Giacomo, non si fosse davvero concretizzato in un gesto di consegna di tutto se stesso alla chiamata di Dio? Potremmo cioè ancora definire Abramo “nostro padre nella fede” senza considerarlo anche “padre nell’obbedienza di fede”?

Ebbene, questi interrogativi valgono anche per noi. La fede cristiana è una fede che per sua natura deve incidere sulla nostra vita. Potremmo usare un linguaggio simile a quello che usava Gesù nel discorso della montagna: se il sale perde il sapore con che cosa lo si renderà salato? Potremmo ancora chiamarlo sale? Parimenti se la fede perde la sua efficacia nell’intervenire sulla nostra vita per plasmarla, orientarla, muoverla in un cammino di sequela di Gesù, potremo ancora chiamarla fede? Una fede che non diviene obbedienza, come in Abramo, che valore ha? Le cose virtuali, a cui siamo ormai abituati dal nostro tempo, in ambito di fede non esistono o se esistono, non funzionano. E del resto è sempre più forte la spinta che ci viene dal mondo a chiudere la nostra fede in una stanza senza porte e senza finestre, a rendere la nostra fede sterile e reclusa, incapace di comunicare con il resto delle realtà che compongono lo spazio vitale, e anche urbano, in cui viviamo. Una fede, in fin dei conti, incapace di generare, di venire allo scoperto, di abitare tra gli uomini: le si consente vita solo nel giardino chiuso del foro privato delle persone. Potremmo persino arrivare a pensare che ormai molti hanno paura della fede e dunque preferiscono che i cristiani non la testimonino con scelte concrete e audaci, così non spaventa più. Ma San Giacomo quest’oggi ci esorta richiamandoci a un dato essenziale e basilare della nostra vita cristiana: la fede che non diventa vita nella nostra vita è destinata a morire. La fede rimane per noi una chiamata quotidiana e una sfida irriducibili alla sola sfera dell’interiorità e dell’opzione fondamentale. Separare la fede dalla sua espressione visibile e operosa significa condannarla a morte e separare l’uomo in se stesso, tagliarlo in due, relegarlo in una cronica ambiguità che impedisce l’unificazione dell’essere in Cristo.

Nulla vi è di nascosto – dice Gesù – che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce.” (Mt 10, 26) Sia così la nostra fede, una fede che rivela, che contagia, che si consegna nell’amore vissuto.

 

mercoledì 19 febbraio 2014 – VI settimana T.O. – fr. Giovanni Battista FMJ

 

Questo racconto che abbiamo a ascoltato ci fa tornare in mente un’altra situazione di cecità che Gesù si trova ad affrontare nel suo ministero pubblico, quella del cieco della Piscina di Siloe, storia che ci viene raccontata nel vangelo di Giovanni. Questo brano, in Giovanni, si era aperto con una domanda dei discepoli che chiedono a Gesù: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco? Domanda che permetterà a Gesù di chiarire il significato positivo e non negativo di questa cecità : né lui ha peccato – dice Gesù – né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. In altri termini, grazie a questa cecità, Dio può rendersi manifesto a lui e non solo a lui, ma attraverso di lui anche ad altri. Lo stesso brano del vangelo di Giovanni si conclude con un’affermazione forte e anche paradossale che spiazza i farisei: Se foste ciechi – dice Gesù – non avreste alcun peccato; ma siccome dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane. Per cui di fatto le prospettive, in questo brano di Giovanni, sono ribaltate: nel cieco si manifesta la gloria di Dio, coloro che credono di vedere invece rimangono nel peccato, nelle tenebre, cioè si trovano in una situazione contraria, sono loro che hanno bisogno di guarigione e che non lo sanno.

 

Questo brano del vangelo di Giovanni ci aiuta a capire un po’ di più il racconto di oggi per poter scorgere anche qui le potenzialità di questa cecità, non in se stessa, chiaramente, ma inserita nella relazione con Gesù. Se ci pensiamo bene infatti questo cieco ha una forza che non tutti hanno, ed è una forza che gli viene proprio dalla sua cecità: egli sa di non vedere, fa l’esperienza quotidiana della sua infermità, della sua incapacità ad orientarsi con sicurezza dove vuole. Qual è la sua forza? La forza del cieco è questa: egli sa bene che ha bisogno degli altri e non ha vergogna di riconoscerlo e di lasciarsi aiutare, e il brano si apre proprio con questo lasciarsi condurre a Gesù. Non solo si lascia condurre a Gesù, ma addirittura, dice il testo, Gesù stesso lo prende per mano. In poche parole, il cieco si lascia guidare. Sapendo di non vedere si fida dello sguardo degli altri, di quello che gli dicono gli altri e soprattutto si lascia prendere per mano da Gesù. Forse proprio perché abituato a fidarsi di quelli della sua casa, della loro guida, non teme di andare da solo con Gesù perfino fuori del villaggio: ha imparato, per forza, grazie alla sua malattia, a fidarsi. In questo senso possiamo dire che la sua cecità diventa per lui una vera benedizione. Nel buio questo cieco sa accogliere la luce più di quanto talvolta sia capace chi vede e che dunque, siccome vede, fa da sé, dice di non aver bisogno di nessuno, e forse non vorrebbe nemmeno aver bisogno di qualcuno così non avrebbe nemmeno da dire grazie. Chi crede di vedere, spesso cammina nel buio perché si fida solo del proprio sguardo sulla realtà: vede da sé, non ha bisogno di altre prospettive. In quest’uomo che vede, o meglio, che crede di vedere, c’è forse l’uomo di oggi, l’uomo che sta diventando capace di calcolare, prevedere, gestire tutto, studia e analizza dal DNA dell’uomo fino a spingersi nell’immenso universo eppure talvolta brancola nel buio, non sa dove va, non conosce il vero senso, la vera direzione della sua vita e non sa rispondere ai perché fondamentali dell’esistenza. Il cieco diventa simbolo invece della vita dell’uomo che sa di non vedere, che riconosce che c’è un mistero e sa di non poter andare oltre a questo mistero, e non negando questo mistero semplicemente perché non lo vede, lo accoglie, accoglie la luce della fede; sapendo che non può fidarsi di se stesso perché non ci vede, si fida di Gesù che lo prende per mano.

 

E inoltre aggrappandosi a Gesù, facendo esperienza, sentendo su di sé questa presa sicura del Signore, ha poi anche il coraggio di staccarsi da tutto quello a cui prima si aggrappava per restare in piedi, ha il coraggio di camminare senza troppi sostegni e stampelle, e di avanzare per sentieri nuovi, inesplorati; non gli importa il fatto che non li conosca perché ciò che è importante è che li conosca il Signore.

 

Se il Signore guida i ciechi e offre loro la sua mano per guidarli sulle sue vie, allora anche noi non vogliamo né odiare, né negare o nascondere le nostre piccoli o grandi cecità, ma vogliamo riconoscerle, metterle davanti al Signore e chiedergli che, proprio perché siamo ciechi, sia lui a prenderci per mano e a guidarci per la via giusta. Se grazie alla nostra cecità possiamo incontrare il Signore, davvero si potrà dire anche di noi quello che Gesù disse del cieco della piscina di Siloe: è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.

 

venerdì 14 febbraio 2014 - Festa Santi Cirillo e Metodio - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Il vangelo che la Chiesa ha scelto per la festività di oggi è quello dell’invio in missione dei settantadue discepoli per cui non sono solo i Dodici, gli apostoli ad essere inviati da Gesù, ma qui abbiamo un numero più ampio, i settantadue. E già solo da questo particolare potremmo ricavare un primo significato: la missione riguarda tutti, non solo i vescovi, che sono i successori dei dodici, ma tutti, secondo il loro stato, sono chiamati ad andare, ad uscire, a preoccuparsi dell’altro. È una cosa che tra l’altro il nostro Papa Francesco non si stanca di ripetere: “Oggi – dice il Papa – in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo.” (EG 20). Da queste parole del papa capiamo allora quanto l’imperativo Andate! del vangelo di oggi sia un imperativo che il Cristo, rivolge ancora a tutti noi anche oggi: nessuno deve sentirsi escluso dal prendere parte alla missione della Chiesa, che in fin dei conti, anche se questa missione si esprime in forme e modi diversi, è mossa da uno stesso comune anelito: la preoccupazione per la gioia, la felicità, la salvezza dell’altro, tutte cose che, almeno noi credenti pensiamo, crediamo così, possono trovare la loro pienezza, solo nell’incontro con Gesù Cristo. L’evangelizzazione non ha altro fine che il bene del fratello, un fratello a cui l’inviato vuole condividere, offrire, trasmettere, certo nel rispetto della sua coscienza, il Bene più grande della propria vita che è Gesù. Perché la missione, in fin dei conti, l’apostolato mira a questo: fare sì che Cristo sia conosciuto, sia annunziato, ma soprattutto che sia accolto, che Gesù sia una persona vivente da incontrare.
 

