venerdì
26
dicembre 2014
– Santo
Stefano
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La liturgia qualche volta è un po’, per così
dire, prepotente; prepotente perché non si adatta a nostri
sentimenti, non è lei a seguire noi e i nostri movimenti interiori,
i nostri gusti spirituali o le nostre devozioni, ma siamo noi che ci
lasciamo guidare, orientare, prendere per mano dal cammino dell’anno
liturgico, che qualche volta ci sorprende per le vie dove ci porta.
Una di queste sorprese è proprio il giorno di santo Stefano, che è
addirittura una festa, neanche una memoria, ma proprio una festa che
neanche l’Ottava di Natale, e in genere le ottave, di Pasqua e di
Natale, prevalgono su tutto, riesce ad annullare. Ecco oggi,
anzitutto, accogliamo questo contrasto forte, fortissimo, tra il
Natale del Signore che ancora stiamo celebrando per otto giorni, e
questa festa di santo Stefano che per quanto gloriosa è carica di
violenza. Ed è proprio una violenza che la liturgia non elimina, non
attenua e non nasconde. Abbiamo ascoltato le prima lettura, ma anche
il vangelo, e mi dico davvero, ma quanta violenza! “Tutti quelli che
sedevano nel sinedrio udendo le parole di Stefano, erano furibondi
in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano. … Gridando a
gran voce si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo
trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E poi ancora
il vangelo si conclude con una frase che compendia tutto senza
bisogno di aggiungere altro: sarete odiati da tutti a causa del mio
nome. Quasi, cari fratelli e sorelle, ci sentiamo presi in giro:
ieri gli angeli cantavano spensierati: Gloria a Dio nel più alto dei
cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà, come traduceva
Girolamo, e come noi abbiamo cantato poco fa nel gloria, e oggi ci
diciamo: ma dove sono andate a finire sia la gloria di Dio che la
pace sulla terra. Dove sono andate a finire?
In genere, nei vangeli, quando gli apostoli non
capivano qualcosa di ciò che il Signore diceva loro, era perché
rimanevano ad un livello immediato, diretto, terreno, della
comprensione delle sue parole. E allora Gesù li accompagnava nella
giusta comprensione. Forse se oggi noi non capiamo è perché abbiamo
bisogno anche noi di essere accompagnati verso la giusta
comprensione di cosa sia questa pace sulla terra. C’è un passaggio
interessante di san Massimo di Torino che dice: “Badate ciò che
dissero gli angeli! Non dissero “pace agli uomini”, cioè a
chicchessia, ma “agli uomini di buona volontà”, perché intendiamo
che la pace del Cristo non è un diritto naturale ma una conquista
morale. Infatti non la si acquista per nascita ma con la volontà,
non la merita l’umana malizia ma la cristiana bontà; poiché non è
regalata a tutti ma offerta ai degni, non è da distribuire gratis,
ma da cercare con diligenza.” (S. LXI c.)
Santo Stefano che muore fissando il cielo oggi è
per noi icona autentica di accoglienza di questa pace che Dio da
agli uomini, un uomo che è così non tanto per una forza sua, per una
capacità stoica di sopportazione del dolore, della maldicenza, degli
oltraggi, di tutto ciò, insomma, che minaccia la pace e ci sprona a
reagire, a vendicarci, ma perché Stefano ha il cuore pacificato, ha
il cuore abitato dalla pace di Cristo a tal punto da morire,
l’abbiamo visto, a morire come Lui, senza alcuna alterazione, se non
in direzione mistica mentre contemplava il cielo, della sua capacità
di amare e perdonare. Questa è stata la sua conquista morale, come
diceva san Massimo, questo è stato il suo essere degno, il fatto di
essersi lasciato conquistare dalla mansuetudine di Cristo che ha
conservato il suo cuore puro come quello di un bambino. Stefano fu
veramente un figlio di Dio. Pensiamo che scalpore avrà sicuramente
provocato la sua morte nella chiesa nascente, perché era il primo a
venire ucciso, era la prima volta che la fede in Gesù portava
qualcuno a morire, era, come dire, la morte che entrava per la prima
volta nella chiesa. Ma una morte vissuta così non è morte, è vita
che si rinnova per lui e intorno a lui; infatti, intorno a lui,
c’era un giovane chiamato Saulo.
Cari
amici, Gesù Bambino che ancora non abbiamo finito di cantare per la
sua venuta come Salvatore, è proprio così che salverà tutta
l’umanità: viene per donare la vita. “Non a caso l’iconografia
natalizia rappresentava talvolta il divino Neonato adagiato in un
piccolo sarcofago, ad indicare che il Redentore nasce per morire,
nasce per dare la vita in riscatto per tutti. (…) Per i credenti, il
giorno della morte, ed ancor più il giorno del martirio, non è la
fine di tutto, bensì il "transito" verso la vita immortale, è il
giorno della nascita definitiva, in latino dies natalis. Si
comprende allora il legame che esiste tra il "dies natalis"
di Cristo e il dies natalis di Santo Stefano. Se Gesù non
fosse nato sulla terra, gli uomini non avrebbero potuto nascere al
Cielo. Proprio perché Cristo è nato, noi possiamo "rinascere"!
(Benedetto XVI – Angelus 26/12/2006)
Ringraziamo allora quest’oggi il Signore che ci parla attraverso le
scelte liturgiche della Chiesa, attraverso questo accostamento così
stridente tra Natale e Santo Stefano, che ci aiuta a non rendere
troppo
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giovedì
25
dicembre 2014
–
Natale
del Signore - Messa del giorno -
fr. Giovanni Battista FMJ
La Messa del giorno del Natale che stiamo
celebrando è un po’ come il culmine di questa festa. Una volta
entrati pian piano nel Natale del Signore, prima attraverso la Messa
della notte con la quale abbiamo ricevuto il grande annuncio della
nascita del Salvatore, poi con la Messa dell’aurora stamattina alle
7:30 che ci ha messi in viaggio verso Betlemme insieme ai pastori,
adesso, nella Messa del giorno, la liturgia ci vuole far proprio
entrare nel mistero, penetrare nel mistero, vuole che tutti questi
eventi straordinari che abbiamo toccato con gli occhi del cuore e
cantato con le nostre labbra diventino per noi rivelazione, ossia un
togliere il velo, il giungere ad un incontro non solo con un evento
che ci è stato raccontato, ma in questo evento con il mistero di
Dio.
I testi che abbiamo ascoltato si mettono a
servizio di questa rivelazione, nel senso che ci vogliono fare
andare al di là dell’evento, non per superarlo o eliminarlo, ma per
non rimanere semplicemente in superficie, per poterlo guardare con
quell’intelligenza (intus-legere leggere dentro) che consente a
questo evento di entrare in noi. Qual è l’evento? L’evento che oggi
celebriamo è un bambino che nasce in una grotta, povero, privo quasi
di tutto, accolto, o piuttosto non accolto (non c'era posto per lui
nell'alloggio) e dunque costretto ad una sistemazione di emergenza,
improvvisata, la culla è una mangiatoia. Al suo fianco una giovane
donna che già abbiamo imparato a conoscere durante questo tempo di
Avvento, Maria; dall’altra parte un babbo volenteroso, silenzioso e
buono di nome Giuseppe. Questo è l’evento. Nulla di attraente, al
massimo ne ammiriamo la sobrietà, la povertà, lo spirito di
adattamento di questa giovane famiglia. Nulla di divino, diremmo,
anzi quasi quasi la scena ci commuove di compassione, ci mette
pietà.
Eppure proviamo a guardare questo evento con lo
sguardo che ci viene dalla Scrittura, dai testi che oggi abbiamo
ascoltato:“Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi
aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi
giorni, ha parlato a noi per mezzo del
Figlio. (…) Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della
sua sostanza.” Sentite che parole potenti! Questo bambino è
irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza, e
tutto sostiene con la sua parola potente.”E poi ancora
l’inesauribile ricchezza delle parole del prologo di san Giovanni:
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era
Dio. Noi oggi, cari fratelli sorelle e amici, ci troviamo davanti ad
una teofania, ad una manifestazione di Dio molto più eloquente di
quella del monte Sinai. Perché questo bambino è Dio! Questo bambino
è il Dio onnipotente ed eterno che ora si lascia vedere, si lascia
toccare, diventa evento umano.
Noi forse siamo o troppo abituati a sapere che
Gesù è Dio, oppure neanche ci pensiamo più, per cui non c’è rischio
di abitudine perché nemmeno ci si pensa (e quante volte il Natale
rischia di passare senza che ci si fermi un po’ a pensare al senso
di questa festa). Noi oggi vogliamo aprirci a quella meraviglia dei
pastori, allo stupore di Maria che ci fanno rendere conto un
pochettino che Dio si è fatto uomo, Dio ha voluto prendere parte,
partecipare in pieno alla nostra storia umana, così ricca di
potenzialità ma anche di contraddizioni. Ormai l’Eterno ha posto,
per sempre, la sua dimora in mezzo a noi. Questa è il primo lieto
messaggio che la Chiesa da secoli non cessa di annunziare con ogni
forma di linguaggio e in ogni cultura, fino ai confini della terra.
Questo bambino, quest’uomo nato in un angolo sperduto del tempo e
della storia è Dio. Dio è apparso tra gli uomini, e noi abbiamo
contemplato la sua gloria, ci ha detto san Giovanni. Che cosa
straordinaria, cari amici! Dio viene sulla terra! Sembra quasi una
cosa troppo bella per essere vera. Potremmo quasi dire che il dubbio
di fede se viene non viene perché siamo davanti a un assurdo, non
deriva dal fatto che può sembrarci fantascientifico pensare che Dio
possa vivere con gli uomini, queste obiezioni non bastano se
pensiamo che qui si parla di Dio e che Dio dunque può fare quel che
vuole perché nulla a Dio è impossibile, se no non sarebbe Dio. Io
direi quasi che se ci viene qualche dubbio può essere dovuto
semplicemente al fatto che ci troviamo davanti ad un evento troppo
bello, troppo straordinario per trovare posto nella nostra capacità
di gioire e di stupirci che spesso non va al di là di noi stessi e
della soddisfazione dei nostri desideri. Qui, cari amici, non si
tratta eventualmente di un problema di
fede ma di un problema di gioia. Abbiamo bisogno di un cuore che
sappia dilatarsi fino all’ampiezza delle cose di Dio, convertirsi
alla gioia di Dio, di un Dio che sceglie per amore, di vivere in
mezzo a noi e con noi.
Ma c’è un secondo annunzio, connesso a questo
primo, che si accompagna a questa rivelazione che oggi vogliamo
riscoprire o forse scoprire per la prima volta. E cioè che questo
evento divino che si manifesta a Nazareth, questo bambino che nasce
e che abbiamo visto essere non un bambino qualunque ma la presenza
di Dio stesso sulla terra e in forma umana, ha qualcosa da dirci.
Anzi, dobbiamo dire di più: non solo ha qualcosa da dirci ma è Lui
stesso Parola. Dio ora parla a noi attraverso il Figlio. Gesù
Bambino che nasce oggi è Parola rivolta all’umanità intera e, in
particolare, a ciascuno di noi. E cosa ci dice questa parola? Ci
dice: io nasco per te! Come un giorno morirò per te, così io oggi
nasco per te. Ma chiediamoci: cosa vuol dire che Gesù nasce per me?
Che cosa viene a me, che guadagno ne ho io da questa nascita? Ancora
san Giovanni ci risponde: “Venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno
accolto. A quanti però l’hanno accolto ha dato potere di diventare
figli di Dio.” Ancora, che parole potenti, straordinarie, cari
fratelli: oggi ci viene dato il potere di diventare figli di Dio.
Cioè colui che noi oggi contempliamo e adoriamo con cuore stupito e
ancora forse trepidante, ancora incredulo, come quando gli apostoli
videro per la prima volta il Risorto e il vangelo ci dice “per la
gioia così grande non riuscivano a credere” Lui non nasce per se
stesso, ma per trasformare anche noi, per grazia, in ciò che Lui è.
Anche noi oggi siamo chiamati, invitati, spronati fino a tal punto
da far venire Dio sulla terra per dircelo con tutta la sua vita
donata, a diventare figli di Dio. Che miracolo! Che prodigio! È per
questo allora che noi in questo Natale non solo celebriamo il Natale
di Gesù ma, in Lui celebriamo anche il nostro natale, la nostra
nascita come figli di Dio. A noi ci è stata data questa nuova vita,
che non distrugge la prima ma la divinizza: Dio si fa uomo, insegnavano
i Padri, per farci diventare Dio, in quello che veniva chiamato,
definito, il “mirabile scambio, il mirabile commercio”. E vedremo,
pian piano, da qui alla Pasqua, cosa vorrà dire per questo Gesù che
oggi nasce, si fa uomo per farci diventare Dio. Sarà un cammino che
stravolgerà totalmente tutte le nostre visioni e di Dio e dell’uomo
per rifonderle, riplasmarle secondo l’unico senso che può pensare di
comprenderle, di spiegarle e di manifestarle che è l’amore, perché
Dio è amore.
E infine vorrei concludere con una piccola
considerazione su come vivere il Natale. O più che una
considerazione, con una domanda che pongo a me e che invito ciascuno
di noi a porre a se stesso? Una specie di test che ciascuno può
proporre a se stesso: se oggi sono felice perché è Natale, perché
sono felice? Qual è il senso della mia felicità? Forse perché ho
preparato o mi preparo ad un bel pranzo? Forse perché ho ricevuto
oppure ho fatto ad altri dei bei regali? Forse perché rivedo amici,
famigliari e parenti che non vedo de tempo? Ebbene, cari amici,
gioiamo certo di tutte queste cose belle, e guai se non fosse così.
Ma vi prego, non permettiamo che l'ornamento valga più di ciò che
viene ornato; non permettiamo, in altre parole, che i festeggiamenti
prendano il posto della vera festa, della vera gioia che deve
abitare il nostro cuore. Cos'è la vera gioia? Chi è la vera gioia? È
Gesù la nostra vera gioia!
Allora carissimi, lo dico a voi come lo dico a
me, lasciamo che sia il Signore che viene tra noi ad essere la gioia
del nostro Natale e scopriremo che il Natale non avrà mai fine
perché colui che viene, ce lo ha promesso, sarà con noi tutti i
giorni fino alla fine del mondo.
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giovedì
25
dicembre 2014
–
Natale
del Signore - Messa dell’aurora -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Questo Messa che stiamo celebrando, cari fratelli
e sorelle è detta messa dell’aurora, certo per l’orario mattutino,
ma anche credo per un senso più profondo. Perché oggi è l’aurora di
un nuovo giorno! Nuovo non solo perché successivo, e dunque nuovo
rispetto a quello di ieri, ma nuovo in senso qualitativo, in senso
superiore. Oggi, nel presente della liturgia, il presente del
mistero, viviamo un giorno che è nuovo perché è illuminato da un
nuovo sole, come aveva profetato Zaccaria, l’abbiamo sentito ieri,
verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge. Oggi ci viene data
una nuova fonte di luce e di calore, e con un sole nuovo cambia
tutto, cambiano i colori, perché cambia la luce, cambia la nostra
capacità di vedere, di guardare e guardarci, cambia la temperatura
sulla terra, c’è una nuova percezione del calore, cambia dunque il
clima, le coltivazioni cioè il frutto della terra. Tutto oggi cambia
perché tutto dipende dal sole nuovo che appare all’orizzonte, da Dio
è sceso sulla terra per venire ad abitare con gli uomini, l’Emmanuele,
il Dio con noi.
Il vangelo di oggi, ma anche la seconda lettura
di Paolo a Tito, ci fanno capire attraverso tutto un linguaggio
fisico, un linguaggio che tocca i sensi, che davvero è entrato
qualcosa di nuovo, un nuovo sole sulla terra. Proviamo a
riascoltare, facendo particolare attenzione ai verbi, che sono verbi
di visione e di movimento: quando apparvero la bontà di Dio; egli ci
ha salvati con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo.
E nel Vangelo i pastori si dicevano l’un l’altro: Andiamo fino a
Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto
conoscere: andarono e trovarono e alla fine, dice il testo, i
pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello
che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Il Natale, cari
fratelli e sorelle, inaugura un nuovo tipo di relazione con Dio, una
relazione che assume i tratti dell’umano, Dio entrando nella storia
come nuovo Sole che sorge investe anche tutta la creazione, e in
particolare l’uomo che è l’apice della creazione, consegnandogli un
modo totalmente nuovo e sconosciuto prima d'ora di relazionarsi con
Lui. Perché dal Natale in poi l’uomo può relazionarsi con Dio come
con un altro uomo. Dio scende per porsi al nostro livello, per
dirci: io voglio che tu mi veda, che tu mi parli, che tu sia te
stesso, umano, umanissimo quando ti accosti a me, e per questo mi
sono fatto uomo come te, pur rimanendo Dio. Perché tu in me uomo
possa vedere Dio, perché tu in me possa vedere la bontà e l’amore
per gli uomini fatto carne, perché tu, tra i miei fratelli uomini,
possa ancora trovarmi e toccarmi.
Allora cari amici, in queste prime luci di un
giorno inedito che oggi sorge sulla nostra storia, riviviamo questo
evento, questo incontro col mistero fatto carne insieme a coloro che
per primi hanno visto questa luce nuova, che sono i pastori. Le
parole d’ordine per noi stamattina sono gli stessi verbi che hanno
messo in moto i pastori: andiamo, vediamo, troviamo. Gesù bambino
attrae tutti a sé, eppure sono gli umili, i piccoli che vegliavano
nella notte i primi ad accogliere questa chiamata, a sentirne i l
fascino, ad avvertire il desiderio di vedere ciò che già, tramite
l’angelo avevano conosciuto. Questo loro desiderio sia oggi il
nostro desiderio: vedere ciò che già conosciamo, andare fino a
Betlemme e vedere questo evento che il Signore ci ha fatto
conoscere. Davvero oggi non accontentiamoci di conoscere, di sapere,
di avere delle buone e sante immagini o idee in testa, ma chiediamo
quest’oggi, come per i pastori, la grazia di vedere, di incontrare
nel Natale del Signore quel Bambino che è la nostra salvezza e che
chiede di essere accolto come uno di noi e in ognuno di noi. Questa
è l'umiltà di Dio.
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mercoledì 17
dicembre 2014
– Feria di Avvento
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Il vangelo di oggi ci può sembrare un po’ noioso,
e forse nell’ascoltarlo effettivamente lo è. Abbiamo tutta questa
lunga serie di nomi, antenati di Gesù, un elenco che apparentemente
poco ci serve per la nostra vita, la nostra meditazione, per nutrire
il nostro rapporto con il Signore. Eppure se Matteo, come anche Luca
in una sua versione differente, ci offrono questa specie di albero
genealogico di Gesù, un motivo ben preciso ci sarà.
Una prima ragione è di carattere, potremmo dire,
biblico ma anche giuridico. Matteo infatti con questo testo che pone
all’inizio del suo vangelo vuole rendere ragione di un aspetto che,
se forse per noi potrebbe essere trascurabile, non lo era per lui e
per Israele. E cioè che veramente Gesù è figlio di Davide e figlio
di Abramo. Gesù si pone in perfetta continuità con tutta la storia
che lo precede: non è un fulmine a ciel sereno, non è un nuovo Dio
che scende sulla terra come se nulla prima fosse accaduto, come se
vane o inutili fossero state le promesse del Dio dei Padri, non è
l’inizio di una storia diversa rispetto a tutto quello che è
accaduto prima. No, Gesù è il figlio di Abramo, il nostro padre
nella fede, il primo chiamato, il padre di molti popoli; ed è anche
l’erede vero, autentico del trono di Davide sul quale erano state
depositate tutte le attese messianiche. Ricordiamo bene la profezia
di Natan a Davide: “Forse tu mi costruirai una casa perché io vi
abiti? (…) ma “il Signore ti annuncia che (lui) farà a te una casa
(nel senso di un casato, una discendenza)” (non tu a lui). Quando i
tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con tuoi padri, io
susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e
renderò stabile il suo regno” (2 Sam 7, 5.11-12). Vedete dunque come
la venuta di Gesù era preceduta da tutta questa storia in attesa, da
tutte queste promesse che giacevano nel cuore di Israele e che ora,
finalmente, trovano in Cristo tutto il suo compimento.
Tutto questo, cari fratelli, cambia il modo di
concepire la storia, di leggerla, di interpretarla. Perché a questo
punto capiamo bene che la storia passata, il tempo trascorso, non
avevano in se stessi il loro senso ultimo; gli eventi, le nascite, e
anche la comprensione che i profeti offrivano di tutto quanto era
significativo per il cammino di Israele, giaceva tutto sotto un velo
di incomprensione di mistero che solo con Gesù sarà tolto, sarà
appunto rivelato. Ecco qui una della finalità, dei perché Matteo
decide di aprire il suo vangelo con questa genealogia.
Ma possiamo dire di più, possiamo dire che, se la
storia non ha in sé il suo senso ultimo ma lo riceve da Gesù chiave
della storia, io posso muovermi nel tempo non solo con un movimento
dal prima al dopo, secondo l’andamento naturale e anche necessario
degli eventi, ma anche dal dopo al prima, cioè partire dall’evento
di Cristo che viene, che entra nel tempo, e da qui ripercorrere
tutto il passato, tutto quanto c’era prima, tornare indietro e fare
di tutto il passato, spesso nebuloso e ambiguo, una rivelazione
nuova. E questo cari amici è straordinario, perché qui noi abbiamo
un Salvatore che spezza, che infrange l’andamento dei tempi, che non
si lascia determinare dalla necessità progressiva dei giorni, dei
mesi, dei secoli che passano come se fossero loro a scrivere
definitivamente la storia e a decidere il futuro. No, il Cristo,
alfa e omega, che è sempre lo stesso ieri oggi e sempre è Signore
della storia. E questo vale anche per la nostra piccola storia
personale che il Signore vuole redimere, guarire, liberare dalla
definitività degli eventi. Se il tempo che passa può suscitare
rimpianti, angoscia, alimentare sensi di colpa, se non perfino
portare alla disperazione se davvero ci tiene intrappolati in quanto
ormai è successo e non si può più cambiare, se questo determinismo
cronologico può valere per noi, non può tuttavia avere alcun effetto
sul Signore della storia. Cristo, cari amici, quando lo lasciamo
entrare nella nostra vita così come è entrato nella storia di
Israele, può cambiare anche il nostro passato.
Se non in senso cronologico o materiale, può
cambiarne il senso, può cambiarne il peso per il nostro presente.
Ecco perché, per esempio, in ambito spirituale si parla di
purificazione della memoria. Purificazione della memoria non è
alterazione della memoria, non è ingannarsi credendo una cosa invece
che un’altra, ma è l’incontro di Gesù Signore con il nostro passato
che a questo punto viene consegnato, ora, nel presente, a questo Dio
onnipotente che va ad intervenire anche sulle conseguenze necessarie
di quanto è già accaduto. Purificare, a questo punto, significa,
inverare. E uno dei luoghi sacramentali privilegiati di questo
incontro, per esempio, è il sacramento della riconciliazione in cui
il passato viene consegnato a Gesù Crocifisso, e se è consegnato
allora non ci appartiene più come prima, non è più una storia
nostra, profana, individuale, ma diventa la sua storia, e per noi
diventa storia salvifica.
L’anno liturgico ci offre, per così dire, varie
finestre in cui il Cristo torna ad entrare, in modo speciale, nella
storia. Ecco, una di queste, è proprio il Natale. Si tratta proprio
di uno di quegli eventi nel nostro tempo carichi di mistero, carichi
di presenza, in cui la nostra dimensione, come dire, entra in
contatto con la dimensione dell’eterno, col Regno presente.
Davvero allora, lasciamo ancora una volta entrare
il Signore nella nostra vita, nel nostro passato, lasciamolo
lavorare sul nostro passato, lasciamolo, in certo senso, riscrivere
il nostro passato, e scopriremo la grandiosa libertà di chi si
scopre nelle mani del Signore più che nelle mani di quanto ormai è
accaduto e che qualche volta sembra dominare il nostro presente più
di quanto lo possa dominare Dio stesso.
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martedì
9 dicembre 2014
–
II settimana d'Avvento
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Questo brano si conclude con una delle frasi
credo più potenti del nuovo testamento, più potenti perché ci rivela
qualcosa del cuore di Dio. È Gesù che ci trasmette il pensiero, il
volere del Padre: il Dio onnipotente e creatore di tutto ha un
desiderio profondissimo ed urgentissimo nel suo cuore: che neanche
uno di questi piccoli si perda. Vedete, neanche uno! Il Padre non
segue una logica di quantità, non si preoccupa soltanto del gregge
nella sua globalità, ma il cuore del Padre è un cuore che desidera
ardentemente ogni membro del suo gregge, ciascuno è voluto, amato e
anche cercato personalmente. Davvero questo basta per farci perdere
nell’amore di Dio. Chiediamoci anzitutto se questo amore noi lo
abbiamo incontrato, se abbiamo cioè consapevolezza quotidiana nella
nostra vita che c’è un tale desiderio del Padre per noi.
Chiediamocelo sul serio. E chiediamoci anche che cosa fa ciascuno di
noi per entrare in questa relazione personale con il Signore, quanto
spazio concede a questo incontro con Lui nelle proprie giornate.
Questo è un primo punto su cui davvero vale la pena di riflettere un
po’ stasera. Questo amore di Dio capace con ciascuno di creare un
rapporto personale, un rapporto cioè che sa prendere in
considerazione la diversità di ciascuno, le differenze, l’unicità di
ciascuno di noi. Questo è amore, questa è l’onnipotenza di un Dio
che sa adattarsi a ciascuno di noi per rivolgere ogni volta a ognuno
dei suoi figli un tu diverso e speciale, irripetibile.
La seconda cosa che vorrei condividervi è la
condizione della pecora perduta che si è smarrita. Perché la pecora
si smarrisce? Chi lo sa. I Padri ricollegavano giustamente questo
smarrimento allo smarrimento di tutta l’umanità e allora il Figlio
di Dio lascia il seno del Padre (ecco l’incarnazione) e va a cercare
quell’unica pecora che è tutto il genere umano. È forse proprio
grazie a questa lettura dei Padri della Chiesa che questo passo
viene letto in avvento. Ma la pecora che si smarrisce, come abbiamo
visto, non è solo il genere umano nel suo insieme ma è,
potenzialmente ogni singolo uomo. E cosa vuol dire quando l’uomo si
perde e dunque lascia il gregge, che cosa provoca questo
smarrimento? E questo smarrimento non potrebbe essere anche una
fuga? La pecora che si perde di fatto si trova a lasciare sia il suo
contatto con il pastore che il contatto con le altre pecore. Non è
indifferente credo, cari amici, questa duplicità di relazioni perché
nel gregge della Chiesa, nel gregge della famiglia di Dio, i legami
non sono mai solo in verticale, io e il mio Dio, ma anche in
orizzontale, io e le altre pecore del gregge. La pecora che si perde
vuol dire che ha rotto uno di questi due legami e, rompendone uno,
di conseguenza anche l’altro viene a trovarsi in una condizione di
debolezza, di vulnerabilità. Ma la cosa più preoccupante è quando
capita che lo smarrimento della pecora accade per il fatto che la
pecora non riconosce più nel gregge (gregge + pastore) quel contesto
vitale in cui attingere il nutrimento, l’energia, la grazia, e
allora va a cercare altrove quello che lì non trova più, è alla
mercé delle tante forze attrattive e seducenti che sono lupi
travestiti da pecore e mercenari travestiti da pastori. Si pone una
domanda allora per ciascuno di noi, una domanda esigente e
responsabilizzante: che cosa facciamo noi, che siamo le pecore del
gregge (per quanto compete a noi, intendo) per rendere questo
pascolo del Signore un pascolo aperto a tutti?
Sappiamo essere un gregge accogliente, un
gregge che sa custodire i suoi membri nella loro tipicità e unicità
(come si diceva prima), un gregge che di conseguenza soffre se un
membro soffre così come gioisce se un membro è onorato? Questo lo
domando a me, innanzitutto e anche a voi, perché sono convinto che,
in una misura che non sta a noi determinare, anche il gregge sia
responsabile se una pecora si smarrisce. Non è solo colpa sua e
affare di Dio. Questa frase che Gesù ci ha detto: è volontà del
Padre vostro che è nei cieli che neanche uno di questi piccoli si
perda, non ce la dice solo per rassicurarci, per dirci, “stai
tranquillo c’è Qualcuno che veglia su di te” ma forse anche per
consegnarci questa volontà del Padre perché diventi anche nostra
volontà, nostro desiderio e dunque nostro impegno. Anche le altre
novantanove pecore hanno un ruolo specifico nell’aiutare il pastore
a custodire e anche a cercare la pecora smarrita. Crediamo che il
gregge non è mai un vero gregge finché non sarà completo, o finché
anche sarà diviso, separato. Abbiamo visto di recente quanto il Papa
e il Patriarca di Costantinopoli abbiano a cuore la ricostituzione
di quest’unico gregge, un’unità che accoglieremo come un dono del
Signore ma che chiede impegno, preparazione e anche sofferenza. I
due hanno proprio parlato di un ecumenismo della sofferenza. “come
il sangue dei martiri è stato seme di forza e di fertilità per la
Chiesa, così anche la condivisione delle sofferenze quotidiane può
essere uno strumento efficace di unità” (Dich. Congiunta del
30/11/2014) è naturale questo nella Chiesa perché, come dice san
Paolo: “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se
un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui (1 Cor
12,26). Chiediamo davvero questa sana inquietudine per il gregge del
Signore, perché sia un gregge che sa accogliere con affetto, che sa
custodire con gratitudine e amore nella sua singolarità chi vi
rimane, che sa attrarre e mostrare una vita buona a chi è smarrito.
Anche questo credo sia un preparare nel deserto (nel deserto
dell’umanità e talvolta anche nel deserto dei nostri greggi) la via
del Signore.
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martedì
9 dicembre 2014
– Commento ora media
- fr. Giovanni Battista FMJ
Se la liturgia insiste nel proporci passi della
Scrittura che narrano la nascita di un bambino tanto atteso, tanto
desiderato ma non possibile, almeno secondo le possibilità della
carne, credo che non sia solamente per una ragione di generi
letterari, così si abbinano generi simili dell’antico e del nuovo
testamento. Forse c’è qualcos’altro che ha spinto i liturgisti a
fare questo abbinamento, come un altro ce ne sarà tra pochi giorni
con il brano della nascita di Samuele. Un qualcos’altro che vuole
suggerirci qualcosa circa il modo giusto di avvicinarsi al Natale
del Signore e che possiamo tentare di esprimere nei termini di una
gioia particolare che è la gioia che si sperimenta quando viene al
mondo un bambino. Dico “tentare di esprimere” perché si tratta di
una gioia che solo chi è madre o padre sperimenta nel modo proprio,
simile ai protagonisti delle vicende narrate. Ma anche chi non lo è
o lo è in modo diverso può trarre uno speciale beneficio da questi
racconti. E mi riferisco in particolare a questo incontro
straordinario e anche folle, se ci pensiamo, tra la sterilità umana
e l’intervento di Dio. Dio interviene su un grembo sterile, Dio
dispiega il suo amore di Padre laddove c’è una spazio umanamente
indisponibile come lo è un grembo sterile. E la cosa non può davvero
non farci riflettere.
Anzitutto la dimensione della nascita. Ci
prepariamo ad una festa liturgica così bella come il Natale del
Signore meditando tutte quelle nascite che sono state il passaggio
di Dio nella vita di chi l’aveva implorato, di chi aveva atteso il
suo intervento. Eppure in realtà ogni nascita, anche la non attesa,
anche la non voluta, anche quella che qualcuno considera imperfetta,
anche quella volontariamente rigettata dalla debolezza umana, è un
passaggio di Dio, è un miracolo del Dio Creatore che si rallegra
dell’uomo come creatura molto buona e molto bella. E allora
accogliamo anzitutto un invito ad entrare in questo Natale con
questa disposizione, se vogliamo materna, che ci mette davanti
all’immenso mistero di un Dio fatto uomo, con gli stessi sentimenti,
semplici, famigliari, umanissimi, di chi si rallegra per un bambino.
Rimaniamo davvero in questi sentimenti, proviamo a ricevere così il
rinnovato annuncio dell’Incarnazione, con la gioia di una nuova
vita, che poi sarà la nostra nuova vita, che ci viene donata.
E in seconda battuta possiamo riflettere
sull’azione di Dio, azione folle, come dicevamo prima, che sembra
prediligere i terreni sterili piuttosto che quelli fecondi. È una
sorta di capovolgimento dei valori: Dio sceglie ciò che l’uomo
esclude, Dio sceglie, come nel caso della sterilità femminile nel
contesto ebraico (ma che valeva anche per la verginità), ciò che era
considerato quasi vergognoso. Dio sceglie ciò di cui l’uomo si
vergogna perché l’uomo non possa fare altro che vantarsi in Dio. E
anche questo è il miracolo del passaggio di Dio nei nostri deserti,
i deserti che neghiamo, che nascondiamo, quelle cose che riveliamo
solo a poche intime persone fidate, qui, proprio qui, il Signore
vuole lavorare la terra, deporre il suo seme e prendersi cura di
farlo crescere con immensa tenerezza. Natale è la festa della
debolezza. I grembi sterili diventano il nido della promessa perché
talvolta è solo laddove siamo sterili che ci lasciamo fecondare con
grande purezza.
Non abbandoniamo allora cari amici questo testo
senza lasciarci provocare, interrogare da esso: Cosa facciamo delle
nostre sterilità, ossia di quegli spazi in noi che magari ci
umiliano dicendoci: tu sei un fallito, tu sei uno che non vale
niente, vergognati? Le nascondiamo, le neghiamo, ce ne vergogniamo o
le offriamo a Dio, lasciamo arrivare anche lì l’amore e la fiducia
che Dio ha in noi? E soprattutto, dove noi andiamo a cercare la
nostra fecondità? Nella carne o nello spirito, nella fede o nelle
nostre capacità, nella realtà delle cose o solo nell’apparenza e
nella fama, nel “si dice”. Gesù vuole nascere. A noi, in noi, il
disporre la mangiatoia dove vogliamo che egli venga a dimorare e a
guarirci.
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giovedì
4
dicembre 2014
– Ia
settimana Avvento -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Riceviamo oggi dal Signore queste due immagini
che tante volte forse abbiamo contemplato, meditato, fatte nostre.
Quella della casa costruita sulla roccia, fondata sulla roccia, e
quella che si innalza sulla sabbia. E attraverso queste due immagini
Gesù ci vuole presentare due modi apparentemente simili, in realtà
radicalmente differenti, di vivere. Dico che sono due modi simili
perché in entrambi i casi si costruisce una casa; e possiamo dire
anche di più: esteriormente le due case potrebbero essere anche
identiche, perfette, se non anche più ricca e meglio progettata
l’una piuttosto che l’altra. Eppure, come abbiamo sentito, non sta
qui la vera differenza. Non sta in quello che si vede, in quello che
appare, il segreto della solidità della struttura, potremmo dire che
non sta nella casa stessa in quanto tale la forza che la tiene in
piedi quanto piuttosto in ciò a cui la casa si aggrappa, si
appoggia, si fonda, appunto.
Da queste considerazioni possiamo trarre qualche
spunto di riflessione: anzitutto una constatazione: la casa, da sé,
non sta in piedi; una casa non può auto-fondarsi, cioè non può
essere fondamento a se stessa, ma sempre, sia nel primo che nel
secondo caso, la casa dovrà chiedere a qualcos’altro di sostenerla.
E io credo che sia importante, importantissimo per ciascuno di noi
essere consapevoli di questa fragilità esistenziale strutturale che
ci caratterizza tutti, nessuno escluso. Tutti, cari fratelli e
sorelle, abbiamo bisogno di qualcosa che ci tenga in piedi, qualcosa
o qualcuno a cui appoggiarsi. Non c’è nessuno che possa dire: io sto
in piedi da me. Dire questo sarebbe ingenuità, sprovvedutezza prima
che orgoglio. Tutti abbiamo bisogno di un fondamento. È già una
conquista umana, oltre che spirituale, capire questo perché
finalmente ci si libera dall’ideale illusorio di essere dei piccoli
mondi autarchici che devono farcela a tutti i costi con le loro sole
forze. Del resto la vita di santità, non dimentichiamolo, è
compimento dell’umano, è pienezza dell’umano ma non è alienazione
dell’umano, non è disumanizzazione o abbandono dell'umano anche
qualora si trattasse di un ideale di uomo più rispondente a valori
utilitaristicamente più gratificanti, quali per esempio,
l’efficienza, l’inerranza, la perfezione, la fama, o anche a quegli
obbiettivi che si prefiggono pratiche come l’eugenetica, la
selezione degli embrioni, per esempio, perché non considerati forse
come veramente umani come lo vorremmo noi. Ringraziamo davvero il
Signore per come ci ha fatto, così come siamo, uomini e donne
chiamati alla pienezza di quello che sono.
C'è una seconda considerazione che possiamo fare:
se questo fondamento c’è per forza, quali saranno le sue
caratteristiche? Ce n’è una che è comune a tutti i tipi di
fondamento, perché fa parte della natura stessa dell’essere
fondamento che è quella, giustamente, dello stare sotto, dello stare
in basso, e dunque del non essere visibile. Ciascuno ha un
fondamento nascosto che solo lui può individuare, ed è per quello
che lo si può anche ignorare, perché sta sotto, sta dentro, e finché
noi si vive in superficie non si capirà mai qual è il nostro
fondamento.
Ora, da quanto abbiamo detto possiamo chiederci:
se ho un fondamento qual è questo fondamento? Non sempre è facile
capire che cos’è ciò a cui ci appoggiamo veramente, ma il brano di
oggi ci dice che nella vita arrivano delle situazioni che mettendo
alla prova la solidità della casa ne rivelano anche il fondamento:
cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si
abbatterono su quella casa. Diciamo che sono degli eventi che in
qualche modo possono ricollegarsi, hanno una parentela con quanto
Paolo, in modo misterioso, ci descrive in una sua lettera quando
dice: “Ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può
porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è
Gesù Cristo … e l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel
giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il
fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno”. Ci sono situazioni
nella vita che ci obbligano, se vogliamo sopravvivere ad esse, a
ritornare al nostro fondamento, e forse anche a scoprirlo. Se il
Signore permette che sperimentiamo un po' questo fuoco stiamone
sicuri che è per un bene superiore. E qual è questo bene? Il bene di
trovare il nostro fondamento, di scoprire a cosa ci aggrappiamo, ed
eventualmente anche di cambiare fondamento.
Quanto è importante, cari amici, imparare a
scavare in profondità, o piuttosto, a lasciarsi scavare in
profondità prima e durante la costruzione della casa. Vedete, il SigNore
ci ha offerto oggi questi 2 modelli di religiosità: quello che
ascolta e fa e quello che ascolta e non fa. Ma io credo che a questi
2 tipi potremmo aggiungerne un terzo: quelli che fanno senza
ascoltare; l'importante è fare, è costruire, poi se quello che
stanno costruendo sia veramente "la volontà del Padre " per loro,
questo è quasi secondario, forse non se lo chiedono nemmeno, perché
al centro c'è la loro casa, il loro progetto. Ecco, anche questi che
fanno senza ascoltare rischiano di trovarsi nella stessa situazione
di chi ascolta e non fa, di chi costruisce sulla sabbia. Noi oggi
vogliamo allora accogliere questo invito ad una vita e ad una
crescita cristiana completa come di chi costruisce sulla roccia. Né
ascolto né obbedienza possono mancare perché sono i due volti di una
medesima realtà che è il radicarsi della Parola di Dio in noi. Se la
lasciamo radicare in noi, se ci lasceremo scavare nel profondo,
tutta la nostra vita sarà questa casa che si innalza salda sulla
roccia e che le tempeste potranno scuotere ma mai sradicare.
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martedì
3
dicembre 2014
– Ia
settimana Avvento -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il nostro cammino di avvento, giorno dopo giorno,
ci introduce sempre più profondamente in questo tempo così ricco di
attesa e di speranza. Oggi accogliamo un vangelo che ci chiede non
solo di ascoltarne i contenuti, capirne il senso, ma che anzitutto
ci esorta ad accogliere un invito ad entrare, a prendere parte a
questa gioia di Gesù nello Spirito Santo, come abbiamo sentito. Se
noi riusciamo a divenire un pochino partecipi di questa esultanza
così particolare che Gesù sperimenta nel brano d'oggi, tutto il
resto, potremmo dire, verrà un po' da se stesso. La prima cosa è
dunque questo fare nostro lo stupore di Gesù che è sbalordito,
entusiasta del Padre suo che comunica, dialoga, sceglie i piccoli
per rivelarsi. Questo basta a Gesù per rallegrarsi e questa gioia di
Gesù credo proprio che sia la porta giusta per entrare in questo
vangelo. Perchè è solo quando noi partecipiamo di questo stupore di
Gesù per un Padre che si rivela ai piccoli, che anche in noi sboccia
il desiderio di metterci tra questi piccoli. Fino a quando anche noi
non faremo esperienza che proprio della nostra piccolezza il Signore
si rallegra, avremo sempre, da un lato vergogna di ciò che
caratterizza la nostra piccolezza, e, d'altro canto, smania,
bramosia di appartenere a tutti i costi a quei sapienti e dotti che
se, se sono tanto in vista nel mondo, rimangono però dei poveri di
Dio. Oggi allora anzitutto chiediamo come grande dono, grande grazia
di inizio Avvento, di entrare in questa gioia di Gesù, quella gioia
che penetra così profondamente nel cuore dell'uomo (perché è
esperienza dello Spirito) da guarirlo ed evangelizzarlo
profondamente, in altre parole, di convertirlo.
A questo punto però non dobbiamo perdere di vista
che questo testo la liturgia ce lo propone per il tempo di Avvento.
Allora chiediamoci: che cosa vorrà dire, a noi, che ci prepariamo al
Natale del Signore che sarà proprio questo grande rivivere la
nascita del nostro Salvatore? Parlare di nascita del Salvatore
significa parlare di rivelazione, che è proprio
una parola chiave del brano di oggi: hai nascosto queste cose ai
sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Oggi allora è come
se, proprio mentre stiamo muovendo i primi passi nel cammino
dell'avvento, il Signore ci desse un piccolo ma importante
avvertimento che potremmo tradurre, parafrasare in questi termini:
attenzione, solo chi è piccolo, solo i piccoli saranno i destinatari
del mio Natale, nel senso che solo chi è piccolo potrà vivere il
Natale come una rivelazione del Salvatore. I grandi, i sapienti, i
dotti vivranno sì il Natale ma non come una rivelazione: sarà un
giorno festivo, un tempo di vacanza, ma non una rivelazione, cioè un
incontro con colui che si rivela nella piccolezza e ai piccoli.
Infatti, come ben sappiamo, saranno proprio dei pastori i primi sui
quali risplenderà il volto radioso del Dio fatto uomo. Allora,
questo cammino di avvento sia un cammino non solo di attesa, ma
anche, nei modi che il Signore disporrà per ciascuno di noi, un
cammino di discesa in quella santa piccolezza, che in fondo si
radica nel nostro essere figli di Dio, che c'è in ciascuno di noi.
Una piccolezza che c'è già in noi, non va tanto creata, conquistata
e, men che meno simulata, ma va accolta e abitata, perché sarà
proprio lì che il Signore verrà a
visitarci. Anche a noi Gesù possa dire: Beati gli occhi che vedono
ciò che voi vedete.
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giovedì
27 novembre 2014
– XXXIV settimana T.O.
-
fr. Giovanni Battista FMJ
In questi ultimi giorni dell’anno liturgico la
nostra lettura continua del vangelo di Luca si sofferma abbastanza a
lungo su questi testi complessi, enigmatici, non facili da capire
anche se la storia poi già ha offerto eventi che in modo abbastanza
immediato ci consentono di capire a che cosa si riferissero parole
come quelle di oggi, per esempio quando si parla di Gerusalemme,
circondata da eserciti, Gerusalemme calpestata dai pagani.
Quella storica è una chiave di lettura che trova
effettivamente una conferma negli eventi dell’epoca, come si diceva
nei giorni scorsi, quando si faceva riferimento alla caduta di
Gerusalemme dell’anno 70. Ma il vangelo di oggi credo che si presti
ad un’interpretazione non solo di tipo storico, che rimane tuttavia
una chiave di lettura legittima almeno per una parte del brano di
stasera, una prospettiva di lettura che forse ha ancora molto da
dirci, se pensiamo, per esempio, a certe espressioni che rimangono
ancora un po’ degli interrogativi che probabilmente attendono,
domandano un compimento: Gerusalemme sarà calpestata dai pagani
finché i tempi dei pagani non siano compiuti. Cosa sono questi tempi
dei pagani? C’è chi li considera come il sinonimo della pazienza di
Dio, cioè, quel lungo e costante attendere di Dio, come il padre
misericordioso sulla porta di casa, che veglia nella speranza che il
figlio, l’umanità tutta, entri nella sua salvezza. Forse a qualcuno
verranno in mente, a questo proposito, le parole di Paolo quando
scrive ai cristiani di Roma: “L’ostinazione di una parte di Israele
è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti.
Allora tutto Israele sarà salvato…” (Rm 11,25s). Dicevamo dunque che
questa è una chiave di lettura legittima ma che non risolve del
tutto le cose.
Detto questo però io credo che il testo di
stasera voglia dirci anche qualcos’altro non solo inerente alla
storia ma anche qualcosa di tipo sapienziale e spirituale. Perché la
Gerusalemme che qui si descrive è la Gerusalemme su cui aveva pianto
Gesù. E perché aveva pianto? Proviamo a rileggere il testo del cap.
19: “Quando fu vicino, alla vista della città Gesù pianse su di essa
dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che
porta alla pace!”” E più in là il Signore conclude: “distruggeranno
te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su
pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata
visitata”. Ecco che a noi stasera è consegnata l’immagine, la
descrizione, di come diventa Gerusalemme quando non riconosce la
visita del Signore, la Gerusalemme cioè che uccide i profeti e resta
senza Dio. È una Gerusalemme che, non per punizione ma per effetto
naturale, conseguente, si espone alla rovina di se stessa, alla
distruzione. È una Gerusalemme che in qualche modo diventa una
Babilonia e ne subisce la medesima sorte come l’abbiamo sentito
nella prima lettura.
Vedete, è impressionante come, in qualche modo,
la sorte di Babilonia e la sorte di Gerusalemme così come ci vengono
presentate stasera nelle due letture, si potrebbero sovrapporre.
“Con questa violenza sarà distrutta Babilonia, la grande città, e
nessuno più la troverà. Il suono dei musicisti, dei suonatori di
cetra, di flauto e di tromba, non si udrà più in te; ogni artigiano
di qualsiasi mestiere non si troverà più in te; il rumore della
macina non si udrà più in te; la luce della lampada non brillerà più
in te; la voce dello sposo e della sposa non si udrà più in te.” La
città, ma anche l’uomo, la persona, che rifiuta la visita di Dio,
pian piano, non per punizione ma per conseguenza della propria
scelta di rifiuto di Dio, si espone a questa perdita della vita,
diventa una Babilonia, una città senza più vita, una citta che si
spegne, e una città che vive in uno stato di guerra, di conflitto.
“Povera quella strada – scriveva il vescovo san Macario – che non è
percorsa da alcuno e non è rallegrata da alcuna voce d’uomo! Essa
finisce per essere il ritrovo preferito di ogni genere di bestie.
Povera quell’anima in cui non cammina il Signore, che con la sua
voce ne allontani le bestie spirituali della malvagità. … Guai
all’anima priva di Cristo, l’unico che possa coltivarla
diligentemente perché produca i buoni frutti dello Spirito. Infatti
una volta abbandonata, sarà tutta invasa di spine e da rovi e,
invece di produrre frutti, finirà nel fuoco.”
Stasera allora cerchiamo di essere consapevoli
che questo vangelo che abbiamo ascoltato non ha solo qualcosa da
dire riguardo a Gerusalemme ma parla anche a noi, invita anche noi
ad accogliere la visita di Cristo nella nostra vita e a lasciarlo
davvero lavorare a 360 ° in tutta la nostra vita.
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Domenica
23
novembre 2014
– Cristo Re –
fr.
Giovanni Battista FMJ
Questo brano evangelico è un brano che forse ci
spaventa un po’, sicuramente è un testo molto suggestivo,
bellissimo, anche dal punto di vista letterario, ma soprattutto, ed
è qui che vorrei soffermarvi insieme a voi quest’oggi, è un testo
che porta in sé una quantità enorme di speranza. Perché questo testo
oggi ci fa un grande annuncio, ci consegna una stupenda rivelazione,
una di quelle rivelazioni che possono davvero cambiare davvero il
corso di un’esistenza come di fatto è accaduto per tanti santi che
si sono lasciati trascinare da questa Parola davvero vivendola fino
in fondo, alla lettera. La grande notizia che oggi risuona in tutta
la Chiesa è che abbiamo un Re. È un Re che ha un regno e questo
regno è l’unico regno che sussisterà per sempre, che nulla mai potrà
distruggere, un regno che né morte né vita, né angeli né principati,
né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né
alcun’altra creatura potrà mai intaccare, né scalfire, né
corrompere, né distruggere. Questa, cari amici, è davvero una bella
notizia, perché noi siamo chiamati ad entrare e vivere di questo
regno. Anzi noi già siamo stati trasferiti in questo regno che è
regno di giustizia, di amore ed è un regno eterno.
Ora, di questo re, che cosa possiamo dire
leggendo questo vangelo? Allora, una prima cosa che ci balza agli
occhi è l’universalità della sua giurisdizione. Davanti a lui
saranno radunati tutti i popoli. Non solo gli ebrei o i cristiani o
i cattolici ma tutte le genti di ogni tempo, di ogni luogo e di ogni
religione saranno radunate davanti a lui. È davvero un evento
totale, universale quello che qui viene descritto. C’è una regalità,
potremmo dire una Signoria di Cristo, come ne parla sempre Giacomo,
che si estende davvero su di tutti, nessuno escluso. Noi dobbiamo
essere consapevoli di questo cari amici, pienamente convinti che il
nostro Dio è il Re dell’universo, il capo e il Signore di tutto e
arriverà il giorno in cui di fronte a tale maestà tutti saremo
convocati. Questa è la prima cosa.
Ma andiamo un po’ più in profondità perché questo
re vediamo che è un re che non ha solo un titolo di onore, un titolo
simbolico, rappresentativo come accade oggi per alcune monarchie.
No, no, il Figlio dell’uomo è un re che effettivamente governa,
realmente domina, e questo dominio vien qui specificato nei termini
di giudizio e di separazione: davanti a lui verranno radunati tutti
i popoli e lui separerà gli uni dagli altri come fa il pastore con
le pecore e con le capre. All’inizio parlavo di un annuncio carico
di speranza e credo che sia proprio questo potere di giudizio del re
Gesù ad essere uno, come lo definiva papa Benedetto XVI, dei luoghi
di apprendimento e di esercizio della speranza. Perché se da un lato
il fatto che saremo giudicati ci può spaventare, ci può far tremare
anche perché, come dice il salmo, se consideri le colpe Signore,
Signore chi può sussistere (perché nessuno si sente pulito davanti a
lui), d’altro canto proviamo a pensare a che effetto liberante può
avere nella nostra vita sapere ed essere profondamente convinti del
fatto che c’è un re che davvero giudicherà tutti in un modo così
speciale e unico come nessuno di noi saprebbe farlo? Ebbene qui a
noi cari fratelli e sorelle ci si apre davanti la reale speranza e
la reale possibilità di amare; ma non parlo di un amore superficiale
e neanche di un amore ipocrita, quello cioè che camuffa un rancore o
un’invidia, e nemmeno amore come sentimento puramente epidermico od
emotivo. No, mi riferisco qui ad un amore vero, profondo, libero,
addirittura un amore ragionevole e volontario. Sapete perché? Perché
sapere che c’è un Dio che in modo efficace e secondo misericordia e
verità farà giustizia sulla terra, questa consapevolezza mi libera
finalmente dal dovermi fare giustizia da me stesso, mi libera dalle
strettezze di relazioni basate sul contraccambio, mi guarirà il
cuore dall’odio, dal desiderio di rivalsa, dal sospetto, dalla
paura. “Dio è giustizia – affermava papa Benedetto – e crea
giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma
nella sua giustizia è insieme anche grazia. (Spe salvi 44)” Pensate
un po’ che rovina sarebbe per tutto il genere umano se non ci fosse
un Dio che giudica, se spettasse all’uomo l’impossibile dovere di
espiare il male, di fronteggiare e risanare tutto il male che l’uomo
porta dentro di sé e sparge fuori di sé. Forse la terra sarebbe un
inferno perché l’uomo non può e non potrà mai fare ciò che Dio fa
quando giudica e cioè non solo il giudicare ma soprattutto il
giustificare, il potere divino (chi può rimettere i peccati se non
Dio solo?) di rendere giusti. “Io sono convinto – scrive sempre papa
Benedetto nella sua enciclica sulla speranza – che la questione
della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso
l’argomento più forte, in favore della vita eterna (§43)” Penso
proprio che se non ci fosse la prospettiva del giudizio noi saremmo
molto meno liberi nell’amare perché saremmo, come dire, sovrastati,
avvinghiati, impediti da tutti i legittimi e non legittimi ostacoli
all’amore. Davvero cari fratelli oggi il Signore è come se ci
dicesse con questo vangelo: fratello mio, sei libero di amare;
prendo su di me il peso, l’onere, la fatica e il dolore del
giudizio, del togliere il male, dell’usare le bilance, ma a te, a te
lascio solo il privilegio dell’amare (privilegio perché amare è il
modo che Dio ha di relazionarsi dentro e fuori di sé, è attività
divina prima che umana). Allora oggi davvero benediciamo il Cielo
per questo straordinario dono della libertà di amare. Non è da poco,
lo sapete anche voi; siamo coscienti di quanta fatica si faccia ad
amare qualcuno quando abbiamo l’impressione o la sensazione che sia
quasi ingiusto farlo. Oggi invece, proprio grazie al suo giudizio,
il Signore ci vuole liberare anche da questo peso opprimente.
E concludendo, coerentemente con quanto abbiamo
detto fino ad ora, possiamo fare un ultimissimo passo nella nostra
riflessione e chiederci. Abbiamo visto che il Signore si prende
l’onere del giudicare e a noi lascia il dono, il diritto, e a questo
punto anche il dovere, dell’amare; ma allora, chiediamoci, su che
cosa saremo giudicati? La risposta ormai vien da sé: se ci è dato il
diritto di amare saremo giudicati proprio sull’amore. E l’amore, lo
vedete dalle varie vicende enumerate nel testo, ritorna sempre a
Dio; l’amore, anche quando è solo amore umano, filantropico, anche
quando non lo sappiamo, appartiene a Dio, ritorna sempre a Dio. E
questo circolo dell’amore funziona perché questa dignità regale che
il Cristo possiede è, in certo senso, una dignità che lui non tiene
per sé ma la dà, la consegna a tutti coloro che soffrono, a tutti i
poveri, a tutti coloro che vivono oggi sulla terra il suo essere
crocifisso. Laddove c’è una crocifissione che, in vario modo, si
consuma, lì c’è ancora qualcosa della regalità di Cristo. È per
questo che allora il Figlio dell’uomo potrà dire, addirittura anche
a chi nemmeno si rendeva conto che stava facendo del bene a Cristo:
Tutto quel che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più
piccoli, l’avete fatto a me. “Il giudizio che il re farà di noi è lo
stesso che noi facciamo al povero” perché “ogni altro è sempre
Altro” (Silvano Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, EDB,
pag. 501). E c’è da notare che se i primi saranno accolti come i
“benedetti del Padre”, i secondi non sono detti nel testo “maledetti
dal Padre”, ma semplicemente chiamati “maledetti”. Capiamo che non
sarà il Padre a maledirli ma saranno loro stessi ad essersi
auto-maledetti con la loro indifferenza e ripiegamento su di sé.
Il nostro cammino allora sia veramente una
benedizione, per noi stessi e per tutti coloro che incontriamo, il
Cristo nascosto in ogni uomo.
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mercoledì
12
novembre 2014
– XXXII settimana T.O.
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Al vangelo che abbiamo ascoltato credo si possa
applicare in modo particolare quanto vale in generale per tutta la
Scrittura e cioè che qui noi non semplicemente riceviamo un
messaggio, un racconto, una buon parola, ma abbiamo proprio davanti
agli occhi Gesù che anche stasera passa di qui, entra nel villaggio
della nostra vita e succede qualcosa… Perché quando Gesù passa,
sempre succede qualcosa e noi questa sera davvero non vogliamo
perdere nulla di questo straordinaria visita del Signore. Proviamo
allora stare attenti, proviamo a vedere cosa succede proprio
guardando che cosa è successo a questi personaggi che oggi diventano
per noi degli amici e testimoni di questa visita del Signore anche
nella loro vita.
Anzitutto, prima cosa, vediamo che quando Gesù
passa entra nel villaggio, quando Gesù si avvicina all’uomo l’uomo
inizia a gridare. E questo non semplicemente, credo, per un bisogno
di farsi notare, per volersi mettere al centro dell’attenzione, ma
perché è Gesù che per primo invisibilmente intercetta nell’uomo ciò
che lo fa stare male, il desiderio inappagato, la sua insuperabile
solitudine, la sua lebbra che gli rende il suo corpo come morto e
morte anche le relazioni intorno a lui. E l’uomo che soffre questo
amore del Signore verso di lui già lo sente, non si sa come, ma lo
sente e inizia a gridare; e questo grido allora è già una risposta
dell’uomo ad una prima chiamata del Signore, perché è l’intima
speranza che c’è qualcuno che può davvero prendersi cura di questa
piaga corporea che è ormai già diventata anche piaga del cuore. Ed
ecco il grido: Gesù, maestro, abbi pietà di noi. Potremmo davvero
fermarci già qui, stasera, e non andare oltre perché già solo questo
grido dei lebbrosi è un insegnamento, una professione di fede.
Quanto abbiamo bisogno in continuazione anche noi, cari fratelli e
sorelle, di imparare a gridare di fronte al Signore. L’uomo che non
grida muore. Il nostro grido è già l’inizio della salvezza. Allora
veramente, anche quando sembra che Gesù non ci veda, gridiamo,
alziamo la voce davanti a lui, non abbiamo paura. Anzi, possiamo
dire di più. Se noi stasera siamo qui davanti al Signore che passa
ricordiamoci che siamo qui non solo a nome nostro ma anche a nome di
tutti coloro che non vogliono o non sanno gridare a lui. Quanta
gente, lo sappiamo cari amici, non ha nessuno a cui gridare la
propria sofferenza, e allora si tiene il suo male, il suo dolore, la
sua vergogna, si lascia divorare nella solitudine oppure si sfoga
aggiungendo male a male. Davvero noi adesso siamo qui per tutti gli
altri che non sanno gridare, vogliamo portare al Signore il grido di
chi non grida.
Come il Signore compie la guarigione? Potremmo
quasi dire che non sarà il Signore a guarirli ma la loro obbedienza:
o per essere più precisi, tutti è due insieme. Non solo l’intenzione
di Gesù, la sua Parola, ma la Parola accolta, la Parola vissuta, la
fiducia di Gesù che diventa fiducia dell’uomo. E questi allora vanno
dai sacerdoti. Guarigione compiuta e il brano poteva finire qui. Ma
invece c’è un ultima tappa di questa guarigione, perché la
guarigione non è ancora salvezza se non si evolve in una fase
successiva. C’è qualcuno che, quasi disobbedendo alla Parola del
maestro, vedendosi guarito torna indietro a ringraziare Gesù. E qui
noi vedremo che si compirà un miracolo ancora più grande della prima
guarigione. Perché quest’uomo, Samaritano, straniero, tra l’altro,
ha fatto un grandissimo salto di qualità. Quest’uomo ha capito che
la vera salvezza non stava solamente nella guarigione dal suo male,
la salvezza non era solo il superamento del suo bisogno e la
soddisfazione delle sue angosciose necessità per quanto legittime e
urgenti, ma più di ogni altra cosa stava nell’incontrare e conoscere
personalmente, ri-conoscere Colui che l’aveva guarito. Gli altri,
poverini, si terranno la salute ma non avranno la gioia di
sperimentare questo incontro personale e pieno di gratitudine che
invece vivrà quest’uomo che torna indietro.
Allora cari fratelli e sorelle, se stasera, come
auguro a tutti, il Signore passasse nella nostra vita, davvero
seguiamo l’esempio di questo lebbroso: torniamo indietro, torniamo
al Signore, andiamogli incontro e diciamogli con tutto il cuore il
nostro grazie, e allora scopriremo come la nostra lebbra, sì proprio
quella lebbra che ciascuno si porta dentro e che prima quasi
maledivano come la cosa peggiore della nostra vita, forse non la
vedremo più come quel male maledetto da cui finalmente, grazie a
Dio, ci siamo liberati, ma come quel male che miracolosamente,
chissà come, ci ha portati Gesù, ci ha fatto conoscere il Signore, e
allora anche a noi come al Samaritano, da un Gesù ancora più felice
di quanto lo siamo noi sentiremo le parole più belle della nostra
vita: Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato.
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Domenica 9 novembre 2014
– Dedicazione Basilica Lateranense - fr. Giovanni Battista FMJ
La festa
di oggi è una festa che non si spiegherebbe se non all’interno di
una particolare visione, quella autentica e cattolica, di fede e di
Chiesa. Che senso avrebbe infatti estendere a tutto il mondo la
commemorazione della consacrazione di una chiesa, di un edificio,
che è a Roma, e che per di più molti, moltissimi cristiani cattolici
forse neanche mai hanno visto o vedranno, mai visiteranno, una
chiesa che potrebbe rimanere per loro sconosciuta? Un conto
ricordare la dedicazione di una nostra chiesa, come abbiamo fatto
due settimane fa, una chiesa che noi frequentiamo, in cui preghiamo,
o se pensiamo ai borghi rurali di un tempo, una chiesa alla cui
costruzione aveva preso parte tutto il popolo. Qui capiamo meglio
perché celebrare ogni anno la dedicazione: sarebbe un ringraziare
Dio per la casa che ci offre per incontrarlo o che ci ha dato di
costruire. Ricordare il giorno in cui questo edificio è stato
riempito della presenza del Signore. Ma di una chiesa come la
basilica di S. Giovanni in Laterano che senso ha ricordarne la
dedicazione? Ebbene qui, cari fratelli e sorelle, attraverso la
festa di oggi noi riceviamo come un invito all’apertura,
all’universalità che è l’universalità della Chiesa cattolica. Perché
noi, lo sappiamo ma oggi ci viene ricordato, non siamo dei cristiani
privati, singoli, liberi professionisti, autonomi credenti in
Cristo. No, cari amici, noi siamo membra del corpo di Cristo, noi
siamo Chiesa e in quanto Chiesa professiamo non semplicemente la
nostra fede ma la fede della Chiesa di cui siamo parte. "la
struttura di comunione, scriveva il card. Ratzinger '77, fa parte
del cristianesimo. Il credente in quanto tale non è mai solo:
diventare credente significa uscire dall'isolamento per dirigersi
verso il Noi dei figli di Dio. (...) L'iniziazione nel cristianesimo
è perciò concretamente sempre anche socializzazione all'interno
della comunità dei credenti, è un diventare comunione che supera il
mero Io." (Ratzinger, Perché siamo ancora nella Chiesa, pag 17).
Ecco che il calendario liturgico, se quindici giorni fa ci invitava
a ricordare la consacrazione delle nostre chiese, oggi ci ricorda
attraverso questa celebrazione che le nostre chiese e soprattutto i
gruppi di credenti che le frequentano, non sono delle isole, non
sono delle sette, non sono una 'proprietà privata' appartenente a
loro stessi e con una fede e una morale singolarmente a loro
concesse, ma sono parte di un corpo più grande che è la Chiesa
tutta, rappresentata, simboleggiata e governata dal Vescovo di Roma
la cui Cattedra è proprio nella Basilica Lateranense. Si tratta
proprio di un invito all’apertura del cuore e della mente quello che
oggi noi riceviamo attraverso questa festa, un invito a superare i
nostri piccoli orizzonti, la mia fede o il mio modo di vivere la
fede, la mia chiesa, il mio gruppo, la mia comunità, per sentirci ed
essere effettivamente sempre più in comunione con tutto il popolo di
Dio stretto intorno agli apostoli e a Pietro.
Le letture
di oggi sono brani che ci offrono delle prospettive diverse, forse
complementari, per entrare nel senso di questa festa. Abbiamo la
profezia di Ezechiele, la sua visione, con questa immagine
meravigliosa delle acque pure, limpide, piene di vita che escono dal
tempio e si mescolano con le acque malsane del mondo. C’è il vangelo
di Giovanni che ci parla di questo deciso e forse anche sconvolgente
intervento di Gesù contro coloro che stravolgevano il senso del
tempio. E tra le due letture c’è san Paolo che ci ricorda che il
tempio siamo noi. Ma proviamo a concentrarci soprattutto sulla prima
lettura e sul vangelo. Perché qui noi vediamo che abbiamo due
movimenti opposti: nel vangelo c’è Gesù che entra nel tempio,
in Ezechiele c’è invece l’acqua che esce dal tempio. Nel
vangelo Gesù parla del tempio come della casa del Padre suo, in
altri passi paralleli lo definisce anche come casa di preghiera,
citando Isaia, casa di preghiera per tutti i popoli; cioè chi entra
nel tempio e si inserisce nel suo culto sacrificale si unisce al
Padre, è in comunione con Dio ed è un tempio potenzialmente aperto a
tutti; mentre in Ezechiele non sono gli uomini che vanno al tempio,
non sono gli uomini che vanno incontro al Padre, ma è questo flusso
continuo che sgorga dal tempio che va incontro a loro e porta la
vita, l’unione con Dio, tutti quei benefici di vita e di fecondità
che la benedizione di Dio sparge sugli uomini in comunione con lui.
Ecco qui noi abbiamo come sintetizzata tutta la nostra vocazione
unica e speciale di cristiani che Paolo racchiude nell’espressione:
voi siete tempio di Dio e abitazione dello Spirito. Tutto il nostro
cammino di fedeli cristiani è compreso tra questi due movimenti:
Gesù che entra nel tempio e lo sconvolge, lo purifica, lo riporta
alla sua vocazione originaria; e l’uscita come Papa Francesco ha
detto spesso, l’invio, il portare questa potenza vitale che abbiamo
ricevuto nelle acque malsane del mondo. È questa la grande duplicità
di ogni cammino cristiano da un lato volto a Dio e sempre pronto ad
accogliere la venuta di Cristo, talvolta sconvolgente perché
purificante (e la purificazione è sempre dolorosa, puro è ciò che è
passato attraverso il fuoco) e d’altro canto la gioia della
condivisione, del portare la vita, la Parola e addirittura
dell’essere associati alla missione di Cristo, a questo fiume
immenso della grazia di Dio che da due mila anni scorre nel mondo e
offre a tutti la salvezza di Gesù nel mare della morte. Se ci
pensiamo l’esperienza ecclesiale, di questi ultimi dieci anni è
stata proprio visibile e splendida unione di questo duplice
andamento. Un monaco benedettino caro alle nostre fraternità un
giorno, credo con grande saggezza e verità, riconobbe proprio che
Papa Francesco ci può oggi inviare verso le periferie perché prima
Papa Benedetto ci aveva spinto, inviati verso l’interiorità. Vedete
sono sempre questi i due movimenti che segnano la vita della Chiesa.
Forse è per questo che tra queste due letture Ezechiele e Giovanni
c’è Paolo che ci ricorda che il tempio di Dio siamo noi: il tempio
che accoglie Gesù e il tempio che dona l’acqua è la nostra vocazione
di cristiani di oggi. E tutti, cari amici, dobbiamo davvero sentirci
parte viva e vivace, ciascuno secondo la sua vocazione particolare,
di questa chiamata bellissima di tutta la Chiesa. Così ci esortava
il Vaticano II: "A tutti i cristiani è imposto il nobile impegno di
lavorare affinché il divino messaggio della salvezza sia conosciuto
e accettato da tutti gli uomini, su tutta la terra. (AA 4) C'è nella
Chiesa diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i
loro successori hanno avuto da Cristo l'ufficio di insegnare,
reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità. Ma anche i
laici, essendo partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e
regale di Cristo, all'interno della missione di tutto il popolo di
Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo. (AA 2)
Tutto questo sarà un vero servizio a Cristo, alla Chiesa e
all'umanità, se l'avremo vissuto non come battitori liberi sciolti
da ogni vincolo o riferimento ecclesiale, ma come dei fratelli umili
e fedeli che accolgono una chiamata del Signore e servono la vigna
del Signore prima che i propri ideali o propri progetti. Il rischio
infatti di fare della casa di Dio un luogo di mercato, di commercio,
di ricerca di un proprio guadagno è sempre attuale.
Che onore, che gioia, cari fratelli e sorelle, poter vivere non
semplicemente la nostra fede, la nostra vita cristiana, ma sentirci
davvero parte vivente e attiva della fede e della vita della Chiesa,
quel corpo di Cristo che attraverso di noi cammina per le vie del
mondo di oggi e continua ad offrire la promessa di una vita
superiore, di una vita piena e feconda, la vita che sgorga
dall’amore di un Dio ha dato se stesso per noi.
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venerdì
31 ottobre 2014
– XXX settimana T.O.
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fr. Giovanni Battista FMJ
Se il vangelo ci presenta una scena, la pura e
semplice descrizione, narrazione di una vicenda senza soffermarsi
sullo stato interiore delle persone che vi prendevano parte, la
prima lettura invece è tutta un traboccare di sentimenti. Come
abbiamo sentito Paolo lascia libero sfogo al suo cuore, dice davvero
in tutta verità ciò che provava per questa comunità di Filippi che
aveva fondato lui stesso. Ogni volta che mi ricordo di voi - dice
Paolo - rendo grazie al mio Dio; cioè il vostro ricordo, quando i
vostri volti o le vostre parole o i vostri gesti mi tornano alla
mente, quello per me diventa un’occasione di preghiera, di
rendimento di grazie. Voi per me siete fonte di gioia, perché ogni
volta che penso a voi il mio pensiero immediatamente viene subito
rigirato verso Dio. Sono davvero parole dolcissime e piene di
umanità queste di Paolo che ci fanno intravedere a quale spessore di
rapporti siamo chiamati anche noi. Davvero un rallegrarsi
dell’altro, essere felici dell’altro, una gioia che si basa sulla
consapevolezza che in ciascuno di noi è ormai iniziata un’opera
meravigliosa del Signore della quale vogliamo essere servitori,
ardentemente desiderosi che tale opera giunga a compimento. Questo è
il “volersi bene” evangelico, e tutto il testo della prima lettura è
un continuo susseguirsi di espressioni una più affettuosa dell’altra
che certo ciascuno di noi, immagino, vorrebbe sentire rivolte a sé,
ciascuno di noi vorrebbe davvero essere coinvolto in questo
abbraccio fraterno e paterno insieme. Paolo è un vero ministro di
Dio e dei fratelli, uno che gioisce della bellezza dell’altro, la
riconosce, non la nasconde, e soprattutto non fa del suo zelo per il
Signore una via “lecita”, per ignorare l’altro.
Ora, tenendo nel cuore questi sentimenti,
proviamo adesso a passare al vangelo. Anche qui ci sono dei ministri
di Dio che sono i farisei, ma come è diverso il loro stile da quello
di Paolo! Ecco, loro sono un esempio di religiosità vissuta come
dualismo, separazione, opposizione di Dio e dell’uomo. Da un lato
c’è il servizio di Dio, lo zelo per il Signore, l’osservanza precisa
e formale di tutto, anche se magari se ne perde il vero senso; e
dall’altro c’è il rapporto con gli altri, l’umanità, quasi come un
ambito meno sacro del primo, un ambito di serie B. Forse,
l’atteggiamento di Gesù sconvolge proprio perché supera questo
dualismo, perché ri-connette di nuovo Legge e amore, servizio a Dio
e servizio all’uomo, prostrarsi di fronte a Dio e mettersi ai piedi
del fratello per servire ancora Dio in lui. Gesù è il Figlio
incarnato che rende anche tutta la nostra religiosità una
incarnazione cioè un’unità di Dio e uomo, di ascesa e discesa.
Chiediamo davvero per noi e per tutti la grazia di questa
unificazione. Dio e uomo dopo Gesù e in Gesù non si oppongono più,
sono uniti, riconciliati. Tale nuova realtà di fatto toglie ogni
fondamento e ogni plausibilità a tutti quei fariseismi più o meno
manifesti che vorrebbero fare dell’apertura a Dio una via legittima
per chiudersi al fratello. E inoltre come Paolo, davvero non abbiamo
paura di essere affettuosi, di essere teneri, come dice tanto il
papa. L’uomo è meno uomo se non sa essere tenero e affettuoso, gli
manca qualcosa. Restiamo sempre vigilanti, cari fratelli e sorelle,
prudenti tenendo sempre fisso lo sguardo su Gesù per vedere come lui
viveva, e come lui faceva, lui il vero cristiano, e anche l’unico e
sommo ministro (sommo sacerdote) del Dio Altissimo.
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Domenica 26 ottobre 2014
– Dedicazione della Badia Fiorentina -
fr.
Giovanni Battista FMJ
In questo giorno in cui celebriamo la dedicazione di questa nostra
Badia Fiorentina la Provvidenza ha voluto che ci riunissimo qui
nella varietà delle nostre appartenenze alla famiglia di
Gerusalemme, monaci, laici, consacrati, membri delle fraternità
evangeliche o anche fedeli semplicemente venuti per la Messa o la
domenica con Dio, una giornata intera con il Signore, con Lui, nella
sua casa, accolti, ammaestrati e nutriti da Dio stesso e di Dio
stesso.
Oggi quasi tutte le pietre vive che edificano il tempio spirituale
della Badia sono presenti. È questo un segno bellissimo e credo
anche già molto parlante, rivelativo di qualcosa di profondo che
emerge ripetutamente nelle letture di oggi. San Paolo in particolare
lo dice apertamente: il tempio di Dio, cari fratelli e sorelle,
siete voi.
Oggi noi, ringraziando il Signore per questa dimora che ha offerto a
noi e a tante generazioni di monaci e di fedeli prima di noi,
guardando e contemplando la bellezza di questo edificio, non siamo
invitati semplicemente a rimanere a bocca aperta, ma a ritrovare il
senso di noi stessi in queste pietre e in queste colonne, il senso
cioè della nostra ecclesialità, del nostro appartenere alla Chiesa
ed essere Chiesa, tempio di Dio in cui dimora lo Spirito. Facciamo
parte anche noi cari amici di un grande edificio, di un grande
tempio che è il corpo del Signore, ciascuno per la sua parte, ma
avendo come pietra angolare, come fondamento il Cristo. È lui che
regge tutto, è lui che sostiene ogni cosa, è lui che trasforma
l’aggregarsi umano e talvolta faticoso e conflittuale delle persone,
in un tempio vivo della sua presenza unito dal cemento della carità.
E questa, cari fratelli e sorelle, non è solo un’immagine. San Paolo
non usa la metafora del tempio solo per colorare di simboli la sua
predicazione ma perché siamo davvero un tempio, siamo davvero un
corpo, come diceva sempre lui in un altro testo. Un corpo che ha
bisogno di stare unito per poter vivere, ma che ha bisogno anche
delle sue belle diversità per non essere un corpo menomato, un corpo
amputato, un corpo zoppo o un tempio pericolante e fatiscente. La
prima chiesa di cui vogliamo ricordare oggi la consacrazione, cari
fratelli e sorelle, siamo noi, è la nostra vita consacrata, grazie
al battesimo, dalla presenza di Dio, è il nostro essere una famiglia
in Cristo, unita e diversa in cui dimora la presenza dello Spirito
che ci tiene uniti al Signore Gesù. Tra l’altro, storicamente,
sappiamo che il nome dell’edificio chiesa viene proprio
dall’abbreviazione di domus ecclesiae, cioè la casa della
chiesa, l’abitazione dell’assemblea di Dio, la casa in cui si
riunisce il tempio di Dio che siamo noi. La chiesa come tempio di
pietra riceve il proprio nome dal grande tempio di pietre vive che
noi formiamo in Gesù.
San
Paolo, in questo senso, ci ammonisce con parole che risuonano come
un avvertimento che non possiamo mai dimenticare. Dice: “ciascuno
stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un
fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù
Cristo.” Cosa ricaviamo da un’esortazione tanto rassicurante quanto,
anche, temibile ed impegnativa? Anzitutto che questo tempio non è
terminato, non è concluso, non è un’opera finita ma è un’opera in
continua costruzione.
Il
tempio di Dio che siamo noi è un cantiere sempre sempre aperto, e un
cantiere è qualcosa in cui ciascuno è chiamato a dare il suo
contributo, è chiamato a lavorare. Ma qui il lavoro non è tanto un
prestazione da fare a qualcuno o da rendere a un padrone; direi che
prima di un fare si tratta di un essere o di un lasciarsi fare.
Prima che dare un contributo esteriore, materiale, visibile,
ciascuno è chiamato a dare se stesso, ad offrire, consegnare le
proprie membra all’opera dello Spirito che come un sapiente
artigiano lavora la pietra che ciascuno di noi è, pietra dura, non
facilissima da levigare, la taglia, la lucida, e la sistema dove lui
lo ritiene opportuno.
È
importante ricordarsi questo primato dell’opera dello Spirito in noi
e anche attraverso di noi, prima che mettere in evidenza ciò che noi
vogliamo o possiamo fare per la chiesa-comunità. Talvolta siamo
bravi ad intervenire sugli altri ma noi non ci lasciamo smuovere di
un millimetro. Questa disponibilità a lavorare e soprattutto a
lasciarsi lavorare dall’efficacissima mano dello Spirito è quanto
mai importante se vogliamo che sia il Signore il vero operaio capo
cantiere di quest’opera. Non siamo noi a costruire un tempio santo,
non ne saremmo neanche capaci senza fare disastri, ma è lo Spirito
Santo che lo costruisce in noi e attraverso di noi. Non sto
incitando all’inerzia o alla passività, mi sembra chiaro, non sto
dicendo “tranquilli, fa tutto lui, noi non dobbiamo fare nulla”, ma
credo importante tenere al centro di questa grande e monumentale
costruzione di Dio che tutti insieme formiamo, l’azione virile e
dolce, forte e soave dello Spirito che ci plasma.
Sapete
perché è indispensabile avere chiara questa visione? Perché quando
siamo noi a dire: dobbiamo fare, dobbiamo costruire, dobbiamo unire
e creare unità, quando è l’uomo, insomma che si mette al centro di
quest’opera, l’uomo non costruisce più il tempio di Dio, l’uomo non
crea più l’unità liberante che lascia respirare le diversità, ma o
queste diventano una varietà incoerente una giustapposta all’altra,
oppure vengono distrutte, soffocate, sacrificate per creare la
nostra unità, l’idea-ideale-ideologia (vedete, tutti termini che
hanno la stessa radice) di unità e così si fa male alle persone e il
tempio di Dio subisce come una profanazione, una ferita, una
distruzione.
La casa
di Dio, come violata, smarrisce la sua vocazione, diventa una
carcere, una prigione, una schiavitù. Gesù nel vangelo di oggi
vediamo come si ribella allo stravolgimento del senso e
dell’utilizzo del tempio di Gerusalemme, un luogo in cui ormai Dio
non era più al centro, un santuario dove il culto del Signore era
ormai diventato uno strumento del commercio umano, del guadagno di
qualcuno: non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato. E
Gesù trasformerà, rinnoverà radicalmente questo vecchio tempio e
culto nel nuovo tempio e culto non tanto facendo qualcosa di nuovo,
o regolamentando in modo nuovo la liturgia sacrificale o sinagogale,
ma dando se stesso, consegnando se stesso al Padre per amore. È
questo cari amici il nuovo culto, è Cristo il nuovo tempio, e noi
edificheremo profondamente ed efficacemente nella carità il nostro
tempio della Badia fiorentina, in tutte le sue piccole o grandi
diversità, come anche i nostri preziosissimi templi famigliari, le
piccole chiese domestiche in cui ciascuno vive, solo se saremo
disposti come Gesù, non anzitutto a fare questo, dire quello,
progettare quest’altro o a criticare, ma a consegnare noi stessi con
Gesù al Padre come un piccolo mattone, una piccola pietra che, con
umiltà e tanta carità, per amore di Dio e dei fratelli, si lascia
lavorare, si lascia gettare, sistemare, incastonare laddove il
Signore desidera.
Che
bello, cari fratelli e sorelle, poter prendere parte a questa grande
opera di Dio, che onore straordinario poter entrare con tutto noi
stessi in questo tempio vivo che è il corpo di Gesù, che continua a
vivere anche attraverso i nostri corpi! È così che edifichiamo
davvero la Chiesa, è così che il Cristo ci chiama non solo ad essere
nella chiesa, ma soprattutto ad essere chiesa, la sua
chiesa, la casa di preghiera per tutti i popoli, diversi ma uniti
dall’opera di Dio e dal cemento dell’amore che da Lui scaturisce.
Ma
consentitemi di proporvi un’ultima riflessione su questa frase che
ho citato di Paolo, quella in cui dice: “ciascuno stia attento a
come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso che
già vi si trova, che è Gesù Cristo.” Meditando, e anche un po’
approfondendo questo versetto, ho infatti capito che questo
fondamento che è Gesù non è solo una base, un punto di partenza, la
pietra che sta in basso come se poi non avesse più davvero una
relazione diretta, diciamo così, con le altre pietre che stanno più
in alto, quelle che vengono dopo. Io direi piuttosto che questo
fondamento che è Gesù è il punto di partenza, ma è anche il punto di
arrivo della costruzione del tempio, che è appunto il suo corpo, la
fonte e il culmine, l’inizio e la fine che attraversa tutto ciò che
c’è in mezzo.
Ciò
significa che c’è tutto un particolare orientamento di tutte le
membra di Cristo formano il suo tempio: tutte nascono da Gesù e
tutte tendono ancora a Gesù, a questo stesso fondamento: l’edificio
così viene su seguendo un modello, un orientamento cristologico,
guardando sempre a Gesù. E questa concezione, cari amici, dato che
stiamo celebrando la dedicazione di questa chiesa, è una concezione
che è stata in qualche modo ripresa all’inizio della cristianità e
espressa poi anche con criteri architettonici nell’edificazione
delle chiese appunto rivolte verso Oriente.
E
questo lo dico anche perché la nostra chiesa della Badia in origine,
prima cioè che dal 2 febbraio 1628 in poi (data di collocazione
della prima pietra della nuova chiesa) venisse girata nella
posizione attuale, era orientata verso oriente. Non era solo per
ragioni funzionali, perché così entrava più luce e ci si vedeva
meglio, ma era proprio espressione di questo orientamento di tutto
il popolo di Dio, pastore e fedeli, sacerdote e laici, tutti rivolti
verso il sole che sorge, Cristo, Colui che era che è che viene, il
Sole che sorge che viene a visitarci dall’alto, nell’attesa del
giorno senza tramonto. Tutti guardavano, celebravano, pregavano
insieme, rivolti verso Est.
Questa
tradizione che ora non è più così frequente ma che conserva tutto il
suo senso anche se talvolta viene svuotato e banalizzato quando per
esempio si dice che una volta “si pregava verso la parete”, ci
ricorda qualcosa di valido non solo dal punto di vista liturgico ma
anche di esistenziale e cioè che se Cristo è il fondamento e la
pienezza di questo tempio che tutti noi formiamo, Cristo è e rimarrà
sempre l’orientamento fondamentale, la direzionalità profonda, il
senso insostituibile del nostro vivere e relazionarci gli uni gli
altri all’interno di questo tempio che insieme formiamo.
Venire
da Cristo e andare verso Cristo significa vivere e guardare tutto e
tutti in Cristo, non c’è altro sguardo che possa dirsi autentico e
amante se non quello di Cristo su ogni realtà ed ogni persona.
Ancora di più ora, che nella liturgia abbiamo assunto la posizione
del dialogo, della relazione, il Cristo che nella persona del
sacerdote incontra il suo popolo, questa posizione dice che tra noi,
in mezzo a noi, tra l’io e il tu che formano il noi, c’è Cristo,
dimora Cristo, e dunque devo guardare a Cristo. Ormai come cristiano
non posso più dire pienamente né io né tu se tra questi due estremi
non vedo Gesù e non mi oriento profondamente verso di lui. Cristo
rimane la via più vera per andare verso gli altri, la direzione più
autentica e profonda del nostro essere chiesa.