Come lo si incontra Gesù? Il vangelo di oggi dice che Gesù doveva recarsi in alcune città, ma prima manda davanti a sé nei luoghi dove doveva andare, questi settantadue discepoli. Questo ci viene detto all’inizio del vangelo di oggi e non è un dettaglio di poco conto. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la gente non vedeva subito Gesù ma prima la gente incontrava questi discepoli e poi vedeva Gesù. Il primo incontro, quello semplicemente umano, con dei fratelli come loro, preparava, anticipava qualcosa dell’incontro successivo e decisivo: quello con il Signore. Forse, e qui capiamo un’altra cosa, è proprio per questo che Gesù, nel preparare i suoi messaggeri, non si sofferma tanto a dar loro dei contenuti teorici o dottrinali da trasmettere; Gesù non fa ai settantadue un corso di teologia prima di mandarli in missione, non parla tanto della missione in sé o del suo contenuto dottrinale. Gesù si sofferma piuttosto a parlare dell’apostolo stesso, dell’inviato, e soprattutto del come l’apostolo deve andare in missione. Più che il ‘che cosa’ dire o annunziare per portare le genti alla fede, Gesù insegna loro ‘come’ i settantadue devono vivere questo incarico che ricevono: anzitutto andando in coppia non da soli: è una missione comunitaria, i discepoli sono inviati come Chiesa, come comunità che prepara e prolunga l’azione di Cristo, e non come liberi gestori, prima cosa; secondo: dice Gesù come agnelli e non come lupi perché Gesù sarebbe venuto poi come l’Agnello che toglie il peccato del mondo, l’Agnello che salva e non come lupo che uccide; terzo: senza portare borsa né sacca, ne sandali ecc.; e infine portando la pace come primo dono del Signore che sta per venire, l’offerta di pace come una sorta di grazia preparatoria all’incontro con Colui che è la nostra pace, come dice san Paolo. Dunque in questa fase dell’annunzio, che era quella della prima generazione di credenti, in questa fase il modo, senza voler togliere importanza al che cosa, al contenuto dell’annuncio, il modo di essere apostolo assume un’importanza particolare.

 

Ed è proprio questo ‘come’, questo modo particolare di essere apostolo che contrassegna di un carattere indelebilmente evangelico anche la testimonianza e l’opera apostolica dei Santi Cirillo e Metodio. Sentite cosa scrisse di loro il Beato Giovanni Paolo II nell’85 in una sua enciclica: “Accanto ad un grande rispetto per le persone e alla sollecitudine disinteressata per il loro vero bene, i due santi Fratelli ebbero adeguate risorse di energia, di prudenza, di zelo e di carità, indispensabili per portare ai futuri credenti la luce, e per indicare loro, al tempo stesso, il bene, offrendo un concreto aiuto per raggiungerlo. A tale scopo desiderarono diventare simili sotto ogni aspetto a coloro ai quali recavano il Vangelo; vollero diventare parte di quei popoli e condividerne in tutto la sorte. (AS 9) Per tradurre le verità evangeliche in una lingua nuova, i santi Cirillo e Metodio dovettero preoccuparsi di conoscere bene il mondo interiore di coloro, ai quali avevano intenzione di annunciare la Parola di Dio con immagini e concetti che suonassero loro familiari. (…) Si trattava di un nuovo metodo di catechesi.” In altre parole potremmo dire che Cirillo e Metodio prima di arrivare al contenuto della fede, al che cosa annunciare, si sono preoccupati di vincere, di superare quelle distanze umane, culturali e sociali che rendevano questo contenuto non ben comunicabile, potenzialmente fraintendibile, non aderente alla vita delle persone a cui si rivolgevano. Per usare un linguaggio più famigliare potremmo dire che prima di farsi apostoli Cirillo e Metodio si sono fatti fratelli dei popoli che incontravano, fratelli nel modo di vivere, nella cultura, prima che nella fede, e da qui è iniziata appunto l’autentica inculturazione del vangelo nelle terre della Russia meridionale e della Moravia. E davvero si tratta di inculturazione autentica, cioè quella che non solo fa penetrare il vangelo nelle culture rinnovandole e purificandole, ma che anche fa del vangelo la forza motrice da cui si irradia un nuovo sviluppo culturale. Pensiamo per esempio all’alfabeto cirillico, inventato appunto da loro per tradurre in lingua slava la Bibbia e i libri liturgici, che rimarrà in uso anche dopo fino ai nostri giorni.

 

Quanto è attuale anche per noi una testimonianza di evangelizzazione così! Se il mondo non ha cessato di avere bisogno di apostoli del vangelo, e per questo dobbiamo pregare, come ci invita a fare il brano di oggi, perché il signore della messe mandi nuovi operai, l’esempio di questi santi ci esorta e ci ricorda che non basta essere operai nel senso di andare, fare, proclamare senza vergogna la propria fede, ma serve anche uno stile in quest’opera di annuncio che rimane, oggi come ieri, stile umano e fraterno. Se no saremo solo dei mestieranti, gente che fa pubblicità, propaganda, che guarda all’efficienza e al risultato più che alle relazioni che si costruiscono e attraverso le quali passa davvero (o non passa) il vangelo.

 

mercoledì 12 febbraio 2014 – V settimana T.O. – fr. Giovanni Battista FMJ


Il vangelo di oggi di pone ci fronte a classificazioni che un po’ ci sfuggono, che non riusciamo a capire bene. Infatti che senso ha per noi oggi parlare di alimenti puri e impuri? Al massimo potremmo fare una distinzione tra i cibi che ci fanno bene e quelli che ci fanno male, oppure intendere l’impurità come intossicazione, un alimento velenoso che ci fa stare male. Abbiamo questa prima difficoltà nell’avvicinarci al vangelo di oggi. Più in profondità ne troviamo un’altra: che cosa vuol dire essere puri, che cos’è la purezza? Domanda grossa che tocca più ambiti, fisico, morale, spirituale, domanda forse oggi poco di moda perché di purezza, anche tra i cristiani, se ne parla poco, non è più tanto una cosa ambita l’avere un cuore puro. Preferiamo utilizzare altre categorie, quella di santità, quella di umiltà, di amore, carità, ma la purezza è forse poco presa in considerazione, forse proprio perché così difficile da coltivare e da ricercare da sembrare un traguardo irraggiungibile.

 

Comunque una cosa sul puro e l’impuro possiamo dirla: Gesù non elimina questa categorie, le conserva; non le applica più ai cibi, ma continua anche lui a parlare di puro e impuro, qui ma anche altrove nel vangelo, pensiamo alle beatitudini: beati i puri di cuore perché vedranno Dio. E poi Gesù dice anche un’altra cosa: se parliamo di purezza non dobbiamo pensare al cibo e al ventre ma al cuore: per cui è il cuore la sede, quel punto nevralgico da cui ha origine la purezza o l’impurità. Da qui parte tutto, purezza e impurità che poi, eventualmente, si spanderanno anche fuori, nella vita delle persone, ma il nucleo centrale e questo, il cuore. E chi può dire di aver un cuore totalmente integro e puro?

 

Gesù non lega tanto la purezza o l’impurità allo stato del cuore, alla sua situazione, quanto al lasciare uscire i propositi di male dal cuore. Finché rimangono dentro di noi, senza un’adesione della volontà, senza accoglierli come propri possiamo ancora lottare contro di loro, possiamo ancora evitare che rilascino in noi e fuori di noi la loro nocività. Finché rimangono dentro e finché sono esposti al crogiuolo, all’opera purificatrice dello Spirito Santo, sono in qualche modo sotto controllo. Il problema, dice Gesù, è quando queste cose escono, vengono alla luce, cioè, in altre parole, quando ci lasciamo determinare, nei nostri pensieri, nei nostri giudizi, nelle nostre parole, nelle nostre azioni, nelle nostre decisioni, da questi propositi di male che Gesù ha elencato. Quando queste cose escono da quel luogo interiore in cui si gioca la nostra battaglia, in cui possiamo presentarli al fuoco dello Spirito, queste cose ci rendono impuri.

 

Ora, potremmo chiederci, chi subisce questa impurità? Secondo il vangelo di oggi siamo noi stessi: noi stessi siamo i primi a venire inquinati da quanto esce dal nostro cuore, siamo i primi a farci del male, anche se certo questa fuoriuscita velenosa condiziona anche la situazione di chi ne viene a contatto, ma certo, in primo luogo, i primi a rimettercene, perdere purezza, siamo noi. Ma potremmo anche chiederci: quali sono gli effetti dell’impurità, che cosa provoca? Nell’antico testamento l’impuro non poteva accostarsi né agli altri, alla comunità d’Israele, né a Dio. Pensiamo ai lebbrosi che dovevano stare fuori dell’accampamento e camminare a distanza gridando “impuro, impuro”. E prima di poter tornare insieme agli altri il lebbroso doveva essere mondato, purificato, nel corpo e anche di fronte a Dio davanti ai sacerdoti, secondo varie tappe. Ma finché queste tappe non erano concluse il lebbroso restava solo, fuori dall’accampamento, con la sua impurità.