Per
recuperare l’immagine di prima potremmo dire che nel tempio dobbiamo
continuare a guardare, a volgerci verso Oriente, verso il Sole che
sorge. È questa la prospettiva vera da cui guardare e in cui
guardarci se vogliamo vivere non solo come un aggregazione, una
società che ha degli scopi, dei progetti e degli ideali, ma come una
famiglia, che non sarà mai una vera famiglia se non sarà la famiglia
di Gesù, che dimora nella sua casa e si lascia animare, innamorare,
infiammare dal fuoco dello Spirito che fa nuove tutte le cose.
Che
dignità, cari amici, abbiamo ricevuto nell’essere chiamati a far
parte del corpo del Signore mediante il battesimo. Davvero che
questa dignità ci renda felici e grati di tutto quel lavoro, che
spesso rimane segreto e nascosto nelle anime, che lo Spirito
continua, come buon artigiano, in ciascuno di noi e nei nostri
fratelli.
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Domenica
12
ottobre 2014
–
XXVIII
Domenica
T.O. -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Anche questa domenica siamo invitati ad
inoltrarci in una parabola, in questo modo di parlare che spesso il
Signore usava con la gente, linguaggio un po’ misterioso ma di un
mistero che apre, che invita ad andare lontano, che spiega il senso
del reale e lo illumina alla luce del progetto di Dio.
C’è un grido che risuona con forza in tutto
questo testo, un grido che cari fratelli e sorelle, va oltre questa
parabola, va oltre il tempo di Gesù e dice a ciascuno di noi: vieni
alle nozze, vieni alle nozze! Il tuo Dio ti chiama, il tuo Dio ti
invita. La parabola ci mostra reazioni diverse a queste ripetute
chiamate del re: la prima reazione è la noncuranza e qui possiamo
ben immaginare di chi parlasse Gesù, a chi si riferisse: era il
popolo di Israele. È giusto che fosse Israele il primo ad essere
chiamato perché già Israele era stato chiamato, il popolo eletto, la
proprietà particolare del Signore.
Già Israele era unito a Dio, già era la sposa del
Signore come anche i profeti ci avevano detto. Ma oggi la sposa non
risponde: chi va al proprio campo, chi ai propri affari, nessuno
pare essere interessato a questa voce regale che risuona tramite i
servi: venite alla nozze! E qui, cari amici, si nasconde qualcosa di
davvero preoccupante che ci interpella tanto e che ha qualcosa da
dire anche al nuovo Israele che siamo noi, che è la Chiesa.
Soprattutto a chi, in qualche modo, si trova in
una situazione simile a quella di Israele, ossia chi già vive una
chiamata, chi già ha una sua storia con Dio, chi già conosce il Re e
già gode dei beni dell’alleanza. Tutte le ricchezze anche spirituali
che abbiamo, se non le conserviamo sempre orientate all’ascolto di
questa chiamata, di questa voce che ancora ci invita alle nozze, a
poco serviranno. Saranno forse un compiacere se stessi, un ricercare
se stessi, forse un venerare se stessi ma non un adorare Dio. Questo
grido del re “venite alle nozze” purtroppo ancora oggi è un grido
che talvolta risuona a vuoto, un grido che rimane inascoltato, un
grido che trova noncuranza e sordità.
Questa prima parte della parabola ci illumina
davvero su un rischio sempre presente nella vita di ogni cristiano,
come prima lo era per Israele, e cioè che questa accorata chiamata
che il Signore rivolge a ciascuno di noi, sarà per abitudine, forse
per pigrizia, forse per disillusione, forse perché già ne abbiamo
sentite tante, non riusciamo più a percepirla e a farla entrare nel
nostro cuore come una buona notizia, come la buona notizia
dell’unione con Dio, delle nozze eterne con il nostro Signore,
dell’ingresso nella sala di nozze della Chiesa come comunità di
chiamati e di redenti, della morte e risurrezione di Cristo in cui
anche noi risorgiamo. E allora, se la chiamata a questo matrimonio
non è più quella buona notizia che colpisce l’orecchio e infiamma i
cuori, se l’incontro personale e comunitario con il Signore non ci
attrae più, non è più il senso della nostra vita, ecco che anche noi
ce ne andremo chi al suo campo, chi ai suoi affari, che potrebbero
essere anche dei servizi ecclesiali, doveri familiari, impegni
legittimi di lavoro, perfino di annuncio del vangelo. Ma niente,
cari fratelli e sorelle, può prendere il posto di queste nozze con
il figlio del Re, Gesù, il più bello tra i figli dell’uomo. Se la
buona notizia non è più per noi una buona notizia chiediamoci allora
il perché: che cosa nella nostra vita, quali situazioni, quali
scelte, quali persone o quali convinzioni hanno in qualche modo
sovvertito la bellezza, o meglio la recezione da parte nostra della
bellezza di questa buona notizia che è il vangelo.
Ma continuiamo a leggere la parabola: il re non
si arrende. Il testo, (teniamo presente che è una parabola e che non
va presa alla lettera) ci parla della morte di questi primi
chiamati; come per dire: attenzione, questo è un modello di rapporto
con il Signore di questo tipo che è destinato ad usurarsi, a
consumarsi, ad estinguersi, non potrà avere lunga vita. Ma,
dicevamo, il re non si arrende, continua a chiamare, ancora manda i
suoi servi che gridano: venite alle nozze, venite alle nozze, tutto
è pronto.
E finalmente si trova effettivamente qualcuno che
risponde, che è affascinato da una tale proposta e sono proprio
quelli che non erano invitati, che non si aspettavano nulla, quelli
che non si meritavano di entrare nella reggia del re, addirittura il
testo dice sia buoni che cattivi. E questa, cari amici, è proprio la
logica di Dio, questo modo di fare è tipico dello stile di Dio che
coglie di sorpresa, che ama donare a chi non merita, che cerca un
cuore povero capace di dire sì. Davvero come dice il salmo 33: i
ricchi impoveriscono e hanno fame ma chi cerca il Signore non manca
di nulla. Questi poveri sono quelli per i quali il re che chiama
alle nozze rappresenta davvero una buona notizia, e noi quest’oggi
vogliamo metterci proprio in questo gruppo di buoni e di cattivi che
partono, che lasciano, che si attivano, che alla voce dello Sposo
mollano tutto ciò che hanno per entrare in questa comunione con Dio.
Il povero non è colui che non ha niente, non è colui che non ha
intelligenza o ricchezze, in questo caso spirituali, ma è colui che
da sempre il primato a questa unione piena con lo Sposo. Il mondo ha
bisogno di questi poveri, la Chiesa ha bisogno di questi poveri che
non fanno delle loro ricchezze anche spirituali, di fede, di morale,
delle loro qualità e capacità umane, un’alternativa a Dio, ma tutto
accettano di subordinare a questo incontro totalizzante. Ce lo
ricorda anche il nostro libro di vita quando dice: “Con la loro
vita, il monaco e la monaca ricordano al mondo il carattere
provvisorio della condizione presente e all’istituzione ecclesiale
che il loro unico sposo, al di là del culto, del legalismo e della
morale, rimane questa comunione totale e immediata con Dio.” “Per
questo la vocazione monastica è anche profetica.” (§63)
Forse dentro di noi nella nostra vita albergano
entrambi questi gruppi di chiamati, quelli che non rispondono e
quelli che rispondono; forse siamo abitati da questa ambigua
convivenza e talvolta prende il sopravvento l’uno o l’altro gruppo:
c’è il gruppo degli invitati indifferenti, sordi, impegnati forse
anche in ciò che effettivamente giova al bene della comunità e del
mondo o anche che da onore e prestigio alla propria vita religiosa
(anche questo può essere il campo o gli affari di cui parla la
parabola) e poi c’è il gruppo dei poveri, dei non invitati, quelli
che sono disponibili, che si lasciano sorprendere da un Signore che
li chiama, quelli che non fanno dei doni di Dio una propria
ricchezza che diventa alternativa a Dio stesso ma che sacrificano
anche l’Isacco, il dono di Dio, se il Signore chiama.
E vedete come Dio non si stanca di chiamare:
fallita la prima volta il Signore ancora continua, dopo un rifiuto
ancora ripartono i servi del re con il loro “venite alle nozze”: il
nostro rifiuto non lega le mani al Signore, non mette in gabbia lo
Spirito Santo, non lega la parola di Dio. Anche se nel nostro mondo
e talvolta anche dentro di noi c’è chi vuole uccidere, soffocare,
togliere il respiro a Dio che chiama o ai suoi servi, l’avanzata del
regno non si arresta, anzi la chiamata di Dio si allarga ancora di
più. Allora cari fratelli e sorelle, come dice il salmo diciamocelo
anche noi: non siamo come il cavallo e come il mulo privi di
intelligenza.
Davvero apriamo il cuore e la mente a questa
povertà liberante che ci fa esultare alla voce dello Sposo che ci
chiama. Chiediamoci sul serio se siamo felici della nostra vita
cristiana, matrimoniale, religiosa, monastica, sacerdotale,
chiediamoci se la nostra vocazione battesimale, di qualsiasi genere
sia, è ancora per noi una buona notizia, e qualora non fosse più
così, o lo fosse meno di un tempo, abbiamo davvero il coraggio di
andare a fondo per vedere che cosa ci manca, qual è il problema,
cosa mette a freno la nostra gioia. Forse allora potremo anche noi
gioire della nostra povertà come fa un Paolo liberato dall’incontro
con Gesù: so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza,
ormai mi va bene tutto, nulla più è di ostacolo alla mia gioia, alla
mia vita, al mio desiderio profondo, perché tutto io posso in colui
che è la mia forza. Trovato l’Essenziale, e messo al centro della
mia vita, nulla più mi può più colpire o rattristare veramente. È
questa, cari fratelli e sorelle, la libertà del vangelo.
Infine vorrei soffermarmi giusto un secondo su un
ultimo aspetto di questa parabola che è la questione dell’abito
nuziale. Che cosa rappresenta quest’abito? Nei miei approfondimenti
ho trovato varie possibilità: c’è chi dice che sono le opere buone
con cui ci disponiamo ad andare incontro, ad accogliere la salvezza
che viene da Cristo; c’è chi dice che è l’amore, la carità; c’è chi
dice, e io mi metterei in quest’ultimo gruppo, che l’abito nuziale è
la dignità di figli di Dio, è il rivestirsi di Cristo (l’abito,
nella Scrittura, rappresenta la dignità della persona): come lo
Sposo Gesù si è rivestito della nostra carne umana, così noi siamo
invitati a rivestirci della veste dei figli di Dio.
Ma non è su questo che voglio fermarmi ma su un
particolare che mi sembra degno di nota e cioè sull’attività dei
servi del re, che sono coloro che proclamano, che diffondono la
buona notizia, che invitano tutti: Ecco vogliamo cogliere un
particolare della loro opera ossia che non sono loro a fare la
selezione a chi rivolgere l’invito, i servi semplicemente
obbediscono al re, fanno quanto il re chiede. Prima cosa. E inoltre,
seconda cosa, non sono loro che scorgono, che distinguono tra la
folla chi ha l’abito nuziale che lo rende degno di partecipare alle
nozze, e chi non lo ha. Loro solamente chiamano, invitano, anche
mettendo a rischio la propria vita, vanno per i crocicchi delle
strade e invitano tutti senza paura, in obbedienza al re.
Ebbene cari amici, non c’è miglior descrizione
del nostro quotidiano vivere nel mondo come cristiani missionari,
servi del re, cioè gente già conquistata, innamorata dello sposo,
che va, che chiama, che invita, che rivolge a chiunque incontra
nella città l’invito, vieni alle nozze! Questi servi missionari
vivono la loro opera al ritmo del cuore di Dio, un ritmo che, come
abbiamo visto, non si arrende mai, non si scoraggia mai di fronte al
rifiuto, perché Dio è innamorato di tutti gli uomini e non si stanca
di inviarci: vai da quello, vai da quell’altro. Anche i servi, anche
noi tutti qui presenti siamo allora invitati a divenire, da chiamati
alle nozze a chiamanti alle nozze, cioè a fare nostro questo battito
del cuore di Dio per tutti gli uomini che grida ancora oggi a tutti,
nessuno escluso, anche attraverso la nostra umile testimonianza:
venite alle nozze!
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Domenica
7 settembre 2014
– XXIII domenica T.O.
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Le letture di questa domenica sono consacrate al
tema della comunità, della riconciliazione. Oggi il vangelo ci offre
lo sguardo di Gesù su questa realtà vitale con cui tutti noi abbiamo
a che fare che è la comunità ecclesiale sguardo che possiamo e
dobbiamo estendere più in generale ad ogni forma di relazione. È
interessante soffermarsi per cercare di capire come Gesù vede
l’uomo, e lo vede come è in realtà cioè come un essere comunitario,
un essere sociale, un membro di un corpo più grande senza il quale
non può svilupparsi e vivere con pienezza. Ancor più in una
prospettiva ecclesiale questo corpo non è più semplicemente un corpo
sociale ma è un corpo divino e umano, è il corpo del Signore. “Ora
voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.”
dice Paolo (1 Cor 12,27) Questo sguardo di Gesù sull’uomo allora è
uno sguardo che ci impedisce di comprenderci e di considerarci come
esseri solitari, individuali, monadi auto sufficienti. Se facciamo
così avremo sempre una visione riduttiva di noi stessi e delle
nostre relazioni, una visione che ci farebbe perdere non solo la
dimensione comunitaria ma anche qualcosa di essenziale del nostro
stesso essere che è la relazionalità. Abbiamo bisogno degli altri,
abbiamo bisogno della comunità, abbiamo bisogno della famiglia,
abbiamo bisogno della Chiesa. Ecco perché Gesù ma anche le altre
letture che abbiamo proclamato insistono così tanto sul custodire
sia il singolo fratello sia tutta la comunità in un legame di unità.
Non principalmente per una ragione strutturale o morale, giuridica o
disciplinare ma perché l’uomo da solo non regge, l’uomo separato
dagli altri perde se stesso, non comprende più se stesso. La
comunione fraterna, la solidarietà umana non sono solamente delle
realtà che si giocano all’esterno dell’uomo, come se non avessero
influsso sul suo essere intimo e personale. No, noi viviamo giorno
dopo giorno grazie a questa comunione, noi viviamo delle relazioni,
noi viviamo anche grazie alle persone che ci stanno accanto. “La
vita è un cammino – ha detto il Papa – un cammino lungo, ma un
cammino che non si può percorrere da soli. Bisogna camminare con i
fratelli alla presenza di Dio”
Il vangelo di oggi è preceduto e potremmo anche
dire collegato, introdotto dalla parabola della pecora smarrita che
si stacca dal gregge e va per la sua strada e così si perde, perde
se stessa. Non semplicemente percorre una via diversa rispetto alle
altre ma entra proprio in una situazione di smarrimento, non sa dove
va, diventa una pecora perduta. Da qui scatta la sollecitudine del
pastore che va alla ricerca della pecora, immagine del desiderio e
dell’azione del Padre celeste che non vuole che si perda neanche uno
solo di questi piccoli. E da queste parole si passa al brano di oggi
che ci offre una prassi molto precisa, a tappe graduali e sempre più
coinvolgenti per la comunità nell’andare incontro, nel farsi
prossimo del fratello ferito dalla propria colpa. È evidente il
legame tra questi due brani: ciascuno di noi è chiamato ad incarnare
questa sollecitudine del Padre nel farsi incontro, nell’andare a
cercare il fratello smarrito. Se ci pensiamo bene, cari fratelli e
sorelle, che grande chiamata oggi riceviamo, che grande fiducia il
Padre ci dona per renderci strumenti vivi del suo amore
misericordioso che va alla ricerca non del più bravo e del più
santo, ma del più bisognoso. E questo non dobbiamo dimenticarlo mai!
Perché se lo dimentichiamo rischiamo di fallire già in partenza
l’opera di riconciliazione. Il Padre non ci manda a sradicare la
zizzania nel mondo, il Padre non ci invita a puntare il dito in
continuazione o a cercare instancabilmente motivi per esortare gli
altri a ravvedersi. No! Il Padre ci manda nel mondo, e anzitutto nel
nostro piccolo mondo che è la nostra casa, i nostri famigliari, i
nostri fratelli e coloro con i quali viviamo e lavoriamo, come
strumenti di comunione, artigiani di pace e di riconciliazione, come
strumenti di unità e di carità. È una vera e propria vocazione
quella che abbiamo ricevuto. Potremmo dire che l’altro per me è una
vocazione cioè una chiamata. Siamo spesso abituati a comprendere la
nostra vocazione solo in rapporto a Dio, e questo va bene. Ma non
possiamo trascurare la chiamata che il fratello, che l’altro, in
certo modo, rappresenta per me e per tutta la comunità. Il fratello
e soprattutto il fratello in difficoltà, il fratello ferito dal male
volontario o involontario, voluto o non voluto, colpevole o non
colpevole, è una chiamata che come tale (come accade anche per la
vocazione) possiamo ascoltare o ignorare. La prassi precisa che il
vangelo di oggi ci consegna traduce l’urgenza di impegnarsi per fare
di tutto per evitare che questa chiamata rimanga inascoltata, per
evitare che il fratello rimanga solo nella sua difficoltà, solo
nella sua colpa, fare di tutto per evitare che le persone con cui
abbiamo a che fare si chiudano in se stesse o, ancor peggio, trovino
una comunità avversa o nemica che esclude il debole. E qui arriva il
bello del vangelo di oggi, perché la comunità accogliente, la
comunità che sa gestire con carità, con tatto, con delicatezza anche
le situazioni in cui si tocca con mano la fragilità dei suoi membri
è una comunità che può vivere questa missione di riconciliazione ad
una sola condizione: se essa stessa è una comunità riconciliata, non
nel senso che si va tutti d’accordo e non ci sono conflitti, ma nel
senso di una comunità che conosce, che ha fatto davvero esperienza
dell’amore e della misericordia del Padre; solo così potrà agire
come lui senza essere un giustiziere spietato. “E’ un dato
dell’esperienza che la correzione fraterna è facile ed efficace
quando esiste un clima famigliare di amore, perché il fratello
corretto si sente amato personalmente; ma è molto difficile, per non
dire impossibile, quando la comunione fraterna manca. Perciò
dobbiamo impegnarci con tenacia a creare un ambiente cordiale,
caldo, pieno di fiducia, tollerante e comprensivo nei nostri gruppi
e comunità cristiane.” (Basilio Caballero, la Parola per ogni
domenica, pag 267) L’allontanamento del membro malato di cui parla
il vangelo è un fallimento per la comunità e in quanto tale dev’essere
considerato come una prassi medicinale, temporanea (le famose
scomuniche, che ancora esistono, sono proprio questo, sono pene
medicinali, strumenti di cura per richiamare alla comunione). Perché
laddove non c’è comunione, cari fratelli e sorelle, non abbiamo
paura di dirlo, c’è la morte: se muore la relazione con un fratello
in fondo muore anche una parte di noi stessi, muore una parte della
comunità non solo quantitativamente (perché ce n’è uno di meno) ma
essenzialmente, nella sua essenza di comunità di amore, è il deserto
che ci entra nel cuore. Ma laddove i fratelli vivono insieme, cioè
con il cuore unito, là il Signore dona la benedizione e la vita per
sempre, come dice il salmo.
Il fatto è, e con questo concludo, che siamo
tutti, almeno un pochino, delle pecore perdute e continuamente
cercate, amate, desiderate e ritrovate dal Padre per essere unte con
il balsamo della sua misericordia. Dunque pecore in conversione,
pecore che continuamente cercano di prendere la strada buona, la via
della pace, il cammino verso l’unità del gregge e la comunione con
il Padre. Insomma, l’invito alla comunione è inscindibile
dall’invito alla conversione come ci ha ricordato recentemente il
nostro papa Francesco: “Il dono divino della riconciliazione,
dell’unità e della pace è inseparabilmente legato alla grazia della
conversione: si tratta di una trasformazione del cuore che può
cambiare il corso della nostra vita e della nostra storia.” (Papa in
Corea 18 agosto 2014). Sia questa la strada che anche noi oggi
scegliamo o riscegliamo: guardare, accogliere, cercare il fratello
come lo guarda, lo accoglie, lo cerca Gesù.
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Domenica 27 luglio 2014
- XVII Domenica Tempo Ordinario -
diac. Mario Gazzeri
(1Re 3,5.7-12
Sal 118 Rm 8,28-30 Mt 13,44-52)
Nella prima lettura abbiamo
ascoltato che Salomone viene guardato dal Signore con occhi di
particolare attenzione perché si riconosce incapace di svolgere con
le sue sole forze il compito a cui era stato chiamato e invoca da
Dio il dono di poter governare con cuore docile, capace di rendere
giustizia. E il Signore rivolge su di lui il suo sguardo compiaciuto
e gli concede il dono della saggezza.
Dio voglia che anche per noi
avvenga lo stesso: che anche su di noi il Signore volga il suo
sguardo compiaciuto, perché ci sentiamo bisognosi di tutto, incapaci
di affrontare le sfide della vita lontani dal suo sguardo, lontani
dalla sua volontà, lontani dal suo regno. Voglia il Signore donarci
quella sapienza che ci rende capaci di poter accogliere e
comprendere la sua Parola di vita.
Il Vangelo di Matteo insiste
ancora oggi sul regno di Dio, narrando quegli insegnamenti che
insistentemente Gesù impartiva ai suoi discepoli, perché
comprendessero quanto la realtà del regno era in effetti vicina alla
loro vita.
Certo nelle aspettative degli
apostoli, quel regno era probabilmente tutt’altra cosa, un sogno di
grandezza, di potere, di prestigio, di rivalsa su tutti coloro che
li avevano oppressi fino a quel momento. E invece quel regno
annunciato da Gesù per mezzo di parabole è davvero altro, presentato
con esempi semplici, banali, che scaturiscono da una sapiente
attenzione ai fatti della vita quotidiana.
Questa presentazione del Regno di
Dio occupa l’intero capitolo 13 del Vangelo di Matteo, che contiene
il cosiddetto racconto delle parabole. Il brano di oggi termina
questo discorso che era stato introdotto due domeniche fa dalla
parabola del seminatore che definisce l’annuncio della Parola di Dio
come Parola che parla direttamente del Regno di Dio.
Il brano evangelico della scorsa
settimana e quello odierno costituiscono in effetti una sola unità
in cui le due pericopi si completano e si illustrano a vicenda:
tutto è per così dire racchiuso fra le due parabole del grano e
della zizzania da un lato e quella dei pesci buoni e dei pesci
cattivi dall’altro.
All’interno di questa cornice il
Signore pronuncia due coppie di brevissime parabole, in cui il Regno
viene paragonato al chicco di senape e al lievito in un caso e a un
tesoro nascosto e ad una perla preziosa nell’altro. Il brano della
settimana scorsa si concludeva con una esortazione: Chi ha
orecchi, ascolti! Il brano odierno si conclude invece con una
domanda: Avete compreso tutte queste cose?
Se il brano della settimana
scorsa metteva l’accento sul nascondimento con cui il Regno di Dio
si manifesta, quello di oggi parla invece della sua preziosità: una
volta scoperto, il Regno viene trovato così prezioso da coloro che
lo hanno rinvenuto, da meritare di investire tutto ciò che
possedevano pur di poterlo avere per sé.
Poco importa il modo in cui
questi tesori vengono rinvenuti, poco importa se l’agricoltore che
lavora il campo si trova davanti il tesoro in modo inatteso e poco
importa se la perla preziosa viene trovata perché oggetto di ricerca
accurata da parte di un esperto mercante: non il modo con cui si
viene a contatto con la cosa preziosa è importante, ma l’aver
scoperto la sua preziosità, l’aver realizzato che quello che è
davanti agli occhi increduli dell’agricoltore o del mercante è
davvero cosa inestimabile, cosa per la quale merita lasciare tutto
ciò che si ha pur di poterla avere.
I Padri della Chiesa hanno spesso
interpretato queste due parabole considerando il tesoro come
l’immagine di Dio che è in ciascun uomo, quell’immagine che è spesso
sepolta sotto le macerie e la sporcizia della vita di tutti i
giorni. Quando ci viene concessa la grazia di rimuovere questa
sporcizia ed entrare in contatto con questa immagine radiosa, tutte
le altre cose diventano d’improvviso meno importanti e possiamo
trovare in questo nucleo prezioso la vera vita per cui possiamo
vendere tutto il resto.
È importante quindi, anzi
fondamentale, rendersi conto che tutto ciò che si possiede, che ha
finora dato senso alla nostra vita, è davvero ben poca cosa di
fronte alla grandiosità del dono ricevuto, riscoperto. Come scrive
il Card. Piovanelli in una sua riflessione sulla liturgia odierna,
il cristiano non è uno che lascia, ma uno che trova: trova un tesoro
che non finisce mai di scoprire.
E se l’esortazione finale di
domenica scorsa invitava personalmente ciascuno di noi ad avere
occhi ed orecchi attenti per scorgere e accogliere i semplici segni
con cui il Regno ci viene proposto, la domanda di oggi ci invita
invece a riflettere.
Avete compreso tutte queste
cose? Il Signore rivolge questa domanda a ciascuno di noi, ad
ognuno chiede se abbiamo davvero compreso il messaggio contenuto nel
racconto del Vangelo. I discepoli rispondono “Sì”, ma sappiamo bene
che quel loro sì era ben lontano dall’essere davvero consapevole,
sappiamo bene come tutti abbandonarono il Signore nel momento
cruciale della sua vicenda umana, sappiamo bene come, aldilà delle
buone intenzioni del momento anche per loro, che pur avevano vissuto
a lungo assieme al Signore, fosse difficile comprendere davvero,
accettare davvero, amare davvero.
E così oggi Gesù ci invita a
riflettere, a chiederci se anche per noi, che magari celebriamo
regolarmente l’Eucaristia e siamo fedeli alla “lectio divina”, c’è
il rischio di fare abitudine alla perla preziosa, al tesoro
nascosto, così che il privilegio di avere questa ricchezza non
soltanto non ci meraviglia più, non ci fa più sobbalzare di stupore,
ma lo viviamo come una cosa scontata e senza conseguenze per la
nostra vita di tutti i giorni.
Gesù Risorto ha spiegato ai
discepoli tutto il senso della Scrittura: “tutto ciò che nella legge
di Mosè, nei Profeti e nei Salmi è scritto di me” (Lc.24, 44). E io,
tu, ci sentiamo invitati a renderci conto, a prendere coscienza,
attraverso la riflessione seria sulle Sacre Scritture, dell’immenso
dono che abbiamo ricevuto da Dio?
Di più, il Vangelo mi incalza:
Dio per te e per me è un tesoro o soltanto una fatica? È perla della
vita o solo un dovere?
Probabilmente, presi alla
sprovvista, magari per il timore di fare un brutta figura, anche noi
siamo spinti a rispondere con un sì indeciso come quello dei
discepoli, per poi accorgerci della fragilità di questa
affermazione.
Quando si prende poi coscienza
che davvero per ognuno di noi fra il dire e il fare c’è di mezzo il
mare infinito della nostra piccolezza, potremmo essere tentati di
divenire preda dei sensi di colpa, di avvolgerci in una spirale di
demoralizzazione che porta diritto verso il nulla, verso
l’annientamento.
Ma proprio le due parabole del
grano e della zizzania, come quella dei pesci buoni e dei pesci
cattivi, quelle due parabole che il Signore ha voluto mettere in una
luce particolare, tanto da dedicare loro una spiegazione specifica,
ci vengono in soccorso, perché ci parlano dell’infinita pazienza di
Dio, della sapienza con cui egli accetta che in noi siano
contemporaneamente presenti accenti di bene e accenti di male, per
poter al momento opportuno eliminare ciò che è cattivo in noi e
lasciare in luce solo la parte buona, la parte migliore, quella che
è modellata sull’amore stesso di Dio, in modo da far avverare anche
per noi la sua parola: Allora i giusti splenderanno come il sole
nel regno del Padre loro.
Signore Gesù, Figlio del Dio
vivente e presente in mezzo a noi nella Santa Eucaristia, che ci hai
donato quell’immenso tesoro che è la tua Parola, che il tuo Spirito
Santo non cessa di sussurrare ai nostri orecchi e ricordare al
nostro cuore, non permettere che il tesoro immenso del Regno di Dio,
quel regno che si concretizza con la tua persona, con la tua parola
viva, con l’azione sommessa, ma instancabile dello Spirito Santo che
continuamente ci parla e ci rivela l’amore del Padre, non permettere
che tutto questo passi senza essere notato, senza essere scoperto
con stupore rinnovato, non permettere che l’Eucaristia, questa
Eucaristia che anche oggi stiamo celebrando, cessi di essere per noi
faro della vita, certezza di grazia, sorgente di amore.
Trasforma, ti preghiamo Signore i
nostri flebili e incerti “sì” in coraggiose e consapevoli
affermazioni che sappiano mettere completamente in gioco la nostra
vita, abbandonando ogni nostra certezza e valore precedente, per
consegnarci completamente, finalmente inermi, senza più difese né
false certezze, alle tua braccia spalancate per noi sul legno santo
della croce.
Anche a noi, ti preghiamo
Signore, rivela il senso delle scritture, come hai fatto ai
discepoli di Emmaus, in modo che le nostre dure orecchie possano
scoprire gli immensi tesori della tua grazia e finalmente consentire
ai nostri cuori di aprirsi alla meraviglia, alla contemplazione, al
rendimento di grazie, alla volontà di voler tutto abbandonare per
tutto ricevere dalla immensa bontà del Padre.
Amen
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mercoledì
25
giugno 2014
– XII
settimana T.O.
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La parola del vangelo di oggi sembra rinnegare,
contraddire, quella di due giorni fa dello stesso discorso della
montagna. Due giorni fa, se ci ricordiamo, Gesù ci invitava a non
giudicare gli altri perché con la misura con la quale misuriamo sarà
misurato a noi. E abbiamo visto come la via della revisione
personale, della conversione personale, il togliere la trave dal
proprio occhio prima di andare a curare l’occhio del fratello, fosse
il percorso, che mai si esaurisce in questa vita, che il Signore ci
aveva additato. Oggi invece, più in là solo di qualche versetto
nello stesso discorso della montagna, Gesù ci invita ad avere uno
sguardo critico, cioè capace di guardare e di valutare come si
comporta il profeta e, sulla base dei frutti che porta nella sua
vita, capire se sia un profeta che viene da Dio oppure no.
Come mai questa differenza? Prima Gesù ci dice di
non giudicare e oggi ci invita a riconoscere, smascherare e dunque
valutare i frutti buoni o cattivi del profeta? Lascerò a voi scavare
meglio la questione e trovare delle piste di approfondimento
dell’argomento; io mi limito ad offrirvi una possibile chiave di
lettura.
Gesù, nel parlare ai discepoli dei falsi profeti,
sembra riferirsi ad altre persone, a terzi. E questa supposizione è
plausibile. Ma non possiamo escludere una possibilità: e se invece
Gesù, nel parlare dei profeti non si riferisse solo a terzi, ad
altri, in quel momento assenti, ma si riferisse ai discepoli stessi
e, dunque, a ciascuno di noi che oggi l’ascolta? Del resto anche
noi, lo sappiamo e lo crediamo, siamo profeti perché grazie al
battesimo abbiamo ricevuto il munus profetico dei figli di
Dio. Anche noi siamo responsabili della diffusione Parola di Dio nel
mondo mediante l’esercizio del nostro munus profetico
battesimale. Se questo è vero, come è vero, allora significa che
grazie al battesimo abbiamo anche noi le carte in regole, il diritto
e la conseguente responsabilità di considerarci parte effettiva,
veri membri del gruppo dei profeti perché il battesimo ci ha
abilitati a questo. Ecco che se le cose stanno così pian piano la
situazione diventa più chiara, perché se anche noi siamo profeti la
parola di oggi non è più invito a giudicare gli altri ma ad
esaminare ed emendare noi stessi. Anche qui, come due giorni fa,
rimane la stessa urgente necessità: se prima si parlava di trave nel
proprio occhio, ora si parla di lupo nascosto sotto il manto di una
mite pecorella. Non possiamo essere veri profeti nel nostro mondo,
non possiamo togliere la pagliuzza nell’occhio del fratello, non
possiamo annunciare e testimoniare con efficacia la Parola di Dio se
siamo delle belve, se non rendiamo pecora anche la belva che c’è
dentro di noi; in altri termini, se non lasciamo che la Parola (che
è profezia) che annunciamo agli altri ferisca noi per primi, ferisca
il lupo che siamo e lo renda docile e mite come un agnello, che
riconosce, la voce, la Parola, del buon Pastore. Lupi riconciliati
con Dio e con gli altri. Se la prima lettura ci ricorda lo
stracciarsi le vesti del re Giosia alla proclamazione della Legge
ritrovata nel tempio, il profeta, di fronte alla stessa parola, non
si straccia le vesti ma si straccia il cuore, come tra l’altro altri
profeti, per esempio, Gioele, invitavano a fare: laceratevi il cuore
e non le vesti.
La via che il Signore ci indica è semplice, nel
senso di non doppia, non ambigua: se il Signore cresce dentro di noi
faremo qualcosa di buono in suo nome, se no rischiamo di essere
anche noi lupi travestiti.
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martedì
24
giugno 2014
– Natività di san Giovanni Battista
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
La solennità di oggi è fonte di gioia per noi, per tutta la Chiesa e
in particolare per la nostra città di Firenze che festeggia il suo
patrono. Nasce Giovanni Battista il precursore del Signore.
La sua nascita, così come ci viene presentata nei
vangeli, è accompagnata da gioia grandissima; i testi insistono più
volte su questo aspetto della gioia come è naturale che sia per la
nascita di un bambino così, e di qualunque bambino. Ogni vita è un
dono che viene da Dio, nessuno nasce per caso, ma ogni uomo che
viene al mondo è segno visibile, concreto del Dio creatore che
continua la sua opera sublime nel plasmare nel mondo la sua immagine
che è l’uomo, “cosa molto buona”, secondo la Genesi.
Dietro ogni nascita, o meglio dentro ogni
nascita, c’è il mistero del Dio presente nella vita del mondo e
degli uomini che immette, se così si può dire, un nuovo segno della
sua presenza e del suo amore nella comunità umana. Accogliere la
vita significa accogliere Dio stesso che attraverso questa vita ci
viene incontro, ci dice qualcosa, ci dona qualcosa: la vita stessa è
un dono per il semplice fatto che chiede di essere accolta come
tale. E il dono porta in sé la dimensione della gratuità: ha valore
in sé e ha valore perché ci ricorda e, nel caso dell’uomo, ci
rappresenta, qualcosa del suo donatore. In un tempo come il nostro
in cui anche alla vita umana si vuole sottrarre, o piuttosto celare,
questo carattere unico e gratuito del dono, in un tempo in cui si
vuole programmare e organizzare tutto (anche le nascite dei bambini
e persino, secondo alcuni, le caratteristiche genetiche) la nascita
di oggi del Precursore del Signore e la gioia che pervade tutti
coloro che sono coinvolti in questo evento ci ricorda che ogni vita
umana è sacra perché non è solo un dato biologico, ma ogni vita
umana, anche qualora, parlando per estremo, non fosse voluta dai
genitori o addirittura venisse da un atto di violenza, ogni vita
umana è sempre una “chiamata alla vita” e tale rimane fino alla
morte.
La prima lettura ci da di ascoltare il secondo
canto del servo del Signore, e il profeta, nel parlare della
vocazione di questa misteriosa figura, fonda tutto su questa
chiamata originaria e fondante che precede ancora la sua visibilità
esterna e pubblica: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome.” Anche per
noi, cari fratelli e sorelle, c’è un nome singolare ed unico che Dio
ha pronunciato su ciascuno di noi e un nome che, in certo senso,
continua a ripetere lungo tutto l’arco della nostra esistenza.
Quanto abbiamo bisogno di recuperare questa chiarezza della
“provenienza divina” di ogni uomo.
Perché noi, purtroppo, qualche volta abbiamo il
potere, o piuttosto la sventura, di trasformare i doni di Dio in
pesi per la nostra vita, in ostacoli da superare, eliminare o
strumentalizzare (cioè ti accolgo nella misura in cui mi servi a
qualcosa). Solo se i doni di Dio sono accolti come tali possono
essere davvero fonte di gioia non solo per chi li riceve
direttamente ma anche per chi assiste o è in qualche modo coinvolto
in questo chinarsi di Dio sugli uomini. La nascita di Giovanni
Battista è anzitutto questo: fonte di gioia in quanto riconosciuta
come dono, ancora più evidente in una coppia anziana e sterile come
erano i due coniugi Zaccaria ed Elisabetta. Ricordiamo bene che la
sterilità, in quel tempo, era concepita come una specie di assenza
della benedizione divina, come l’essere dimenticati da Dio. “Non
temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie ti
darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza
e molti si rallegreranno della sua nascita…” (Lc 1,13-14). E così la
gioia di una famiglia diventerà la gioia di molti che si
domandavano: Che sarà mai questo bambino?
Ben presto questo interrogativo, diventerà
un’incognita che perdurerà sempre sulla figura del Battista, un uomo
di Dio tanto simile al rabbi Gesù, lampada così somigliante alla
luce vera che veniva nel mondo, da suscitare perplessità sulla sua
identità, anche e soprattutto tra le autorità religiose. Il vangelo
di Giovanni ci riporta proprio quella specie di interrogatorio di
cui fu oggetto Giovanni Battista quando sacerdoti e leviti vennero
da Gerusalemme per capire meglio chi era: “Chi sei tu?” Egli
confessò e non negò, e confessò: “Io non sono il Cristo” Ma allora
che cosa dici di te stesso? Io sono voce di uno che grida nel
deserto: preparate la via del Signore, come disse il profeta
Isaia.”(Cfr Gv 1,19-23) In questa definizione che Giovanni da di
stesso si racchiude tutto il segreto della sua missione.
La grandezza di Giovanni Battista è che non si è
limitato a fare qualcosa per il Signore a dare una testimonianza, ma
ha saputo leggere la propria vita, tutta la propria vita, in ogni
ambito nulla escluso, alla luce di una relazione fondante, tanto da
applicare a sè una categoria del tutto relativa, che presa in se
stessa cioè non ha consistenza se non è abbinata a qualcos’altro: io
sono voce di una che grida. La tradizione patristica sintetizzerà
l’identità del Battista in ‘voce della Parola’. Giovanni Battista si
definisce voce non delle sue parole, ma voce della Parola di un
altro. La grandezza di Giovanni Battista è proprio questa: ha saputo
relativizzarsi, ha relativizzato se stesso sempre di più, fino a
scomparire, per lasciare posto al Dio veniente. A noi il relativo ci
piace poco perché noi vogliamo la nostra identità, il nostro
spessore, la nostra autorevolezza, vogliamo valere qualcosa di
fronte agli altri, avere un peso ed un’importanza e guai a chi non
ce la riconosce.
San Giovanni quest’oggi ci insegna la via del
vero umanesimo cristiano che è la via del ‘relativo al Signore’:
L’uomo non è mai così valorizzato come quando si fa relativo a Dio
mettendo il Signore al centro della propria vita. Se vince Gesù
vinciamo anche noi, se no rimaniamo nel nostro piccolo microcosmo a
fare i leoni, i re della giungla. Questo vivere la propria vita e la
propria missione, quanto mai importante, come un relativo al
Signore, come un servo inutile, è quanto ha custodito Giovanni nella
gioia: quella gioia che alla nascita aveva rallegrato molti, quella
gioia che aveva fatto esultare il piccolo Giovanni nel seno di sua
madre all’incontro al saluto di Maria e di Colui che lei portava nel
grembo, è la stessa gioia che si compie, che diventa perfetta e
piena in quel “Egli deve crescere e io invece diminuire” che
riassume tutta la missione di Giovanni e che tra l’altro è anche
cosmicamente simboleggiata dalle due solennità liturgiche: quella di
oggi all’inizio dell’estate quando la luce del sole inizia a
diminuire, e il Natale del Signore, all’inizio dell’inverno, quando
torna a crescere.
Giovanni Battista, grazie della tua radicalità.
Hai amato Gesù più di quanto amavi te stesso e rimani per tutti noi
un testimone autentico, un solitario per Dio sempre in ricerca, un
amico della verità a cominciare da quella di te stesso. Hai odiato
doppiezze e ambiguità, sia nel popolino che nei palazzi dei re, e
fino all’ultimo hai respinto le false immagini che la gente si
faceva di te sapendo che nessuno può prendersi qualcosa se non gli è
stato dato dal cielo (Gv 3,27). Da te, caro Giovanni, impariamo che
non c’è radicalità senza verità, e che non c’è vera testimonianza di
Gesù senza mettere se stessi da parte. Guidaci al Signore, come un
tempo facevi con le folle, perché possiamo anche noi esultare di
gioia alla voce dello Sposo come tu esultasti nel grembo di tua
madre Elisabetta, alla voce della sposa.
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Domenica
22 giugno 2014
– Solennità del Corpus Domini
-
fr. Giovanni Battista FMJ
C’è come una specie di provocazione che il
Signore in dialogo nella sinagoga di Cafarnao lancia ai Giudei e
alle persone che aveva di fronte. Una specie di sfida: se non
mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue,
non avete in voi la vita. Già molti nell’ascoltarlo erano perplessi:
Come può costui – mormoravano – darci la sua carne da mangiare? –
Ora addirittura Gesù parlando in questo modo è come se dicesse loro:
guardate che voi non siete vivi, voi non avete vita! Eppure loro
erano vivi e stavano di fronte a lui. Bisogna cercare di capire di
che vita stia parlando il Signore Gesù con loro, ma anche con noi
quest’oggi perché quando una lettura viene proclamata in chiesa non
è Dio che parlava ma è Dio che parla ora a noi qui presenti.
Gesù parla di vita a persone viventi: dicendo:
attenzione voi rischiate di non avere in voi la vita. Ma di che vita
si tratta? Si tratta proprio del mistero che quest’oggi la Chiesa ci
invita a contemplare, ad adorare, ad accogliere: Il Corpo e Sangue
del Signore. Siamo forse così abituati a nutrirci dell’Eucaristia
che rischiamo di celebrarla più come una pratica religiosa che come
un incontro trasformante, più come momento individuale che come
ingresso nella comunione per Cristo con tutto il suo corpo, speriamo
almeno non come una specie di speciale pozione magica da ricevere in
modo superstizioso. Perché l’Eucaristia non è anzitutto una “cosa”,
un “oggetto” più sacro degli altri, ma è un mistero di vita e di
amore che chiede di essere celebrato, accolto e vissuto in quelle
“eucaristie quotidiane” che dovrebbero essere le nostre giornate.
Ma lasciamoci illuminare un po’ dalla Parola di
Dio, in particolare da san Paolo. San Paolo ripete cose che già
sappiamo e che anche i Corinzi a cui scriveva certamente già
sapevano, dato che usa la forma letteraria della domanda retorica:
“il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di
Cristo?” Ecco che, se stiamo attenti a quello che Paolo dice,
soprattutto all’ordine delle sue parole, vi scopriamo una teologia
eucaristica straordinaria. Paolo scrive: “Poiché vi è un solo pane,
noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo
all’unico pane”. Per cui Paolo non parte dall’assemblea dei credenti
per arrivare a formare l’unità della stessa, cioè non dice: noi
poiché siamo molti riunendoci formiamo un corpo solo. Ma è
esattamente il processo opposto: non è la comunità che fonda la
comunione in un solo pane ma è questo pane che fonda la comunione
della comunità. E questo è assolutamente importante e direi anche la
dinamica discriminante tra la comunione in Cristo e le altre varie
forme di unione fatte dagli uomini. Senza nulla togliere a quanto di
buono ci siano nell’associarsi umano, però la comunione nel corpo di
Cristo è un’altra cosa.
C’è un pane, un solo pane, e poiché vi è un
solo pane, noi, benché molti, siamo un solo corpo. È esattamente
l’opposto. In quel pane c’è l’identità profonda, il dna della
comunità che è il dna di Gesù. E infatti, se ci pensiamo bene,
quando le comunità si sfasciano? Quando qualcuno in questo corpo di
Cristo nel cui siamo inseriti immette del sangue, un dna, diverso,
incompatibile per quel corpo (sapete no, ci sono i gruppi sanguinei
compatibili e incompatibili ; fuori di metafora, dei criteri di
unità, di legame, dei collanti che non derivano da quel solo pane
che è il corpo di Gesù, ma da un corpo estraneo. Può essere opera
umana, errore umano, ma può essere anche opera del Divisore, il
diabolos, che vuole a tutti i costi iniettare il suo veleno in
questo corpo, non tanto per ucciderlo, perché sappiamo che il Corpo
del Signore in se stesso è divino ed immortale, ma per separare,
dividere in se stesso, il suo corpo mistico che siamo noi. Non è
difficile separarlo perché è un corpo che è già di suo multiforme,
distinto, variegato come diceva sempre san Paolo: “Come in un solo
corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la stessa
funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in
Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli
altri. Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di
noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta
la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si
dedichi all’insegnamento; chi esorta si dedichi all’esortazione.
Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede,
presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con
gioia.” (Rm 12,4-8) Ma se questa varietà così bella e voluta da Dio
è a servizio del buon funzionamento del corpo e della sua crescita,
il Divisore o i divisori, che vogliono opporre tra loro le varie
membra con le gelosie, le invidie, le competizioni, le fazioni,
fanno di tutto per mettere in cattiva luce e frantumare questa unità
nella diversità. Come la Pentecoste anche l’Eucaristia possiamo
considerarla l’antiBabele, la comunione fatta da Dio per gli uomini.
La solennità di oggi è invito per tutti a cercare, a vivere, a
costruire non in senso fondante, perché è qualcosa che ci precede,
ma in senso, diciamo, coadiuvante, cioè assecondandola attivamente,
questa unità tra noi e tra tutte le membra del corpo di Cristo che
nel pane eucaristico è non solo simboleggiata ma soprattutto
sacramentalmente ricapitolata. Ognuno di noi, ciascuno per la sua
parte, è responsabile e custode di questa unità. Non dimentichiamo,
cari fratelli, sorelle e amici che ferire l’unità tra noi che
facciamo parte delle membra di Cristo significa in fondo ferire la
comunione in Cristo, perché i due piani tendono a congiungersi ed ad
assorbirsi nell’unico corpo di Cristo.
Fonte e culmine della vita cristiana insegna il
Concilio parlando dell’Eucaristia. Abbiamo visto come è fonte: è
quest’unico pane nel quale siamo un solo corpo. Ma l’Eucaristia è
anche culmine, cioè qualcosa che non solo precede, fonda il nostro
essere comunione e comunità, ma anche lo segue e lo compie. Ed è a
questo punto che si colloca il nostro vivere eucaristico.
L’Eucaristia non è solo adorabile ma è anche vivibile. Noi potremmo
stare giorno e notte davanti al tabernacolo con i migliori
sentimenti, e voltare le spalle al Corpo del Signore quando siamo a
casa, al lavoro, in cucina, con gli amici, con la moglie, la
fidanzata, i confratelli. Una specie di doppia vita: dalle estasi ai
rancori, dalle mani giunte alle porte sbattute in faccia, dai
sorrisi e i complimenti allo sparlare. L’Eucaristia resterebbe per
noi un fiume che non arriva mai al mare, grazia sprecata e svilita.
Ancora una volta, corpo ferito.
Tra l’Eucaristia fonte e l’Eucaristia culmine c’è
la nostra vita che può essere un canale libero, che lascia sempre
scorrere la grazia, o può essere come quelle arterie otturate che
bloccano il sangue. Come un fiume, anche per l’Eucaristia: tra la
sorgente da cui scaturisce e la foce a cui giunge l’acqua può
scorrere ad una sola condizione: se scende! L’Eucaristia in noi ci
fa percorrere lo stesso movimento di Gesù che è stato movimento di
discesa: io sono il pane vivo disceso dal cielo. Gesù per nutrirci
scende e anche per noi non c’è altro cammino: vivere l’Eucaristia
significa scendere. Ma lo scendere di Gesù è preceduto da un altro
movimento: l’uscire! Lo scendere di Cristo non è stato solo
movimento dal cielo alla terra ma soprattutto movimento da Dio
all’uomo. Per scendere bisogna uscire, è l’esodo, il cammino
sostenuto dalla manna, di cui ci ha parlato la prima lettura e che
anche Gesù ha vissuto.
Gesù accetta per amore di vivere questa discesa
per dare a noi se stesso, e perché noi fatichiamo così tanto a
scendere dal nostro piccolo cielo in cui talvolta ci auto
collochiamo, a uscire nel nostro piccolo castello in cui stiamo
tanto bene? Se l’Eucaristia è cibo vero e proprio, come dice Gesù:
“la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda”, ecco che
anche tutta la nostra vita, alimentata da questa manna celeste, è
chiamata a diventare, come diceva sant’Agostino, ciò di cui si
nutre: pane, vino, nutrimento per gli altri. In Cristo possiamo dare
noi stessi come cibo. Ma solo chi esce e scende diventa cibo.
L’Eucaristia è il sacramento dell’uscita da sé e della discesa per
abbandonarci nelle mani del Padre consegnandoci nelle mani degli
uomini, come fece Gesù. Nutrire l’altro di sé significa lasciarsi
mangiare, ma non può essere fonte di nutrimento, non può essere cibo
in Cristo, se non ciò che per Cristo, con Cristo e in Cristo è stato
precedentemente offerto al Padre. È quanto vogliamo ripetere adesso
in questa celebrazione del sacrificio di Gesù, memoriale della
Pasqua. In questo calice e in questo pane noi non solo vogliamo
contemplare l’uscita e la discesa di Gesù per giungere fino a noi,
ma vogliamo contemplare anche il nostro Esodo, la nostra Pasqua,
cioè la nostra uscita e la nostra discesa per diventare in Cristo,
in certo senso, pane e vino per il mondo, a partire da coloro che ci
sono più prossimi.
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venerdì
20
giugno 2014
– XI settimana T.O.
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Nel vangelo di oggi Gesù va ancora più in là
nell’esporci, in modo sempre più concreto, la logica delle
beatitudini che aveva enunciato all’inizio del discorso della
montagna. E se aveva parlato prima sia del rapporto che dobbiamo
avere con Dio e con la Legge, sia del rapporto che dobbiamo avere
con le persone, ora si arriva al rapporto che siamo invitati ad
avere con le cose.
Nel fare questo Gesù non ci dice anzitutto: fate
così e così, cioè non ci da, su questo punto, un manuale di
indicazioni da applicare in modo meccanico. Gesù, nell’introdurre il
discorso sul nostro rapporto con le cose non ci offre delle regoline
da applicare in modo automatico su come fare beneficienza o come
gestire i beni, perché Gesù non vuole fare di noi dei robot perfetti
o dei computer ben programmati. Gesù va più in profondità, Gesù
sollecita la nostra libertà e ci parla di un tesoro. “dov’è il tuo
tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Il nostro cuore, volenti o
nolenti, consapevoli o non consapevoli, cerca un tesoro, insegue un
tesoro. Il nostro cuore è sempre, come dire, in uno stato di sequela
verso ciò da cui è attratto, verso ciò che ritiene prezioso. Il
nostro cuore è un vuoto che cerca pienezza, e dopo averla trovata la
cerca ancora e con un desiderio ancora più forte. Non esiste,
nell’uomo, un cuore libero nel senso di slegato, emancipato da tutto
e da tutti, ma il cuore dell’uomo è sempre un cuore in ricerca di
questo tesoro e da esso dipendente. Tutto il resto nasce da qua, da
qual è il tesoro che il nostro cuore brama: da qui scatta la logica
conseguente dell’accumulo di questo tesoro, come dice il vangelo.
Arricchire presso gli uomini e arricchire presso Dio sono le due vie
che ci sono poste davanti.
L’invito che Gesù allora, tra le righe, rivolge a
tutti noi e che stasera vogliamo accogliere in quanto di vitale
importanza è proprio quello di scegliere il tesoro giusto perché
dalla nostra scelta, dal nostro tesoro, dipenderà di conseguenza, il
senso, la direzione che daremo alla nostra vita.
Secondo Gesù il buon tesoro è quello che si
accumula non qui in terra ma in cielo. Cosa vuol dire questo nel
concreto? Vuol dire che il buon tesoro non è altro che il nostro
rapporto con il Signore, la comunione con Dio; questa è la perla, la
più preziosa per la quale vendere tutto il resto, e questo diventa
anche il criterio che deve animare il nostro operare su questa
terra. Quando noi lavoriamo per ciò che nutre, fa crescere questo
rapporto con il Signore in noi e negli altri, stiamo accumulando
questo buon tesoro; quando noi ci facciamo riempire il cuore da
altre cose, ecco che il nostro cuore, che è chiamato a contenere
l’Infinito, di conseguenza si rimpicciolisce, si contrae e pian
piano si chiude. Non si tratta di opporre terra e cielo, beni
materiali a beni spirituali, e neanche di disprezzare i primi per
esaltare fanaticamente i secondi, ma si tratta di guardare tutto
alla luce di quel tesoro in cui il nostro cuore trova riposo. Perché
che cosa giova all’uomo guadagnare, accumulare il mondo intero se
poi perde e rovina se stesso?
Signore Gesù, unico tesoro e sola speranza della
nostra vita, riempici di te e fa’ che ci lasciamo riempire, perché
sappiamo vivere la nostra terra come via al cielo, ed essere segno
per tutti gli uomini della vita bella, piena ed eterna che ci
attende nella tua casa e che già pregustiamo quando stiamo presso di
te.
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Domenica
15
giugno 2014
– Santissima Trinità
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Parlare della Trinità non è mai cosa facile
perché si tratta di un mistero insondabile. Arrivare ad ammettere
l’esistenza di Dio questo è possibile alla sola ragione umana, anche
se la Rivelazione, come ci ricorda il Vaticano I, facilita questa
comprensione. Ma arrivare a dire che questo Dio non sia solo Unità
ma sia anche caratterizzato al suo interno dalla relazione questo è
un passo che l’uomo non può compiere da solo se non è Dio stesso a
dirlo, a rendere partecipe l’uomo di sé. “Dio,
nessuno lo ha mai visto – scrive san Giovanni nel prologo, e noi
potremmo aggiungere che Dio, di per sé, nessuno può comprenderlo,
capirlo nella sua realtà trinitaria, ma continua l’apostolo -
il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre,
è lui che lo
ha rivelato." (Gv 1,18)È dunque Gesù, la
perfetta immagine del Padre, che ci apre l’accesso alla realtà
intima e sublime di Dio che oggi contempliamo in tutta la Chiesa.
Il vangelo che ci è dato
per questo giorno ci accenna qualcosa di questa
relazione che Dio vive; ma non ce lo dice parlandoci di cosa accade
dentro di Dio ma di cosa fa Dio fuori di sé quando si mette in
relazione con gli uomini. Gesù usa tre parole importanti, tre parole
chiave che sono: “amore” (Dio ha tanto amato il mondo), “dono” (da
dare il suo Figlio, unigenito) e “vita eterna” (perché chiunque
crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna). Tre parole
che descrivono il perché Dio si rivela all’uomo (per amore), come si
compie tale rivelazione (dandosi, dando se stesso), e il fine di
questa rivelazione (perché tutti noi abbiamo la vita eterna, abbiamo
parte, insomma alla vita di Dio). E tutto questo si compie
attraverso Gesù. Ecco in queste tre parole: amore, dono e vita, si
sintetizza tutto il mistero trinitario. Perché l’amore è dono per la
vita dell’Altro. Del resto, come qualcuno ha affermato, il dogma
trinitario non è altro che “lo sforzo ostinato di andare sino in
fondo all’affermazione giovannea per cui ‘Dio è amore’ (1Gv 4,8)”
(Rémi Brague).
Se vogliamo conoscere Dio anche noi dobbiamo
passare di qui, per la via dell’amore e del dono verso la vita
eterna. Il modo migliore di comprendere il mistero trinitario è di
viverlo. L’amore di Dio ha una caratteristica particolare, che
essendo Dio stesso amore, non dice qualcosa di semplicemente
emotivo, superficiale, marginale su Dio, ma esprime l’essere stesso
di Dio: Dio è amore, e chi dimora nell’amore dimora in Dio. Cosa
significa amore? L’amore Dio è dono di sé, amare significa uscire da
se stesso, volgersi verso l’altro con un movimento così personale da
offrire non qualcosa ma se stessi. Chi ama non solo dona ma si dona.
Anzi l’esperienza umana ci insegna che quando uno dona qualcosa per
amore senza donare se stesso in fondo non è vero amore. Dice proprio
così il Cantico: “Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in
cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio”. Ma sappiamo anche
che non c’è vero compimento di questo amore se non c’è anche
qualcuno che accolga questo dono di sé. Il dono è il primo movimento
di una relazione e chiede di essere accolto: è il mistero della
libertà umana che emerge anche nel vangelo di oggi: “Chi crede in
lui (chi accoglie lui, potremmo aggiungere) non è condannato, ma chi
non crede è già stato condannato.” Ecco che allora amore non è solo
dono di sé all’altro ma anche accoglienza dell’altro che si dona. Il
dono rimane incompiuto, incompleto se non c’è qualcuno che lo
accolga, lo riconosca, lo faccia suo. E infine l’accoglienza di
questo dono di sé che l’altro mi fa non può rimanere un movimento
unilaterale ma è chiamata alla reciprocità, ad una risposta:
risposta al dono di sé dell’altro con il dono di me medesimo. Così
si compie l’amore, nella reciprocità del dono e dell’accoglienza.
In tutto questo che sembrano concetti aleatori,
senza spessore concreto, cari fratelli e sorelle, si delinea per noi
tutto un cammino di vita diverso, trasformato dall’amore, segnato
nella sua essenza dall’amore in questa sua dinamica di dono,
accoglienza e risposta al dono. Il cammino della santità si
racchiude in fondo in questi tre movimenti che aprono la nostra vita
ad una dimensione trinitaria. Basterebbe una domanda per farci
riflettere: quanto, nelle nostre relazioni in casa, in comunità, al
lavoro, nelle parrocchie, abbiamo a cuore di creare un ambiente, uno
spazio, dei tempi, un’atmosfera che faciliti questo libero movimento
di dono e di accoglienza tra di noi. San Paolo, nella seconda
lettura ci da proprio dei consigli in questo senso, delle
applicazioni concrete alla nostra vita di questo amore trinitario di
cui Dio ci rende partecipi: “Fratelli, siate gioiosi, tendete alla
perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi
sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con
voi”. Significa, in poche parole, assumere quegli atteggiamenti che
favoriscono il dono e l’accoglienza reciproca, quelle modalità che
danno spazio all’altro. La cultura di oggi sappiamo che non è una
cultura che ci aiuta in questo perché ci insegna più a imporci agli
altri che a donarci agli altri. Sappiamo che l’imposizione è diversa
dal dono, l’imposizione è obbligo, ha un nucleo di violenza e di
aggressività; l’amore è dono che si propone, è offerta che chiede
accoglienza libera e invita ad una risposta fiduciosa. Nessuno è
perfetto nel vivere le sue relazioni però questa festa della Trinità
ci aiuta a camminare verso questa perfezione di Dio (tendete alla
perfezione dice san Paolo) che è la perfezione dell’amore. Smussare
gli spigoli e le parti ruvide del proprio carattere e delle nostre
abitudini, imparare ad accogliere gli altri così come sono senza
pretendere sempre che siano diversi secondo i miei gusti,
riconoscere, rispettare e amare l’alterità, la diversità dell’altro,
chiedere la grazia di una vera riconciliazione, l’umiltà nel
presentarsi e nell’accogliere, ritirarsi, quando occorre, per far
riuscire l’altro, trovare più gioia nel dare che nel ricevere
concedendo a sua volta anche agli altri questa gioia di dare, sono
tutte piccole indicazioni concrete che ci aiutano ad assumere lo
stile di Dio che è relazione e comunione: Non è un singolo,
individuale che entra in comunione ma è comunione nella sua essenza.
Se non entreremo in questo mistero con la vita
difficile potrà esserne la comprensione e la trasmissione agli
altri. È questo il dono che quest’oggi invochiamo dall’alto come
primizia di quella vita eterna nella Gerusalemme del cielo che non
sarà vita solitario a tu per Tu con Dio, ma sarà vita di comunione
in cui Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, sarà tutto in tutti.
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sabato
14
giugno 2014
– X
settimana T.O.
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Ci troviamo in quella parte del discorso della
montagna detta “delle antitesi”. Sappiamo che tutto questo discorso
è collocato in una cornice di carattere legislativo perché che il
fatto che Gesù salga sul monte e si ponga a sedere con i suoi
discepoli vicini, ha un forte carattere simbolico per l’uomo
biblico, gli richiama subito Mosè, la Legge, il Sinai, e la
cattedra, lo stare seduto che è la posizione di chi insegna. Gesù,
in questo discorso, preciserà qual è il suo rapporto con la Legge di
Mosè: ne parla in termini non di abolizione ma di compimento, per
cui non si tratta di opporre Legge e Beatitudini, Mosè e Gesù, ma di
vederli in continuità e compimento: Gesù cioè riprende il cuore, il
senso della Legge e lo porta più in là, lo invera, compie i valori
più profondi che le erano sottesi e talvolta, con il tempo, anche un
po’ usurati, pensiamo, per esempio, al discorso del matrimonio. A
Gesù però, e questo è molto importante, non preme innanzitutto di
darci una nuova produzione legislativa, un nuovo codice di leggi,
quanto piuttosto delineare, anche attraverso delle indicazioni
concrete, un nuovo modello di umanità, l’uomo nuovo a cui ciascuno
di noi è chiamato. Anche l’antitesi di oggi possiamo dunque leggerla
e comprenderla su questo sfondo. Che cos’era il giuramento? Era una
prassi molto diffusa nell’antichità attraverso la quale si
avvalorava ciò che si diceva, se ne prometteva la autenticità,
ricorrendo ad una testimonianza esterna ed eventualmente superiore
(il vangelo di oggi cita il cielo perché è il trono di Dio, la
terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, Gerusalemme perché è la
città del gran re). Ora Gesù, nell’invitarci non solo a non
spergiurare ma a non giurare affatto, ci vuole dunque aiutare a
camminare verso questa umanità nuova che sta sotto tutto il discorso
della montagna. La chiarezza a cui il Signore ci invita non è dunque
né solo una nuova legge né semplicemente un’esortazione ad essere
più onesti, ma racchiude una visione più profonda che è quella del
nuovo stile di vita dell’uomo nuovo. Oggi, in questa antitesi, è
come se Gesù ci dicesse: abbiate un modo di parlare tale che la
gente si possa fidare di voi senza dover ricorrere ad altre
garanzie, giuramenti, parole d’onore. Sia la vostra vita una
garanzia di quello che dite! Se la logica del giuramento è quella
che dice: se non hai fiducia in me, avari fiducia almeno in colui
per il quale giuro, il discorso della montagna ci chiama invece ad
una chiarezza e ad una semplicità nell’uso della parola che non è
solo buona deontologia, o linguaggio politicamente corretto, ma
impegno per costruire una società e delle relazioni non più dominate
dal timore della menzogna o dalla sfiducia reciproca. Pensiamo
quanto al giorno d’oggi la parola sia ormai logora, usurata. Anche
tra i mezzi di comunicazione sociale talvolta la verità rischia di
essere sacrificata rispetto ad altri criteri quali, per esempio,
quello della curiosità, dello scoop, dell’attrazione più o meno
percettibile a livello conscio, del potere. Anche in questo la
nostra vita è chiamata ad una profezia che non è altro che assumere
in toto, anche nel modo di parlare, lo stile di Gesù. San Paolo dice
che in Cristo tutte le promesse di Dio sono divenute sì. Come per
dire che il Padre era così sicuro della fedeltà e dell’amore del
Figlio Suo che gli ha affidato tutti i suoi giuramenti, le sue
alleanze, tutti i suoi voti. E Gesù, dal canto suo, li ha compiuti
con la parola e con le opere, con la lingua e con il corpo, fedele
addirittura fino alla morte. Anche noi siamo chiamati a questa
libertà, libertà nel vivere, libertà nel parlare, libertà che
esprime la vita nuova radicata nella carità di Cristo. “Ama e fa’
ciò che vuoi. Se taci taci per amore. Se parli parla per amore. Sia
il tuo cuore radicato nell’amore. Da questa radice non può uscire
che del bene” Sant’Agostino
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mercoledì
11 giugno 2014
– San Barnaba
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fr. Giovanni Battista FMJ
Nel nome dell’apostolo Barnaba è racchiuso tutto
un programma di vita. Il nome di Barnaba lo traduciamo comunemente
come figlio dell’esortazione, anche le nostre traduzioni della
Bibbia ci presentano questa versione. Però il testo greco ci
consente di tradurre il nome di Barnaba anche in modo differente con
una sfumatura interessante e cioè non solo figlio di esortazione, ma
anche figlio di consolazione. Qui abbiamo una prima luce di questo
nome così bello che, in qualche modo, già illumina la vita e il
ministero di san Barnaba ma anche di ogni apostolo e di ogni
testimone. Perché san Barnaba così come ogni apostolo, ogni inviato,
ha ricevuto una missione e di esortazione e di consolazione. La
consolazione nasce dalla consapevolezza che il regno dei cieli è
vicino, i tempi nuovi, i tempi messianici, ossia quelli della
salvezza e della consolazione eterna sono ormai alle porte: è giunto
il tempo della consolazione che è anche tempo di misericordia. È la
misericordia, l’amore di Dio che attrae, converte i cuori e li apre
alla speranza della vita nuova. Come non ricordare le profonde
parole di san Paolo in cui, in qualche modo, raccontava la sua
grande consolazione: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte,
Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia
mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un
persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia perché
agivo per ignoranza, lontano dalla fede.” (1 Tim 12-13) La
consolazione è fiducia, è forza che trasforma i cuori e li apre alla
speranza di vita nuova.
L’apostolo, in questo senso, dev’essere
anzitutto un consolatore, qualcuno che rende presente la
consolazione divina, il Dio che ci consola. Il vangelo
elenca vari segni prodigiosi che accompagnano la parola
dell’apostolo: “guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate
i lebbrosi, scacciate i demoni” Cosa sono questi se non segni
visibili, presenti, tangibili, della consolazione efficace di Dio.
L’apostolo dunque è qualcuno che prima di tutto sa consolare: non
impone dei doveri, ma offre, sparge l’amore di Dio che è anzitutto
accoglienza e amore. E, se ci pensiamo bene, quanto il nostro mondo
e noi stessi abbiamo bisogno di questa profonda consolazione che non
è tanto una coccola sdolcinata, ma è energia che fortifica e ci da
nuovo vigore nel cammino. Si può proprio dire che forse oggi più che
mai il mondo ha bisogno di autentici consolatori che vincano, con le
loro parole, il loro affetto, la loro presenza, la tristezza e la
solitudine del mondo che è sempre in
agguato per tutti.
Ma l’apostolo, proprio perché testimone di questo
amore divino che non solo ‘vuole bene’, ma ‘vuole il bene’ delle
persone a cui è inviato, si fa anche portatore di un’esigenza.
Sempre san Paolo raccomandava a Timoteo: “Ti scongiuro davanti a Dio
e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua
manifestazione e il suo regno: annunzia la Parola, insisti al
momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta,
con ogni magnanimità e insegnamento. Verrà giorno, infatti, in cui
non si sopporterà più la sana dottrina, ma pur di udire qualcosa,
gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci,
rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle
favole. (2 Tim 4,1-4)” La consolazione va sempre di pari passo con
la verità che, con dolcezza, rispetto e anche gradualità quando
occorre, l’inviato propone a se stesso e a tutti. Qualche volta i
maestri che sembrano i più severi sono quelli che ci aiutano davvero
nel nostro cammino dietro a Gesù e ci vogliono davvero bene, quelli
invece tutti sorrisi e compiacenze pur apparendo, ad un primo
istante, più gratificanti ci lasciano nelle nostre immaturità.
L’apostolo, l’uomo di Dio, come dice sempre Paolo, è l’uomo
completo, che unisce carezza e forza, dolcezza e vigore per la
crescita dei suoi figli. In fondo è colui che, come docile strumento
di Dio, fa sue le proprietà dello Spirito Santo il Paraclito,
l’evangelizzatore per eccellenze, colui che consola ed esorta. Il
Signore rinnovi l’effusione del suo Spirito Santo nei nostri cuori,
ci infiammi della consolazione divina e ci esorti ad una scelta
radicale di vita evangelica.
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martedì
10
giugno 2014
– X sett. tempo ordinario
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il fatto che Gesù applichi ai suoi discepoli i
simboli del sale e della luce è senza dubbio una scelta ardita da
parte sua. Chi di noi, in quanto tale intendo dire, se la sentirebbe
di ritenere se stesso sale della terra e luce del mondo? Posso io
dire di essere luce per una persona, per una comunità, per una
città? Sappiamo quanto i santi non si siano mai considerati gran
cosa e attribuivano a Dio più che a se stessi, ciò che di buono
potevano fare. Ricordiamo bene cosa san Paolo diceva di sé e dei
suoi: “E Dio, che disse: “rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse
nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di
Dio sul volto di Cristo. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di
creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a
Dio, e non viene da noi.” (2 Cor 4,6-7)
Da questo possiamo capire che Gesù, forse,
applicando ai suoi discepoli e dunque anche a noi delle immagini,
dei simboli così significativi nell’orizzonte umano e
particolarmente in quello ebraico e semita, non voleva tanto
esprimere un dato di fatto, qualcosa che appartiene a noi in quanto
tali, ma piuttosto delle proprietà che sono sue e di cui ci fa
partecipi.
La Scrittura ci viene in aiuto nel comprendere il
senso delle parole di Gesù: se partiamo dalla prima immagine, nella
cultura biblica e semita, sappiamo che il sale, oltre alle sue
proprietà chimiche di conservazione e di conferimento di sapore ai
cibi, significava anche la sapienza della vita. L’ideale dell’ebreo
era il vivere con sapienza obbedendo alla volontà di Dio espressa
nella Legge: “Io - dice la sapienza che fa il proprio elogio – sono
uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra
… Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi
ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in
Giacobbe e prendi eredità in Israele” … Avvicinatevi a me, voi che
mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché il ricordo di me
è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele”.
(Si 24, 3.8.19.20)
Il cristiano in questo senso, in quanto
sale della terra conferisce sì un gusto, un sapore alla terra, ma
non un gusto qualsiasi e neanche il gusto che viene da se stesso, ma
più che altro quel sapore che viene dalla sapienza di Dio di cui
egli ne è portatore. San Giacomo fa una descrizione squisita di
questa sapienza che sembra, esattamente come le beatitudini che
abbiamo ascoltato ieri, un autoritratto di Gesù: “la sapienza che
viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera” (Gc
3, 17) È questo il sapore che siamo chiamati ad avere in noi stessi:
la sapienza, la conoscenza di Gesù, il rapporto vivo, personale e
profondo con il Signore, così personale da diventare persona in noi.
È questo il sale che ha sapore. Ma come il sale può perdere il suo
sapore, così c’è anche un’altra sapienza che non è quella che viene
dall’alto, ma è quella che viene dal basso: “Ma se avete nel vostro
cuore gelosia amara e spirito di contesa – continua san Giacomo –,
non vantatevi e dite menzogne contro la verità. Non è questa la
sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica.”
Lo stesso vale per il titolo di “luce”. Luce è un
titolo divino, prima di tutto: ricordiamo il Credo (Dio da Dio, Luce
da Luce); ma è anche un titolo cristologico che Gesù dice di sé nel
vangelo di Giovanni: “io sono la luce del mondo.” Se poi arriviamo
alla terza immagine, quella della città sul monte, il discorso si
chiarisce del tutto: una città, se è visibile non dipende da lei ma
dipende dalla luce che riflette. È questa luce che la rende
visibile, non è lei da sola che si rende visibile da se stessa. Come
rimane nascosta una città posta sul monte? C’è solo una maniera di
rimanere nascosta e consiste proprio nel rimanere al buio. È grazie
solo quella luce di cui lei per prima è beneficiaria, che anche la
città può diffondere luce e può essere vista, consegnare la sua
immagine ad altri.
Da tutto questo capiamo allora che forse Gesù,
così come ieri nelle beatitudini descrivendo la vita beata a cui
chiama i suoi discepoli, in fondo non faceva altro che descrivere se
stesso, così anche nel brano di oggi, che è l’esatta continuazione
del suo discorso di ieri, Gesù non si limita a guardare noi così
come siamo, ma guarda a ciò che noi siamo chiamati ad essere: vede,
in certo modo, se stesso nei suoi discepoli. Non è una descrizione
quella che oggi abbiamo ascoltato, ma è una chiamata, una vocazione
ad incarnare nelle nostre vite, ciascuno secondo la grazia, il dono
ricevuto da Dio, la presenza di Gesù: è Lui quel sale che non perde
mai sapore perché gli compete come cosa propria, aderente al suo
essere (sapienza sopra ogni sapienza e bellezza sopra ogni bellezza,
cantiamo in un nostro inno); è lui la luce che può rendere anche noi
luce anche se non siamo fonte di luce.
Ancora una volta tutto nella vita cristiana si
regge, tutto si spiega, tutto si comunica e si diffonde se, nella
fede, lo teniamo perennemente unito, inseparabilmente unito a Gesù.
È questa adesione profonda e vitale con Gesù che vogliamo rinnovare
anche ora nell’incontro con il Cristo Crocifisso e risorto, potenza
di Dio e sapienza di Dio.
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Domenica
8 giugno 2014
– Pentecoste
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La conclusione del tempo pasquale non è una
conclusione ma un nuovo inizio per la comunità cristiana che riceve
questa effusione dall’alto che la trasforma e la invera. La
pentecoste è la festa della novità cristiana! Lo Spirito che fa
nuove tutte le cose scende oggi sulla Chiesa intera come un tempo
era sceso su quel piccolo gruppo di apostoli che pregavano,
attendevano, speravano e anche temevano, avevano paura, come ci
attesta il Vangelo.
I testi che ci sono proposti per questo anno A
del ciclo liturgico, come abbiamo ascoltato, ci riportano non una
sola Pentecoste ma due Pentecoste, due effusioni dello Spirito. I
Padri della Chiesa si erano già accorti della presenza all’interno
del nuovo testamento di questa duplice pentecoste e avevano tentato
anche di dare delle risposte che armonizzassero tra loro questi due
eventi. C’era perciò chi diceva che “il dono dello Spirito di cui
parla Giovanni era un dono parziale, ristretto, sia quanto al
contenuto sia quanto al numero dei riceventi, una specie di
primizia, rispetto al dono più completo e universale che sarebbe
stato elargito cinquanta giorni dopo.”
(Cantalamessa, “Il mistero di Pentecoste” Ed
Ancora, pag 58).
In pratica i Padri non distinguevano tanto la qualità del dono, il
tipo di dono, ma più che altro l’ampiezza della sua diffusione.
Capito questo noi vogliamo chiederci allora: qual è questo dono, di
che tipo di dono si tratta?
Chiaramente la prima risposta che in modo
immediato ci viene alla bocca è lo Spirito: è lo Spirito Santo il
dono che oggi viene fatto a tutti. Ma lo Spirito nessuno l’ha visto
né allora né oggi. Nei vangeli si parla qualche volta di colomba in
forma corporea, oggi di vento, fragore, lingue come di fuoco, oppure
del soffiare di Gesù sugli apostoli. Sono tutte immagini per
indicare la presenza dello Spirito ma lo Spirito in se stesso rimane
invisibile, inafferrabile nessuno lo può mettere in gabbia perché
non sai da dove viene né dove va. Eppure, dice Gesù, ne senti la
voce. Dunque lo Spirito è donato oggi alla Chiesa, in sé non lo si
vede, ma, e arriviamo alle due Pentecoste dei vangeli di oggi, se ne
vedono gli effetti.
Quali sono questi effetti? Limitiamoci alle tre
letture di oggi. La prima lettura è la narrazione della Pentecoste
lucana cinquanta giorni dopo la Pasqua. Gerusalemme è piena in
questo giorno di gente straniera, giudei osservanti perché la
Pentecoste era già una festa ebraica e allora molti giudei che
vivevano all’estero per quel giorno venivano a Gerusalemme per
offrire le primizie dei raccolti. La Pentecoste era una festa
agricola che dava compimento alla Pasqua che pure, nella sua remota,
arcaica origine, era una festa agricola-pastorizia. In mezzo a
questo grande movimento di gente diversa c’è un piccolo gruppo che
veglia, prega, attende, insieme la venuta dello Spirito fedele alla
parola di Gesù. Il miracolo che si compie è questo: “tutti furono
colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue,
nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”. Il
grande evento è la capacità di parlare lingue nuove, o meglio, di
esprimersi secondo il potere che ciascuno riceveva dallo Spirito.
Questo è il grande miracolo, questo è il grande
segno della presenza dello Spirito: dei galilei, erano tutti
galilei, dice il testo, riescono a superare, ad andare oltre lo
spazio limitato della loro lingua, della loro cultura, del loro modo
comunicare, cioè di tutte quelle connotazioni, se vogliamo naturali
e culturali che li connotavano indelebilmente, e riescono ad entrare
in comunicazione, in dialogo, addirittura si parla di una lingua
nativa – dice il testo – quasi per esprimere la profondità,
l’intimità, la capacità di un linguaggio diretto – senza bisogno di
traduzione - che va al cuore al cuore dell’uditore, con persone
diverse, persone che vengono da altri luoghi e che, tra l’altro
appartengono ormai a quel gruppo religioso da cui i discepoli si
guardavano impauriti, come ci dice il vangelo. Lo Spirito non si
vede ma se ne vedono gli effetti, e questi effetti sono l’incontro,
la capacità di incontrare l’altro, di andare verso l’altro, di
dialogare. Se ci pensiamo un attimo vediamo quanto è lontano questo
evento spirituale (dello Spirito), dall’idea di spirituale che
qualche volte aleggia nel nostro modo di parlare o di pensare, cioè
di uno spirituale non tanto inteso come aggettivo di Spirito santo,
ma come sinonimo di immateriale. Lo spirituale come contrario ad
materiale, corporeo. La Pentecoste smentisce totalmente questa che
in fondo è un’idea più pagana o platonica che cristiana, perché qui,
ma non solo, vedremo anche nel vangelo, possiamo dire che la
Pentecoste è il trionfo dell’incarnazione, è una vera e propria
festa dell’incontro, festa dell’umano, del diverso, dello straniero:
anche a te posso parlare, nella tua lingua, delle grandi opere di
Dio.
Il vangelo ci racconta l’altra Pentecoste, quella
del giorno stesso di Pasqua. Gli apostoli sono sempre nello stesso
luogo come negli Atti, ossia nel cenacolo, le porte sono chiuse,
l’atmosfera è di paura. Hanno paura dei Giudei perché temevano che
avrebbero fatto fare loro la stessa fine di Gesù. Ora in questo
spazio chiuso arriva Gesù dona la pace e da compimento a questo dono
della pace con l’effusione dello Spirito. Però tra questi due
momenti, tra la Pace e lo Spirito, c’è un passaggio fondamentale.
Dice il testo: Gesù, mostrò loro le mani e il fianco. È questa
l’icona, la visione che i discepoli hanno davanti agli occhi quando
ricevono lo Spirito: un Gesù ferito che dona la pace. Cosa farà lo
Spirito? Lo Spirito sarà allora Spirito di misericordia, Spirito di
perdono, Spirito cioè che ricostruisce la relazione tra Dio e gli
uomini, ma anche tra gli uomini tra loro e dell’uomo in se stesso
(perché la riconciliazione è anche questo) mediante le piaghe di
Cristo che sono piaghe eterne. Anche qui, come negli Atti, lo
Spirito si fa artefice di un incontro, lo Spirito realizza una pace
totale mediante le ferite di Gesù. Da questo capiamo tuttavia una
cosa in più rispetto agli Atti: capiamo che se la Pentecoste è festa
di un incontro, cioè passaggio da una relazionalità assente o ferita
ad una relazionalità nuova, questo movimento pentecostale si vive
sempre attraverso la Pasqua di Cristo che lo Spirito ci rende
presente. Lo Spirito oggi ci consegna le piaghe di Cristo per
mostrarci qual è la via dell’incontro e della comunione che anche
qui non è una via astratta, aleatoria, spirituale nel senso di
immateriale, ma è via di perdono ricevuto è donato attraverso le
piaghe di Cristo. “Perdonare – dice Luciano Manicardi – è
donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto
l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una
sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti.”
(…) Ma “Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri,
lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in
lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe
stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se
stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato
a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?”
Questo “dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso”. Ma
il “credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno
regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.”
(LUCIANO MANICARDI - Comunità di Bose - Eucaristia e Parola-Testi
per le celebrazioni eucaristiche - Anno A)
Se Cristo regna in noi, se per grazia dello
Spirito anche noi con san Paolo possiamo dire con tutto il cuore e
con tutta la nostra vita: “Gesù è il Signore”, ecco che si realizza
pian piano questa grande pace pasquale che è la pace del Cristo
Crocifisso e Risorto. Così lo Spirito crea comunione, così lo
Spirito ci rende accessibile quello spazio relazionale nuovo in cui
noi possiamo comprendere noi stessi non più secondo “il vivere per
se stessi” che genera divisioni, discordie, rivalità, vendette,
competizione e desideri di rivalsa, ma secondo la legge dell’amore,
della tenerezza, della dolcezza, del perdono, della comprensione e
accoglienza del diverso, la legge del bene comune: “a ciascuno è
data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene
comune”. Questo nuovo spazio è la Chiesa: nata dalla Pasqua di
Cristo, inviata nello Spirito ai confini della terra nella
Pentecoste, oggi rinasce come primizia di un’umanità rinnovata,
ringiovanita nello Spirito. È questa l'esperienza dello Spirito
Santo che noi oggi vogliamo vivere.
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sabato 7 giugno 2014
- Veglia di Pentecoste - diac. Mario Gazzeri
(Gen 11,1-9 - Es 19,3-8a.16-20b - Ez
37,1-14 - Gl 3,1-5 - Rm 8,22-27 - Gv 7,37-39)
Al termine del periodo pasquale, in questa veglia che ci introduce
alla grande festa di Pentecoste, momento in cui, tramite il dono
dello Spirito Santo, inizia a nascere la Chiesa, vogliamo anzitutto
ringraziare il Signore per averci convocati, per aver messo nel
nostro cuore il desiderio di ritrovarci assieme per pregustare il
dono dello Spirito, ma anche per prepararci a riceverlo di nuovo. Un
grazie dunque per farci sentire, ma soprattutto per averci reso
davvero un piccolo cenacolo, anche noi riuniti in preghiera assieme
a Maria nostra Madre, anche noi timorosi per tutto quello che la
vita ci prospetta e che ci spaventa, per tutto quello che ci fa
sentire inadatti, inadeguati, per tutte le angustie che spesso ci
paralizzano, ci tolgono entusiasmo, voglia di vivere e di operare,
mettono alla prova la nostra speranza.
E
quindi, anche in mezzo a noi è arrivato il Signore per rincuorarci,
per rinsaldare la nostra fede in lui, per consentirci di rinnovare
il nostro affidamento alla sua azione salvatrice.
Abbiamo già avvertito la presenza del Signore che ci ha
abbondantemente nutrito con la sua parola che ci ha fatto percorrere
un lungo cammino attraverso il tempo in cui Dio non ha mai cessato
di guidare il suo popolo, e questo senso della sua presenza si farà
sempre più vivo dentro ciascuno di noi, durante questa solenne
liturgia.
Insieme quindi, con tremore e semplicità vogliamo riflettere sul
messaggio che la Parola ci ha consegnato, leggerlo alla luce di
quella Pasqua di risurrezione che, sola, da un senso alla nostra
vita e alimenta la nostra speranza.
Dai brevi versetti del Vangelo che insieme abbiamo appena udito,
emerge il grido di Gesù al culmine della festa delle capanne, festa
che commemorava il lungo viaggio compiuto dal popolo di Israele dopo
la liberazione dalla tirannia del faraone.
Gesù grida a gran voce perché chiunque ha sete possa venire a lui,
possa facilmente trovarlo, possa dissetarsi. Gesù grida perché chi
crede, possa trovare in lui liberazione, speranza, salvezza.
Il Signore cita poi un brano della Scrittura tratto dal libro del
profeta Zaccaria, in cui afferma che dal grembo di colui che si
disseta in Gesù (paragonato alla Gerusalemme celeste), sgorgheranno
fiumi di acqua viva. E l’evangelista Giovanni è pronto a mettere
subito in relazione questa acqua viva con l’azione dello Spirito
Santo che ancora però non era stato donato.