 

L’impurità di cui ci parla Gesù, quella che esce dal cuore, se è diversa nella sua espressione esteriore, nella sua manifestazione, non lo è nei suoi effetti, perché il primo effetto dell’impurità è proprio questa separazione, l’isolamento. Il male che esce da noi, o meglio i propositi di male, cioè il male che nel cuore diventa non solo istinto e tentazione ma proposito, cioè nostra decisione, e potremmo rileggere l’elenco che fa Gesù, questo proposito ha effetti simili all’impurità dei lebbrosi della bibbia: ci rendono soli, creano una distanza tra noi e Dio, tra noi e i fratelli. Del resto non serve essere cristiani per constatare anche solo gli effetti umani di tali propositi cattivi, cioè a livello semplicemente relazionale.

 

La domanda decisiva allora qual è per noi? Come vincere l’impurità che esce dal cuore: con la vigilanza, la preghiera, il rimanere in uno stato di conversione, con l’apertura all’azione di Dio. Ma beato chi ce la fa sempre e non sbaglia mai! È Dio che ci purifica ma la purificazione ha anche un risvolto umano, esistenziale che potremmo inquadrare in questi due termini: accettazione di sé e misericordia donata e ricevuta.

 

L’accettazione di sé significa fare ciò che ci indica il nostro libro di vita al numero 5: “Accetta di riconoscere che istintivamente tendi al male. Con lucidità, vedi che il fondo del tuo cuore è egocentrico, egoista, geloso, aggressivo, avido.” Riconoscere e accettare il male che è in noi, chiamarlo con il suo nome, accettare di essere così e non secondo la bella immagine di noi stessi che talvolta vogliamo custodire anche ai nostri stessi occhi, è il primo passo della purificazione. Del resto senza questa presa di coscienza di sé non ci potrà essere poi neanche il lavoro attivo si di sé per vigilare sul nostro cuore e presentarlo alla guarigione dello Spirito.

 

Il secondo termine del cammino di purificazione è la misericordia ricevuta e donata. E questo non è sempre facile, soprattutto nelle relazioni con gli altri perché riconoscere che abbiamo bisogno del perdono di Dio lo accogliamo senza troppi problemi; riconoscere che abbiamo bisogno anche del perdono degli altri ci pesa di più forse perché ci mette in uno stato di debito (come dice il Padre Nostro) e dunque di inferiorità rispetto a qualcuno che ci condona il debito, che ci regala qualcosa o più che qualcosa, ci regala se stesso, un pezzo di sé, del proprio cuore, del proprio affetto, un pezzo, potremmo dire, delle proprie viscere come si dice in ebraico la parola misericordia. Ed è proprio un regalo quello che riceviamo o offriamo agli altri nel perdono perché non solo fa sparire il debito, ma anche rende noi o gli altri più puri perché il perdono toglie potere ai propositi di male che avevano creato quella distanza che ci rendeva soli, come dei lebbrosi. Il limite del male, diceva il beato papa Giovanni Paolo II, è la misericordia. Davvero la misericordia, ricevuta e donata, da Dio e dagli o agli altri, pone un limite a quel male che ci rende impuri, dentro di noi, nel nostro cuore, e fuori di noi, cioè nelle nostre relazioni con Dio e gli altri.

 

Il Signore ci conceda questa purificazione, il Signore ci conceda un cuore puro, che vede Dio e che vede il fratello, e persino noi stessi, in verità.

 

Domenica 9 febbraio 2014 – V domenica T.O. – fr. Giovanni Battista FMJ


 

Collocato nel contesto del discorso della montagna, abbiamo ascoltato un breve brano del vangelo secondo Matteo, uno dei passi più conosciuti, e forse anche più amati perché, con le bellissime immagini del sale e della luce, ci rivela un aspetto importantissimo della nostra vita di cristiani, e cioè che abbiamo una missione da non minimizzare e da non dimenticare. C’è un mondo che ci aspetta, il mondo, l’uomo, la vita in tutte le sue dimensioni e in tutte le dinamiche che si trova ad affrontare, hanno bisogno di sale e di luce, cioè di sapore, di senso, di chiarezza di fronte alle molte situazioni e alle molte realtà che lo rendono buio, triste, e, ancora peggio, senza senso. E a questo mondo bisognoso di sapore, di senso, di luce Gesù ci invia. Gesù, con le parole che oggi ci rivolge, dunque, vuole risvegliare in noi questa coscienza profonda della nostra vocazione cristiana, il suo carattere non solo missionario, ma rivelativo: il cristiano nel mondo ha qualche cosa non solo da annunciare, ma da rivelare, da condividere, da testimoniare, e questo è l’amore che in Gesù si è fatto carne e vuole continuare a farsi carne attraverso la nostra carne. Come ha affermato il Papa nella sua esortazione apostolica: “essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada” (EG 127). Possiamo dunque accogliere il vangelo di oggi come una vera e propria chiamata di Gesù ad essere veramente, fino in fondo, ciò che siamo, sale e luce del mondo. Un cristiano così non può rimanere nascosto come non può rimanere nascosta una città collocata sopra un monte.

 

Tra le due immagini, i due simboli, quello del sale e quello della luce, il simbolo della luce è sicuramente quello più carico di significati, quello dalla maggiore portata teologica e spirituale. Il tema della luce infatti attraversa tutta la Scrittura. La luce contraddistingue sia il piano divino, il mondo divino, quello dove dimora Colui che abita una luce inaccessibile, quel regno nascosto che ci sta di fronte come prospettiva finale e beata che attendiamo nella speranza, quel regno dove non ci sarà più notte né luce di sole perché il Signore sarà luce per tutti. E nel contempo la luce è anche un elemento comune del nostro mondo, del mondo creato, il mondo degli uomini, quel mondo in cui proprio la luce fu la prima delle opere del Dio creatore di tutto che al primo giorno della creazione, ci narra il libro della Genesi, disse proprio: Sia la luce! E la luce fu. Nel creare la luce è come se Dio avesse immesso nel mondo una primordiale traccia di sé. All’inizio del mondo e della storia, come pure nel suo compimento finale ed eterno, c’è la luce. Tra questi due estremi, tra il prima della Creazione e il futuro di luce nella Gerusalemme nuova già visibile nella luce del mattino di Pasqua, si pone il presente della nostra storia, della nostra vita, del nostro mondo in cui si mescolano luce e tenebre, bene e male. Tra questi due estremi luminosi, ci siamo anche noi, noi pure segnati da questa ambiguità, da questa mescolanza, talvolta indomabile, difficilmente gestibile, di santità e peccato, e tuttavia chiamati ad una vita da risorti, un’esistenza che rivela qualcosa di quanto ci è promesso e che già possiamo sperimentare. A persone come noi, fragili, vulnerabili, Gesù rivolge queste parole straordinarie: voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo.

 

Ma cosa significa questo per noi? E possibile davvero? O sono solo parole che Gesù ci rivolge per caricarci un po’? Una prima cosa che dobbiamo riconoscere a partire dalla testimonianza della Scrittura è che l’essere luce del mondo non ci appartiene come qualcosa di nostro, qualcosa di proprio. La luce del cristiano è qualcosa che non ha in lui, cioè nella sua umanità, la sua scaturigine originaria, ma è una luce, potremmo dire derivata. Uno solo è la luce del mondo, Gesù, come riporta il vangelo di Giovanni: “Io, dice Gesù, sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.” (Gv 8, 12) Come solo Gesù può dire di essere veramente, per natura, Figlio di Dio, e noi solo per adozione, per grazia, così vale anche per il discorso della luce: solo Lui è davvero la luce del mondo. Solo Lui è il Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, come recitiamo nel Credo. Noi lo siamo nella misura ci lasciamo raggiungere e illuminare dalla luce del Cristo risorto. L’essere luce dunque non ci appartiene, non ci compete in modo naturale, non è qualcosa di nostro, ma è accoglienza in noi di qualcosa che viene da Gesù e appartiene a Gesù.