Anche Sant’Ireneo in una sua riflessione sulla missione dello
Spirito Santo mette in relazione Acqua e Spirito:
come la farina non si amalgama in
un'unica massa pastosa, né diventa un unico pane senza l'acqua, così
neppure noi, moltitudine disunita, potevamo diventare un'unica
Chiesa in Cristo Gesù, senza l'«Acqua» che scende dal cielo. E come
la terra arida se non riceve l'acqua non può dare frutti, così anche
noi, semplice e nudo legno secco, non avremmo mai portato frutto di
vita senza la «Pioggia» mandata liberamente dall'alto.
Ma in precedenza, proprio il Vangelo di Giovanni aveva messo in
evidenza un’altra uguaglianza: nel colloquio con la donna di Samaria,
in cui Gesù presenta sé stesso come quell’acqua viva che disseta per
sempre.
L’acqua viva si identifica quindi sia con lo Spirito e la sua
azione, sia con Gesù stesso; in matematica un teorema dice che se A
è uguale a B e B è uguale a C, allora anche A e C sono uguali fra
loro: cioè se l’acqua viva coincide con lo Spirito e l’acqua viva
coincide con Gesù, allora anche Gesù e lo Spirito coincidono, sono
una cosa sola.
Con il suo grido il Signore ci vuole quindi provocare e lanciare su
un percorso quasi catechetico, per arrivare a mostrarci l’essenza
stessa di Dio, la sua intima struttura trinitaria.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù finora ha solo accennato alcune volte
al ruolo dello Spirito, ma senza troppo approfondire: la prima
volta, quando annuncia ad uno sbigottito Nicodemo la necessità di
rinascere da acqua e da spirito, un’altra volta, dopo il discorso
sul pane di vita, quando afferma che lo Spirito da la vita. Anche
nel colloquio con la Samaritana Gesù accenna alla necessità di
adorare in Spirito e verità, ma senza fornire troppe spiegazioni,
senza troppo approfondire.
Anche questa volta, il grido con cui Gesù annuncia la sua identità
con lo Spirito, colto prontamente dall’evangelista Giovanni, non
aggiunge granché alla possibilità per i discepoli di capire qualcosa
in più su ruolo ed essenza di questo ancora misterioso Spirito.
Bisognerà allora aspettare il momento in cui Gesù pronuncia il suo
discorso di addio ai discepoli, in cui presenta definitivamente lo
Spirito:
io pregherò il Padre ed egli vi darà
un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito
della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non
lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà
in voi.
Gesù annuncia un Paraclito, un consolatore, un aiuto, un difensore,
un ispiratore, e lo presenta come “altro”, come diverso da sé, ma,
allo stesso tempo così uguale, da assicurare nel tempo della storia
quella presenza fra gli uomini che Gesù interromperà, tornando nella
gloria del Padre.
Lo Spirito è infatti colui che può agire in tutto e per tutto come
Gesù, di disporre delle cose del Signore con quella libertà che
deriva dalla sua identità con il Figlio:
lo Spirito della verità, vi guiderà
a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto
ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi
glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Scrive il francese Joseph Moingt, gesuita e teologo, in un libretto
di meditazioni sulla resurrezione di Gesù:
Lo Spirito è una persona di
comunione, di convivialità, di supplenza: egli è in noi la presenza
del Maestro assente, che sostituisce senza prenderne il posto, ed è
in Gesù il dono che noi gli facciamo di noi stessi mediante la fede;
egli è parimenti in noi di volta in volta la voce del Padre che ci
chiama suoi figli e la voce del Figlio che mette sulle nostre labbra
il nome di Padre; egli è Dio che tiene distinti il Padre e il Figlio
l’uno dall’altro riconducendoli all’unità, e colui che permette loro
di abitare l’uno e l’altro in noi e noi in loro come in uno solo.
E
ancora:
Quando si rileggono gli Evangeli
alla luce pasquale degli ultimi insegnamenti di Gesù, ecco che lo
Spirito Santo, in virtù della sua estrema volatilità, poiché è il
soffio di Dio, diventa il personaggio onnipresente dell’evangelo,
colui che segue Gesù come la sua ombra, così come prosegue la sua
storia in noi, presenza dell’inizio in ciò che diviene. Sì, egli è
la terza persona di Dio Trinità, lui che non dice “io”, né risponde
a un “tu”, ma su cui si intrattengono il Padre e il Figlio
progettando di farcene dono per donarsi insieme con lui, lui che
insinua il suo soffio nella nostra parola per farci pronunciare il
nome di Padre e quello di Signore.
Coronano perfettamente questi concetti le parole di Ireneo di Lione:
Lo Spirito discese anche sul Figlio
di Dio, divenuto figlio dell'uomo, abituandosi con lui a dimorare
nel genere umano, a riposare tra gli uomini e ad abitare nelle
creature di Dio, operando in essi la volontà del Padre e
rinnovandoli: dall'uomo vecchio alla novità di Cristo.
Abbiamo quindi finora parlato dell’identità trinitaria fra Figlio e
Spirito, ma tutto il vangelo di Giovanni è proteso ad affermare con
forza l’identità trinitaria fra Padre e Figlio, fino dal suo
prologo:
In principio era il Verbo, e il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
E
anche:
Dio, nessuno lo ha mai visto: il
Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha
rivelato.
Nei discorsi di congedo Gesù afferma poi, rispondendo a Filippo:
Chi ha visto me, ha visto il Padre…
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me.
E
ancora:
Padre santo, custodiscili nel tuo
nome, quelli che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi.
E
ancora altro si potrebbe aggiungere. Identità quindi fra Padre e
Figlio, affermata con chiarezza a più riprese dalle stesse parole
che Gesù rivolge ai suoi discepoli.
Se quindi applichiamo ancora quel teorema di cui abbiamo parlato
all’inizio, se lo Spirito è una cosa sola con Gesù e Gesù è una cosa
sola con il Padre, allora anche lo Spirito e il Padre sono una cosa
sola.
Ecco quindi la bellezza del messaggio trinitario che Gesù lancia con
il suo grido nel mezzo della folla riunita nel tempio di Gerusalemme
al culmine della festa, un messaggio ancora incompiuto per gli
orecchi dei discepoli che, come sottolinea il testo di Giovanni, non
avevano ancora ricevuto il dono dello Spirito, ma che, grazie alla
potenza della Risurrezione, stava per essere effuso.
Anche per di noi il grido di Gesù arriva nel momento in cui il tempo
pasquale, il tempo della Risurrezione, culmina nell’evento della
Pentecoste. Per noi però, che questo dono abbiamo già ricevuto, è
ormai tempo di contemplare la bellezza di questo Dio trino e unico,
una Trinità che si alimenta del fuoco interno del suo amore, come
afferma sempre Giovanni nella sua prima lettera. L’amore che è Dio
rifiuta la solitudine ed ha bisogno di essere comunicato, condiviso,
donato.
Questa è l’essenza intima della Trinità, e noi, del tutto
immeritatamente, siamo i destinatari di questo amore sconfinato.
La bellissima e intensa icona della Trinità scritta dall’iconografo
russo Andreji Rubiev ritrae i tre misteriosi personaggi che visitano
Abramo e che l’iconografo riconosce come le tre persone divine. Le
tre figure sono racchiuse in un cerchio perfetto nel quale si
avverte, quasi si respira, l’amore che circola fra loro. Ma questo
amore non è fine a sé stesso, non rimane confinato nel solo spazio
trinitario: in basso, il cerchio che unisce le tre persone è aperto,
spalancato verso quella umanità che siamo noi, per renderci
partecipi di questa circolazione di amore, anzi, per richiamare e
accogliere nel cerchio trinitario tutti coloro che non si rifiutano
di ospitare questa continua pioggia di amore.
In questa notte resa santa dall’attesa della venuta fra noi dello
Spirito, di quello Spirito annunciato da Gesù con il suo grido in
mezzo alla folla, vorrei quindi pregare a nome di tutti il Signore
di gridare ancora più forte, perché anche i nostri orecchi così
facilmente resi sordi dal vivere quotidiano, siano finalmente capaci
di cominciare a udire, per poi accogliere e per poi ridonare l’amore
che il Signore continuamente fa piovere su di noi.
Che il nostro mondo contemporaneo abbia bisogno di riscoprire
l’amore, che le tante famiglie in crisi abbiano bisogno di
riscoprire l’amore, che i responsabili della cosa pubblica abbiano
bisogno di riscoprire l’amore, che coloro che spargono odio abbiano
bisogno di riscoprire l’amore, tutti ne siamo perfettamente
consapevoli; ma ognuno di noi, nel piccolo della propria esistenza
quotidiana, ha bisogno di ricentrare sull’amore la propria vita, di
riscoprire l’amore come sorgente insostituibile delle piccole
attenzioni verso il marito o la moglie, verso i figli, i fratelli,
le sorelle, i nipoti, gli anziani, gli inopportuni, gli scocciatori,
i nemici, di rimettere al centro del proprio agire e del proprio
sentire proprio quell’amore che ha nella Trinità la sua sorgente
Affidiamoci dunque a Maria, presente con gli apostoli nel cenacolo e
presente questa sera anche in mezzo a noi, perché lei, che si è
nutrita dello Spirito Santo, che ha nutrito con latte e Spirito
Santo il piccolo Gesù e che, sola fra tutti, non era presenza
timorosa, ma anzi capace di infondere fiducia e speranza negli
apostoli smarriti, aiuti anche noi, ugualmente smarriti e sgomenti,
ad accogliere in pienezza, nella Pentecoste ormai imminente, il
rinnovato dono dello Spirito, perché egli possa con i suoi gemiti
inesprimibili, intercedere per noi presso il Signore.
Amen
|
venerdì
5 giugno 2014
– VII settimana di Pasqua
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La liturgia di oggi ci pone di fronte agli occhi
questo splendido dialogo che abbiamo ascoltato tra Gesù Risorto e
Pietro. Mancano poche ore alla Pentecoste, all’effusione dello
Spirito e la Chiesa ci offre un testo così bello per prepararci ad
accogliere il dono dello Spirito che è un dono di potenza, di forza
che viene in aiuto alla nostra debolezza. Che legame c’è tra la
venuta dello Spirito Santo e il brano di oggi? Apparentemente
nessuno infatti qui lo Spirito non viene nemmeno menzionato, ma
forse questo legame viene proprio dal tema della debolezza, questa
scoperta e accettazione della propria debolezza che ha fatto anche
Pietro e che vuole diventare anche nostra scoperta per prepararci
alla venuta dello Spirito.
Pietro, come abbiamo sentito, dialoga con Gesù. È
un dialogo personale, privato, gli altri discepoli sono lontani, ed
è il primo dialogo che Pietro ha con Gesù dopo gli eventi della
Pasqua. Ricordiamo bene che Pietro durante i giorni della Passione e
morte di Gesù non aveva fatto una gran bella figura. A parole aveva
promesso fedeltà totale, fino in fondo al suo Maestro: “Signore,
darò la mia vita per te!” aveva detto a Gesù, ma poi queste parole
così cariche di eroismo saranno presto smentite dai fatti perché
Pietro, come sappiamo, non solo fuggirà via quasi subito, ma
addirittura mentirà apertamente dicendo di non conoscere
assolutamente Gesù e di non appartenere al gruppo dei suoi
discepoli. Ecco che questa è la situazione. Abbiamo un Pietro
deluso, abbiamo un Pietro scoraggiato, un Pietro che ha dovuto fare
i conti con la sua incapacità di andare dietro al Signore fino in
fondo. Eppure Pietro attraverso questo fallimento, attraverso questa
profonda delusione verso se stesso, verso le sue capacità, compie un
grande salto di qualità nella conoscenza di sé e soprattutto, nella
sequela di Gesù. Pietro infatti fa una grandissima scoperta: scopre
che è debole, scopre che è piccolo, scopre che di suo, per quanto
cioè attiene alle sue umane capacità, non è capace di essere
discepolo di Gesù. Sembrerà strano ma il vero progresso per Pietro è
proprio questo, ossia l’incontro con la propria fragilità. Qui
Pietro fa un grandissimo passo in avanti. Non perché la debolezza
umana in sé sia qualcosa di buono, ma perché finché l’uomo non
incontra, non scopre, fino ad esserne profondamente convinto, che è
debole e piccolo, rimane sempre un po’ chiuso alla grazia di Dio,
alla sua potenza che si dona non a chi crede di essere forte, ma a
chi si riconosce debole. Pietro, lo conosciamo, era infatti un tipo
irruento, impulsivo. Pietro, se prendiamo per esempio il capitolo 16
del vangelo di Matteo, è quello che addirittura fa da maestro anche
a Gesù quando lo prende in disparte e lo rimprovera perché Gesù
aveva profetizzato la sua passione e la sua morte. Possiamo perciò
bene intuire che colpo dev’essere stato per un tipo così, cioè così
sicuro di sé, questo suo rinnegamento del Signore: è una catastrofe
perché a questo punto Pietro non solo vede crollare, in qualche
modo, il suo rapporto con Gesù, ma crolla anche l’immagine che lui
aveva di se stesso: tante parole, tante promesse che non è riuscito
a mantenere. Ma vediamo che il giudizio che probabilmente Pietro,
col suo modo di pensare così eroico aveva dato di se stesso, non è
quello di Gesù. Se Pietro non crede più in se stesso, Gesù invece
continua a credere, ad aver fiducia in Pietro, e il brano di oggi è
proprio questo dialogo della fiducia da cui tutto riparte per
Pietro. Ma riparte da una base nuova, cioè non più dalla virtuosità
di Pietro, dalla bravura di Pietro, che come abbiamo visto era stata
smentita dai fatti, ma dall’incontro dell’amore di Gesù con la
debolezza di Pietro.
Come Gesù rilancia il dialogo, la chiamata a
Pietro? Come Gesù chiama di nuovo Pietro a seguirlo? Ecco, il testo
di oggi ci presenta questa triplice interrogazione che sicuramente
va in parallelo con il triplice rinnegamento di Pietro, a cui però
Gesù non fa più riferimento. Gesù non è arrabbiato con Pietro, non
gli rinfaccia le sue mancanze, non mette in luce i suoi limiti, le
sue incapacità. Tutt’altro! Pietro, del resto, li aveva già scoperti
da solo. Gesù, invece, va incontro a Pietro e lo prende per mano in
un dialogo dalla grandissima dolcezza. Il testo greco del testo ci
presenta delle sfumature bellissime che non dobbiamo lasciarci
sfuggire. Gesù infatti quando chiede a Pietro: Simone di Giovanni mi
ami più di costoro? usa un verbo particolare che è il verbo
agapao che è il verbo dell’amore in senso forte, dell’amore che
si fa dono totale, agapao significa ‘amare di amore
gratuito’. E cosa risponde Pietro? Pietro risponde: Certo signore,
tu lo sai che ti voglio bene. Cioè Pietro cambia verbo. Pietro non
se la sente la sente di usare lo stesso verbo agapao espresso
da Gesù, ma consapevole della propria debolezza usa un altro verbo.
Non dice: Sì Signore, io ti amo; ma si limita ad un semplice ‘ti
voglio bene’; è un altro verbo, il verbo fileo che dice un
amore amicale; è certo amore vero ma più superficiale, dice un
rapporto più distaccato, meno impegnativo con Gesù. La stessa cosa
capita la seconda volta: Gesù chiede ancora amore gratuito, amore di
dono (verbo agapao) e Pietro risponde ancora con il verbo
fileo, amore amicale. La terza volta invece cambia qualcosa: Gesù
per la terza volta interroga Pietro, ma questa volta non usa più il
verbo del grande amore, ma usa il verbo che aveva usato Pietro nelle
sue risposte, il verbo dell’amicizia, fileo: Pietro, mi sei
amico? In questa sfumatura del linguaggio si nasconde per noi un
grande messaggio: Gesù in questo cambio di verbo si mette al livello
di Pietro: capisce che Pietro non ce la fa, non se la sente di
dichiarargli il più grande amore, non è in grado di promettere un
tale amore perché ormai ha toccato con mano la sua fragilità, e
allora Gesù cosa fa? Usa anch’egli il verbo fileo, il verbo
dell’amicizia, Gesù scende al livello di Pietro e lo accoglie a quel
gradino a cui realisticamente si trova. Prima Gesù sembrava esigere
un amore talmente radicale da essere al di sopra di tutto. Poi pian
piano riduce quanto esige e chiede: “Almeno mi ami?” Gesù è come se
abbandonasse, in un certo senso, quella che poteva essere una sua
pretesa nei confronti della disponibilità di Pietro e accetta,
accoglie Pietro al livello in cui si trova. Gesù preferisce un amore
piccolo, un amore fragile ma vero e autentico e disposto a crescere
e lasciarsi purificare, piuttosto che grandi promesse di amore che
però rimangono un po’ promesse da marinaio. Gesù preferisce la
sincera debolezza di Pietro piuttosto che la sua demagogica forza e
fedeltà che in realtà non era che una maschera. Pietro in questo
modo impara ad amare Gesù così com’è, senza bisogno di maschere,
senza voler a tutti i costi sembrare migliore di quello che è o
migliore degli altri, dinamica magari inconscia o inconsapevole.
Sembrerà paradossale, forse assurdo, ma solo a questo punto Pietro
sarà in grado di pascere il gregge del Signore, non più partendo
però dalle sue pseudo - capacità, ma partendo dalla sua debolezza,
così com’è, senza presunzione ma senza neanche disperazione.
In questo cari fratelli, sorelle e amici, viene
dato anche a noi un messaggio di speranza fortissimo. Perché nella
debolezza di Pietro noi forse riconosciamo un pochino anche la
nostra debolezza. Pietro ormai ha fatto tutto un cammino di
crescita, ha imparato da queste vicende e soprattutto dall’incontro
con l’amore e la misericordia di Gesù, a riconoscere e ad accettare
la sua debolezza, a riconciliarsi con i propri limiti. È un cammino
che non ha percorso da solo ma, come abbiamo visto, l’ha fatto mano
nella mano con Gesù. Ma noi, cosa ne facciamo della nostra
debolezza? Ci sono infatti due atteggiamenti estremi, entrambi
sbagliati, di relazionarsi con la propria fragilità: il primo è
quello che un autore belga (André Louf, “Sotto la guida dello
Spirito” Ed Qiqaion – Bose) definisce quello del peccatore
incallito: cioè quello, che ‘ci marcia’ nella propria debolezza, sta
bene nel peccato e non vuole minimamente uscirne, non vuole
rovesciamenti, non vuole conversione, sta bene così: apparentemente
il peccatore incallito è riconciliato con la propria debolezza, cioè
la accetta in modo acritico; in realtà questa più che una sana
accettazione del proprio limite è una sorta di matrimonio con il
peccato e rifiuto della conversione. Anche se, tuttavia è lecito
pensare che in realtà esistono pochissimi peccatori incalliti.
L’altra categoria che invece è più numerosa della prima, è quella
dei giusti incalliti, cioè quella delle persone che credono di
potersi santificare da soli: la loro vita è tutto uno sforzo, tutto
un merito, tutto si poggia sulle loro capacità, la loro bravura; una
religiosità che guarda a quello che noi possiamo fare per Dio più
che a quanto Dio ha fatto e fa per noi. Dietro a questo sentimento
forse in fondo si nasconde una sorta di paura di Dio e per cui
queste persone si sentiranno più o meno liberate da questa paura
nella misura in cui riusciranno a realizzare il loro ideale di
religione nella vita quotidiana. Fanno del loro meglio per
allontanare, calmare questa paura di Dio a colpi di generosità e di
virtù; e più vi riescono e più calmano questa paura e si persuadono,
in qualche modo, di meritarsi l’amore di Dio. La loro santità sono
se stessi.
Ora c’è qualcosa che accomuna queste due
categorie estreme di persone e cioè che sia i peccatori incalliti
che i giusti incalliti non hanno incontrato fino in fondo l’amore e
la misericordia di Dio. E dunque, non avendo fatto questo incontro
con un Dio che è amore, non avranno neanche un sano rapporto con la
loro
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mercoledì
4
giugno 2014
– VII settimana di Pasqua
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il discorso di Paolo agli anziani di Efeso e la
preghiera sacerdotale di Gesù sono due testi che si assomigliano,
hanno dei tratti comuni che vogliamo far emergere un pochino. Da
questa somiglianza infatti viene fuori un messaggio importante per
noi che ci troviamo in questo breve spazio di tempo un po’ incerto
tra l’Ascensione del Signore e la venuta dello Spirito. Incertezza
che nasce dall’attesa: i discepoli attendono un nuovo battesimo
nello Spirito Santo, ma non sanno bene né come avverrà né in che
cosa consisterà. Sono nell’attesa e attesa vuol dire anche un po’
incompiutezza: manca qualcosa e lo attendiamo con perseveranza e
nella fiducia.
Dicevamo che questi due testi si assomigliano e
ci lanciano un messaggio che vogliamo illumini anche la nostra
attesa dello Spirito. Il primo tratto importante di somiglianza è
che sono due discorsi, come dire, degli ultimi giorni. In che senso?
Nel senso che, seppur su piani diversi, sia Paolo che Gesù si
trovano in fondo, verso la fine della loro missione. Le loro sono
perciò parole che hanno un valore, un peso particolare perché è come
se fossero una sorta di testamento. E ogni testamento riguarda un
bene prezioso, il bene più importante che ha il testatore. Qual è la
ricchezza, il bene più grande, l’eredità che questo testamento
contiene? Dalle parole di Paolo agli anziani di Efeso e di Gesù in
preghiera intima e profonda davanti al Padre Suo, noi capiamo che
questa eredità preziosa è la comunità dei credenti: per Gesù sono i
suoi discepoli e tutti coloro che dopo di loro e grazie a loro
crederanno; per Paolo quest’eredità è la comunità di Efeso che per
due anni ha accompagnato, servito e fatto crescere ed ora si
appresta ad abbandonare per sempre. E in questa eredità ci siamo
anche noi discepoli di oggi: noi, cari fratelli e sorelle siamo la
ricchezza di Dio, l’eredità di Dio, il bene che come un testamento
prezioso Paolo ma, prima ancora Gesù stesso, affidano al Padre.
Questa è la prima cosa che dobbiamo ricordare sempre e mai
dimenticare: ciascuno di noi entra, in questo senso, nel testamento
di Dio, appartiene a questo scrigno unico e prezioso di Gesù e del
Padre, quella ricchezza per la quale Cristo ha dato la vita.
Ciascuno di noi è un dono preziosissimo e così, come una ricchezza
dal valore inestimabile deve considerare la propria vita e quella
degli altri.
A questo punto, avendo colto un pochino qual è la
ricchezza di questo testamento, possiamo andare un po’ più in là e
vedere che cosa Gesù e Paolo desiderano per questo tesoro
preziosissimo che siamo noi. Ebbene, se diamo una lettura, anche
solo veloce, a questi due testi, ci accorgiamo che c’è una parola,
anzi, un verbo, che ritorna più degli altri, e questo verbo è il
verbo custodire. Guardando anche solo ai testi di oggi, che
sono solo una parte del discorso agli anziani di Efeso e della
preghiera di Gesù, si possono contare almeno otto ricorrenze di
questo verbo o di suoi sinonimi o sostantivi che racchiudono la
stessa idea, cioè che questo tesoro siamo noi e che siamo un tesoro
da custodire! Gesù e san Paolo sulle sue orme sentono questo forte
desiderio di custodia di questa eredità acquistata dal sangue di
Cristo, perché nessuno si perda. Gesù lo chiede al Padre: “Padre
santo custodiscili nel tuo nome … quando ero con loro io li
custodivo nel tuo nome; e ancora: non prego che tu li tolga dal
mondo, ma che li custodisca dal Maligno.” E Paolo, dal canto suo, lo
chiede, anzi lo ordina agli anziani di Efeso: Vegliate su voi stessi
e su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha
costituiti come custodi.”
Ma custodire, è anche il verbo di Maria: il
pregare di Maria era proprio un custodire tutto nel suo cuore, lei
che fu chiamata a custodire anche nel suo corpo quel seme divino da
cui è nato Gesù, il pastore e custode delle nostre anime. Ed è
sempre Maria la donna vigilante, la donna custodente, perseverante
in questo stato di custodia che veglia nel cenacolo insieme agli
altri in attesa dello Spirito. Da tutto questo capiamo che la Chiesa
nascente, a Gerusalemme prima, ad Efeso poi, ma qualsiasi altra
comunità di fede che si avvia alla crescita, cioè ad una fase più
matura della sua storia, è una comunità chiamata ad imparare e a
vivere quest’arte divina e materna della custodia. Arte divina, arte
materna ma possiamo aggiungere anche arte feconda, perché laddove
c’è custodia c’è anche dono. Il custodirsi e il custodire, l’aver
cura di sé e degli altri è la condizione per portare frutto e per
fare della propria vita un dono. Non ci si può donare a lungo se non
ci si sa custodire.
Il desiderio di Gesù e di Paolo divenga allora
anche il nostro desiderio. Forse questo è proprio il primo dono che
vogliamo chiedere allo Spirito per questa Pentecoste: che ci insegni
e ci prepari a ri-accogliere e a custodire quel dono che ciascuno di
noi è: per se stesso, per le nostre comunità, per la Chiesa e per il
mondo intero. Il mondo riconosca così, dall’amore e dunque dalla
custodia, dalla cura che abbiamo gli uni per gli altri, che siamo
discepoli di Cristo, suo tesoro, sua ricchezza, eredità di Dio.
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Domenica
1°
giugno 2014
–
Ascensione
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Con la solennità dell’Ascensione del Signore
giunge al suo compimento quel processo di glorificazione del Figlio
di Dio che aveva avuto inizio al triduo pasquale. Padre – aveva
pregato Gesù nell’ora della Passione – glorifica il figlio tuo! Una
gloria che come sappiamo non era la gloria del mondo, non era fuga
dal mistero della sofferenza e della morte, ma era vittoria sul
peccato e sulla morte vincendo il nemico – se così si può dire –
proprio sul suo campo. Come cantiamo spesso: Cristo, con la tua
morte hai vinto la morte. Il mistero che oggi celebriamo è dunque
compimento di questa gloria del Cristo che dopo aver compiuto fino
in fondo la sua missione presso gli uomini, dopo aver amato fino
alla fine i suoi che erano nel mondo, ascende al cielo, ritorna
presso il Padre anche se mai, a dire il vero, si era allontanato da
Lui.
Cosa resta ai suoi discepoli che fino ad ora
l’avevano seguito, l’avevano imitato, l’avevano amato pur con tutte
le debolezze di uomini dalla fede incerta? Apparentemente rimane un
vuoto: non vedranno più il volto di Gesù che avevano conosciuto di
persona. Pensiamo alla gioia profonda degli apostoli nel giorno di
Pasqua e per tutti questi quaranta giorni: Gesù è vivo - Si
gridavano l’un l’altro - ed è apparso a Simone! Ora questo nuovo
allontanamento sembra smorzare un po’ gli entusiasmi e lasciare dei
discepoli ancora più incerti nella loro solitudine. Questo è quanto
appare ad un primo sguardo.
Eppure prima di ascendere al cielo Gesù rivolge
ai suoi e anche a noi che oggi celebriamo questa festa, una parola,
una promessa che accompagna tutta la storia, attraverso i secoli per
sempre: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo.” è una parola nota, che abbiamo sentito tante volte e che
interpretiamo immediatamente come presenza invisibile, spirituale.
Ma proviamo per un attimo ad accogliere quest’oggi questa Parola con
gli orecchi degli apostoli. Quel “essere con voi” aveva per loro un
significato ben preciso, per loro che erano stati fisicamente,
materialmente con Gesù: era una vera e propria compagnia, sequela,
amicizia, era un camminare al passo con Gesù e un continuo ascolto
della sua voce.
Pensiamo a quanti eventi si risvegliavano nella
memoria dei discepoli pensando agli anni trascorsi con Gesù,
pensiamo a quante cose potevano mettere gli apostoli in questo “con
voi”! ecco che tutto questo ora che Gesù ascende al cielo non
finisce: non è l’epilogo di una bella fiaba ma è l’inizio di
un’epoca nuova per la storia dei discepoli, per la storia della
Chiesa e per tutta la storia. È l’ingresso in quell’universalità
della presenza di Cristo che ormai, proprio perché asceso presso Dio
non solo come Figlio di Dio, ma anche come figlio dell’uomo in
eterno, è davvero ancor più vicino a tutti. Come Gesù era con loro,
ora lo è realmente con noi. Questo ‘sono con voi’ questa divina
compagnia di Gesù è ormai una compagnia potenzialmente universale,
al di là del tempo e al di là dello spazio, perché ormai Cristo è
presente laddove c’è un cuore che lo voglia accogliere. “credi in
lui – diceva sant’Agostino – e lo vedrai; non sta davanti ai tuoi
occhi e tuttavia il tuo cuore lo possiede”
Sì, un cuore, perché questo cielo che accoglie
Gesù che ascende sappiamo che non è semplicemente il cielo come
realtà materiale, fisica. L’ascensione di Gesù non è un viaggio
negli spazi infiniti dell’universo, tra gli astri e le stelle, che
in fondo sono ancora elementi materiali come la terra. Il cielo che
Gesù raggiunge è la dimora di Dio: mai il Figlio dell’uomo aveva
abbandonato questa dimora neanche durante gli anni della sua
missione terrena, ma ora ci ritorna non come prima ma con tutta la
nostra natura umana in Lui glorificata. Il cielo allora non è tanto
un luogo ma è una presenza, ed è la presenza di Dio: laddove c’è
Dio, laddove Dio dimora si forma, se così possiamo dire, un cielo,
anche se questo luogo fosse sulla terra. Il nostro cuore può
diventare così un cielo, le nostre comunità, la Chiesa possono
essere ormai questo cielo nel senso di stabile dimora di Dio.
Se il regno di Dio è dentro di noi è quindi
dentro di noi anche questo cielo in cui Dio vuole abitare e regnare.
Vista da questa prospettiva l’ascensione del Signore non è più
allora allontanamento, assenza, ma è inizio di una nuova forma di
presenza ormai disponibile a tutti coloro che vogliono vivere la
loro terra come un cielo. La distanza tra cielo e terra si assorbe e
si annulla in questa presenza di Dio che cerca dimora in ciascuno di
noi. È questo, potremmo dire il paradosso di questo evento
dell’Ascensione del Signore! Si allontana dalla terra ma resta con
noi tutti i giorni fino alla fine del mondo; abbandona il mondo ma
per avvicinare il mondo a sé e preparare, anticipare quella
comunione di vita eterna che attende tutti i santi nel cielo. La
beatitudine futura infatti, è bene ricordarlo, non sarà negazione
della terra ma glorificazione della terra. La vita eterna non è
morte della vita presente ma pienezza della vita terrena, una
pienezza che già è disponibile per chi vuol fare della propria terra
un cielo.
Infine un ultima cosa importante: Gesù sparisce
dalla vista dei discepoli, non lo vedranno più. Ma, possiamo
chiederci, finisce anche il cammino dei discepoli? Nel senso: prima
era ormai chiaro, inculcato nella mente dei dodici l’idea di
sequela: chi non viene dietro di me, chi non rinnega se stesso –
diceva Gesù, non può essere mio discepolo. Essere discepolo di Gesù
significava andare dietro a Gesù. Ora che Gesù non lo si vede più
cosa significa seguirlo? È questa una questione a cui oggi non
possiamo rispondere pienamente, bisogna aspettare domenica prossima,
la venuta dello Spirito, la festa di Pentecoste. Ma una cosa
possiamo già dirla: Gesù che ascende al cielo non cessa di guidare i
suoi; non solo perché rimane presente ma anche perché salendo al
cielo ci mostra, in fin dei conti, il cammino definitivo che è un
cammino verso il Padre. In questo Gesù ci offre la bussola
perennemente valida per ogni cammino cristiano, una bussola che è la
volontà del Padre. Gesù aveva fatto sempre di questa volontà il suo
sostentamento, il suo cibo: mio cibo – diceva – è fare la volontà
del Padre.
Ora questo nutrimento vuole darlo anche a noi.
Gesù, via, verità e vita, ascendendo al cielo ci indica, ci insegna
ancora una volta, a vivere la nostra vita come un cammino, un’ascesa
verso il Padre. Cosa vuol dire cercare le cose di lassù – come ci
esortava Paolo? In fondo vuol dire proprio questo: ricordarci che
siamo in cammino con Gesù verso il Padre: nel concreto vuol dire
saper organizzare, vivere la nostra vita avendo il coraggio di
volgere lo sguardo, i pensieri, la nostra ricerca verso l’alto,
verso Cristo che ci precede (Cfr. S. Giovanni Paolo II omelia in
Lussemburgo). “Ma gli uomini di oggi – riconosceva san Giovanni
Paolo II in una sua omelia – accecati dal progresso e dal benessere,
volgono spesso il loro sguardo solo verso la terra; non guardano più
in là del mondo in cui si chiudono, accettano la secolarizzazione.
Si organizza coscientemente il proprio stile di vita in funzione
delle sole realtà di questo mondo, senza curarsi di Dio e della sua
volontà. È da sempre questa stessa tentazione di dimenticare Dio, o
almeno di vivere come se non esistesse. Questa maniera di vivere,
nella quale ci si rifiuta di guardare al Padre che è nei cieli, non
può tuttavia soffocare l’aspirazione profonda dell’uomo, perché il
suo destino è un destino di eternità.” Colui che ci ha preceduto e
che ci prepara un destino di eternità è anche colui che ci
accompagna e ci attende e che un giorno ritornerà per regalarci un
cielo e una terra nuovi in cui dimorare nella gioia per sempre. Non
lasciamoci rubare, soffocare, uccidere l’aspirazione, la sete di
eternità che il Signore ha posto nella nostre anime, ma seguiamo
Gesù fino in fondo verso il Padre.
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giovedì
29
maggio 2014
– VI settimana di Pasqua
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Paolo fabbricante di tende ci riporta, forse casualmente, ad un
elemento simbolico dal grande valore. La tenda luogo di incontro,
luogo di intimità, luogo in cui Dio, lo ricordiamo, parlava faccia a
faccia con Mosè. La tenda dunque come spazio di incontro famigliare,
in cui gli uomini si riconoscono uniti, legati, da un vincolo
parentale o di amicizia, di fraternità o anche solo di prossimità.
Ma anche la tenda come luogo di intimità con Dio, lo sposo, l’amico.
Paolo prima è costruttore di tende e poi, dice il
testo, comincia a dedicarsi tutto alla parola; è uno strano
passaggio eppure c’è una continuità: per Paolo, a Corinto, si tratta
ancora di fabbricare una tenda, anzi una nuova tenda, un nuovo
spazio di incontro tra gli uomini e dell’uomo con Dio in una città
sconosciuta e pagana dove il vangelo non era ancora giunto. Ed è
proprio quanto davvero Paolo farà a Corinto, comunità cristiana a
cui indirizzerà due lettere bellissime e quanto mai attuali anche
per il nostro tempo di neo paganesimo.
Corinto era conosciuta come una città della
trasgressione, una trasgressione fatta culto (il fiorente culto di
Afrodite); una città che cerca così, a modo suo, la felicità. A
Corinto Paolo annuncia la gioia del vangelo, una gioia diversa, una
gioia cioè che non disprezza i beni della terra, che non disprezza
neanche la bellezza dell’uomo, della donna e della sessualità, ma
che sa che tutto questo ha due caratteristiche fondamentali: è
passeggero, cioè, connota il nostro carattere pellegrinante di
questa nostra vita che attende la venuta del regno (fratelli il
tempo si è fatto breve!); e, seconda caratteristica, tutto questo
non ha in sé il suo senso ultimo, cioè non porta in se stesso il
suo compimento ma lo riceve da quella Bellezza piena e ulteriore,
che è Dio stesso, verso cui tutti beni di questo mondo, se
rettamente ordinati, ci portano.
Paolo in questo, lo diceva lui stesso, si
definisce “collaboratore della vostra gioia” ed è con questo spirito
che porta il Vangelo in una città come questa. La gioia di Paolo che
è la gioia del vangelo, vince sulla cultura del piacere che anche
oggi rattrista molti e forse tenta di rattristare anche coloro che
già hanno sperimentato la gioia che viene da Dio. Proprio questa
gioia Gesù ci promette in modo solenne nel brano di oggi: “la vostra
tristezza si cambierà in gioia”. Ricordiamolo e crediamolo anche
quando la nostra gioia è messa alla prova, viene purificata, viene
convertita e sembra che vera gioia non sia.
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venerdì
23
maggio 2014
– V settimana di Pasqua
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Non c’è bisogno di particolari intuizioni
spirituali o di speciali spiegazioni esegetiche o filologiche per
capire che Gesù, nel trasmettere ai suoi discepoli il comandamento
nuovo dell’amore non fa altro che consegnarci, come dire, la sua
stessa regola di vita. Ciò che chiede a noi non è per nulla diverso
da quanto Gesù vive in prima persona. Quanto è motivante per noi
tutti avere un Maestro così! Noi in genere scherzando quando
qualcuno ha un linguaggio un po’ sofisticato o un po’ diverso dallo
stile che ha di solito nell’atteggiarsi, gli diciamo: parla come
mangi. Ecco di Gesù invece potremmo dire senza pensarci due volte
che lui ‘parla come vive’. A tal punto che lui stesso può dire:
quello che vi dico fatelo, non come lo capite voi ma come lo vivo
io. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri
come io ho amato voi. Questa seconda parte della frase, se ci
pensiamo, è più importante della prima. La prima infatti c’era già
anche prima, ricordiamo l’antico precetto dell’amore: ama il
prossimo tuo come te stesso. L’antico testamento già ci dava un
comandamento, ma non ci dava nessun modello.
Ora Gesù in questo “come io vi ho amati” ci
spalanca davanti un universo davvero nuovo. Potremmo addirittura
dire che la prima parte di questo comandamento avrebbe anche potuto
non esserci, sarebbe bastato guardare a Gesù per capire come
dobbiamo vivere. Gesù avrebbe potuto dire: Vi do un comandamento
nuovo: guardate me e fate come me. Questa è la vera novità e questa
rimane non soltanto una sfumatura dell’amore ma il contenuto
dell’amore stesso, quello vero intendo. Se parliamo dogmaticamente
diciamo che con Gesù siamo arrivati alla pienezza della Rivelazione;
ma se parliamo in chiave morale, spirituale, esistenziale non
possiamo non riconoscere che con Gesù siamo arrivati alla pienezza
dell’amore. Mai nessuno ha parlato come parla quest’uomo, dicevano
le guardie che erano venute per arrestarlo. Ma cosa c’è dietro
questa esclamazione? Forse sotto sotto c’è già un’intuizione, certo
ancora inconscia in queste guardie, sicuramente più sconvolgente:
mai nessuno ha vissuto come ha vissuto quest’uomo! Cos’è allora
l’amore? Ebbene, l’amore è Gesù, l’amare è Gesù. La vita e le
relazioni viste da questa prospettiva cambiano totalmente. L’altro
cambia, persino Dio appare in una luce nuova, noi stessi cambiamo,
le dinamiche umane cambiano per inserirsi sempre più in questo “come
io vi ho amati” che rimane per noi il nuovo comandamento.
Nella liturgia di oggi però non c’è solo il
vangelo, c’è anche la prima lettura presa dal libro degli Atti. E in
questa prima lettura, anche qui vediamo che si parla di
comandamenti, più precisamente, di obblighi necessari. “è parso bene
allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi alcun obbligo al di fuori
di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli,
dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime.
Farete bene a stare lontani da queste cose”. Per cui la Chiesa di
Gerusalemme, animata dallo Spirito, si sente autorizzata, anzi si
sente in dovere di dare delle norme concrete per i discepoli, norme
che identifica, definisce con due espressioni che dicono un po’ la
stessa cosa: ‘cose necessarie’ cioè essenziali, non possono non
esserci, cose che non si possono non fare, e ‘obblighi’ (per cui
cose da fare per forza, ancora, cose necessarie). Per cui queste
indicazioni che venivano date per i pagani, nel contesto del
discernimento Legge di Mosé sì o Legge di Mosé no, diventano, come
dire, il minimo da seguire per loro per poter essere ammessi alla
Chiesa. Ebbene, tra un minimo normativo di
base e l’amore più grande (nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la sua vita per i propri amici) che ci viene dal comandamento
nuovo del vangelo di oggi, si colloca anche il nostro essere
cristiano di oggi. Andiamo dal minimo di cose da fare, precetti da
osservare, comandamenti da rispettare, la famosa “morale naturale”,
che si esprime anche nel Decalogo, alla pienezza dell’amore di Gesù
che ci stimola sempre a dare di più, che ci stimola ad entrare in
questa pienezza dell’amatevi “come io vi ho amato”.
Nella nostra vita cristiana ci troviamo un po’
così in bilico tra la sufficienza, “il sei” tra virgolette, e il
desiderio di una misura più alta, la misura dell’amore che, a questo
punto, chiede la vita: non basta più fare delle cose, ma ci si dà,
ci si perde in questo amore di Gesù che vogliamo diventi anche il
nostro. Vediamo, tra l’altro, che tra questo minimo e questo
massimo, a questo punto non c’è più legge che tenga, ma non rimane
altro che il sì libero dell’amore che si dona liberamente e
volontariamente. E questo sì che anche oggi, stasera, il Signore
vuole pronunciare insieme a noi. Insieme a Gesù che ci chiama a
prendere parte all’offerta di se, al suo sì, anche noi vogliamo
pronunciare il nostro sì, il sì dell’amore più grande che da la vita
per i suoi amici.
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Domenica
18
maggio 2014
– (S.Messa di San Procolo) V
Domenica di Pasqua -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Questa V domenica di Pasqua è detta domenica dei
ministeri perché è questo uno dei temi principali che viene fuori
dalle letture di oggi, soprattutto dalla prima e dalla seconda. La
prima lettura ci parla della famosa istituzione dei diaconi che sono
una figura nuova per quel tempo. Prima i diaconi non c’erano i 12,
il gruppo degli apostoli costituito da Gesù e poi c’erano gli altri
discepoli. Ora, per la prima volta dopo la Pasqua di Gesù, la Chiesa
comincia a organizzarsi in modo nuovo, nasce un gruppo nuovo
all’interno della Chiesa, un nuovo ministero che esiste tutt’oggi.
Possiamo soffermarci un po’ su questo e chiederci una cosa
importante: perché nasce un nuovo ministero nella comunità
cristiana?
La lettura di oggi degli Atti ci dice che stavano
nascendo dei contrasti tra i credenti perché quando si assistevano
le vedove, nell’esercizio della carità e della solidarietà tra i
fedeli, qualcuno di loro veniva trascurato. Stava cioè nascendo un
disagio nella comunità cristiana che poteva mettere in pericolo
l’unità della comunità, poteva creare divisione. Per evitare questa
disgregazione, per sanare queste tensioni che nascevano da un
bisogno reale della comunità, i 12 convocano il nuovo gruppo dei
diaconi. La Chiesa già era formata dai 12 + i discepoli, adesso si
organizza ancora di più in quella che oggi chiamiamo la gerarchia
ecclesiastica. E qui tocchiamo un punto importante: l’esistenza di
una gerarchia, di ministeri diversi nella Chiesa è a servizio di
questa unità della Chiesa. Qualche volta il rischio nostro è quello
di vedere i ministeri nella Chiesa come una carriera, tipo quella
militare o professionale, ma non è così.
La parola carriera nella Chiesa non esiste perché
se è vero che ci sono membra diverse nel corpo della Chiesa con
ruoli e diverse, è vero anche che tutte hanno la stessa dignità e
sono tutte finalizzate allo stesso scopo, e cioè l’unità del popolo
di Dio, essere a servizio dei bisogni della comunità dei credenti
come accadeva nella prima comunità cristiana. E questo non è solo
cosa di vescovi, preti e diaconi, ma tutti siamo chiamati a dare il
nostro contributo nella Chiesa e nel mondo. e arriviamo qui alla
seconda lettura. La seconda lettura da uno speciale appellativo ai
credenti, a tutti i credenti senza distinzione: tutti siamo della
pietre vive da impiegare nell’edificio della chiesa. Avvicinandovi
al Signore, pietra viva, dice san Paolo, anche voi quali pietre vive
siete costruiti come edificio spirituale. Tutti siamo delle pietre,
dei mattoni della Chiesa e il mattone da solo serve a poco, il
mattone serve anzitutto se ce ne sono altri e se lo si mette insieme
agli altri, prima cosa. E soprattutto il mattone serve se lo si usa
per costruire, se lo si inserisce nella costruzione armonica di un
edificio.
Ecco che questi mattoni siamo noi e ciascuno di
noi, a modo suo secondo la propria vocazione, è chiamato dare il
proprio contributo, a mettere la propria pietra, il mattone che egli
è a servizio di quest’opera comune che è la Chiesa, opera non solo
umana ma divino- umana. Dirò di più: ciascuno deve amare il posto
che ha nella comunità dei credenti anche se sembra piccolo, poco
importante, perché ciò che conta non è che questo mattone sia
inserito in un posto importante, strategico o visibile, l’importante
è che questo mattone faccia il suo lavoro, dia il suo contributo
laddove l’ha messo il Signore (perché è il Signore che costruisce la
Chiesa). Anzi qualche volta le pietre più nascoste e meno visibili
di un edificio sono proprio quelle che servono di più, che lo
sostengono anche se non si vedono. Ecco, ricordiamoci che queste
pietre siamo noi, siamo delle pietre vive che non possono vivere per
se stesse ma che sono nella Chiesa, in questo grande edificio che è
la casa di Dio.
Infine arriviamo al Vangelo: il Vangelo tra le
altre cose, ci riporta questa esclamazione forse un po’ ingenua ma
certo straordinaria di Filippo a Gesù: “Signore, mostraci il Padre e
ci basta.” E Gesù cosa risponde: da tanto tempo sono con voi e tu
non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre”.
In altre parole Gesù rimprovera Filippo perché non è saputo andare
al di là dell’apparenza, di quello che vedeva: guardava Gesù e
vedeva Gesù, senza saper vedere il Padre in Lui. Qualche volta
questa cecità, questo sguardo un po’ miope ce l’abbiamo anche noi
nei confronti della Chiesa. Guardiamo la Chiesa e ci fermiamo alla
sia dimensione umana, sociale, la Chiesa come Istituzione, la Chiesa
come entità politica, la Chiesa come Stato. Vediamo tante cose della
Chiesa tranne quella fondamentale: che la Chiesa è il Corpo di
Cristo e che noi facciamo parte di un corpo prima che di un club o
una istituzione.
Siamo membra vive di un corpo vivo. Se Gesù dice
a Filippo e agli altri: credete a me: io sono nel Padre e il Padre è
in me, in certo senso potremmo fare una variante di questa frase:
che la Chiesa è in Cristo e che Cristo è nella Chiesa. Molte cose
della Chiesa non si capiscono se non riusciamo ad acquistare questo
sguardo di fede, questo sguardo contemplativo che la riconosce nella
sua identità più profonda: la Chiesa è più che un’istituzione, è più
che un club, il papa ha ripetuto tante volte che la Chiesa non è una
ONG ben organizzata, ma la Chiesa già il regno di Dio stesso
presente in mistero, il primo germoglio che va lentamente crescendo,
come abbiamo sentito nelle letture di oggi e in cui il Signore ha
posto la sua dimora, per attirare a sé tutte le genti. Per conoscere
davvero la Chiesa nella sua realtà intima abbiamo davvero bisogno di
vivere la Chiesa cioè di partecipare con entusiasmo alla sua vita di
fede, di speranza e di carità. Chiediamo tutto questo per noi e per
coloro che sono ancora lontani dalla Chiesa, come dice la preghiera
di Giorgio la Pira.
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sabato
10 maggio 2014
– Festa dei Santi Zanobi e Antonino
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La festa dei santi Zanobi e Antonino è una bella
occasione per noi per riflettere un pochino sulla nostra
appartenenza alla Chiesa universale, un’appartenenza che non è
astratta, non è aleatoria, ma che, se si può definire universale, lo
è proprio perché si radica nell’appartenenza ad una Chiesa
particolare che è per noi la Chiesa di Firenze. Ricordando questi
due santi potremmo dire che la Chiesa è universale, in questo senso,
non solo nello spazio, ma anche nel tempo, perché noi oggi
beneficiamo, ereditiamo, viviamo della fede che i nostri padri ci
hanno consegnato, facciamo parte della loro stessa Chiesa e della
loro stessa fede che è stata un anello, seppur piccolo e lontano da
noi, che ci tiene saldi a quella Tradizione con la T maiuscola che
in ultima istanza risale al Cristo stesso.
I santi Zanobi e Antonino sono due santi vescovi
di grande rilievo per il loro tempo e dunque anche per noi. Ognuno
ha dato un contributo particolare a seconda della sua epoca.
Per quanto riguarda san Zanobi, vissuto a cavallo
del terzo-quarto secolo, sicuramente decisiva fu la sua azione
pastorale per la crescita e la maturazione della fede cristiana nel
nostro territorio. Il nome di Cristo già aveva raggiunto le nostre
terre, ma solo grazie a san Zanobi la Chiesa fiorentina assumerà
un’identità sociale decisamente più profonda ed incisiva in una
provincia ancora molto segnata dal paganesimo. Inoltre san Zanobi
come dovette fronteggiare il paganesimo fuori della Chiesa,
si misurò anche con l’arianesimo dentro la Chiesa, un fuori e
un dentro che ci ricordano come lo spirito del mondo può soffiare
anche tra coloro che dovrebbero essere guidati dall’autentico
Spirito di Cristo. L’arianesimo infatti era un’eresia che
soddisfaceva più un modello umano di elaborare i dati della
Rivelazione, che la fedeltà al ‘depositum fidei’ trasmesso
dagli apostoli. Gesù nell’arianesimo non era Dio ma era un grande
uomo, il più grande degli uomini, la prima e la più alta delle
creature ma pur sempre creatura e niente più. Un modello
soddisfacente, ragionevole per chi vuol credere senza scomodarsi
troppo, senza cioè fare il salto della fede. Il confine tra il
dentro e il fuori della Chiesa, cioè tra mentalità fedele a Cristo e
mentalità influenzata e asservita al mondo è un confine che forse
anche oggi può essere ancora un po’ ambiguo, talvolta anche tra i
cristiani. La prima lettura di oggi ci apre proprio gli occhi
rispetto a queste deviazioni, alterazioni del vangelo: “Perfino di
mezzo a voi – dice san Paolo – sorgeranno alcuni a insegnare
dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo
vigilate.” Quando uno vuole attirare persone dietro di sé non agisce
più in nome di Cristo. La vigilanza, stare con gli occhi aperti, è
l’abito che san Paolo ci invita a rivestire, una vigilanza che si
rafforza nella fedeltà ai Pastori a cui il Signore ci ha affidato
nella Chiesa e al loro magistero. Tra l’altro, proprio la prima
lettura di oggi contiene il motto dello stemma episcopale del nostro
Cardinale arcivescovo Giuseppe: “(affidato) a Dio e alla parola
della sua grazia.”
Sant’Antonino Pierozzi, vescovo domenicano, vive
in tutt’altro periodo, a cavallo tra il quattordicesimo e il
quindicesimo secolo. Oltre che per il suo episcopato fiorentino,
sant’Antonino è ricordato anche per il suo importante ed equilibrato
contributo nell’ambito della teologia morale. Esigente con gli altri
sant’Antonino lo era ancor più con se stesso; fu un grande amico per
i poveri e un uomo dall’intensa vita interiore fin dai suoi
trascorsi domenicani quando fu priore del convento di san Marco che
rese un centro di grande spiritualità.
Al di là, o meglio, all’interno di tutte le
particolarità che differenziano la missione svolta da questi due
santi vescovi, lontani tra loro nel tempo ma vicini nella missione e
nella fede, c’è una cosa sopra tutte, che dà un senso, il più
profondo, al loro ministero. È quanto il vangelo di oggi esprime con
le parole di Gesù: “Come il Padre ha amato me anch’io ho amato voi”.
I santi Zanobi e Antonino, scelti e inviati da Cristo ci hanno
portato l’amore del Padre, hanno manifestato l’amore del Padre alla
nostra Chiesa diocesana. Il Padre, attraverso di loro, ha amato
Firenze. Sul loro esempio anche noi siamo invitati ad essere non
solo eredi del nostro passato ma a rispondere alla nostra specifica
chiamata per essere testimoni e continuatori di questo torrente di
fede e di amore che da Cristo e gli apostoli in poi non cessa di
attraversare secoli e terre diversi. Così si compia la speranza di
Gesù: non voi avete scelto me ma io ho scelto voi … perché andiate e
portiate frutto e il vostro frutto rimanga.
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venerdì
9 maggio 2014
– III settimana di Pasqua
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Il discorso sul pane di vita che quest’oggi entra
nella seconda parte possiamo provare a leggerlo alla luce della
prima lettura che ci parla della conversione di san Paolo. Sembrano
due testi diversi, lontani tra loro e invece entrambi si toccano e
si illuminano a vicenda. In che senso? Nel senso che entrambi ci
parlano di diverse forme di presenza del corpo di Cristo, diverse
modalità ,eppure è sempre lo stesso Gesù.
San Paolo incontrando Gesù entra per tre giorni
in uno stato di cecità: vive la sua Pasqua, vive il suo battesimo.
Ma questa cecità non deriva da un’assenza di luce ma proprio dal suo
contrario, cioè proprio da un eccesso di luce, da una illuminazione
e rivelazione che gli fa scoprire due cose che cambieranno
radicalmente il suo stile di vita. La prima scoperta che Paolo fa è
che Gesù è il vivente, non era un falso profeta come pensava e non
era una menzogna quella che andava diffondendosi a Gerusalemme e
dintorni: Gesù è veramente Dio, è veramente il Risorto. Solo
incontrandolo Paolo lo capirà: non con ragionamenti o convincimenti
particolari da parte di altri, ma solo incontrando Gesù. Qui c’è la
sua conversione.
Ma la rivelazione di cui Paolo è partecipe non si
ferma qui, perché Paolo non solo incontra Gesù ma fa anche un altro
incontro e un’altra scoperta: che Gesù ha un corpo e quel corpo
siamo noi, siamo tutti noi che battezzati in Lui siamo diventati,
ciascuno a modo suo, sue membra. Proviamo a pensare quanto questa
scoperta lavorerà nel cuore di Paolo che ci regalerà poi delle
meditazioni meravigliose proprio su questa realtà mistica del corpo
di Cristo che è la Chiesa. Paolo, incontrando Gesù incontra in lui
anche tutto il suo corpo vivente che è la Chiesa.
A questo punto assumono allora un significato del
tutto speciale anche le parole di Gesù nel suo discorso sul pane di
vita: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io
in lui. Davvero in questo cibo e in questa bevanda ci viene
comunicata la vita di Gesù, davvero Gesù vive in noi e se vive in
noi vive anche negli altri, nei miei fratelli e in tutti coloro che
formano il suo corpo. Ci troviamo di fronte al grande mistero della
presenza di Cristo che se certamente è mistero sublime nella
celebrazione del sacramento dell’Eucaristia, tanto che lo
proclamiamo “mistero della fede”, non dobbiamo tuttavia dimenticare
che questo mistero della fede non si ferma qui, ma che c’è un
mistero della presenza di Gesù, seppur in modo diverso, anche in
tutti noi che siamo suoi fratelli. L’Eucaristia allora non si
celebra solo nella Messa ma, in certo senso, si celebra laddove c’è
incontro con questa presenza di Gesù che chiede di essere accolto e
amato. Come possiamo infatti onorare, adorare, rimanere in Cristo se
poi lo disprezziamo o siamo indifferenti alla sua presenza che
chiede ancor più di essere accolta nei nostri fratelli? Che senso
avrebbe offrire se stessi nel rito in unione a Gesù, la vittima
spirituale, come pregheremo tra poco, se poi tutta la nostra vita
non fosse un prolungamento reale di questa offerta? Forse esagerando
un po’, in un certo senso potremmo dire che l’Eucaristia si celebra
in chiesa, ma anche si celebra nelle case, nelle comunità, nelle
strade, di giorno e di notte. Ognuno di noi sa dove, più che
altrove, è chiamato a celebrare e incontrare questa presenza di
Cristo. È tale realtà, potremmo dire, estesa, del corpo di Cristo
che ci consente di vivere una vita eucaristica: l’Eucaristia come
fonte, culmine e paradigma di tutta la nostra vita così in questo
modo simboleggiata e unificata in questo pane vivo che ora
riceveremo.
Il Signore, come medico, ci guarisca dalla
nostra cecità, faccia cadere anche dai nostri occhi, come da quelli
di Paolo, quelle squame che ci impediscono di vedere e capire ciò
che un giorno, come giudice, ci dirà: ogni volta che avete
fatto (o non fatto) queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l’avete fatto (o non fatto) a me. (cfr. Mt 25, 40.45)
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giovedì 8 maggio 2014
– III settimana di Pasqua -
fr. Giovanni Battista FMJ
Come ci ha ricordato
recentemente il Santo Padre Francesco nella sua esortazione
apostolica, la Chiesa non cresce per proselitismo ma «per
attrazione». Gesù nel vangelo di oggi, tocca, sfiora, questo
argomento quando dice: “Nessuno può venire a me se non lo attira il
Padre che mi ha mandato.” Dio ci attira, se siamo qui è perché tutti
possiamo affermare di essere stati, almeno un pochino, affascinati,
attratti, persino sedotti dal Signore. Perché Dio possiede l’arte di
attrarre: come diceva sant’Agostino: “attrarre è l’arte di Dio (…)
Sì, attrarre è proprio di Dio” (omelia 26 sul Vg. Di Gv).
Tante cose,
oggigiorno, ci attraggono, tante cose stimolano il nostro desiderio,
ma “non tutto giova” direbbe san Paolo. È importante per noi allora
imparare a vigilare sul nostro desiderio, imparare ad ascoltarlo e a
discernerlo perché non ogni desiderio è buono. Del resto anche Eva,
leggiamo nella Genesi, si avvicinò all’albero della conoscenza del
bene e del male proprio perché lo riconobbe “gradevole agli occhi e
desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3,6). Ci sono desideri
buoni che vengono da Dio e desideri, fascini, luci di cui bisogna un
po’ diffidare. E c’è una grande differenza tra queste due spinte,
cioè tra l’attrazione che Dio esercita su di noi e quella che non
proviene da lui e che arriva magari da altro o da altri: Dio,
attirandoci a sé, potremmo addirittura dire, legandoci a sé, ha il
potere di renderci davvero liberi: è paradossale ma è così: legarsi
a Dio, stringersi nella fede a Dio è un legame liberante: Gesù pone
su di noi un giogo soave, un giogo liberante. Le altre attrazioni
invece, l’attrazione cioè che proviene da cose o persone, talvolta
ci rendono schiavi, creano dipendenze, anche se non sempre l’uomo
sul momento se ne rende conto.
L’invito che
vogliamo accogliere dalla Parola di oggi è allora quello di porci in
ascolto, aprire l’orecchio del cuore per ascoltare la voce di Dio
che ancora oggi non cessa di farsi sentire nel mondo, nella Chiesa,
nella nostra coscienza. “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha
imparato da lui, viene a me”: è questa la strada che Gesù nel
vangelo di oggi ci propone per andare a lui, per accogliere dentro
di noi quel desiderio buono che è spinta, è attrazione che ci
conduce ad una vita piena, ad una vita libera.
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mercoledì
7
maggio 2014
– III settimana di Pasqua
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
La prima lettura di oggi si pone in una specie di
continuità esistenziale con il vangelo, che è una parte del famoso
discorso sul pane di vita, cioè il discorso in cui Gesù applica a sé
la categoria del pane: io sono il pane della vita chi viene a me non
avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai. È un discorso
sicuramente inedito per i suoi uditori, ma non per noi che
conosciamo lo stile di Gesù che è uno stile fatto di dono, di
offerta di sé per trasmettere la sua vita agli altri. Già qui c’è un
punto straordinario che segna, necessariamente, il modo di
relazionarsi con un Dio fatto così. L’idea umana, l’idea pagana del
divino è quella infatti di un Dio che sta in alto e là rimane, nelle
altezze, tra le cose eccelse: la divinità si merita l’adorazione
dell’uomo che sta in basso e, del resto, conviene all’uomo adorare,
e anche propiziarsi la divinità, renderla benigna, trovare grazia ai
suoi occhi per sfuggire ad eventuali calamità e sventure.
Nell’antica Roma la religiosità era un po’ così: un tenersi buone le
divinità. Ecco che in questo discorso che abbiamo ascoltato Gesù
ribalta radicalmente le cose: Dio è certo il Dio trascendente, Colui
che sta aldilà di tutti, l’eccelso, il glorioso che merita tutta
l’adorazione che compete al suo nome, ma la grandezza di Dio non
segue il modello umano, perché come cantava san Francesco, Dio è
umiltà, è un Dio che si fa pane, è un Dio che prima di ricevere
qualcosa dall’uomo è Lui che si da all’uomo e gli offre la sua vita.
La gloria di Dio non sta più solo nelle cose eccelse, ma ormai ha
posto la sua dimora in quelle umili, semplici e vere.
Gesù, proprio nel vangelo di oggi da una bella
definizione di sé, si definisce il “disceso dal cielo”, indicando
con questo non tanto un movimento spaziale quanto uno stile
relazionale: per entrare in relazione Dio scende! non rimane lassù
nella sua gloria, non aspetta che sia l’uomo a scalare la montagna
della sua grandezza e della sua santità, ma è lui che per primo
scende per andare incontro all’uomo, addirittura facendosi cibo per
l’uomo. Una prima grazia che possiamo chiedere, la prima preghiera
che volgiamo formulare è forse proprio quella di avere sempre più
fame di questo cibo, fame di questo pane di vita. Il pane di vita ci
è dato, ci è offerto gratuitamente ma noi abbiamo davvero fame di
questo pane? Vogliamo davvero essere nutriti, vivere della vita di
Dio? Individuare, capire qual è la nostra fame profonda, che tipo di
fame abbiamo, ci aiuta anche a capire di che tipo di pane andiamo in
cerca, qual è il nutrimento che vogliamo sostenti la nostra vita e
la nostra umanità.
Dicevamo all’inizio della continuità che c’è tra
vangelo e prima lettura, continuità esistenziale perché le vicende
della prima comunità cristiana, se lette solo umanamente, cioè dal
punto di vista della cronaca, del fenomeno, sembrano una disgrazia
dietro l’altra (ieri l’uccisione di Stefano, oggi la dispersione
della comunità); ad un livello immediato ci sarebbe davvero da
pensare che questi primi passi della comunità cristiana siano invece
gli ultimi, sia l’inizio della fine; ma noi, che veniamo dopo questi
eventi, sappiamo che non è così, anzi sappiamo che questa
dispersione dei discepoli di Gesù non è dispersione ma è missione, è
la Parola che corre e agisce, che si diffonde, che genera vita
attraverso la persecuzione di questi poveri testimoni. Se leggiamo
tutto questo con gli occhi di fede, cioè con quello sguardo che non
si limita a vedere ma cerca anche di capire il senso delle cose
nella luce di Dio, possiamo addirittura affermare una cosa
straordinaria (ed è per questo che parlavo di continuità
esistenziale): sulle orme del suo Signore, Gesù, il pane che dà la
vita al mondo, anche la comunità sta attraversando questo processo,
potremmo dire, di “panificazione”, cioè sta diventando, pian piano,
pane per gli altri. E sappiamo bene che per essere pane per gli
altri non basta essere pane ma bisogna essere pane spezzato,
pane da condividere, bisogna passare per la Croce. Pian piano la
comunità sta assumendo lo stile del suo Signore: nutrita dal pane di
vita diventa anch’essa, unita a Gesù, pane per il mondo. Una cosa
interessante è che san Luca negli Atti degli apostoli fa una
sottolineatura piccola ma importante: che solo dopo questa
persecuzione, lo leggeremo più avanti, i discepoli saranno chiamati
cristiani. Non prima, ma solo quando saranno divenuti pane spezzato
potranno portare il nome di Cristo.
Anche noi allora quest’oggi vogliamo chiedere
queste due cose al Signore: non solo, come la folla del Vg
chiedergli ‘Signore dacci sempre questo pane’, ma soprattutto, dacci
sempre la fame per questo pane, perché non andiamo a saziarci di
altro. E la seconda cosa che chiediamo è che questo pane di vita ci
trasformi e renda anche noi pane per gli altri, solo così saremo
davvero cristiani, cioè portatori, in noi stessi e per gli altri del
nome di Cristo.
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4 maggio 2014
– III
domenica di Pasqua –
fr. Giovanni Battista FMJ
Riascoltiamo quest’oggi lo splendido brano dei
discepoli di Emmaus, un racconto appassionante, un racconto che ci
offre vari ingressi, potremmo dire così, nella situazione narrata
perché anche noi ne prendiamo parte non come spettatori esterni ma
come partecipi della vicenda che si narra. Anche noi vogliamo
quest’oggi prendere parte a questo cammino dei due discepoli di
Emmaus perché si tratta di un’esperienza
che ha tanto da dirci. Anche in questo testo come negli altri che ci
raccontano degli eventi accaduti dopo la Pasqua le apparizioni di
Gesù sono sempre presentate non tanto come eventi prodigiosi o
spettacolari, e nemmeno come eventi dalla grande pubblicità; si
tratta piuttosto di incontri semplici, normali, umani, forse troppo
umani per essere riconoscibili sull’istante e infatti all’inizio la
cecità dell’uomo ha il sopravvento. Gesù risorto non è
immediatamente visibile, si presenta come un estraneo, un
forestiero. L’umiltà della condizione umana che il Figlio di Dio
aveva assunto con l’Incarnazione è un’umiltà che caratterizzerà
anche il suo stile relazionale dopo la Pasqua. Gesù Risorto non
interviene in modo eclatante e non umilia nemmeno i suoi
crocifissori trionfando su di loro come un vendicatore. Il suo modo
di farsi conoscere è un modo umile, un modo umano: è il camminare
con l’uomo, farsi umilmente e nascostamente vicino all’uomo. Gesù
sceglie di andare al passo dei due pellegrini e di adattarsi al loro
modo di capire, alla loro lettura dei fatti, alla loro capacità di
vederlo. La cosa che sorprende, la cosa perfino faticosa per noi è
forse proprio questo modo incredibilmente umile e umano di Gesù di
entrare in relazione con l’uomo.
È un incontro a cui non sempre siamo preparati, è
un incontro davanti al quale spesso forse anche noi siamo dei
ciechi, dei non vedenti, non in modo assoluto, ma dei ciechi perché
andiamo a cercare il Signore tra le cose grandi, eccelse, di una
superiorità più umana che divina, e poi magari ci sfugge la
percezione che Gesù è al nostro fianco, cammina con noi, ci si è
affiancato. È un po’ l’esperienza che fece anche sant’Agostino nella
sua appassionata e anche sofferta ricerca di Dio: ti cercavo fuori
di me e tu invece eri dentro di me. Cioè, praticamente, io ti
cercavo e invece tu mi avevi già trovato. Forse è accaduto così
anche per i due discepoli di Emmaus: pensano di parlare di Gesù e
non si rendono conto invece che stanno parlando con Gesù, che Gesù è
lì, li ascolta, e dialoga con loro. Già questo aspetto ci ricorda un
primo punto importante, e cioè che è nella nostra vita che il
Signore si manifesta, nella nostra vita così com’è, lungo questo
cammino, a volte lineare, a volte tortuoso, a volte entusiastico, a
volte angosciante e deludente. Qualche volta forse noi aspettiamo
dal cielo ciò che è già sulla terra, vicino, vicinissimo a noi. Qui
e non altrove il Signore si affianca e parla, ci parla, e nel
parlare ci guida. E qui arriviamo ad una seconda porta di ingresso
nel brano di oggi.
I due di Emmaus sono delusi, sono tristi ma se
rileggiamo bene il testo notiamo che questa tristezza non viene
tanto dal fatto che Gesù sia morto. Cioè non sono tanto addolorati
per l’evento in sé della morte di Gesù. Non ci troviamo di fronte,
per esempio, al dolore di Maria presso la croce che vede il suo
Figlio soffrire e morire. No, la loro tristezza, è di un altro tipo,
potremmo dire un po’ più autoreferenziale: cosa dice il testo? Dice:
“Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”. È
interessante questo perché ci fa capire che la disgrazia, secondo
loro, era sì certamente la perdita di Gesù ma soprattutto il crollo
di tutte quelle aspettative che loro avevano coltivato su di lui.
Piangono una persona importante, il rabbì, il profeta, ma piangono
soprattutto il fallimento della loro attesa di liberazione. Come
allora il misterioso pellegrino dialoga con questa delusione? Gesù
cerca a questo punto di guidare i due ad un passaggio, ad un esodo,
dalla loro idea più politica che biblica, più mondana che divina del
progetto di librazione di Israele, alla comprensione dell’autentico
disegno divino che si era compiuto in Gesù Cristo morto e risorto. È
strano ma è così: ciò che loro consideravano fallimento, era invece
il vero compimento delle Scritture, la realizzazione della
liberazione che tanto speravano. Questa dinamica, per quanto strana,
ci interroga, ci fa riflettere sul nostro essere delusi, ci invita a
chiedere a noi stessi: quando siamo tristi e delusi perché lo siamo?
Siamo tristi perché davvero è tramontato, è fallito il piano di Dio,
o perché è caduto il nostro progetto, il nostro modo di vedere le
cose. Interroghiamo la nostra tristezza per vedere se è fondata, se
ha ragione d’essere, o se forse non siamo noi che stiamo cercando
tra i morti colui che è vivo e ci sta guidando, anche attraverso
questa delusione, ad entrare nella novità della sua Risurrezione.
Anche questo significa fare Pasqua, anche questo significa lasciare
che la risurrezione di Gesù non sia solo cosa sua, ma sia anche la
nostra risurrezione, la risurrezione del nostro pensare, del nostro
sperare, del nostro fidarci della mano di Dio che ci guida anche
attraverso degli eventi della nostra vita che non sembrano essere
espressione della volontà di Dio.
Infine, un ultimo aspetto di capitale importanza
di questo brano, sono i due spazi, diciamo così, in cui Gesù tocca e
trasforma i due discepoli, li fa rialzare, perché,come abbiamo
visto, i veri morti erano loro, non era lui. I due discepoli, come
abbiamo sentito, alla fine cambieranno strada, faranno inversione a
U e ritorneranno a Gerusalemme. Ma prima di arrivare a questa vera
conversione, attraverseranno due tappe preziose. Attraverseranno due
spazi, due luoghi, che potremmo definire anche luoghi teologici e
liturgici, sono la Parola e la Mensa: qui Gesù spiega la Scrittura e
così illumina il cuore la mente dei discepoli, qui Gesù spezza il
pane e in quel gesto, in quello spezzare viene riconosciuto. In
queste due tappe cambia qualcosa in loro, crescono, maturano, o per
usare un linguaggio più appropriato, risorgono interiormente.
Consolati dalla parola di Gesù e illuminati dal suo gesto di
spezzare il pane, si compie per loro una vera rivelazione! Cioè
incontrano un volto, cade il velo dai loro occhi e contemplano,
anche se per poco, il Cristo Risorto. Ebbene, solo a questo punto,
solo dopo aver scoperto che dietro quelle parole così ardenti e
quella compagnia così famigliare c’era Gesù, potranno ritornare con
gioia a Gerusalemme, il luogo della delusione e della sconfitta, la
città da cui stavano fuggendo.
È l’esperienza che vogliamo fare anche noi
quest’oggi: consolati dalla Parola di Dio e nutriti dal corpo e
sangue di Gesù, vogliamo tornare sui luoghi delle nostre speranze
ancora incompiute, delle nostre morti e fallimenti, con una luce
nuova nel nostro cuore e sul nostro volto; la luce del Risorto che
si leva dentro di noi, che ci cambia dal di dentro per farci
partecipi, già fin d’ora, della vita eterna.
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sabato
3 maggio 2014
– Festa dei santi Filippo e Giacomo
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fr. Giovanni Battista FMJ
Quando la Chiesa celebra la festa degli apostoli
sperimenta una gioia particolare perché ricorda coloro grazie al
quale il messaggio evangelico si è diffuso, è giunto e continua a
giungere fino ai confini della terra. La Chiesa, lo ripetiamo nel
Credo, ha nella apostolicità una delle sue note essenziali: la
Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Cosa vuol dire che la
Chiesa è apostolica? Vuol dire tre cose: che è stata e rimane
costruita sul fondamento degli apostoli; secondo: che
custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito, l’insegnamento,
il deposito della fede, le sane parole udite dagli Apostoli;
terzo: che fino al ritorno di Cristo la Chiesa continua ad
essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro
successori che sono i Vescovi. (Cfr. CCC §857) Festeggiare gli
apostoli significa allora in modo specialissimo festeggiare anche la
Chiesa che vede proprio nella sua apostolicità uno dei suoi
caratteri distintivi, delle sue note essenziali.
Venendo ai santi Filippo e Giacomo c’è un
aspetto, una caratteristica particolare del loro cammino che ci può
interessare: si tratta del fatto che loro non sono presentati dalla
tradizione come protagonisti di fatti straordinari. Sono apostoli
nel senso di chiamati dal Signore e inviati a collaborare con lui,
partecipi della sua missione, punto e basta, o poco più. Nella loro
vita semplice e neanche particolarmente appariscente si sono però
fatti portatori della salvezza di Gesù a beneficio di tanti:
pensiamo che Filippo pare, secondo una tradizione, si sia spinto in
Asia minore fino ad arrivare addirittura su in Scizia che sarebbe
l’attuale Ucraina; mentre Giacomo, che dovrebbe essere (ma gli
studiosi su questo sono un po’ incerti) il fratello del Signore che
resse la Chiesa di Gerusalemme fino al 62, arriverà a tutto il mondo
grazie al suo scritto ispirato, la lettera di Giacomo, testo breve
ma splendido e ricco di sapienza, l’unico scritto di carattere
sapienziale del nuovo testamento. Ancora una volta possiamo
raccogliere da questo stile dei due apostoli un insegnamento
assolutamente prezioso per il nostro cammino, e cioè che non serve
essere dei grandi, dei famosi, dei potenti, per portare il nome di
Gesù a tutti; anzi il Papa ci ha ricordato quanto faccia male il
carrierismo! di una cosa però c’è bisogno in modo imprescindibile:
bisogna essere innamorati di Gesù, infiammati d’amore, se no il
vangelo va avanti poco. Il vangelo di oggi ci riporta un altro
testo, ma se noi andiamo all’inizio il vangelo di Giovanni ci
colpisce non poco scoprire qual è la prima parola che, nel Nuovo
Testamento, Filippo pronuncia: è nell’occasione di un incontro con
un suo amico, Natanaele, un altro che sarà pure apostolo; ecco dopo
aver incontrato Gesù, Filippo annuncia con chissà quale trepidazione
a un Natanaele scettico e titubante: “Abbiamo trovato colui del
quale hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti, Gesù, figlio di
Giuseppe di Nazareth” (Gv 1,45) Anche oggi chi ha trovato il
Signore, chi è innamorato di Gesù vibra naturalmente, spontaneamente
dello spirito dell’apostolo; magari non farà nulla di appariscente,
nulla di vistoso, ma la sua vita sarà una vita illuminata, sarà un
cielo illuminato che, come abbiamo cantato nel salmo, narra la
gloria di Dio. Il salmo non a caso parla del cielo, perché il cielo,
nella cosmologia biblica, è il più vicino al sole, e se ne fa allora
testimone luminoso, si lascia attraversare, percorrere dal sole che
esce come sposo dalla stanza nuziale perché la sua luce giunga a
tutti. L’opposto di tutto questo è la tiepidezza: i cristiani
“tiepidi, senza coraggio – ha detto il Papa – fanno tanto male alla
Chiesa”, perché il tepore fa rinchiudere in se stessi.
Chiediamo al Signore, per intercessione di questi
nostri padri, amici e fratelli che sono i santi Filippo e Giacomo,
di farci innamorare un pochino di più di lui: il resto verrà da sé.
Signore rendi anche noi dei cieli che si lasciano
attraversare, percorrere da te, il Sole che illumina le nostre
tenebre. Circola liberamente nelle nostre vite, dall’alba fino al
tramonto dei nostri giorni e illumina tutto! Fa’ che non siamo dei
cristiani tiepidi ma degli apostoli che, come san Paolo, trasmettono
ciò che hanno a loro volta ricevuto.
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venerdì
2
maggio 2014
– II settimana di Pasqua
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Cominciamo quest’oggi la lettura del sesto
capitolo del vangelo di Giovanni, un capitolo impegnativo, denso,
non facile da ascoltare, il capitolo del discorso sul pane di vita.
Un capitolo duro da ascoltare perché Gesù farà affermazioni a cui
noi oggi, forse siamo abituati, fin troppo abituati, ma per quel
tempo erano affermazioni sconcertanti, in certo senso scandalose,
cioè che ponevano un ostacolo alla fede di chi le ascoltava, un
ostacolo di fronte al quale o la fede fa un salto, un salto di
qualità per superare l’ostacolo, o se no c’è l’abbandono. E così
infatti accadrà per molti che sentendo parlare Gesù in tal modo,
quando diceva che avrebbe dato la sua carne e il suo sangue da
mangiare e bere, se ne andranno via. Ecco, ci troviamo all’inizio di
un discorso così impegnativo da essere in gioco la fede di chi lo
ascolta.
Gesù sapeva già prima cosa sarebbe successo ed è
per questo che non inizia subito a fare questi discorsi ma prima
compie un segno straordinario, miracoloso, che è la moltiplicazione
di pani. Cioè prima di illuminare le menti, Gesù conduce la folla ad
un’esperienza. Attraverso questa esperienza Gesù parla alla folla,
comunica con la folla, le trasmette qualcosa di sé. Qualche volta
capita anche nella nostra vita una dinamica simile: una cosa detta
non è la stessa cosa di una cosa provata sulla propria pelle: ecco
che Gesù non solo parla, ma Gesù guida, conduce, comunica non solo
con i discorsi ma rendendo partecipi queste persone di un evento
particolare. E già solo questo aspetto potrebbe essere per noi un
grande insegnamento: il Signore non parla solo quando siamo di
fronte alla Bibbia o in chiesa, che rimangono certo dei contesti
privilegiati di ascolto e di dialogo con Dio, ma anche le
esperienze, le circostanze, gli eventi della nostra vita possono
farsi portavoce di una parola che il Signore indirizza a ciascuno di
noi. L’importante è saperli vedere, ascoltare e soprattutto capire.
Cosa dice Gesù alla folla attraverso questo segno
dei pani moltiplicati? Gesù, per prima cosa fa fare a questa folla
l’esperienza di una sazietà, di una pienezza. Questo è il risultato
dell’incontro con Lui. Gesù sazia, Gesù riempie, Gesù dà quel
sostegno che consente all’uomo di stare in piedi, di camminare, di
andare avanti. Queste persone non sanno ancora bene chi sia Gesù,
infatti lo definiranno solo come un profeta, però una cosa la
capiscono: costui è in grado di saziarci, costui ci nutre. Questo è
il segno che Gesù da loro. Di una cosa sicuramente tutta questa
gente si ricorderà bene: Gesù ci ha dato da mangiare a tutti!
Ma c’è una seconda cosa, una seconda esperienza
che questa gente fa attraverso questo segno che Gesù compie. Le
folle saziate da Gesù fanno una scoperta che è forse ancora più
importante della prima, e cioè che c’è un uomo, un profeta, come lo
chiamano loro, che è stato in grado di leggere, di percepire e farsi
carico della loro fame, anche se siamo ancora solo ad un livello di
fame naturale, fisica. E qui credo che possiamo già intravedere una
delle più grandi scoperte che una persona può fare di fronte a Gesù.
Nel testo di Giovanni non si dice che sono loro a chiedere da
mangiare, e neanche che sono gli apostoli a sollecitare Gesù, come
per esempio accade in altre versioni quando invitano Gesù a
congedare le folle perché vadano a cercarsi da sole da mangiare. No,
qui tutta l’iniziativa è di Gesù e solo di Gesù. È lui che
alza gli occhi e vede le folle arrivare, è lui che interroga
Filippo per metterlo alla prova, per fare entrare anche lui in
questo sguardo, in questa responsabilità, in questa compassione di
Gesù, è ancora lui che distribuisce direttamente alle genti
il pane e i pesciolini. Gesù capta, percepisce e si fa carico della
fame di queste folle, della fame del mondo. È questo forse il più
grande dono, il segno maggiore che Gesù compie, per loro e anche per
noi. L’uomo ha fame, l’uomo, e credo che ciascuno di noi se ne sia
reso conto nel suo piccolo, perennemente in uno stato di bisogno, di
carenza, l’uomo è bisogno, è mancanza, è fame e sete di pienezza, di
una sazietà della propria vita che è profetizzata in questo cibo
così abbondante che viene offerto gratuitamente quest’oggi alle
folle. Il problema è quando l’uomo riempie a modo suo questo vuoto
che lo abita, questo bisogno che lo caratterizza: questo vuoto da un
lato è un’opportunità, dall’altra è un pericolo: è opportunità
perché è come una cronica, ontologica disposizione ad accogliere
Colui che si è fatto pane per noi, per renderci partecipi della sua
vita, è ontologica implorazione di aiuto e di salvezza. È pericolo
perché può capitare che questo vuoto l’uomo vada a riempirlo di
tutto tranne che di Colui che davvero può saziarlo. È un rischio che
corse anche questa folla che vide il segno della moltiplicazione dei
pani e dei pesci e si fermò al segno, le bastò il segno, si
accontentò della pancia piena e volle fare di Gesù il re che riempie
la pancia. Ma Gesù rifiuta perché lui non vuole regnare in questo
modo, Gesù voleva solo dare un segno per guidare, condurre pian
piano queste folle più lontano, e cioè a capire che il vero pane
donato è Lui stesso.
In mezzo a questa folla ci vogliamo mettere anche
noi quest’oggi, per farci guidare da Gesù, attraverso i segni, i
doni, le esperienze che egli pone sul nostro cammino all’incontro
con Lui. Saziati da Gesù vogliamo andare più lontano, non vogliamo
fermarci ai benefici, alle emozioni forti, alle gratificazioni, alle
euforie passeggere, ma arrivare dal dono al Donatore. Sia Lui la
nostra mèta, sia Lui il nostro traguardo perché solo Lui è le
pienezza della nostra vita.
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martedì
29 aprile 2014
– Santa Caterina da Siena -
fr. Giovanni Battista
FMJ
Della
vita di santa Caterina da Siena, di cui oggi celebriamo la festa,
c’è tutto un lato pubblico, visibile e anche particolarmente
affascinante per la fecondità e l’influenza che ha avuto sulla vita
della Chiesa del suo tempo. Ricordiamo infatti che è proprio grazie
alla sua mediazione che il papa Gregorio XI decise di ritornare da
Avignone a Roma. Caterina ha dato davvero un grande contributo per
il rinnovamento e l’unità della Chiesa. Queste sono le cose
visibili, se così possiamo dire, della sua opera, di ciò che
Caterina ha fatto.
Le
letture di oggi ci aiutano però ad andare oltre quello che si vede,
a scendere alla radice profonda dell’attività di santa Caterina per
coglierne il centro nascosto, il nucleo da cui tutta questa energia
si sprigiona. E questo nucleo non è tanto un luogo fisico ma è una
relazione viva. Santa Caterina ha vissuto per tutta la vita una
straordinaria relazione con Gesù, un rapporto intimo e continuo che
è quanto sta alla base della sua opera luminosa. Per quanto l’opera
di mediazione e anche di riconciliazione politica ed ecclesiale,
perché le due cose erano legate in quel tempo, di santa Caterina
fosse stata attiva ed efficace, per quanto fosse un vero e proprio
“andare” e “uscire”, tanto che Firenze scelse proprio lei come
inviata ad Avignone e convincere il papa di togliere la scomunica
alla città, il vangelo di oggi non ci parla di un “andare”. Il
vangelo di oggi ci parla piuttosto di un “venire”, e più
precisamente, di un “venite a me”, venire a Gesù. Se c’è stato un
“andare” in Caterina, un intervenire anche su personalità molto
importanti del suo tempo, questo aspetto della sua vita viene dopo,
è certamente secondario; ciò che primeggia è questo “venite a me”.
Lo dirà un giorno anche ai suoi discepoli, immersi nelle molteplici
attività terrene: “Fatevi una cella nella mente, dalla quale non
possiate mai uscire”. Questa cella era il vero luogo, il primo
spazio di azione di Caterina, dove incontrava colui dal quale si
lasciava incontrare.
Ma le
parole di Gesù del vangelo di oggi gettano anche un’altra luce sulla
vita, interiore ed esteriore di santa Caterina, perché Gesù dopo
aver detto “venite a me” aggiunge un altro invito: “imparate da me”.