 

Ma potremmo dire di più: l’essere luce non solo non ci appartiene nella sua origine, ma neanche nella sua destinazione, nel suo scopo! La luce non è per noi. È anche per noi, ma la luce che dal Cristo si riflette sul cristiano e sulla Chiesa, è per il mondo e deve riflettersi sul mondo: questa è la destinazione ultima dell’illuminazione. Siamo dunque portatori di qualcosa che non è nostro né nell’origine, né nella destinazione. Qualcosa che ci obbliga a stare in mezzo, ad essere, in certo senso dei mediatori che irradiano intorno a loro questa luce che proviene da Gesù. E questo è un punto molto importante: solo Gesù è fonte di luce e fonte di sapore, per recuperare l’immagine del sale: solo Gesù può dare gusto alla vita e illuminare il mondo e noi potremo davvero servire il mondo se rimaniamo in mezzo, tra Gesù e il mondo, in una sorta di continuo ministero di inter-cessione, di cammino in mezzo. Non abbiamo qualcosa di nostro da dare agli altri, o se ce l’abbiamo, non è questo che ci rende sale o luce del mondo. Ne era ben consapevole Paolo che, come abbiamo ascoltato nella seconda lettura, lui che la luce di Cristo l’aveva vista davvero, si presenta ai cristiani di Corinto consapevole della sua vulnerabilità, della sua debolezza, e soprattutto consapevole di non essere qualcuno che deve affermare se stesso o una sapienza umana ma di essere un inviato, un testimone della potenza di Dio. La tentazione del protagonismo o di fermarsi, come non voleva fare Paolo, ad una semplice sapienza umana che forse affascina, attira, rassicura, convince più istintivamente la ragione umana e il buon senso, è una tentazione sempre in agguato: laddove ci sono delle conoscenze, delle doti, dei talenti, delle capacità umane, delle ricchezze, si presenta sempre la tentazione per l’uomo di mettere in esse le proprie radici che generano certo frutti ma di una salvezza umana, che portano sicurezze che non si basano sulla fede in Gesù e Gesù Crocifisso ma sulla sapienza umana, e così, pian piano, il sale perde sapore. Ma il mondo non ha bisogno di noi. Il mondo ha bisogno di Cristo, di cui noi possiamo e dobbiamo essere discepoli, imitatori, fratelli gemelli il più somiglianti possibili. Il mondo non ha bisogno di fuochi d’artificio che lasciano a bocca aperta per pochi istanti, giusto il tempo di attendere il botto finale, il mondo ha bisogno di umili fiaccole, di umili lampade che rimangono sul candelabro finché dura la notte. Certo queste fiaccole non saranno affascinanti, appariscenti e divertenti come i fuochi d’artificio, forse qualcuno non le noterebbe nemmeno considerandole cosa ordinaria, scontata, in una casa, ma se ne renderebbe conto qualora queste fiaccole non ci fossero più.

 

Infine, per concludere il discorso, possiamo riascoltare le ultime parole del vangelo di oggi: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro celeste che è nei cieli.” Ciò che risplende non sono i cristiani in quanto tali, e neanche i cristiani che parlano soltanto, ma ciò che risplende è la vita del cristiano conquistato da Cristo! Quando la vita cristiana è vera brilla! Le cose artefatte o di facciata, oltre al fatto che si nota che sono finte, durano poco. Un antico predicatore anonimo, molto antico, mentre esortava l’assemblea che aveva di fronte in una delle sue omelie, (parole che ora ridico anzitutto a me stesso), così diceva: “Portate la luce, insegnate non in modo che gli uomini ascoltino soltanto le vostre parole, ma vedano anche le vostre opere buone. (…) E’ cosa migliore operare e non insegnare che dare insegnamenti e non metterli in pratica. Infatti chi agisce, pur tacendo, corregge gli altri per mezzo del suo esempio; chi invece dà insegnamenti senza attuarli, non solo non corregge nessuno ma scandalizza anche molti.” (Anonimo, opera incompleta su Matteo, omelia 10)
 

Siamo dei tesori in vasi di creta, ma se offriamo le nostre membra al Signore come strumenti di giustizia, il Signore potrà farne grandi cose! Sia questa la nostra profezia in un mondo che ha bisogno di sapore, di luce, di vedere Cristo in noi.

 

mercoledì 5 febbraio 2014 – IV settimana T.O. – fr. Giovanni Battista FMJ


Gesù ritorna nella sua patria, tra i suoi parenti e nella sua casa, a Nazareth, dato che dopo l’inizio della sua missione si era ormai trasferito a Cafarnao. Gesù ritorna qui, tra tutti quelli che da sempre lo conoscevano, e rimane meravigliato perché scopre che in realtà non lo conoscevano. Gesù certo se l’immaginava perché comunque tra il prima della sua vita a Nazareth e questo suo ritorno, c’è l’inizio del suo ministero pubblico, ministero nel quale Gesù si rivela sempre più per quello che è davvero: un profeta, ma non solo, il Cristo, l’unto di Dio, il Messia.

 

Dunque una differenza tra il prima della sua vita a Nazareth e questo suo ritorno c’è. E infatti questa novità che ora si rivela per la prima volta agli occhi dei suoi compaesani, crea disorientamento, stranezza, suscita delle domande, forse invidie, gelosie, tutti sentimenti che l’evangelista Marco racchiude in una parola sola: scandalo, Gesù era per loro, per i suoi, motivo di scandalo, ossia un ostacolo, qualcosa che crea difficoltà, che obbliga ad un salto, ad un passaggio, per superare questo ostacolo ci vuole un salto che è il salto della fede. È interessante notare che i nazaretani si ponevano delle domande interessanti sull’identità di Gesù, e queste domande rappresentano un pochino, come dire, il contenuto di questo scandalo: Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? C’è dunque qualcosa che sfugge alla loro comprensione, c’è un di più inafferrabile alla loro forma mentis, al loro modo abituale di ragionare e di conoscere Gesù di fronte al quale rimangono bloccati. E questo è il loro problema: si fermano a questo incomprensibile, non lo accolgono come qualcosa di plausibile, di accettabile, come una parola che ha da dire qualcosa alla loro vita. Si realizza del resto quanto espresso dal prologo di Giovanni: venne tra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto.

 

Il problema non è solo di tipo gnoseologico, cioè che riguarda il modo di conoscere, ma è una questione di fede e di incredulità. La fede consente di andare oltre, la fede non è chiusura ma è accoglienza di qualcosa che non necessariamente coincide con il mio modo di vedere, con il mio modo di pensare, è apertura e conoscenza nuova, inedita e per questo potenzialmente scandalosa dell’Altro con la A maiuscola come non lo conoscevamo prima, ma anche, potremmo dire, dell’altro con la a minuscola, il fratello e la sorella che ci vivono accanto, quelli della nostra casa. Perché anche costoro, i nostri fratelli e sorelle rimangono un mistero da accogliere prima che essere una conoscenza da possedere in modo inequivocabile. Anche il fratello può essere e anzi di fatto è uno scandalo per noi, cioè qualcuno che presenta un di più, un al di là, un’eccedenza rispetto a quanto noi possiamo comprendere e oggettivare di lui una volta per tutte. Anche il fratello è un mistero che, come fu per Gesù, necessita di uno sguardo di fede per essere conosciuto in verità e non incasellato in una delle nostre categorie, come facevano gli abitanti di Nazareth, i suoi parenti, con Gesù. Le categorie ci danno sicurezza perché plasmano la realtà che sta fuori di noi a nostra immagine, con le semplificazioni o le complicazioni che la caratterizzano, e la storia è piena di esempi in cui l’uomo è stato compreso solo a partire da un’angolazione o di un’altra. Cose vere, cose importanti, ma sono cose non esaustive e totalizzanti, che se estremizzate, perdono quel rispetto del mistero che invoca timore prima che conoscenza. E infatti il profeta che, la nostra traduzione italiana rende come profeta disprezzato, nel greco del testo originale è profeta àtimos (sine honòre, in latino) profeta non temuto, a cui ci si volge senza timore. Il timore, in questo senso, è rispetto del mistero dell’altro Dio o uomo che sia, è rifiuto di volerlo possedere, è desiderio di accoglienza prima che di conoscenza. Il Signore ci doni questa purezza di sguardo, questa sorta di castità della mente e dell’intelligenza che non è chiusura ma apertura al nuovo, al vero e dunque all’essere autentico.

 

martedì 4 febbraio 2014 – IV settimana T.O. – fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il vangelo di oggi ci svela qualcosa di nuovo all’interno della progressiva lectio continua del vangelo di Marco che stiamo portando avanti da alcune settimane. Cos’è questa novità, di che cosa si tratta? Ebbene si tratta di una forza speciale, di una forza che guarisce, che risana, e potremmo dire anche che salva, una forza che ne fa esperienza chi tocca o è toccato da Gesù, il Dio fatto uomo. Ora non solo Dio lo si può incontrare, invocare, pregare, ma addirittura Gesù si lascia toccare e da questo contatto si sprigiona qualcosa di benefico, qualcosa che si sente, che cambia il modo di vivere delle persone raggiunte dalla guarigione.

 

Eppure, se siamo stati un po’ attenti nell’ascoltare il testo, se ci ricordiamo un po’ come sono andate le cose, vediamo che questa forza che esce da Gesù, queste energia che risana, anche se il termine energia va preso con le pinze perché oggi giorno può essere equivocato, vediamo che questa potenza che fa vivere in modo nuovo, in fondo era già all’opera anche prima delle due guarigioni. Ancora prima che Gesù guarisca e l’emorroissa e la fanciulla dodicenne, già c’era una segreta forza motrice che animava, metteva in moto, cambiava il modo di vedere le cose e dunque di vivere e di agire.