Imparare è il verbo del discepolo che non solo segue passivamente il
Maestro, cioè non solo gli va dietro distrattamente, ma lo segue
attivamente, cioè lo imita, con ascolto obbediente, mette in pratica
quanto ricevuto, esprime nella sua vita l’appartenenza a Cristo. In
questo “imparate” noi troviamo tutta una scuola di vita per
Caterina, tutto l’ambito delle scelte, della volontà, dei desideri e
delle decisioni. Ebbene anche santa Caterina aveva una volontà (e
anche molto forte e decisa) e aveva anche dei desideri, che era
giunta ad unificare in un unico desiderio fondamentale: scegliere
sempre nella sua vita soltanto ciò che l’avvicina, anzi unisce a
Cristo.
È
un’indicazione semplice, un criterio di vita quasi scontato, ovvio,
ma quanto mai importante anche per noi. Da santa Caterina quest’oggi
vogliamo dunque accogliere, come da feconda discepola di Gesù,
questi due consigli semplici: il primo è un invito ad abitare la
nostra interiorità, ad imparare a stare con noi stessi in presenza
di Dio anche durante le occupazioni terrene, quotidiane e, se
vogliamo, perfino stressanti, di ogni giorno. “La cella attuale poco
potrete avere; ma la cella del cuore voglio che sempre abbiate, e
sempre la portiate con voi. Perché, come voi sapete, mentre che noi
ci siamo serrati dentro, i nemici non possono offendere.” E il
secondo è, di fatto, un’estensione a tutto il nostro ambito di vita
di quell’”imparate da me” che Ge3sù rivolge ai suoi fedeli; è
ricordarsi che a seconda delle scelte che facciamo, piccole o grandi
che siano, noi possiamo avvicinarci o allontanarci da Gesù, essere
più o meno suoi discepoli. Caterina sapeva, anzi era profondamente
convinta che solo le persone rinnovate dal vangelo potevano
rinnovare la Chiesa. In altre parole, il rinnovamento della Chiesa e
anche del mondo, inizia dal nostro rinnovamento personale. Non è
qualcosa che si attende passivamente dal di fuori, dagli altri, ma è
un’energia che ci smuove dal di dentro. In fin dei conti è l’energia
della Pasqua di Gesù che ci fa andare sempre un po’ più in là nella
trasformazione dell’uomo vecchio in uomo nuovo. La luce del Risorto,
per intercessione di Santa Caterina da Siena, ci illumini, ci
purifichi, ci rinnovi.
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giovedì
24 aprile 2014
– Giovedì di Pasqua
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Il vangelo di stasera, che è la continuazione di
quello di ieri, ci presenta un'altra apparizione di Gesù Risorto.
Un’apparizione però contrassegnata da alcune novità rispetto a
quelle che abbiamo ascoltato nei giorni scorsi. Ne vogliamo mettere
in luce, tra le varie, una sola: la prima novità è il saluto di
Gesù, che è un dono di pace, “pace a voi”. È un saluto, ma più che
un saluto, è una consegna, è il primo dono che il Signore risorto fa
ai credenti che è il dono della pace. In questa pace noi vogliamo
cogliere non semplicemente un sentimento, non semplicemente
l’augurio di una tranquillità, di un benessere psicofisico, ma
riceviamo come un annunzio di vittoria. In questo “pace a voi” è
come se Gesù volesse rendere partecipi i suoi discepoli di quella
pace che è ormai certezza che Dio non abbandona il suo Cristo, il
suo consacrato, chiunque ha fiducia in Dio. Possiamo stare nella
pace perché Gesù, il Risorto ha vinto davvero la morte, ha vinto
davvero il mondo. Il venerdì santo aveva sconvolto tutti, era un
fallimento, fallimento di Gesù che muore da solo o quasi, fallimento
dei discepoli che sono incapaci di seguirlo fino in fondo. Era la
prova suprema della fede, quella prova che forse aveva insinuato il
dubbio, lo scoraggiamento, la delusione. In questo annuncio di pace
noi troviamo tutta l’energia, tutta la potenza del Risorto che ci
consegna la certezza che il Signore è più forte della morte, è più
forte della sofferenza, è più forte del male, una forza che fonda la
possibilità di una pace solida, vera e duratura.
Ma, seconda cosa, questa pace non è una pace
facile, non è neanche una pace immediata: Gesù ce l’aveva detto: Vi
lascio la pace, vi do la mia pace – ci aveva promesso Gesù
aggiungendo – non come la da il mondo io la do a voi.” Come
Gesù realizza, come Gesù diffonde la sua pace? È una pace che viene
dal sangue, viene da un sacrificio d’amore, è una pace che è frutto
della lacerazione della Croce. La pace che Cristo ci dà non è
disgiunta dalla sua persona: san Paolo intende dire proprio questo
quando afferma di Gesù che “è lui la nostra pace”. Se la pace è il
primo dono che Gesù fa ai suoi discepoli per renderli partecipi
della sua risurrezione, per fare entrare anche loro in quell’evento
che lui aveva vissuto, capiamo allora che si tratta di una pace
pasquale, cioè di una pace che porta l’impronta, il segno della
Pasqua, porta l’impronta del suo donatore, della morte e
risurrezione di Gesù. I discepoli possono godere della pace del
Cristo Risorto, sono in qualche modo abilitati, pronti a ricevere
finalmente questo dono, perché sono passati attraverso le sue prove,
seppur a modo loro, con poco coraggio e, per quasi tutti di loro,
fuggendo via. Non dimentichiamo che Gesù stesso, quando aveva
inviato i discepoli in missione aveva posto come prima parola sulle
loro labbra proprio la parola Pace, ma poi aveva anche aggiunto: se
ci sarà un figlio della pace la vostra pace scenda su di lui se no
ritorni a voi. Ebbene, dalla Pasqua di Cristo in poi, essere figli
della pace significa essere figli della Pasqua. Senza passare per la
Pasqua tutta intera non ci può essere pace vera, non ci può essere
pace stabile e duratura. La croce del Signore sbarra la strada alla
pace facile. La pace che il Signore effonde anche su di noi in
questi giorni è una pace che porta la firma di Gesù, è una pace
cristiforme che ne assume perciò i tratti, le cicatrici che segnano
ormai per sempre anche il corpo di Gesù. Forse è anche per questa
ragione che Gesù, dopo aver donato la pace, chiede di guardare le
sue mani e i suoi piedi.
Di questa pace noi vogliamo diventare partecipi
in questo giorno di Pasqua, vogliamo accoglierlo come primo dono che
ci fa il Signore risorto. Dal fonte battesimale sono nati in questi
giorni tanti figli di Dio, anche noi allora possiamo chiedere questa
grazia: di nascere o rinascere come figli della pace, cioè come
persone capaci di fare spazio nel nostro cuore e nei nostri
pensieri, ad una pace diversa da quella che da il mondo, ad una pace
che non annulla le eventuali nostre fatiche, sofferenze, pesantezze
e anche, magari, delusioni, ma ce le fa vedere e sentire in modo
diverso, ce le fa portare in modo diverso. Forse esternamente non
cambierà nulla, i problemi e le ansie rimarranno gli stessi, ma
saremo diversi noi, saremo noi ad essere cambiati, ad avere quella
marcia in più che è proprio la potenza e l’energia che scaturiscono
dalla Pasqua di Gesù, che adesso ci prepariamo a celebrare e
ricevere nel sacramento.
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mercoledì
23
aprile 2014
– Mercoledì di Pasqua
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
L’ottava di Pasqua che stiamo celebrando è illuminata questa sera da
un vangelo che ci fa un duplice annuncio, ci consegna due certezze
che vogliamo fare nostre in questi giorni così ricchi di grazia: la
prima è che il Signore è vivo: Gesù è vivo, è il Vivente; e la
seconda è che questo Dio vivente cammina con noi, è al nostro
fianco. Anche oggi siamo invitati a fare questo incontro
straordinario con questo Gesù Risorto, il Dio totalmente altro ma
che è anche il totalmente prossimo, il totalmente vicino, tanto da
camminare al nostro fianco.
Ieri eravamo accompagnati verso questa scoperta
da Maria di Magdala, quest’oggi è invece il turno di due discepoli
di ritorno da Gerusalemme. Anche per loro si verifica lo stesso
strano fenomeno che era accaduto per Maria di Magdala: anche loro
non riconoscono Gesù. Gesù c’è, si pone al loro fianco, cammina con
loro, ma loro non lo riconoscono. Si tratta certamente di una cosa
stranissima, però Gesù, da parte sua, rispetta questa loro cecità,
non dice: “guardate che sono io”, no, si adatta alla situazione, si
adatta ai loro discorsi, si pone al loro passo e addirittura accetta
di essere considerato un forestiero, un estraneo ai fatti che erano
accaduti a Gerusalemme, quei fatti che appesantivano il cuore dei
due viandanti, li rendevano tristi, senza speranza. Se ci pensiamo,
qualche volta si ripete un po’ la stessa scena anche a nostri
giorni: Gesù è considerato un forestiero, un estraneo, uno che non
c’entra con i nostri problemi, le nostre sofferenze, con ciò che
appesantisce il nostro cuore e la nostra mente, uno che ha poco da
dirci di concreto per la nostra vita. In quest’ottica la fede non
sarebbe altro che una fuga dalla realtà, una bella fiaba o poco di
più. Un pochino quest’aria si respira anche su questa strada che
porta ad Emmaus, quest’aria un po’ fiacca, triste, di desideri
frustrati e di speranze deluse: “noi speravamo che fosse lui che
avrebbe liberato Israele”.
Come Gesù si rivela loro, come Gesù si fa
conoscere? Dicevamo che il Signore non si presenta direttamente ma
si rivela pian piano, indirettamente parlando e dando dei segni che
culmineranno nella visione autentica. Gesù usa tutta una pedagogia
con questi due discepoli tanto che, lungo questo cammino, fa fare
loro un vero pellegrinaggio interiore che li cambierà dal di dentro.
Il primo organo a venire trasformato in questo
pellegrinaggio interiore è il cuore: “Non ardeva forse in noi il
nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci
spiegava le Scritture?” La parola del forestiero Gesù parla al loro
cuore, non è una parola qualsiasi, li raggiunge, li smuove, fa
ardere il loro cuore. È un dettaglio importante anche per noi: saper
ascoltare il nostro cuore quando ci troviamo alla presenza di Dio,
saper avvertire il nostro desiderio, riconoscerlo, quello vero
intendo, non i capricci, perché questo desiderio, questo fuoco
interiore può essere il segno che il forestiero Gesù ci sta accanto.
La seconda tappa di questo cammino interiore, il
secondo organo ad essere trasformato dalla misteriosa presenza di
Gesù sono gli occhi: dice il testo che allo spezzare del pane, si
aprirono loro gli occhi. Colui che prima era solo nascosto in un
ardore interiore ora diventa visibile: è Gesù, ma non solo Gesù, è
Gesù che spezza il pane. “Una volta che le menti sono illuminate e i
cuori riscaldati – diceva il beato Giovanni Paolo II - , i segni
parlano.” (MND 14) Sappiamo che questo spezzare il pane è il gesto
che Gesù aveva usato per ritualizzare, diciamo così, la sua Pasqua,
il suo donarsi per amore e così consegnarsi a tutte le generazioni.
Ebbene, laddove c’è del pane spezzato, laddove c’è dono, laddove c’è
consegna di sé per amore, laddove c’è Eucaristia celebrata e
autenticamente vissuta, Gesù si rende visibile e i nostri occhi si
aprono, lo vedono, diventiamo dei vedenti, non in senso
superficiale, ma nel senso di veri contemplativi che vedono il
Signore.
Ma non finisce qui: dopo il cuore e gli occhi, la
trasformazione interiore tocca le orecchie e le labbra: i discepoli
ritornano indietro alla loro comunità e qui ascoltano la
testimonianza degli Undici apostoli (Davvero il Signore è risorto)
e, a loro volta narrano cosa era loro accaduto. Cioè sono
usciti, come ieri Maria di Magdala, dai loro pensieri oscuri, e sono
capaci di ascolto dell’altro e di testimonianza. Ecco
la comunità, la Chiesa, come quel luogo dove circola la
testimonianza del Signore Risorto, dove si impara ad accogliere e
condividere la propria esperienza di Dio, i doni che Dio ci ha
fatto, come si è manifestato a noi come il Vivente.
Cuore, occhi, orecchie e labbra, la
trasformazione che la risurrezione opera nei discepoli dall’interno
(cuore) arriva pian piano fino alla superficie, fino a quegli organi
che ne rendono possibile l’annuncio, la testimonianza, la
trasmissione: l’incontro diventa così racconto, un
racconto che giunge anche a noi quest’oggi. Non però come parola
vuota, ma come esperienza possibile anche per noi che stiamo
rivivendo lo stesso itinerario dei discepoli di Emmaus: Parola
ascoltata, pane spezzato, vita e testimonianza condivisa, accolta e
donata. Entrare nella Pasqua di Gesù ci coinvolge interamente, dal
cuore alle labbra, tutto in noi è chiamato a risorgere, ad entrare
nella novità della risurrezione.
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martedì
22 aprile 2014
–
martedì di Pasqua -
fr. Giovanni Battista FMJ
Come ci è stato ricordato nell’omelia della Veglia Pasquale, della
risurrezione di Gesù non ci sono testimoni, cioè nessuno ha visto il
Signore nell’atto di risorgere, ma ci sono testimoni di Gesù già
risorto, del Gesù vivo. Il Signore è apparso, il Signore si è
lasciato vedere, si è manifestato a molte persone, ma nessuno l’ha
visto risorgere. La cosa non è di poco conto per noi che in questa
ottava di Pasqua stiamo celebrando la risurrezione del Signore
perché questo incide sulla modalità di celebrare la Pasqua del
Signore. In che senso? Nel senso che si pone una questione: come
conoscere, come sapere che Gesù è davvero risorto?
Ci siamo ripetuti diverse volte in questi giorni il saluto-annuncio
“Cristo è risorto - è veramente risorto” ma come riconoscere questo
evento della risurrezione? Ebbene noi, come gli apostoli e tutti
coloro che hanno visto Gesù risorto, prima che essere testimoni
dell’evento della risurrezione, dobbiamo essere testimoni di un
incontro. E questo è fondamentale: non scopriamo la risurrezione di
Gesù, ma scopriamo Gesù vivo: l’evento della risurrezione ci
raggiunge non come uno spettacolo da osservare, ma in una Persona da
incontrare e accogliere. È nella categoria dell’incontro che si pone
e si diffonde la fede nella risurrezione. I vangeli che ascoltiamo
in quest’ottava sono proprio il racconto di questi incontri con Gesù
risorto. Vogliamo dunque cercare di cogliere un paio di dinamiche di
questi incontri, vedere se c’è qualche costante che può avere un
valore, una similitudine anche con il nostro andare incontro al
Signore Risorto.
Oggi coinvolta in questo incontro è Maria di
Magdala che piange perché non trova il Signore nel sepolcro: il
sepolcro vuoto invece che essere fonte di gioia perché è uno dei
segni della risurrezione, è per lei fonte di pianto. Ecco che la
Maddalena cerca il Signore ma non lo trova. O meglio non lo trova
finché non è lei ad essere trovata: e abbiamo qui una prima
caratteristica di questa dinamica di incontro con Gesù: non siamo
noi che scoviamo Gesù risorto, che arriviamo a comprenderlo, a
teorizzarlo e testimoniarlo se non nella misura in cui accettiamo di
essere noi cercati, trovati, sorpresi da lui. Questa è la prima
cosa, la prima dinamica: è il Signore che anche in questo ci
precede, ci è davanti, ci anticipa. Non siamo noi a trovare lui ma è
lui che trova noi.
Detto questo possiamo chiederci anche un’altra
cosa: come si è raggiunti, trovati da Gesù? Come si compie, come si
realizza questo incontro? Se guardiamo al vangelo di oggi vediamo
che Maria incontra Gesù in una voce, in una chiamata a cui accetta
di rispondere voltandosi. In questa chiamata Maria incontra Gesù
risorto. San Giovanni ci dice che Maria si voltò: è il verbo della
conversione. Maria per un secondo lascia perdere i suoi pensieri di
morte e di tristezza, lascia perdere la sua interpretazione del
segno di un sepolcro vuoto (secondo la quale qualcuno avrebbe
portato via il corpo di Gesù) e si volta verso quella voce, verso
una chiamata, ha il coraggio di guardare in faccia Gesù e così
incontra il Vivente. Pensavamo forse che l’esigenza della
conversione fosse solo un tema quaresimale e invece no: c’è
un’urgenza di conversione anche a Pasqua e per fare davvero Pasqua.
Se udite oggi la sua voce, abbiamo cantato tante volte in quaresima,
non indurite il vostro cuore: ecco ora la voce del Signore risorto
che ci chiama e aspetta che ci voltiamo. Anche per noi, cari
fratelli e sorelle, c’è una chiamata del Signore risorto che attende
una risposta, attende che ci voltiamo, attende che lo guardiamo in
faccia. Forse non pensavamo che fosse lui quella voce, che fosse lui
a chiamarci, forse pensavamo che fosse un uomo qualsiasi (il custode
del giardino), una parola qualsiasi, un evento qualsiasi o e invece
in quella voce forse c’è il Signore che vuole incontrarci. Solo
allora celebreremo davvero la Pasqua. Solo allora conosceremo che
davvero il Signore è risorto.
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sabato 19 aprile 2014
- Omelia Veglia
Pasquale -
fr. Massimo-Maria FMJ
Quando -
prima della Passione - Gesù aveva spiegato ai suoi discepoli che
dopo tre giorni dalla morte sarebbe risuscitato, i discepoli non
compresero le sue parole.
Quando nel Cenacolo appare
Risorto e Tommaso è assente, quest'ultimo sentendo il racconto dei
suoi amici non crede.
Quando il mattino di Pasqua
appare nel giardino del sepolcro a Maria di Magdala lei lo scambia
per il giardiniere.
Quando Risorto cammina da
Gerusalemme ad Emmaus con due dei suoi discepoli, questi non lo
riconoscono subito.
Quando sulla riva del lago
attende i suoi discepoli delusi che tornano dalla pesca essi lo
scambiano per un fantasma.
Quando Pietro dopo il dono
dello Spirito inizia a predicare con franchezza che il Padre ha
resuscitato dai morti quel Gesù che era stato ucciso, non trova
grandi entusiasmi, anzi si scatenano le persecuzioni.
Quando Paolo nell'Aeropago
di Atene, alla grande e illustre assemblea dei sapienti dell'antica
Grecia, l’apostolo parla della Resurrezione, in modo gentile ma
sottilmente ironico Paolo è semplicemente snobbato: " ...su questo
ti ascolteremo un'altra volta."
Fratelli e sorelle tutto
questo ci mostra che: non è scontato, non è semplice credere alla
Resurrezione.
Dobbiamo confessarlo
con semplicità: anche noi siamo un po' come i discepoli scendendo
dal monte Tabor dopo la Trasfigurazione, quando Gesù anche quella
volta aveva parlato della sua resurrezione. Essi annota San Marco
nel suo Vangelo ".....si
domandavano che cosa volesse dire "risuscitare dai morti" (Mc 9,
10).
Anche noi ci domandiamo
....ma cosa vuol dire credere alla Resurrezione? Cosa vuol dire per
noi oggi credere alla Resurrezione di Gesù? Che cosa è la
Resurrezione di Gesù? Come è avvenuta, cosa è successo.....e tante
domande simili anche noi ce le poniamo.
Non è immediato credere
alla Resurrezione di Gesù.
Ma occorre fare attenzione
ad una cosa, che ha una notevole importanza!
A ben guardare i Vangeli
mai spiegano l'avvenimento della Resurrezione, mai dicono come Gesù
sia Risorto, mai descrivono il momento della Resurrezione. Non
esiste nessun testimone della Resurrezione. Nessuno ha visto Gesù
risorgere. I Vangeli non ci dicono quindi come, è lasciato al
mistero della Potenza di Dio, ma ci dicono la cosa più importante.
ciò che conta, ciò che cambia tutto, la nostra vita, la storia,
l'universo, e cioè che è Risorto, che Gesù è vivo. Tutto non si è
concluso con la deposizione nel sepolcro. Lì proprio lì dove tutto
pareva finito e finito per sempre, Dio il Padre ha preso la Parola:
ha resuscitato Gesù. E - sempre i Vangeli - sebbene non ci indichino
testimoni della Resurrezione, ci dicono - magari all'inizio timorosi
e dubbiosi - testimoni del Risorto. Uomini e donne che lo hanno
visto, incontrato toccato vivo, realmente vivo.
E questi sono davvero
tanti: Maria di Magdala, gli apostoli, i discepoli di Emmaus. Ma
anche poi fuori dai Vangeli tutta la lunghissima storia della chiesa
è costituita dall’interminabile lista dei testimoni del Risorto: i
santi.
Fratelli e sorelle allora
noi questa notte abbiamo un solo motivo per essere qui: celebrare
Gesù Risorto, incontrarlo ancora nella Parola, nei segni liturgici:
Siamo qua per fare una volta di più l’esperienza che Gesù è Risorto,
è davvero Risorto; è vivo, è il vivente, ha sconfitto la morte, ci
ha reso la libertà, ci porta in una vita che non ha fine. Siamo qui
perché vogliamo confessare che l’ultima parola sulla nostra vicenda
terrena e sul destino dell’umanità non è della morte come vorrebbe
farci credere la ideologia materialista del momento, ma della vita,
di una vita piena che scaturisce per sempre dal Signore Risorto.
Gesù è Risorto! E' davvero
Risorto! La pietra è stata ribaltata, la tomba è vuota.
Se siamo qui è perché certo,
pur con le nostre debolezze e forse anche dubbi e stanchezze,
vogliamo dire al Signore: io credo che sei Vivo e che non cessi di
venirmi incontro! Io credo che sei Risorto e non cessi di parlare
alla mia vita! Io credo che sei Risorto e che anche a me vuoi
mostrarti sempre più.
Gesù non è solo vivo,
risorto, ma ci chiede di aprire una volta di più i nostri occhi
perché ci vuole incontrare e si fa incontrare. A Lui per primo non è
sufficiente che io lo creda risorto, ma vuole che io possa dire
personalmente: Ho visto il Signore, l'ho incontrato, parrebbe uno
sproposito: l'ho toccato.
Discepolo infatti non è chi
può dire Gesù è Risorto, ma chi può e vuole gridare:” Ho visto il
Signore”.
I luoghi, le opportunità,
le occasioni che il Risorto ci porge, prepara, indica per farsi
incontrare sono molteplici: la Sua Parola che fa sussultare il
cuore, i Sacramenti che operano meraviglie di grazia, la chiesa la
cui fede mi sostiene, mi accompagna, mi nutre nel cammino.
Ma questa notte voglio
invitarvi a guardare più da vicino una icona che ci propone il
Vangelo ascoltato. San Matteo ci dice che un angelo dal cielo scese
rotolò la pietra e si mise a sedere sopra. Alle donne impaurite che
cercavano un morto annunzia che non è più lì perché appunto è
Risorto.
Un angelo seduto su una
pietra sepolcrale rotolata via che annuncia che Gesù è Risorto.
Fratelli e sorelle proviamo a
pensare nel nostro cuore: forse è capitato nella nostra vita che il
Signore ci ha posto accanto un angelo seduto su un luogo, in una
situazione, in una esperienza che credevamo di morte e lì c'è stata
annunciata la vita. Lì proprio lì l'angelo ci ha indicato la strada
per continuare a cercare, a sperare a credere che Gesù Risorto
avrebbe fatto brilla re la potenza della sua Risurrezione ......e
così è stato.
Ma di più, fratelli e
sorelle, siamone certi il Signore invierà sempre il suo angelo nella
morte che abita tante situazioni, sofferenze, difficoltà paure, a
rotolare il masso su cui lui siederà per annunciarci che anche
quella morte che viviamo Gesù l’ha già vinta.
Sempre
il Signore manderà, manda, ha mandato il suo angelo a proclamare che
Gesù è Risorto, veramente Risorto e che la vita che Lui ha
inaugurato non si ferma mai più, che la nostra morte è il primo
passo per questa vita, che su ogni situazione di morte già oggi il
Padre interverrà così come è intervenuto per strappare dalla morte
il Suo Figlio Gesù.
Fratelli e sorelle su
ogni situazione di morte, così come sulla nostra ultima morte il
Signore invierà il suo angelo a dirci: Gesù è risorto e la morte, la
tua morte è vinta.
Credere nella Resurrezione
allora è credere che non esiste nessun buco così oscuro o profondo –
parole del Papa Francesco – da cui Dio non possa tirarci fuori.
Forse con più fiducia e
rinnovata gioia possiamo accogliere le Parole del Papa nella Veglia
Pasquale dello scorso anno che diceva:” Accetta allora che Gesù
Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui
è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo
passo:ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta
di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non
avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con
te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui
vuole.”
Fratelli e sorelle
davvero anche se tante preoccupazioni ci pesano sul cuore, tante
sofferenze paiono schiacciare la nostra vita, la paura della morte
ci assilla, tanta disperazione pare avere il sopravvento attorno a
noi, stanotte ripartiamo da Lui, ricominciamo con Lui, crediamo a
Lui: Gesù è vivo per te, e la sua Resurrezione è profezia, caparra e
certezza di ogni altra Resurrezione.
Ha detto mercoledì scorso
il Papa preparando la Chiesa a questo triduo pasquale:
"
La risurrezione di Gesù non è il finale
lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è
l’intervento di Dio Padre là dove si infrange la speranza umana. Nel
momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel
quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce,
è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più
oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci
la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita. Gesù,
che ha scelto di passare per questa via, ci chiama a seguirlo nel
suo stesso cammino di umiliazione. Quando in certi momenti della
vita non troviamo alcuna via di uscita alle nostre difficoltà,
quando sprofondiamo nel buio più fitto, è il momento della nostra
umiliazione e spogliazione totale, l’ora in cui sperimentiamo che
siamo fragili e peccatori. È proprio allora, in quel momento, che
non dobbiamo mascherare il nostro fallimento, ma aprirci fiduciosi
alla speranza in Dio, come ha fatto Gesù"
Carissimi
fratelli e sorelle in questa notte chiediamo al Signore Risorto la
grazia di un rinnovato incontro con Lui; la pace di una esperienza
rinnovata della sua presenza; la gioia di una infinita fiducia nel
Padre che, non solo sulla nostra ultima morte, ma su ogni piccola o
grande esperienza di morte non ci abbandonerà mai e manderà il suo
angelo a sedere su ogni pietra sepolcrale che ci ripeterà: Gesù è
risorto! Gesù è vivo....per te! E chiediamo anche la grazia che
quando siamo inviati a essere noi questo angelo per i fratelli
sappiamo con generosità, disponibilità e gioia proclamare:” Gesù è
risorto ha vinto la morte ed è con te per sempre.”
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venerdì
18
aprile 2014
–
Venerdì santo
- fr. Giovanni Battista FMJ
In questo giorno in cui celebriamo la Passione e
la morte del Signore, vogliamo avvicinarci alla Croce con un
atteggiamento, potremmo dire, cauto, prudente, lontano dai
ragionamenti e da troppe riflessioni. Cioè oggi vogliamo andare
incontro alla Croce con una consapevolezza profonda nella quale
radicare sia la nostra preghiera, sia il nostro pensare. È una
consapevolezza che pervade tutte queste ore così solenni ed
importanti del triduo pasquale ma soprattutto l’ora che celebriamo
adesso, l’ora del compimento, del tutto è compiuto. Qual è questa
consapevolezza? È che la Croce è un mistero! Cosa forse scontata,
cosa ovvia, lo sapevamo già che in questo triduo pasquale avremmo
celebrato il mistero della nostra salvezza. Ma questa cosa ovvia e
scontata oggi per noi dev’essere assolutamente centrale nella nostra
preghiera, deve abitare profondamente tutta la nostra interiorità.
Ci troviamo davanti ad un mistero! Il mistero della Croce.
La liturgia, intesa in senso lato, cioè non solo
la liturgia che si celebra ma anche la liturgia che si vive anche
fuori dalla celebrazione, ci accompagna e ci introduce quest’oggi in
questo mistero con alcuni strumenti che vogliamo ricordare, ma che
soprattutto vogliamo vivere, fare nostri, che sono il silenzio,
la preghiera nel suo grado sommo che diventa adorazione, e il
digiuno. In questo giorno è come se tutta la Chiesa, tutto il
popolo di Dio, si fermasse, sospendesse ogni giudizio, ogni
valutazione, ogni tentativo anche legittimo di afferrare con mano,
di comprendere. Oggi la Chiesa si ferma davanti alla Croce e solo
guarda, contempla, adora, implora, accoglie, rimane. È questo
l’atteggiamento che il mistero quest’oggi suscita in noi tutti, sono
questi gli strumenti che abbiamo fatto nostri per lasciare che
questo mistero della Croce di Gesù ci raggiunga, ci tocchi, ci
trasformi.
Le letture che abbiamo proclamato ci hanno
introdotti in questo mistero con un senso di speranza e anche con un
profondo senso di pace, sentimenti che si fondano sul fatto che oggi
non stiamo celebrando un funerale, non stiamo facendo il lutto di
nessuno, ma stiamo celebrando un mistero vittorioso di amore,
lo ripeto, un mistero vittorioso di amore. Gesù muore per amore.
Tutto quanto abbiamo ascoltato del racconto della passione e anche
prima è contrassegnato da questo libero dono di amore che è la
consegna che Cristo fa di se stesso al Padre per mezzo della Croce.
È importante riconoscere questo carattere essenziale, discriminante
della Croce di Gesù. Quando diciamo che il Signore ha preso l’ultimo
posto non vogliamo esaltare la mortificazione in sé stessa ma
l’amore; quando diciamo che il Signore si è fatto servo non vogliamo
considerare anzitutto la sottomissione e la dipendenza, ma l’amore;
quando diciamo che il Signore ha dato la vita per noi, non è nostra
intenzione esaltare la morte o la sofferenza ma l’amore, che ha reso
questa morte un sacrificio. Non possiamo separare l’umiliazione
dall’amore, la sofferenza dall’amore, la morte dall’amore. La Croce
liberamente accolta è il modo con cui Gesù oggi vuole dire al Padre
e a ciascuno di noi il suo “ti amo”. Un ti amo non solo detto a
parole ma col sangue, non solo detto a tutti ma detto a ciascuno di
noi, come anche san Paolo riconosceva per sé: “mi ha amato e ha dato
la sua vita per me”. Nel rito dell’adorazione della Croce noi
vorremo proprio appropriarci, fare nostro, sentire ed accogliere nel
nostro cuore questo “ti amo” di Gesù che si da a noi.
Ma abbiamo detto che quello che stiamo celebrando
non si tratta solo di un mistero di amore, ma di un mistero
vittorioso di amore. Perché vittorioso? La prima risposta è la
più immediata e anche la più vera: perché sappiamo che Cristo
vincerà la morte e noi oggi, in questo abbandono di Gesù nella
braccia del Padre, nel modo in cui Gesù vive la sua Passione,
intravediamo già quella fiducia che presto diventerà realtà,
diventerà carne viva ed eterna. È quanto colma il nostro cuore di
speranza: nessuno può uccidere veramente l’autore della vita,
nessuno potrà mai eliminare davvero ciò che viene da Dio. Nel mondo
avrete tribolazione, ci aveva detto Gesù, ma non abbiate timore, io
ho vinto il mondo. Ma detto questo potremmo tirarne un’altra
conseguenza e spingerci a dire una cosa ancora più estrema: noi ora
sappiamo come andrà a finire con Gesù, perché sono eventi già
accaduti, fanno parte del passato, della storia, pur essendo sempre
presenti nel mistero. Ma quando tocca a noi vivere la nostra
Passione, la nostra morte, la nostra sofferenza, non possediamo
questo sguardo futuro, non sappiamo subito nella realtà come andrà a
finire; rimaniamo ancorati, forse talvolta tragicamente al nostro
presente, alla nostra Croce, quasi incatenati a ciò che ci fa
soffrire. Ebbene, da questo venerdì santo, guardando a Gesù che
muore per noi, e soprattutto guardando a come Gesù muore per noi,
noi possiamo affermare una cosa del tutto stupefacente e perfino
assurda se non ci fosse stata la Croce di Cristo, è cioè che chi
vive e agisce per amore, anche se muore, anche se soffre per questo
amore, ha già la propria ricompensa. Quanti santi e quanti
martiri, pur non avendo davanti agli occhi il risultato immediato,
il successo del loro sacrificio, sono stati abitati da questa pace
profonda che li ha accompagnati in ogni tribolazione, in ogni lotta,
in ogni angustia, nella certezza che solo rimanendo nell’amore si ha
la vera libertà. Guardando a Gesù Crocifisso oggi noi vogliamo
imparare anche questo: che vale davvero la pena di fidarsi delle vie
di Dio, vale davvero la pena di seguire la via dell’amore perché
ormai sappiamo che proprio questo amore, proprio questo dimorare
nella volontà del Padre, è già per noi ricompensa superiore ad ogni
altra gratificazione terrena. L’amore è più potente della morte, più
potente del peccato. La Croce di Gesù interroga, interpella e anche
giudica il nostro modo di soffrire, per trasfigurare la nostra
sofferenza da sofferenza schiavizzante e deprimente in sofferenza
amante e liberante per la forza della Croce di Cristo.
Se questo è vero come crediamo che sia vero
allora sorge spontaneo dentro di noi un grido quasi folle,
un’esclamazione forse troppo esuberante: Gesù, anche noi vogliamo
soffrire e morire con te, anche noi vogliamo soffrire e
morire come te. Insieme a Maria, la Madre Tua Addolorata,
rendici segno per il nostro tempo di un nuovo modo di soffrire,
insegnaci a vivere con amore il nostro dolore per rendere tutta la
nostra vita un sacrificio gradito al Padre per la salvezza di tutti.
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martedì
15 aprile 2014
– Martedì santo
-
fr. Giovanni Battista
Siamo entrati nei giorni santi di questa
settimana e pian piano la liturgia ci introduce alla celebrazione
del triduo. Le letture di oggi ci offrono molti spunti per
illuminare le ore che precedono la Pasqua di Gesù. Abbiamo sia la
lettura del vangelo di Giovanni che ci presenta una parte del
dialogo che Gesù tenne nel cenacolo con i suoi discepoli, ma prima
ancora c’è uno dei quattro canti del servo in cui il profeta Isaia
ci tratteggia il volto di questo personaggio misterioso, di questa
figura singolare in cui la tradizione cristiana non tarderà a
riconoscervi Gesù, il servo giusto e sofferente che offre la vita
per i peccatori. Ecco che ci vogliamo concentrare un pochino su
questo servo obbediente perché in questa descrizione del servo noi
scorgiamo, come dire, qualcosa di quanto abita il suo cuore,
qualcosa che ci aiuta ad entrare un po’ di più nella Passione del
Signore.
Questo servo, dice Isaia, porta avanti tutta la
sua missione con una profonda persuasione interiore; egli dice: “il
mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio
Dio”. Gesù, il servo obbediente, cammina verso il compimento della
sua missione con questo sguardo saldo, fiducioso, fisso sul Padre.
Gesù non pone la sua fiducia negli uomini, nel gradimento, nel
successo che riscuote tra le folle, non è questa la sua forza, ma la
sua forza è il dimorare nella volontà nel Padre. Dall’inizio della
sua Passione nell’orto degli ulivi fino al suo compimento sulla
Croce Gesù non perderà mai la fiducia nel Padre suo. E questa
comunione costante con il Padre che ha dovuto attraversare la prova
dell’abbandono e della morte, come sappiamo, vincerà, produrrà i
suoi frutti anche se dovrà passare per quello che umanamente
parlando è un fallimento.
Il vangelo ci lascia intravedere i primi segni,
le prime avvisaglie di questo fallimento, dal punto di vista umano,
cioè secondo una logica mondana, trionfalistica. Potremmo quasi
collocare qui l’inizio della Passione di Gesù perché qui, dice il
testo, Gesù nell’annunciare nel rivelare il suo traditore, vive
questo profondo turbamento. Ha sicuramente qualcosa di misterioso
questo turbamento. Perché Gesù si turba se sa di essere colui che ha
il potere di dare la sua vita e il potere di riprenderla? Si tratta
credo di un turbamento non egoista, non pauroso non è il turbamento
di chi dice: “Oddio, adesso mi fanno fuori”, ma è il turbamento di
chi vede un suo amico, un suo intimo, uno dei suoi Dodici, voltargli
le spalle, essere consegnato nelle mani di Satana, allontanarsi
dalla luce per entrare nella notte.
Questo rifiuto è forse quanto di più doloroso il
Signore vive nel suo animo, più doloroso dei flagelli, più doloroso
dei chiodi, cose che saranno in fondo il realizzarsi, l’espressione
concreta di questo rifiuto. Gesù vede il suo amore non compreso, non
accolto, rifiutato. Il Gesù che si turba non è un Gesù risentito,
non è un Gesù permaloso che si offende, ma è un Gesù che soffre per
noi, è un Gesù che prende su di sé anche quel turbamento che
dovrebbe abitare il cuore di chiunque fa il male, di chiunque si
allontani dalla via della luce per entrare nelle tenebre. Colui che
ci precede sulla via della morte e della risurrezione è anche colui
che ci precede in questo turbamento. Gesù pregherà per il perdono
dei suoi uccisori appunto, perché non sanno quello che fanno. Non
sente solo il suo dolore personale ma soffre anche per quello che
avrebbe dovuto essere il loro dolore, la loro tristezza. Anche noi
allora quest’oggi vogliamo fare una preghiera particolare, vogliamo
chiedere una grazia strana, vogliamo chieder al Signore di renderci
partecipi di questo sano e santo suo turbamento: fa’ o Signore che
ci turbiamo quando facciamo il male, fa’ che ci turbiamo quando ci
allontaniamo da te, facci scoprire o Signore l’inquietudine del
nostro cuore quando vaghiamo lontani dalle tue vie; quando ti
tradiamo o rinneghiamo, svegliaci dalla nostra superficialità,
perché possiamo ritornare a te che sei la nostra vera pace.
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Domenica
13 aprile 2014
– domenica delle Palme –
fr. Giovanni Battista FMJ
Con la celebrazione di questa domenica della
palme, domenica di passione, stiamo entrando solennemente nella
settimana che ci condurrà al cuore dell’anno liturgico quando
celebreremo il mistero pasquale del Figlio di Dio. Oggi viviamo
questo ingresso. Come attraverso una grande porta della città
entriamo anche noi a Gerusalemme e ci disponiamo a vivere questi
giorni santi che, per quanto conosciuti o già sperimentati negli
anni passati, hanno sempre qualcosa di nuovo, di inedito da dirci e
da darci. È un ingresso che abbiamo vissuto anche noi proprio
fisicamente nei riti iniziali della Messa: dall’esterno all’interno
ripercorrendo così lo stesso movimento, in qualche modo, di Gesù che
entra nella città santa acclamato dalla folla. Un movimento che dice
il nostro desiderio non solo di assistere a questi eventi, come se
fossero uno spettacolo, ma vogliamo soprattutto prenderne parte,
entrarci dentro con la nostra vita, dall’esterno delle parole, dei
segni, dei gesti liturgici che compiamo, all’interno della sostanza,
della realtà che significano e realizzano, e per questo anche noi,
con Gesù, ci siamo messi in movimento.
I testi, le letture di oggi così abbondanti, ci
consentono di dare un duplice sguardo a questo evento della passione
di Gesù, cioè possiamo chiederci come Gesù partecipa alla sua
passione e come vi partecipano gli altri, la folla, i discepoli ecc.
Per la folla e i discepoli l’inizio è glorioso: sono tutti in festa,
si acclama Gesù come il re, il figlio di Davide, sono tutti amici e
seguaci di Gesù; il testo parla di una folla numerosissima che
riconosce in Gesù l’atteso. Eppure, di lì a poco, questa grande
ovazione cesserà, la folla si disperderà, i discepoli stessi
fuggiranno quasi subito, o al massimo, come Pietro, spieranno la
vicenda da lontano, lontano con il corpo, lontano con il cuore (fa
finta di non conoscere Gesù). Ecco che ci colpisce, siamo
profondamente interpellati da questa ambiguità contraddittoria
dell’atteggiamento della gente nei confronti di Gesù: amato e
abbandonato, desiderato e lasciato solo. Si tratta di una
contraddizione che forse possiamo ritrovare anche in noi, nel nostro
cuore; anche noi forse qualche volta facciamo come questa folla: c’è
il momento della festa, quando Gesù ci gratifica, ci appaga,
soddisfa in pieno le nostre aspettative, quello che noi ci
aspettavamo da lui, e allora Gesù diventa il nostro Re.
E poi c’è il Gesù che ci chiede di seguirlo nel
dare la vita insieme a lui, di seguirlo sulla via dell’amore che
porta il segno della sofferenza, c’è il Gesù che ci chiede di
rinnegare noi stessi, e allora qui cambiamo posizione, fuggiamo via,
oppure, come Pietro, lo guardiamo da lontano, dalla nostra
neutralità di chi non vuole riconoscersi più come discepolo di
Cristo. Talvolta siamo discepoli che scelgono: di Gesù questo sì, il
resto no: la festa e le acclamazioni di gruppo sì, il Gesù forte, il
Gesù re, il Gesù che fa i miracoli, ma del Crocifisso ci
vergogniamo, non ne vogliamo sapere: non lo conosco.
Di per sé, con questo nostro modo contradditorio
di pensare, non possiamo seguire fino in fondo il Signore sulla via
della Passione, non siamo capaci di fargli compagnia
fino all’ultimo come riconosce anche il cantico del servo: ho
cercato consolatori, ma non ne ho trovati. Finché rimaniamo saldi in
noi stessi, nel nostro modo di pensare e di guardare a Gesù, in quel
soggettivismo che sceglie di fronte al piano di Dio questo sì e
quello no, saremo sempre un po’ dei lontani, neutrali, ambigui,
contraddittori, come diceva Isaia: questo popolo mi onora con le
labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Seguire Gesù sulla via
della Passione richiede che si sia disposti a soffrire insieme a
lui, non esistono scorciatoie. Il discepolo di Cristo che veramente
vuole essere tale è chiamato a questo amore crocifisso, a questa
gloria crocifissa, come l’ha definita qualcuno.