 

Cosa è questa forza che cambia tutto il modo di pensare, di agire e di vivere? Questa energia è la fede. Noi forse siamo abituati a dare un po’ per scontato, nella nostra vita di credenti, il fatto che abbiamo fede, che crediamo, perché basandoci su quanto crediamo noi facciamo tante cose, a partire, per esempio, dall’andare a Messa, dal pregare, dal rispondere alla vocazione, alla chiamata che ciascuno di noi ha ricevuto. Per fede, e potremmo dire anche certamente per amore, noi diciamo sì ad una donna, ad un uomo, diciamo di sì al Signore in una comunità religiosa o semplicemente diciamo di sì al cammino che abbiamo capito essere quello che il Signore ci chiama a percorrere. E tutto questo è vero, è sacrosanto e da non toccare. Però, possiamo chiederci una cosa: questa fede che rappresenta la base di tante nostre scelte ormai quotidiane e abitudinarie, è ancora una fede che possiamo considerare come energia, è ancora una fede che ci mette in movimento come una forza motrice che ci spinge ad andare dietro al Signore oppure è una fede che subiamo passivamente? siccome sono credente devo andare a Messa, devo essere fedele a mia moglie/ marito, devo pregare, devo obbedire al Superiore.

 

In poche parole, è ancora, la nostra una fede che ci tiene in vita oppure abbiamo bisogno di altre cose che ci tirino un po’ su? Proviamo a dare un’occhiata alla testimonianza di fede che ci dimostrano i personaggi del vangelo di oggi: ancora prima di ricevere qualcosa dal Signore si mettono in cammino, si mettono in moto, la loro è una fede che li anima, che li muove. Addirittura si tratta per l’emorroissa di una fede che distingue in modo del tutto singolare il suo toccare Gesù: tutti lo toccavano, tutti gli erano come pressati addosso, eppure solo il contatto di questa donna libera quella forza invisibile che la guarisce dopo tanti anni di tentativi sempre deludenti. E Gesù se ne accorge, Gesù si accorge di chi lo tocca con fede, mentre non si accorgeva degli altri. Fu così anche per Giairo: una fede che va oltre il senso di scoraggiamento, di fallimento che gli suggerivano quelli della sua casa, quelli che pensavano di vedere lontano, quelli che pensavano di capire davvero quello che stava succedendo: lascia stare, ormai tua figlia è morta, perché disturbi ancora il maestro? Ma Giairo, aiutato da Gesù, non si fida di loro, si fida di Gesù, non ascolta i ragionamenti di chi non ammette possibile altro se non ciò che si vede e si pensa comunemente. E così non cede, Giairo non rinuncia a credere che quella persona in cui ha messo tutta la sua fiducia sarà anche capace di fare ciò che promette. E così avviene! La bambina ritorna in vita, la salvezza si rende presente, la fiaccola della speranza non aveva arso invano.

 

Allora anche noi possiamo chiederci: chi ha guarito prima l’emorroissa e poi la bambina? Le ha guarite Gesù? Diciamo di sì e diciamo di no, potremmo dire ni. Queste due donne le ha guarite Gesù insieme alla fede di chi l’aveva toccato ed implorato. La forza che vince il male e la morte dimorava già in quell’ostinata insistenza che animava la preghiera e l’intraprendenza di questi bisognosi della grazia di Dio. Il loro bisogno, una volta canalizzato, orientato su Gesù e su nessun altro, era diventato quella forza che con decisione e perseveranza, li spingeva avanti, li faceva andare dritti e cocciuti alle fonti della salvezza.

 

Anche noi vogliamo una fede così, anche noi desideriamo di tutto cuore che la nostra fede non sia una fede scontata, una fede accantonata, messa da parte come una ricchezza chiusa in una cassaforte, ma sia una fede da spendere, da investire, una fede che ci mette in movimento, che ci mantiene attivi e svegli nell’andare a Gesù e nell’avere perfino l’ardire di toccarlo di proposito e non solo perché ci troviamo nella ressa, trascinati dalla massa. E allora sentiremo forse anche noi la parola rassicurante e vittoriosa di Gesù, e laddove vince Gesù vinciamo in verità anche noi: figlia, figlio, la tua fede ti ha salvato.

 

sabato 25 gennaio 2014 – Conversione di San Paolo - fr. Giovanni Battista FMJ


Nella vicenda della conversione di san Paolo noi abbiamo un caso particolare, strano di conversione. C’è infatti qualcuno che critica l’uso di questa parola conversione per descrivere la vicenda di Paolo. Di per sé non è sbagliato parlare di conversione, cioè di un cambiamento di strada per Paolo, ma dobbiamo capire bene qual è il nucleo essenziale di questa conversione, di questo nuovo orientamento della vita di Paolo. È importante capirlo non solo per sapere come sono andate le cose per lui, ma anche, e forse è la cosa che più ci importa, per capire come vanno per noi, cioè che cosa davvero ci cambia, ci rinnova, ci converte.

 

Paolo, lo racconta lui stesso, era un super religioso, sapeva tutta la legge a memoria e la osservava con il massimo zelo. Eppure, un uomo così preparato, così osservante e deciso nel proprio ideale di vita religiosa, invece che servire Dio lo stava perseguitando! Può sembrare assurdo ma Paolo letteralmente perseguitava Dio, gli faceva del male. Saulo Saulo perché mi perseguiti? Un giorno Paolo sente questa voce e vede una luce nuova, quella luce che lo illumina a tal punto da renderlo consapevole della sua cecità: lui che credeva di vedere invece era cieco! È questo il vero evento che cambia la vita di Paolo, la vera conversione. È grazie a questo incontro, e non grazie alla sua competenza in materia religiosa e al suo zelo furibondo, che Paolo comincerà a diventare un santo, un apostolo, qualcuno che dovrà soffrire molto per il nome di Gesù. Da persecutore di Cristo a perseguitato per Cristo!

 

In questo incontro con Gesù Paolo rilegge tutta la sua vita, tutta la sua fede, tutta la sua esperienza religiosa, tutte le relazioni che aveva con i suoi contemporanei e i suoi correligionari, e ne capisce il vero senso e il vero orientamento. Esteriormente non cambia strada, continua verso Damasco, ma il suo cuore è nuovo. In questo incontro con Gesù Paolo scopre il senso di tutto e di tutti, Paolo scopre la sua vocazione, Paolo scopre Dio in verità, e si scopre non come fedele servo dell’Altissimo ma come violento persecutore del Dio che credeva di servire.

 

Quanto è preziosa anche per noi questa vicenda di san Paolo! Quanto ha da insegnare al nostro cammino di discepolato che rimane un cammino di conversione! E che cosa impariamo da questa vicenda? Che cosa ci insegna san Paolo? Ebbene, ci insegna che la vera conversione, quella profonda, quella che penetra fin nelle midolla e nelle giunture della nostra vita, avviene quando incontriamo personalmente il Signore Gesù, quando facciamo esperienza di Lui. Che energia si sprigiona da questo incontro! Che potenza riconosciamo nel nostro cuore quando scopriamo lo sguardo di Gesù su di noi, una potenza che se ci sbatte a terra come accadde per Paolo, è anche capace di rialzarci, consolarci e trasformare coloro che prima erano i nostri nemici, coloro che volevamo uccidere, in fratelli che ci aiutano a diventare santi. Tutto in noi e sempre deve essere esposto a questo incontro, tutto, come fu per Paolo che iniziò da capo il suo cammino di fede. Da grande esperto formato alla scuola di Gamaliele si ritrova a dover imparare l’abc di un nuovo modo di amare e servire Dio.

 

Anche noi allora chiediamo il coraggio della conversione. E se, diciamo, che ci siamo già convertiti, ricordiamo che la conversione non finisce mai perché è un continuo riplasmare sotto lo sguardo di Gesù, in questo incontro forte, liberante e soprattutto personale con Cristo, tutto quello che prima credevamo giusto, santo e vero.

 

In questo riplasmare il nostro modo di vivere la fede, di vivere le relazioni, di vivere la vita, come fu per Paolo, si compie la vera unità dei credenti, perché come lui, diventeremo un po’ più fratelli e un po’ meno persecutori. È questo che tutti vogliamo augurare gli uni agli altri al termine di questo ottavario di preghiera per l’unita dei cristiani.

 

venerdì 24 gennaio 2014 – II settimana T.O. – fr. Giovanni Battista FMJ


 

La chiamata degli apostoli è un evento, un racconto fondante per la vita della comunità cristiana, della Chiesa, un racconto che siamo invitati a leggere in una luce particolare durante questo ottavario di unità dei cristiani.

 

Gesù chiama i dodici, o meglio costituisce i dodici, fa i dodici, come nucleo originario di quella Chiesa che giunge a noi fino ad oggi. In quella chiamata sono custodite come in forma originaria e paradigmatica alcune costanti di ogni chiamata e di ogni missione e dunque anche di quella di ciascuno di noi.

 

La caratteristica che per prima balza alla nostra attenzione è il contenuto di questa chiamata, cioè cosa vuol dire far parte dei Dodici, cosa vuol dire essere apostoli. Se apostolo vuol dire inviato, colui che va, l’apostolo deve capire anzitutto dove deve andare. Il dove, la direzione dell’andare dell’apostolo, Marco la presenta così: perché stessero con lui e anche per mandarli. Sono questi i due poli, i due orientamenti fondamentali della chiamata dell’apostolo, lo stare con Gesù, o più letteralmente l’essere con Gesù, e poi l’annuncio in parole e gesti cioè la guarigione da ogni forma di male.

 

Detto questo ci possiamo chiedere: questi due poli che rapporto hanno l’uno con l’altro? Sono forse questi due momenti sconnessi, il ritiro e l’invio, due fasi separate della vita dell’apostolo? La vita cristiana è forse una vita a settori separati e impermeabili, cioè c’è la fase dell’andare a Cristo e poi quella del lasciare Cristo per l’invio? Dobbiamo dire di no. Si tratta piuttosto di due livelli che convivono insieme e, se hanno distinzione, questa è solo dal punto di vista visibile, esteriore, fenomenico ma ad un livello più profondo questi due livelli convivono, devono convivere, e guai se non fosse così!

 

Questo per due ragioni: la prima è legata al fatto che l’apostolo, inteso anche in senso lato, cioè qualsiasi cristiano che riconosce il proprio dovere di testimonianza e di evangelizzazione che, come ci ha ricordato il papa, compete a tutti seppur in diverso modo, l’apostolo non è portatore solo di un messaggio, di un’informazione. L’apostolo non dice solo, guarda che Dio c’è davvero, ma dev’essere un portatore di Dio stesso, l’apostolo con la sua stessa persona pienamente unita a Cristo, non deve solo annunziare ma dev’essere trasparenza stessa di Cristo nel mondo, perché Cristo stesso è il messaggio dell’apostolo, Cristo vivo, Cristo presente e non solo un parlare di Cristo. E capiamo bene che questo è possibile se lo stare con Gesù diventa una costante, una comunione ininterrotta ventiquattr’ore su ventiquattro. Prima ragione.

 

La seconda ragione del perché i due livelli convivono e devono convivere è quella che più ci fa riflettere in questi giorni di preghiera per l’unità dei cristiani. Se noi infatti stacchiamo, separiamo i due momenti di chiamata ed invio, se l’invio ad extra perde il suo legame con la chiamata, con la scelta che Dio fa di noi e con il nostro costante andare a lui, ecco che tutto ciò che facciamo si espone seriamente al rischio di non essere più un invio da parte di Dio ma la realizzazione di un nostro progetto personale o comunitario. È questo un rischio non solo dell’apostolo ma anche di qualsiasi cristiano che svolge un servizio per gli altri. Finché questo servizio scaturisce da una chiamata del Signore e ritorna al Signore stesso attraverso il beneficio che ne traggono le sue stesse membra vive che siamo noi, finché quanto viene da Dio continua a portare l’impronta di questa chiamata originaria e diventa così portatore della sollecitudine di Dio stesso per il suo popolo, la Chiesa si edifica e cresce. Quando noi invece tra chiamata e invio poniamo il nostro progetto, accade che la chiamata non vivifica più l’invio, e diventiamo noi i protagonisti di un’opera nostra e così nascono i problemi, si creano divisioni, le fazioni, i gruppi e diamo al mondo una parola vuota se non nociva, una parola che non rivela più Gesù. Ecco le divisioni tra i cristiani, ecco le divisioni tra le confessioni cristiane, ecco che ognuno allora rischia di avere un suo progetto, una sua dottrina, un suo culto, perfino all’interno dello stesso gruppo di credenti.

 

Nel nostro piccolo e nelle nostre vite, che forse non prenderanno parte al dibattito delle commissioni teologiche che portano avanti il dialogo ecumenico, possiamo però già vivere questo continuo ritorno alla fonte, alla base, alla radice della chiamata che il Signore ha rivolto tutti noi presi sia come singoli che come comunità monastica e comunità ecclesiale. Solo se unito alla radice l’albero riceve la linfa e porta frutto; se staccato dalla radice nutriamo l’albero con una linfa nostra, i frutti saranno frutti nostri, e avranno il sapore del nostro modo di pensare, della nostra cultura, ma non del vangelo di Cristo.

 

venerdì 17 gennaio 2014 – Memoria di sant’Antonio abate - fr. Giovanni Battista FMJ

 

              È sempre una gioia per una comunità monastica celebrare la memoria di un padre, Antonio, padre dei monaci, una figura straordinaria che come affascinava molti nel suo tempo, così anche oggi non cessa di affascinare chi ama la vita monastica e non solo, e anche noi vogliamo lasciarci raggiungere dal suo fascino, il fascino di un uomo che non ha fatto altro che prendere il vangelo sul serio e cercare di viverlo con tutte le sue forze.

 

Le letture di oggi vogliono illuminare degli aspetti particolari della vita di Antonio, due in particolare risaltano: l’aspetto della chiamata e l’aspetto della lotta contro il male, male sia con la m minuscola, sia con la Maiuscola, il diavolo. I due temi sono connessi, si toccano, in quella che potremmo definire la vittoria di Cristo.

 

Antonio un giorno, dopo la morte dei genitori, entra in una chiesa e ascolta proprio il vangelo che abbiamo appena sentito anche noi: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”. E il suo ascolto diviene obbedienza, il Signore non solo parlava ma gli parlava e Antonio – scrive il suo biografo sant’Atanasio – “come se quella lettura fosse stata fatta proprio per lui, usci subito dalla chiesa, donò ai vicini i poderi avuti in eredità dai genitori perché non infastidissero più lui, né la sorella”. Antonio lascia sprigionare nella sua vita tutta la potenza della parola di Dio, tutta la potenza della vittoria di Cristo. La sua docilità alla voce divina è la sua forza, la sua passività di fronte all’azione dello Spirito è la sua vera potenza, la sua fermezza nel seguire il Signore lo condurrà lontano nella conformazione a Cristo.

 

Ma il cammino di Antonio fu tutt’altro che spensierato perché il Nemico di ogni bene, l’amico del peccato, il diavolo, fece tutto il possibile per colpire Antonio e condurlo sulla via di una rassicurante e tranquilla “normalità” di vita. Qual è il segreto di Antonio? Come fa Antonio ad essere così forte contro il male tanto che i demoni non possono più nulla contro di lui? Il segreto di Antonio non è tanto una sua personale potenza, quasi fosse in grado da sé di vincere il male. Il segreto di Antonio si chiama Gesù. Antonio aveva imparato, era ormai abituato a lasciar vincere il Signore nella sua vita, nelle sue cose personali, la famosa e poco di moda “mortificazione di sé”, e seguendo questa via Antonio diventerà egli stesso un vincitore, un alleato di Cristo, un portatore della vittoria di Cristo nella sua povera umanità che non era diversa dalla nostra. E così Antonio vince il male, o meglio il Salvatore vince il male in Antonio.

 

Ci può forse sembrare una vita rude e un po’ cinica una vita vissuta così, eppure di Antonio si dice che, vivendo in tal modo, era incredibilmente amabile e amato da tutti. Anche qui possiamo ancora chiederci? Qual è il segreto di Antonio? La risposta è sempre quella: avendo imparato a lasciar vincere il Signore in sé stesso, l’Altro, con la A maiuscola, abituatosi al disarmo e alla docilità di fronte a Dio, vive così anche di fronte agli uomini, apprezzando tutto ciò che di bello, di santo, tutte le piccole vittorie del Signore negli altri. Si legge nella sua vita che “Si mostrava volentieri sottomesso agli uomini zelanti che visitava, faceva tesoro per sé di come ciascuno eccellesse per virtù e pratica ascetica. Di uno, infatti, ammirava la grazia, di un altro l’amore per le letture, di uno la perseveranza, di un altro il digiuno e il dormire in terra, di uno la mitezza, di un altro la generosità. Di tutti notava l’amore per il Cristo e l’amore reciproco.” (4) In poche parole, Antonio quando stava con gli altri cercava di imparare qualcosa da tutti e, scrive Atanasio, “raccogliendo nel suo animo le virtù di ognuno, si sforzava di realizzarle tutte in se stesso.” Il grande abate, e maestro, e padre dei monaci continuava a farsi piccolo e discepolo; vinto da Dio e per questo vincitore, non invidiava ma emulava le vittorie degli altri e così restava in perpetuo cammino. Ogni giorno, per Antonio, che avrebbe potuto adagiarsi sui tanti anni di esperienza di vita, era un nuovo inizio, era quell’oggi da cui iniziare nuovamente dimentico del passato e proteso verso il futuro senza misurare la sua virtù sul tempo trascorso ma con desideri e propositi buoni da perfezionare continuamente.

 

In sant’Antonio il Signore ha un amico e un discepolo, e noi scopriamo, ancora una volta, che la vera vittoria, la vera umanità piena, realizzata e santificata, il vero ideale monastico, e perfino la lotta contro il male, non sono protagonismo e grandezza nostri, ma protagonismo e grandezza di Cristo in noi. Noi dobbiamo assecondare con tutto il nostro impegno questa grazia e imparare anche un pochino, quando occorre, a farci da parte di fronte ad essa. Vinti diventeremo così vincitori. È strano ma vero, forse paradossale, ma il Vangelo funziona così.

 

Domenica 12 gennaio 2014 - Battesimo del Signore - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   Il tempo del Natale si conclude con la festa del Battesimo del Signore. In tutto questo tempo santo siamo stati invitati a volgere lo sguardo al Bambino di Betlemme.

   La identità profonda e vera di Gesù ce l'hanno annunciata gli angeli con i loro canti, i pastori con il loro pellegrinare in cerca del segno annunciato, i magi con i loro doni.

Oggi la rivelazione è forte e solenne:

·        il Padre rompe il silenzio e proclama l'identità di Gesù: " Questi è il Figlio mio, l'amato in cui ho posto tutto il mio compiacimento";

·        lo Spirito, disceso su di Lui in forma di colomba, lo presenta come il consacrato, il servo di Dio, l'eletto di cui già Isaia aveva profetato.

·        E vogliamo porre particolare attenzione all'annotazione dell'evangelista: "...si aprirono per Lui i cieli."

    Gesù è il Figlio del Padre, l'unto l'eletto di Dio e per Lui si sono aperti i cieli, cioè Dio non è più lontano, separato, distante, irraggiungibile, ma vicino, incontrabile, toccabile.

     Ma possiamo ora fare un passo ancora in avanti.

    Gesù che scende nel fiume Giordano, che si mette in fila con i peccatori, non pone tanto un gesto profetico del Battesimo cristiano, ma principalmente un gesto di grande solidarietà con l'uomo, e con l'uomo peccatore. In Gesù Dio si è fatto solidale con l'uomo, e questo perché l'uomo divenisse "solidale" con Dio. I cieli sono davvero aperti nei due sensi in Gesù: perché Dio potesse scendere sino a noi e affinché noi potessimo salire sino a Lui. Dio si è immerso nell'umano perché l'umano potesse immergersi in Dio. Addirittura: il Figlio di Dio si è fatto uomo perché l'uomo potesse divenire figlio di Dio.

      Ecco il cuore del mistero del Natale che abbiamo celebrato e stiamo celebrando. Ora possiamo chiederci:

       Come questo grande ed impensabile mistero si realizza per ogni uomo?  

      Come questo raggiunge e si attualizza per ogni uomo di ogni tempo, per ogni uomo disperso nel tempo della storia e nello spazio di questo mondo? Come questa possibilità diviene concreta, reale, " applicata" - è brutto ma rende l'idea - ad ogni uomo? La risposta è: attraverso il dono del  Battesimo.

     Attraverso il Battesimo Dio ci ha raggiunto e resosi solidale con noi nel Figlio ci ha reso solidali a Lui facendoci figli, fino al punto che in ciascuno di noi il Padre vede il Figlio, ci chiama l'amato, e pone su ciascuno di noi il suo compiacimento.

        Questo è il dono del Battesimo che abbiamo ricevuto. Tutto questo che andiamo dicendo il Battesimo ce lo dona.

      Ma occorre non solo ricevere il dono, perché questo grande mistero risplenda e si veda, occorre che lo Spirito che nel Battesimo abbiamo ricevuto possa agire trasformandoci in Gesù.

Ecco allora che possiamo dire che a questo dono occorre abbandonarsi permettendogli che con la sua forza, sempre più, ci trasformi ad immagine di Gesù.

      Al Battista che voleva resistere al Signore che chiedeva di essere battezzato Gesù dice : " Lascia fare....". Possiamo riprendere oggi questa Parola e pensare che lo Spirito ricevuto nel Battesimo che vuole trasformarci in Gesù ci chieda continuamente - particolarmente quando siamo rigidi, duri, ribelli, ostinati, chiusi alla sua azione: " Lascia fare - cioè - Lasciami agire."

    Ora evidentemente quando diciamo che lo Spirito ricevuto nel Battesimo voglia trasformarci in Gesù non significa che questo avvenga nei lineamenti esterni del volto o dello sguardo o cose simili, ma piuttosto è nell'uomo interiore, nei sentimenti, nell'amare, nella relazione al Padre, nel rapportarci ai fratelli, che lo Spirito vuole farci come Gesù.

            Ecco che nella Parola ascoltata c'è un passaggio che ci aiuta a capire meglio verso dove il dono del Battesimo - per usare l'espressione del Vangelo: lasciato fare - ci vuole condurre. Quali lineamenti di Gesù lo Spirito vuole imprimere in noi. I lineamenti del volto di Gesù che lo Spirito vuole imprimerci sono quelli che Isaia attribuisce al servo del Signore - profezia di Gesù:"......egli porterà il diritto alle nazioni.  Non griderà né alzerà il tono,non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta...."

    Nel Battesimo resi solidali, di più figli nel Figlio, il dono dello Spirito - se noi lo lasciamo fare - scolpisce questi tratti del volto del Figlio, tratti di umiltà e di mansuetudine, tratti di dolcezza e discrezione, tratti di chiarezza e amore per la giustizia, ma tratti di pace e mitezza, benevolenza e mite fortezza.

      Come aiutare lo Spirito in questa opera iniziata il giorno del nostro Battesimo?

       Restare sempre in un reale e vero cammino di conversione volgendo lo sguardo costantemente a Gesù, cercando, custodendo e rafforzando una relazione vera, radicale profonda personale con Lui.

Ogni volta che lo sguardo è distratto dal volto di Gesù crescono le resistenze allo Spirito, la durezza del cuore si accentua, anziché lasciar fare allo Spirito facciamo noi ed ecco che come il Papa ha detto ieri ai preti, ma vale per tutti, il risultato è che: "....si diventa non unti ma untuosi, devoti del dio narciso."

      Oggi allora la liturgia chiudendo il tempo di Natale e aprendoci da domani al tempo ordinario ci riconsegna la sfida del Battesimo che abbiamo ricevuto: " .....lasciare fare allo Spirito!  Lasciarlo fare perché imprima in noi il volto mite e luminoso del Signore; perché ci conduca nel cammino di una sempre più grande somiglianza con il Figlio amato. Così che la nostra vita dica al mondo che Dio per tutti ha aperto i cieli e si è fatto vicino.

Amen

 

venerdì 10 gennaio 2014 – Commento ora media - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Riascoltate nel contesto del tempo di Natale, le parole dell’evangelista Giovanni rivelano ai nostri occhi una luce particolare, quella che si irradia da Gesù Bambino, il Verbo incarnato. Contemplando e adorando il Verbo fattosi carne per la nostra salvezza infatti non solo possiamo pensare, immaginare, l’amore di Dio, ma possiamo giungere perfino a toccare, nell’esperienza di fede e nella vita cristiana, la plasticità, o meglio, la fisicità del significato dell’espressione: “Dio ci ha amati per primo”. Dio ci ha amati fino a donarci il Suo Figlio. Si tratta certo di un’affermazione di fede ma, non per questo di qualcosa che appartenga al mondo di Dio e non al mondo degli uomini, al mondo del puro abbandono di fede, e non anche al mondo dei sensi e della ragione. Così Dio ha voluto mostrare il Suo amore per noi, venendoci incontro nel modo più comprensibile e percepibile dalla nostra umanità: la relazione umana. In questo incontro si compiono tutti i modi di dialogo, di contatto, tutte le benedizioni e le promesse che il Dio dei Padri aveva rivolto al suo popolo. Dio non parla più dall’alto ma parla dalla terra di cui si è fatto cittadino.

 

Due cose possiamo dire a riguardo tra le molte che potrebbero emergere dalla nostra riflessione e dalla nostra preghiera. Una prima cosa è che se Dio ci ha amati per primo dobbiamo riconoscere a questo primato, a questa priorità, a questo amore che possiamo definire senza esagerazioni, primordiale, tutta la precedenza che gli è propria, sia dal punto di vista cronologico, che kairologico, che ontologico che esistenziale. L’amore di Dio ci precede in tutto. In nulla possiamo precederlo, è sempre lui che ci precede e dunque ci attende e ci accompagna. In questo amore primordiale, noi troviamo allora quel grembo che ci ha generati e che continua a generarci se vogliamo considerarci e vivere come Sua discendenza, cioè come figli di Dio. Tutto ciò che è in noi e da noi proviene se vuole essere un prolungamento, una discendenza di Dio, se vuole portarne il nome, deve ritornare ripetutamente a questa generazione dall’amore di Dio. Se no avremo sì un nostro nome, ci faremo un nome, ma non porteremo in verità, cioè nei fatti, nella realtà, il nome di figli di Dio.

 

La seconda cosa che questo testo ci suggerisce riguarda il nostro modo di amare. Dio è amore, è lui che ci amati per primo e, abbiamo detto, tutto in noi deve ritornare a questa scaturigine. Ma possiamo andare oltre, possiamo dire che non basta amare Dio e non basta amare i fratelli, ma dobbiamo amare l’Uno e gli altri come lo fa Gesù. Questa è la sfida continua del nostro pellegrinaggio terreno, una sfida che si chiama conversione. A volte vorremmo chiamare amore, giustizia, verità, bellezza, bontà eccetera molte cose, ma siamo sicuri di attribuire a queste categorie, a questi contenuti, il giusto significato? Ciò che si trova in Dio in modo sommo può trovare solo in lui autentica definizione ed espressione, e può dunque essere considerato tale solo se, almeno in parte, partecipa di questa pienezza che è in Dio solo. In altre parole, solo se manteniamo il contatto con il grembo che ci ha generati, anche quello che genereremo noi potrà portarne l’impronta, potrà essere rivelazione di Dio, e creare comunione. Se no sarà babele, disordine e divisione. (cfr per questo ultimo pensiero: M. Canopi, Liturgia del silenzio, ed. Piemme, pag. 9)

 

In Gesù si incontrano e si congiungono i due movimenti, quello che parte da Dio per volgersi verso di noi, l’amarci per primo, e quello che nasce dalla nostra risposta umana a questo amore per volgersi verso l’alto e verso chi ci vive intorno. Il messaggio che allora vogliamo ricevere come un’eredità che questo tempo forte del Natale ci consegna è allora l’urgente invito a metterci alla scuola di Gesù, a mettere le orme sulle orme lasciate dal Salvatore, come la Beata Elisabetta della Trinità chiedeva per sé: “Oh, se potessi essere piccola come lui e poi crescere al suo fianco mettendo i miei passi sull’orme dei suoi passi divini!”

 

Intercessioni Ora media:

-Benedici o Padre le istituzioni, ecclesiastiche e non, che si spendono per portare pace, aiuti umani e materiali in quei luoghi in cui la dignità dell’uomo è più calpestata.

-Dona sollievo o Padre a coloro che hanno subito un’ingiustizia, a chi è maltrattato, umiliato, ingannato, truffato: sperimentino, nella loro vita, la potenza della fede che vince il mondo.

- Accendi o Signore, in tutti i cristiani, il desiderio di mettersi alla sequela di Gesù mediante un’intensa vita sacramentale, l’ascolto della tua Parola e l’esercizio della carità fraterna.

 

mercoledì 1° gennaio 2014 – Maria Santissima Madre di Dio - fr. Giovanni Battista FMJ


 

In questo primo giorno dell’anno la Chiesa ci invita a guardare alla prima delle donne redente, la prima conquistata dalla bellezza di Cristo. Il più bello tra i figli dell’uomo ha reso sua Madre la più bella delle donne, una bellezza non solo da guardare, da ammirare, da contemplare, da pregare, in Maria abbiamo molto di più. In Maria Madre di Dio scorgiamo la presenza dell’Assoluto, del Trascendente, del totalmente Altro, di Colui che è inafferrabile e tuttavia decide di rendere partecipe di sé l’uomo a tal punto da farsi figlio dell’uomo. Il Figlio di Dio prolunga visibilmente il suo eterno essere figlio nel seno del Padre prendendo carne nel seno di Maria. Come per dire: da sempre sono figlio, vi voglio rendere come me, vi voglio rendere figli di Dio. A chi lo accoglie, dice san Giovanni, ha dato potere di diventare figlio di Dio, e san Paolo, nella lettura di oggi cerca di convincerci con tutte le forze che davvero siamo figli e se sei figlio, dice san Paolo, sei anche erede. Erede di cosa? Erede della salvezza, erede della redenzione, erede dell’identità di figlio di Dio e partecipe di quello sguardo d’amore che il Padre da sempre rivolge al suo Figlio. Ma erede anche di una Madre, la Sua Madre, Maria. Maria, portando in grembo il suo Figlio e dandolo alla luce, in certo senso partorisce anche la nostra nuova identità, e se ne prende cura custodendola con immenso amore.

 

La divina maternità di Maria è un mistero che si può osservare da moltissime prospettive, ma c’è una dimensione speciale che le accomuna tutte o quasi tutte, e non è altro che il riflesso nella maternità di Maria di quel mirabile scambio che si è compiuto tra la nostra natura e quella divina nel figlio di Dio. In che senso? Come il Figlio di Dio ha assunto la natura umana per renderla partecipe della natura divina, così in questo misterioso scambio si apre per l’uomo anche un’altra possibilità, anche un altro scambio che potremmo quasi definire genealogico, cioè la sua mamma, la mamma di Gesù diventa anche la nostra mamma, e noi, i fratelli di Gesù membri della stessa sua umanità, diventiamo figli di Dio ma anche figli di Maria. Così Maria, Madre di Dio è anche Madre nostra e Madre della Chiesa. Cosa significa questo per noi? Significa sostanzialmente una cosa: che Maria continua verso di noi, che siamo il corpo mistico del Suo Figlio, quello che lei prima faceva nei confronti di Gesù. La maternità fisica di Maria del suo Figlio Gesù prosegue in modo spirituale in tutto il corpo mistico dello stesso Cristo che siamo noi.

 

In cosa consiste quest’opera nascosta ma reale di Maria nei confronti del corpo mistico del Suo Figlio? Non è facile da definire ma qualcosa possiamo dirlo. E per non andare troppo lontano possiamo limitarci al mistero del Natale del Signore in cui la solennità di oggi è contestualizzata. Qual è la prima cosa che Maria fa verso Gesù? La prima cosa che Maria fa in quanto Madre è l’essere accogliente: non ci stancheremo mai di leggere il brano dell’Annunciazione e di venerare il sì di Maria, il sì di Maria alla volontà di Dio. In questo sì di Maria a questa misteriosa nascita è già chiaramente racchiuso il suo sì ad essere Madre. Il primo atto che la rende Madre, e Madre anche nostra, è proprio questa sua apertura alla vita, questa sua accoglienza così libera, così consapevole, così amante, della chiamata di Dio che la rende una donna straordinaria, una donna capace di non rigettare nulla di ciò che le viene da Dio, di non allontanare nulla e nessuno di quanto il Signore le affida. Maria così è la Vergine accogliente, la Vergine che come disse sì all’angelo dice di sì anche a noi ogni volta che ci rivolgiamo a lei per compiere la volontà di Dio. Primo atto dunque della maternità divina e umana di Maria è questa sua accoglienza che attira a sé e lo sguardo di Dio e il nostro sguardo.

 

Il secondo atto, conseguente al primo, che rende Maria Madre di Dio e prepara la sua maternità anche verso di noi è il concepimento del Verbo Incarnato nel suo seno, la sua gestazione, e la sua nascita. Maria, in unione con lo Spirito Santo genera in sé il Figlio di Dio che viene nella carne, offre se stessa, la sua carne e il suo sangue, a questa misteriosa gravidanza. Lo concepisce e ce lo offre, lo offre a tutta l’umanità di tutti i tempi. Maria ci dona Gesù. È quel concepimento unico, straordinario, e irripetibile nella storia dell’umanità che ha inaugurato i tempi nuovi. Ma, anche qui, è unico e irripetibile fino a un certo punto, perché Maria continua anche dopo, anche ora, questa sua fecondità non più però nell’ordine naturale, come con Gesù, ma nell’ordine della grazia. Maria, in certo senso, continua a generare il suo Figlio in tutti coloro che formano il corpo mistico di Cristo Gesù, Maria continua a donarci Gesù. Non in modo autonomo, perché sappiamo che Maria rimane una donna, continua ad essere solo una creatura anche se già assunta in cielo e partecipe del trionfo glorioso del Suo Figlio; ma Maria esercita questa reale maternità grazie alla sua singolare cooperazione all’azione dello Spirito Santo. È lo Spirito Santo che ci innesta in Cristo e nel Suo mistero pasquale che ci rende figli di Dio, ma ogni volta che nasce un cristiano, ogni volta che un nuovo figlio di Dio viene alla luce nelle acque del Battesimo, Maria è là e lo adotta, lo prende come suo bambino. Per questo Maria è detta anche Madre della Chiesa. (cfr. CCC 2675. 2677)

 

Infine, terzo atto di Maria, Maria in quanto Madre custodisce. È questa è un attitudine tutta speciale di Maria perché Maria custodisce non solo fuori di sé, circondando di tutto il suo amore il Bambino che Dio le affidava, ma Maria custodisce anche dentro di sé, come è detto nel vangelo di oggi: “Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Tutto quanto ha a che fare con Gesù, parole, eventi, persone, tutto rientra tra le cose che Maria custodisce come preziosissime, le cose di cui si prende cura in modo speciale. Quanto più allora anche noi abbiamo a che fare con Gesù, tanto più facciamo parte anche delle “cose” che Maria custodisce nel suo cuore, entriamo nei suoi pensieri, diventiamo oggetto della sua custodia premurosa e della sua benevolenza materna. Maria che non dimenticava neanche una delle cose che si dicevano del Figlio suo, Maria che, laddove c’era il suo Figlio, c’era anche lei, come può dimenticarsi di noi che ormai siamo una cosa sola con Lui, carne della sua carne e sangue del suo sangue? Maria custodisce anche noi, Maria porta dentro di sé anche noi come suoi figli.

 

In tutto questo Maria è Madre che ci precede, che ci accompagna, che ci indica, con tutta la sua vita, naturale e soprannaturale, la via verso Gesù di cui è pura trasparenza. E insegna anche a noi ad essere come una madre, una Madre che accoglie, che è feconda proprio perché accogliente, e che custodisce il dono di Dio con l'amore speciale che solo una madre può avere. Davvero nulla Gesù ha tenuto per sé di quanto aveva, davvero ci ha dato tutto, persino la sua mamma che oggi vogliamo invocare, imitare e amare un po' di più.

 

 

 

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