E tutti noi forse, prima o poi, ci siamo trovati
o ci troveremo di fronte a questa chiamata a seguire Gesù un po’ di
più di quanto lo facevamo prima: prospettiva bella, prospettiva
appagante, ma prospettiva certo anche svuotante. Paolo VI in una sua
splendida meditazione per il venerdì santo, diceva che ci sono tre
modi dell’uomo di accostarsi a quello che lui definiva il dovere
dell’uomo, come la Croce lo era per Cristo: “tre diversi
atteggiamenti ci sono davanti al dovere: l’atteggiamento di colui
che l’accoglie imprecando; l’atteggiamento di colui che l’accoglie
con un senso di fatalismo e finalmente l’atteggiamento di colui che
lo accoglie con amore, come lo accolse Cristo.”
La chiamata che Gesù quest’oggi ci rinnova non è
una chiamata alla morte ma all’amore, amore che passa sempre, almeno
un pochino, per la strada della morte, delle piccole o grandi morti
della nostra vita. Del resto, se ci pensiamo bene, la scelta in
fondo non è tra il soffrire e il non soffrire, tra il dolore e la
gioia, tra morire e non morire, ma tra il soffrire o il morire
con o senza Gesù. Dal mistero di questa vita di Gesù donata
sulla Croce si apre per noi la possibilità di fare anche della
nostra vita, in tutto ciò che la costituisce, che la riempie o che
la svuota, un dono. Padre Rupnik dice che tutti siamo degli
stimmatizzati, tutti portiamo le stimmate di Gesù nel nostro corpo:
a qualche santo poi queste stimmate sono diventate visibili, ma,
secondo lui tutti portiamo in noi le stimmate di Cristo. Cosa vuol
dire questo? Vuol dire che ormai noi tutti siamo dei con-crocifissi
con Cristo abilitati, per grazia sua, a seguirlo sulla via
dell’amore. Il cristianesimo non è uno sport, un hobby, un
passatempo, non è neanche anzitutto un’appartenenza culturale o
sociale ma è una vita donata e ricevuta insieme a Cristo che anche
oggi, a ciascuno di noi, mentre entriamo con lui nella città santa,
alla soglia di questo Triduo di morte e risurrezione, ci rinnova
questo invito: vuoi seguirmi?
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mercoledì 9
aprile 2014
– V
settimana di quaresima
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il Signore continua quest’oggi a dialogare con
quel gruppo di Giudei che nella vicenda che abbiamo ascoltato ieri,
gli avevano creduto. Ecco che essendosi aperto un piccolo spiraglio,
una fessura nel loro cuore, Gesù rimane in dialogo, continua a
gettare il seme della sua Parola nella speranza che porti frutto.
Questi giudei pur avendo creduto sono però molto
radicati nelle loro convinzioni ed essi leggono dalla loro
prospettiva particolare ogni parola che Gesù dice. Il tema della
figliolanza, il tema della libertà, il tema dell’essere discepoli è
come se debbano essere riaffrontati, riplasmati. E Gesù parte
proprio col parlare del discepolato: Se rimanete nella mia parola
siete davvero miei discepoli. Ecco qui il primo punto: l’essere non
solo discepoli, ma l’esserlo davvero. Una differenza linguistica ma
che richiama ad una differenza sostanziale. La domanda che sorge è:
cosa marca questa differenza? Gesù stabilisce il criterio di
autenticità dell’essere discepoli nel rimanere nella sua parola. È
un linguaggio sicuramente nuovo per quelli che lo ascoltavano, ma
per noi che siamo cristiani non è nuovo. Siamo un po’ abituati a
questa idea del rimanere nella parola. Come si rimane nella parola
di Gesù? Potremmo rispondere capovolgendo il discorso senza per
questo voler fare un gioco di parole. Potremmo dire che rimaniamo
davvero nella parola di Gesù se la parola rimane in noi. Sembra
questa poca cosa e invece, se ci pensiamo bene, quanto è difficile!
Quanto è difficile essere abitati in profondità dalla parola di
Gesù, fare sì che la sua parola sia il criterio delle nostre scelte,
la spada che in noi taglia e il fuoco che purifica e cicatrizza. Ma
credo che non possiamo rimanere noi nella parola se non consentiamo
a lei, alla parola, di rimanere in noi; sarebbe una contraddizione,
sarebbe un espellere da noi stessi ciò che vogliamo diventi il
nostro habitus, la nostra casa, il nostro rifugio, il nostro credere
e pensare. La vicenda del libro di Daniele che abbiamo ascoltato ci
mette davanti agli occhi, tra l’altro, un esempio di fedeltà alla
Parola, di opposizione a tutti i tentativi e le pressioni che il
mondo, la società, di oggi come di allora, esercitano di continuo
per strappare da noi questa parola. I tre giovani rispondono con
libertà a questa minaccia perché, in qualche modo, già erano stati
resi liberi da quella parola che li abitava, una libertà interiore
che diventerà poi anche liberazione esteriore, dalla fornace, ad
opera del Dio vero.
Ma tornando ai Giudei credenti, Dicevamo
all’inizio che è come se Gesù stesse ri-catechizzando e prima che
dare loro dei contenuti egli indica loro qual è la relazione
autentica con Dio: non basta un’appartenenza formale, giuridica,
esteriore (non basta dire: siamo figli di Abramo); non basta la fede
di Abramo, il sì di Abramo per essere autentici figli, ma serve il
proprio sì, la propria fede. Volete essere figli di Abramo? Ebbene,
imitatene la fede, imitatene l’obbedienza, seguite le orme di colui
che additate come vostro padre.
Questo richiamo cari fratelli, sorelle e amici,
può essere utile anche per noi. Siamo sempre chiamati ad inverare il
nostro essere discepoli, il nostro essere figli, e questo non solo
per una ragione di coerenza umana o religiosa, ma soprattutto perché
questo inverare significa, come dice Gesù, entrare nella verità che
ci farà liberi. Attenzione però a non cadere nell’ideologia: Gesù
dice: la verità vi farà liberi; non siamo noi da soli a farci liberi
perché conosciamo o usiamo una qualche verità, ma è questa verità a
rendere noi liberi. Posseduti dalla verità saremo liberati dalla
verità. Anche qui non è un giro di parole ma è Gesù stesso che ci
ricorda che è lui, e solo lui, il liberatore: “Se il Figlio vi farà
liberi, sarete liberi davvero.”
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Domenica
6
aprile 2014
– V domenica quaresima –
fr.
Giovanni Battista FMJ
Nel vangelo di questa quinta domenica di
quaresima ci troviamo davanti ad un altro evento miracoloso di Gesù,
un grande segno finalizzato alla fede dei suoi discepoli. Non è il
primo dei segni che il Signore compie; rileggendo i vangeli questa
risurrezione di Lazzaro non è che l’ennesimo prodigio di un uomo
speciale, straordinario che guarisce i ciechi, sana i lebbrosi e
libera chi è posseduto dal demonio. Però nel miracolo di oggi c’è
qualcosa di più. È un segno che non solo vuole provocare la fede dei
presenti, non solo vuole convincere che Gesù non è un uomo qualsiasi
perché in lui è Dio stesso che opera e agisce. Oggi, in questo
segno, ed è per questo che ascoltiamo questo testo proprio alle
soglie della settimana santa, Gesù non solo compie un prodigio ma
anche, rivela, attraverso questo suo prodigio, qualcosa della sua
sorte futura, rivela un aspetto unico e straordinario della sua
identità divino-umana: io sono la risurrezione e la vita. È questa
la grande scoperta che faremo nel giorno di Pasqua e che oggi è
contenuta in questo segno profetico di risurrezione dell’amico
Lazzaro e nelle parole di Gesù.
La vicenda si gioca sullo sfondo di una duplicità
di sentimenti da cui non possiamo non lasciarci interrogare: abbiamo
ascoltato della profonda commozione del Signore Gesù quando
partecipa al lutto della famiglia di Lazzaro; addirittura Gesù non
solo si commuove profondamente ma perfino scoppia in pianto. Eppure
all’inizio Gesù confida ai suoi discepoli una gioia strana: Lazzaro
è morto – dice – e io sono contento per voi (XAIRO
- mi rallegro) di non
essere stato là. Cioè, se abbiamo capito bene, Gesù è contento di
non essere intervenuto subito, di non aver risposto subito
all’invito delle due sorelle che lo chiamavano al capezzale
dell’amico malato, e infatti, volontariamente, Gesù ritarda la sua
partenza per Betania.
Abbiamo qui qualcosa che davvero ci colpisce, ci
interroga. O Gesù è un masochista che si diverte della sofferenza
dell’uomo, cosa che certamente non possiamo ammettere conoscendo il
Signore e soprattutto avendo ascoltato che anche lui soffre con i
famigliari di Lazzaro; oppure, e qui credo sia la posta in gioco, in
questo ritardo, in questa assenza, in questi 4 giorni di Lazzaro nel
sepolcro, si racchiude un mistero particolare. Perché il Signore
attende prima di intervenire? Perché lascia che la morte emani il
suo odore prima di portare la vita? Qual è il significato di questa
attesa, di questi quattro giorni? Ci stiamo certamente inoltrando in
un argomento molto delicato, ma alla luce della fede e della Parola
di Dio possiamo provare a dire qualcosa. Questi 4 giorni di attesa
potremmo considerarli come l’emblema delle attese umane frustrate,
delle preghiere rimaste inascoltate, dell’incontro mancato. Questi 4
giorni sono il tempo della delusione: possono arrivare anche nella
nostra vita tempi in cui davvero tutto sembra perduto, in cui sembra
non aver più senso continuare ad attendere, a pregare, a sperare e
ad aver fiducia perché le sventure si moltiplicano e sembra che ci
sia un destino cieco e indifferente, se non spietato, che vada
avanti senza che nulla possa cambiarne la direzione. In questi 4
giorni noi avvertiamo tutta la nostra solitudine umana, avvertiamo
tutto il nostro bisogno di salvezza.
Ma già questa possiamo considerarla come una
prima grazia di questa attesa: la scoperta consapevole, cioè non
solo a livello intellettuale ma proprio nel profondo della nostra
coscienza, che siamo incapaci di salvarci da soli e che abbiamo
bisogno di un salvatore, abbiamo bisogno di un redentore, abbiamo
bisogno di Gesù. Dobbiamo definire questa già una grazia che viene
da Dio perché è il momento in cui l’attesa e la delusione possono
trasformarsi in speranza, che è una virtù non umana ma teologale. La
mentalità del nostro tempo, quella che punta alle felicità facili ed
immediate certo non ci aiuta nell’acquisizione di questa speranza.
Anzi in genere fa di tutto per non farci percepire il vuoto, per
colmare quell’assenza che ci riporta al profondo di noi stessi di
tanti rimedi superficiali che ci allontanano dalle domande profonde
di fronte alle quali dobbiamo porci se vogliamo capire il senso
profondo della nostra vita. Il mondo considererebbe uno scandalo
inutile e nocivo questa attesa di quattro giorni. Perché Dio non
interviene? Perché Dio non evita il male? Sono queste domande che
possono abitare in noi e che, tra le righe, in certo senso
ritroviamo in parte anche nella fede in crescita di Marta e di
Maria, seppur con un’apertura alla novità della presenza ritrovata
di Gesù.
L’attesa frustrata di questi 4 gg sembra
superiore alle forze di Gesù: Signore se tu fossi stato qui mio
fratello non sarebbe morto. E anche i Giudei presenti al lutto
pensavano ormai che tutto si fosse giocato: Lui che ha aperto gli
occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?
Anche noi qualche volta avremmo voluto dire: Signore se tu fossi
stato qui! Perché non sei intervenuto? E qui si gioca l’intervento
di Gesù. Per Il Signore non è mai troppo tardi. Il Signore non vince
il male evitandolo, ma vince il male attraversandolo e annientandolo
e qualche volta fa fare ai suoi amici (Lazzaro era un suo amico) la
stessa esperienza. Anche di fronte al fatto compiuto il Signore
interviene e ridona la vita. È questo forse il salto di qualità a
cui il Signore invita la nostra fede con questo segno della
risurrezione di Lazzaro: accogliere nella nostra speranza una
certezza: che per il Signore non si può mai dire: tutto è perduto!
Il braccio del Signore non è mai troppo corto da
non poter salvare. Se i quattro giorni ci obbligano a riconoscere
che da noi stessi non possiamo nulla, d’altro canto ci rendono
attenti, aperti e disponibili a quella chiamata di risurrezione e di
vita che dilata le aspettative umane ad una speranza impossibile
all’uomo ma non a Dio. Lazzaro vieni fuori! È questo un grido
rivolto anche a noi, cari fratelli e sorelle, a uscire dalla
delusione e dalla morte che può prendere spazio nei nostri pensieri
ancor prima che nella nostra carne. Il puzzo della morte può abitare
un cuore senza speranza anche se è un cuore che è vivo e batte. Ma
se il soffio dello Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti
abita in noi, come abbiamo ascoltato da san Paolo, tutto riparte,
tutto riprende vita. Da questa specie di anticipazione della Pasqua
di Gesù che la liturgia oggi ci offre vogliamo allora attingere quel
coraggio e quella speranza che ci consentono di seguire il Signore
fin sul monte Calvario. Li vivremo la Sua Pasqua e la nostra Pasqua
se siamo disposti con Gesù ad attraversare con Lui il sepolcro per
entrare nella vita nuova.
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mercoledì
2
aprile 2014
– IV settimana quaresima
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Più il nostro cammino quaresimale avanza verso la
Pasqua, e più la nostra attenzione è chiamata a staccarsi da noi
stessi per volgersi a Gesù. Se ricordiamo bene infatti le letture
dei primi giorni della quaresima, erano letture che ci invitavano a
rivalutare il nostro modo di vivere la fede, la preghiera, il
digiuno, l’elemosina. Da qualche giorno abbiamo iniziato questa
lectio continua del vangelo di Gv che racchiude come un implicito
invito a non guardare più tanto a noi stessi ma a lui. Lo sguardo
della quaresima inizia a spostarsi da quello che noi possiamo fare
per la nostra conversione a quello che Gesù ha fatto per la nostra
conversione. C’è davvero un cambiamento di prospettiva che culminerà
nel mistero pasquale, culmine e nuovo inizio di tutta la storia
della salvezza.
Dicevamo guardare a Gesù, c’è un dinamismo nella
liturgia quaresimale che ci porta a guardare a Gesù. Il vangelo di
oggi si apre proprio con uno sguardo, che è quello dei Giudei, su
Gesù. Essi sono perplessi, più che perplessi, ostili a Gesù, per due
ragioni: una ragione di osservanza della Legge (Gesù guarisce di
sabato, cosa che non si poteva fare secondo la loro interpretazione
della Legge) e per una questione di identità (Gesù chiamava Dio suo
Padre facendosi uguale a Dio). Più che la prima ragione è
probabilmente questa seconda ragione ad infastidire di più i giudei
(sembrava quasi una bestemmia per loro). Gesù tratta Dio in un altro
modo, si relaziona con lui in un modo del tutto diverso da quello
degli altri, famigliare, confidenziale, e soprattutto figliale. Gesù
è il Figlio di Dio e persino coloro che gli sono avversi se ne
rendono conto, anche se poi non gli credono. Pensiamo se anche di
noi si potrebbe dire da parte di chi ci guarda: davvero si vede che
tu sei figlio di Dio, davvero si vede, è evidente da come vivi che
hai Dio per Padre.
Carissimi questa è la nostra vocazione comune:
avere Dio per Padre; la vocazione che ci rende tutti fratelli è
proprio questo essere figli. Un essere ontologico perché con il
battesimo siamo stati come marchiati, segnati per sempre di questo
carattere, ma non basta questo carattere metafisico, ontologico,
essenziale della nostra identità. Questo carattere di per sé non si
vede se noi non gli diamo visibilità, o piuttosto se non lo lasciamo
risplendere. E come dargli visibilità? Non si tratta di fare del
teatro, ma credo anzitutto che si tratti di rendercene conto noi per
primi, scoprirlo e riscoprirlo ogni giorno.
Scoprire o riscoprire ogni giorno che ho Dio per
Padre significa di conseguenza scoprire o riscoprire che io sono
figlio. Se il nostro stato di figli non ha in noi stessi il suo
fondamento ma trae origine da Dio ecco che nella misura in cui siamo
in contatto, in relazione viva con il Padre, in noi e forse anche
fuori di noi cambia tutto, cambia il nostro modo di essere e di
vivere. È un problema di identità prima che di morale, di essere
prima che di fare. È una rinascita: i morti udranno la voce del
Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. Quei
morti, cari fratelli e sorelle, siamo noi, fatti uomini nuovi in
Cristo ma ancora, dal punto di vista esistenziale, in fieri, in
divenire, verso la pienezza del nostro essere. Disse un giorno Abba
Poimen ad Abba Giuseppe: “Dimmi, come potrò diventare monaco?”.
Rispose: “Se vuoi trovare pace in questa vita e nell’altra, di’ in
ogni cosa: “Io chi sono?”, e non giudicare nessuno”. Anche noi
allora chiediamoci ogni giorno, ogni momento, e soprattutto prima
prendere una decisione importante o di fare qualcosa: io chi sono?
Dalla nostra risposta a questo quesito dipenderà in gran parte il
nostro agire. E tale ricerca sarà per noi via quotidiana di ritorno
alla nostra profonda ed autentica identità, laddove il nostro io
trova pace e pienezza in Dio che è Padre di tutti.
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venerdì
28
marzo 2014
– III settimana
di Quaresima -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Nei primi secoli del cristianesimo, tra i padri
della Chiesa ma anche già nel nuovo testamento, per cui già tra gli
apostoli, era diffusa una convinzione che poi è penetrata
autorevolmente nella Tradizione della Chiesa, e cioè che tutta la
Scrittura ebraica, cioè tutto l’antico testamento parla di Cristo.
Se l’antico testamento potremmo definirlo a grandi linee come la
testimonianza ispirata del dialogo del Dio dei padri con un popolo
eletto, il popolo d’Israele, un dialogo che chiamava ad amicizia, a
fare alleanza con Dio, in tutte queste parole e in tutte questi
eventi già Cristo era nascosto, prefigurato invisibilmente a tal
punto che addirittura tutti noi riconosciamo che le Scritture si
compiono in Cristo. Questa alleanza, amicizia tra Dio e uomo trova
il suo compimento in Cristo perché Cristo è Dio e uomo insieme, cioè
nella sua carne racchiude sia la pienezza dell’amore di Dio offerto
all’uomo, sia la pienezza della risposta dell’uomo a questo amore.
Ed è per questo che, come sappiamo, giunti alla pienezza della
rivelazione e dell’alleanza in Cristo, non c’è più nulla da
aggiungere: tutto ormai è stato detto, fatto, stabilito per sempre.
La storia che segue è un lento e anche libero, perché è proposto
agli uomini non imposto, ricapitolare tutto in Cristo come scriveva
san Paolo.
Ora, venendo al vangelo di oggi, possiamo provare
a tirare le conseguenze di quanto abbiamo detto. Il brano ci
racconta una disputa tra uno scriba, cioè un esperto di scrittura,
di Bibbia, e Gesù. Nel passo iniziale omesso dal lezionario si dice
perché questo scriba si avvicina a Gesù, e ci dice Marco, perché
Gesù, nella disputa precedente, aveva risposto bene, e allora questo
scriba, affascinato dalla persona di Gesù ma anche più che
affascinato in senso emotivo, potremmo dire anche soddisfatto,
convinto razionalmente dal suo modo di spiegare la Scrittura, va da
Lui e gli pone la domanda su qual è il primo dei comandamenti. La
risposta l’abbiamo sentita: il primo comandamento è Dt 6 lo shema
Israel, l’amore totale di Dio, e il secondo è l’amore del prossimo
come se stessi. Lo scriba è soddisfatto di questa risposta.
Ma noi come cristiani siamo soddisfatti di questa
risposta o no? Chiediamocelo. Ci basta per vivere pienamente la
nostra vocazione cristiana avere presente questi due comandamenti
(ama Dio e ama il prossimo) oppure no? Ciascuno dia la sua risposta.
Io risponderei di no. Cioè come cristiano non mi basta sapere che
devo amare sommamente Dio e il prossimo come me stesso. Non mi basta
perché ho bisogno di qualcuno che non solo mi dica di amare ma che
soprattutto mi spieghi come amare Dio e il prossimo e questo
qualcuno è Gesù. Io non posso amare totalmente se non ho un Maestro
che mi insegni e che soprattutto mi testimoni nel concreto questo
duplice comandamento dell’amore. Ecco che ritorniamo al discorso di
prima. Gesù che compie la Scrittura, Gesù che incarna nella sua
persona il Figlio di Dio stesso e così compie, perfeziona in se
stesso, nella sua vita, tutto quanto Dio aveva detto e fatto prima,
compresi questi 2 comandamenti di oggi. Gesù mi spiega, mi dimostra,
mi testimonia e mi insegna come amare Dio e i suoi fratelli che
siamo noi. Da cristiani, discepoli di Gesù, chiamati ad essere altri
Gesù nel nostro mondo, come possiamo ormai amare se non guardando a
Gesù. L’amore rischierebbe di diventare quello che vogliamo noi,
come vogliamo noi, e soprattutto, con chi lo vogliamo noi. Ma
l’amore cristiano, possiamo dire, ha una sua oggettività che deve
rimanere per sempre un faro per le nostre azioni, e questa
oggettività è in Gesù che la troviamo.
A questo punto possiamo fare un’ultima
precisazione e con questa concludere: se è da Gesù che impariamo ad
amare vuol dire che noi siamo e, aggiungiamo pure, saremo sempre
degli alunni, degli scolaretti di Gesù alla scuola dell’amore. In
amore non c’è la laurea, il diploma, il baccalaureato o il
dottorato, ma siamo sempre sui banchi di scuola, sempre in ricerca,
avremo sempre qualcosa da imparare dal Maestro Gesù. E in questa
scuola di Gesù c’è un esercizio di base un esercizio costante, poi
ce ne saranno altri, per imparare ad amare. Ma questo è il primo
esercizio se vogliamo poi riuscire a fare bene quelli che vengono
dopo. Il primo esercizio è il lasciarsi amare da Gesù. Questa
è la base di tutto: lasciatevi raggiungere, toccare, trasformare
dall’amore di Gesù. Come infatti possiamo amare come ama Gesù se non
abbiamo fatto esperienza del suo amore? Chiediamocelo: ho fatto
esperienza dell’amore di Gesù? Hanno un senso vero e concreto per me
le parole “Dio mi ama?”. È questo il senso della quaresima e in
particolare di queste “24 ore per il Signore” che si sono aperte
adesso: scoprire l’amore che Gesù ha per ciascuno di noi. Amore
personale e unico. Lasciatevi riconciliare con Dio dice san Paolo,
cioè lasciatevi amare da Dio in Cristo, conoscete, fate esperienza
dell’amore di Gesù, fate esperienza che l’amore di Gesù è un amore
attivo, efficace, che consuma il peccato che è non-amore, e allora
poi sarete diversi, avrete quella marcia in più nell’amore che il
cuore umano lasciato ai suoi soli sentimenti umani non conosce, una
marcia in più sia con Dio sia con gli altri. Lasciatevi amare da
Gesù e allora sia Dio che il fratello avranno per voi un volto
diverso.
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venerdì
28
marzo 2014
– III sett. Quaresima – Commento ora media
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il testo del profeta Osea che abbiamo ascoltato è
un insistente invito alla conversione, un cammino di purificazione
dal peccato e dall’iniquità per entrare nella novità di Dio. E il
profeta presenta questo cammino di conversione non come il prendere
una direzione qualsiasi, che potrebbe essere quella di compiere
determinati precetti morali, della ricerca di un particolare ideale
di perfezione, o di fare qualche opera di pietà, tutte cose senza
dubbio assolutamente valevoli e importanti, ma non principali. La
direzione proposta dal profeta per questo cammino è un’altra ed è il
ritorno al Signore: torna dunque Israele al Signore tuo Dio.
Convertirsi significa ritornare al Signore. Il Signore stesso, il
ritornare nella sua amicizia, in una relazione profonda e sincera
con lui, è questa la direzione da prendere, la meta del cammino di
conversione. Il restaurare la relazione con Dio, il rimetterla non
solo a nuovo ma soprattutto al suo giusto posto nella nostra vita, e
cioè al centro della nostra vita, è quanto, per bocca del profeta,
il Signore propone oggi al suo popolo.
Ma c’è di più. Nel testo che abbiamo ascoltato si
mette in luce anche un altro aspetto di questo ritorno al Signore,
un aspetto speculare, conseguente al primo, un aspetto che qui viene
espresso con il richiamo all’Assiria quel paese straniero così
potente che rappresentava per Israele il rifugio umano in cui
trovare sicurezza mediante le alleanze politiche. È la tentazione di
sempre: farci grandi senza Dio ma con i nostri mezzi, cercare
sicurezza e fondare la nostra forza non sul Signore ma sul potente
di turno, il vittorioso di turno, quello che umanamente sembra
sostenere meglio la nostra fragilità e appagare la nostra fame di
realizzazione. Potente che potrebbe essere anche dentro di noi, la
nostra intelligenza, le nostre capacità, la nostra giustizia.
Insomma chiamare ‘dio nostro’ non Dio ma l’opera delle nostre mani.
Ebbene qui il testo ci riporta un passaggio straordinario: Assur non
ci salverà .. perché presso di te l’orfano trova misericordia.
Attraverso questa immagine dell’orfano che presso Dio trova
misericordia, viscere di misericordia, potremmo quasi dire l’orfano
che presso Dio trova il grembo che lo accoglie, attraverso questa
immagine così debole ma anche così materna del ruolo di Dio nei
confronti di Israele, ci viene offerto un messaggio splendido che
potremmo parafrasare in questi termini: per trovare rifugio presso
Dio bisogna forse attraversare, sperimentare una certo stato di
orfanità. Forse, qualche volta, il nostro cammino dovrà passare di
qui, dovrà passare per quella solitudine, per quell’assenza di quei
riferimenti rassicuranti, anche legittimi, che un tempo avevamo o
che andavamo a cercarci, per entrare in una relazione nuova con il
Signore, sperimentare che Dio è Padre e Madre come non l’avevamo
sperimentato prima e che davvero si prende cura di noi. Ecco perché
il cammino di conversione non è presentato da Osea come un andare al
Signore ma come un tornare al Signore, differenza verbale in cui
ritroviamo questa sorta di cammino al rovescio, un tornare indietro,
quasi un tornare bambini e orfani, per sperimentare una vita nuova
sotto la paternità di Dio. E infatti il testo, da questo punto in
poi, proseguirà costellato da espressioni e immagini che indicano
questa rinascita: sarò come rugiada per Israele (simbolo di una
nuova alba, un nuovo mattino), fiorirà, metterà radici, faranno
rivivere il grano.
Tornare al Signore significa allora per noi
ripartire dal Signore in novità di vita. È questa la grazia che
chiediamo per tutti noi.
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giovedì
27
marzo 2014
– III settimana quaresima
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Ci potrà forse sembrare straordinario,
impossibile, assurda la scena del vangelo di oggi: Gesù compie un
esorcismo eppure tra i testimoni oculari c’è qualcuno che non crede.
Anche avendo davanti agli occhi Gesù che libera una persona dal Male
e la restituisce alla Vita, non è automatico credere, la possibilità
di restare nelle tenebre anche avendo di fronte la Luce rimane. Si
tratta sicuramente di un mistero, il mistero della libertà
dell’uomo, un mistero che Dio custodisce, rispetta, salvaguarda fino
in fondo pur sapendo che alle volte, con questa libertà, possiamo
farci del male. Il buio può possederci fino a tal punto da impedirci
di vedere le opere della luce che il Signore compie. E così noi
crediamo di vedere, pensiamo che sia la realtà quella che vediamo
con i nostri occhi, ma forse qualche volta stiamo solo guardando
attraverso le nostre ombre e così il bene diventa il male o
viceversa, e addirittura, nel vangelo di oggi, Gesù da figlio di Dio
è etichettato come un adepto di Beelzebul. Se questo accadeva a chi
aveva davanti Gesù in persona non è impossibile che anche noi
possiamo trovarci nello stesso genere di cecità. Come guarire, come
ritornare a vedere bene?
La prima lettura ci parla con insistenza di uno
dei temi tipici del tempo della quaresima che è l’ascolto.
L’esortazione del profeta si apre con un imperativo che viene da
Dio: Ascoltate la mia voce! E si chiude con lo scopo, il frutto
ultimo di questo imperativo: perché siate felici, perché siate
felici. È questo il senso profondo e l’orientamento definitivo di
questo invito all’ascolto: perché siate felici. Davvero non dovremmo
mai dimenticare che tutto quello che Dio ci chiede è per la nostra
gioia. Come sarebbero diverse le nostre giornate se sempre, in ogni
momento, fossimo profondamente persuasi che tutto quanto viene dal
Signore per la nostra salvezza è orientato a questa stabile felicità
che non sempre sappiamo scorgere nella nostra vita. Ma questa
felicità non è un bene isolato, a se stante, come se fosse
un’esperienza staccata da Dio stesso. No, la nostra felicità, in
fondo lo possiamo riconoscere, è Dio stesso. È Dio la nostra
felicità e noi possiamo essere felici solo all’interno di questa
relazione con Dio. Tra l’imperativo dell’ascolto e l’orizzonte della
felicità c’è proprio questa relazione con Dio: Ascoltate la mia
voce: io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. L’ascolto,
anche se poi si deve tradurre in azione se no non è davvero ascolto,
è anzitutto ingresso in una relazione di fiducia con il Signore. La
fede, dice san Paolo, nasce dall’ascolto. Dicendoci: Ascoltate, è
come se il Signore dicesse: apritevi a me! L’ascolto è attività e
passività nello stesso tempo, è ricevere e dare, è accoglienza e
offerta. Ascoltare significa lasciarsi raggiungere dalla chiamata di
Dio che quando chiama rivela se stesso e ci coinvolge in una
relazione personale con lui.
L’attitudine dell’ascolto potremmo anche
esprimerla con l’immagine della luce e della tenebra. Ascoltare è
aprirsi alla luce, da tenebre che siamo scegliere di non proiettare
la nostra oscurità fuori di noi perfino sulle opere che Dio compie,
per lasciare che sia la Luce a brillare, che sia la Luce a lasciarsi
vedere, e che sia questa stessa Luce a rendere anche noi vedenti.
Quelli che credono di vedere in realtà sono ciechi, ci insegna il
vangelo.
Ascolto obbediente, felicità, luce, sono questi
gli ingredienti del nostro cammino di discepoli dietro a Gesù: è Lui
che ci guida, è Lui che ci illumina e ci rende davvero vedenti, noi
però dobbiamo fidarci, scegliere la via della fiducia che ci aprirà
ad una relazione sempre più profonda con il Signore, ci renderà non
solo praticanti e osservanti ma soprattutto capaci di seguirlo con
gioia verso Gerusalemme.
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Domenica 23 marzo 2014
- Domenica III di Quaresima -
fr. Massimo-Maria FMJ.
Un
elemento che senza dubbio oggi è particolarmente presente nella
Parola e in tutta la liturgia di questa terza domenica di Quaresima
è l'acqua.
Nell'oriente,
in cui la scena evangelica è ambientata, l'acqua del pozzo è quanto
l'uomo cerca con ansia in un paesaggio spesso assolato, con la
consapevolezza che essa non è solo strumento di purificazione e di
refrigerio, ma soprattutto è radice di vita e fecondità.
L'acqua infatti
permea il suolo e feconda la terra facendo sbocciare germogli
verdeggianti; l'acqua è capace di combattere la morte nel deserto
insediandovi la vita; l'acqua - è soprattutto la nostra esperienza -
rinvigorisce l'uomo nel suo cammino quotidiano.
Ora ascoltando
la pagina evangelica siamo in primo luogo spinti a considerare il
fatto che Gesù, nonostante sieda al pozzo e chieda da bere alla
Samaritana, abbia Lui un' acqua che disseta in modo particolare.
La Samaritana
coglie bene questo e lo prega infatti con queste parole: " Signore
dammi di quest'acqua perchè non abbia più sete. "
Gesù stesso in
realtà lo afferma chiaramente più avanti nel brano evangelico: " Se
qualcuno ha sete, venga a me e beva."
Ma forse in
questa domenica ci fa bene nel cammino quaresimale contemplare più
da vicino la sete di Gesù. Nel testo infatti è Lui che si pone in
situazione di bisogno. Nel brano evangelico è il Signore che chiede
mendicante: " Dammi da bere". Una richiesta che senza fatica ci
rimanda ad un'altra richiesta del Signore. A quel grido sulla
croce: " Ho sete."
Il Signore che
chiede da bere. Dio che ha sete.
Che grande
mistero!
Colui che ha
creato i mari e che ha fatto scaturire le sorgenti chiede acqua.
Colui che ha in
mano gli abissi e provoca le piogge chiede da bere.
E' evidente. Lo
sappiamo. Il Signore non chiede l'acqua del pozzo. Tutto è suo.
Non reclama di
essere refrigerato dal caldo è il Signore dell'universo.
Ed è'
proprio qui il grande mistero che oggi ci deve interpellare,
commuovere ed una volta di più farci fare un passo in avanti nel
cammino di conversione.
Gesù non ha sete
di prendere, ma di donare!
Sì! Il suo
desiderio insaziabile non è prendere, ma donare.
Sedendo a quel
pozzo in Samaria infatti, Gesù siede idealmente al pozzo del cuore
di ogni uomo, al pozzo della storia di ognuno di noi, e si fa
mendicante rivolgendoci la stessa domanda, confessandoci lo stesso
desiderio, esprimendo lo stesso bisogno:
" Dammi da bere
". " Ho sete! "
Dammi da bere:
dammi cioè il permesso di entrare sul serio nella tua vita; dammi la
possibilità di farti dono della mia misericordia; di rafforzare la
tua fede se vacilla o di restituirtela se la stessi perdendo. Dammi
l'opportunità di farti sperimentare ancora una volta la potenza
dell'acqua dello Spirito che crea, ri-crea, infonde forza, dona
pace.
Che grande
mistero fratelli e sorelle, Dio si fa mendicante alla porta della
nostra vita, alla porta della vita di ogni uomo non per reclamare
qualcosa, ma per colmarci del suo dono.
Oggi la liturgia
lo dice splendidamente nel prefazio con le parole di Sant'Agostino.
Il sacerdote
pregherà infatti, prima della preghiera eucaristica, con queste
parole: " Egli - Gesù - chiese alla Samaritana l'acqua da bere, per
farle il grande dono della fede e di questa fede ebbe sete così
ardente da accendere in lei la fiamma del suo amore."
In questa
domenica allora lasciamo risuonare la parola di Gesù che ci chiede
da bere, che ci chiede di lasciarlo fare nella nostra vita. Di
lasciare la presa della nostra vita cedendo a Lui il comando. Ci
chiede di accogliere la grazia, lo Spirito, la misericordia, la
vita!
Un'ultima
considerazione può essere preziosa.
Se in questo
episodio scopriamo lo stile di Dio che per donare si pone in
posizione di mendicante, non ci risulta difficile scorgere quale
debba essere lo stile di chi voglia vivere evangelicamente; portare
il Signore evangelicamente, amare evangelicamente.
Uno stile di
grande umiltà! Uno stile di grande abbassamento! Uno stile che è -
viene da dire - davvero anti-mondano: si domanda per dare, si
chiede per offrire, si bussa per donare.
Tutto ciò ci
sorprende, ci disarma, ci sconvolge - diciamolo pure ci scandalizza.
Ma Dio ancora una volta si rivela come il totalmente Altro, perché è
amore, e l'amore non cessa di sorprendere, di stupire, di
scandalizzare. Questo amore però che splende con forza sul volto di
Gesù deve brillare potentemente anche nelle nostre vite. In questa
quaresima con audacia e insistenza al Signore chiediamogli che ce ne
faccia la grazia. Amen
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Domenica
23 marzo 2014
– III domenica di quaresima – Messa di S.Procolo
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Il tempo quaresimale che stiamo vivendo è uno dei
4 tempi forti dell’anno liturgico: avvento, Natale, Quaresima e
Pasqua. Si chiamano tempi forti perché sono tempi che sono portatori
di una grazia particolare che è legata al fatto che si celebra o ci
si prepara a celebrare un aspetto particolare della vita di Cristo,
si vuole entrare un po’ di più nel mistero di Dio. Anche il tempo
della quaresima è perciò portatore di una grazia particolare. Qual è
questa grazia? È una grazia particolare di conversione. Siccome
Pasqua è il cuore dell’anno liturgico ed è anche quell’evento in cui
veniamo immersi quando siamo battezzati, così la quaresima che
precede la Pasqua, è come se fosse un nuovo cammino di preparazione
al battesimo, un nuovo cammino in cui vogliamo tornare
all’essenziale della nostra vita di cristiani. La quaresima infatti
ci pone questa domanda: cosa è essenziale nella tua vita di uomo e
donna, di cristiano e cristiana? Le cosiddette penitenze
quaresimali, i fioretti, i buoni propositi che si fanno in questo
tempo, i digiuni, le privazioni, sono proprio orientati a far
emergere nel nostro cuore questa domanda fondamentale per la nostra
vita: cosa è l’essenziale.
Nella prima lettura tratta dal libro dell’Esodo
Israele cammina nel deserto. Sta facendo un cammino di liberazione.
Dio l’ha chiamato dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della
terra promessa, ma questo cammino di liberazione è faticoso, mette
alla prova Israele. Israele nel deserto perde tutte quelle sicurezze
che aveva prima in Egitto, sicurezze che però erano frammiste alla
schiavitù e alla sottomissione al faraone. Nel deserto, sparito il
faraone e sparite le sicurezze, il cibo, la stabilità, l’acqua da
bere, il popolo inizia ad avere bisogno, il popolo, dice il testo
“soffriva la sete”. Nel deserto Israele scopre la sua sete che se
certo era bisogno di acqua da bere, possiamo vedere in questa sete
anche il simbolo della sete dell’essenziale della nostra vita, di
qualcosa che è necessario per vivere come lo è l’acqua. E nel
deserto senza l’acqua, lo sappiamo, si muore. La quaresima è anche
per noi questo tempo nel deserto dove forse spariscono un po’ le
sicurezze ed emerge in noi la sete dell’essenziale, cosa davvero
rende piena e bella la nostra vita.
Quanto è importante per noi, cari amici,
avvertire questa sete interiore di una vita piena, di una vita
bella, di una vita felice. Ma quanto è importante anche saper
dissetare questa sete alla sorgente giusta, al pozzo giusto. Nel
vangelo che abbiamo ascoltato Gesù parla con una donna samaritana
che incontra al pozzo e le fa capire che ci sono due categorie di
acqua con cui dissetare la nostra sete: un’acqua che disseta per un
momentino e poi fa tornare la sete, e un’acqua che chi la beve, dice
Gesù, non avrà più sete in eterno. E questa seconda acqua non è
un’acqua normale ma è un’acqua soprannaturale, è un dono che viene
da Dio, che viene da Gesù. Allora oggi Gesù forse ci rivolge una
domanda: a quale pozzo tu vai a dissetare la tua sete? Quale acqua
cerchi nella tua vita? Cerchi l’acqua che disseta per 5 minuti e poi
ti fa tornare la gola secca o cerchi l’acqua che, come dice Gesù nel
vangelo di oggi, diventa in te un sorgente che zampilla per la vita
eterna, cioè quell’acqua che ci fa già vivere un po’ della vita
beata che avremo in cielo? Questa, cari amici, è forse la domanda
che Gesù rivolge a ciascuno di noi quest’oggi e a cui siamo invitati
a dare risposta. Il problema non è l’avere sete, il soffrire la sete
come Israele nel deserto, anzi è proprio la grazia specifica di
questo tempo quaresimale lo stimolarci a prendere coscienza di
questa sete, ma il problema è andare a dissetarci al pozzo giusto.
Di pozzi che non dissetano davvero, lo sappiamo, ne è pieno il mondo
e qualche volta sembra che la nostra società abbia più desiderio di
questi pozzi, di questi divertimenti di cui sono disseminate le
nostre città, che non dell’acqua che ci da la vera felicità che
viene da Dio. Come cristiani abbiamo il dovere di vivere, di
testimoniare e di annunciare ai nostri contemporanei, che non si
lascino ingannare dai surrogati, da ciò che sembra fare la felicità
dell’uomo e invece la deprime, la distrugge, ma questo lo possiamo
fare se abbiamo scoperto noi per primi quest’acqua che viene da Dio
e che può saziare davvero la nostra sete e darci la felicità piena.
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giovedì
20 marzo 2014
– II settimana di Quaresima
-
fr. Giovanni Battista FMJ
La parabola del ricco epulone, pur appartenendo al genere letterario
delle parabole, per cui ad una letteratura che non dobbiamo prendere
alla lettera, ci indirizza tuttavia un messaggio importante, un
messaggio forte, che se da un lato forse ci può spaventare, d’altro
canto è anche consolante. è un testo di fronte alla cui parola
vogliamo lasciarci raggiungere, convertire, forse ferire e
giudicare; questa è la disposizione di base di fronte a un messaggio
da un lato severo, ma anche, senza dubbio, consolante.
Il problema principale della parabola credo non
sia tanto la ricchezza o la povertà, chi ha di più e chi ha di meno,
come situazioni considerate in se stesse. Il problema principale è
l’indifferenza dell’uomo, in questo caso del ricco nei confronti del
mendicante Lazzaro. Un indifferenza che rivela lo stato interiore di
quest’uomo, il suo cuore, un cuore che si indurisce, si chiude e non
riesce ad andare oltre a se stesso. Il cuore duro scava un abisso
tra noi e gli altri di cui la vita esterna, come insegna anche il
Concilio, la società , il mondo, non sono altro che il riflesso, il
riverbero all’esterno di questa situazione interiore che viene a
materializzarsi fuori dell’uomo. Il lavoro di conversione è dunque
anzitutto interiore, non solo interiore, ma soprattutto interiore.
Come dice il nostro Libro di vita: nel tuo cuore troverai la via più
breve per andare verso gli altri.
Anche la prima lettura parla del cuore dell’uomo,
un cuore, dice il Signore per la bocca del profeta Geremia, che è
difficilmente guaribile e difficilmente conoscibile: Niente è più
infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io,
il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno,
secondo il frutto delle sue azioni. Di fronte alle complicazioni del
cuore dell’uomo, ai suoi meandri abissali, ai suoi indurimenti e
anche alle sue eventuali perversioni, talvolta siamo impotenti, i
nostri mezzi umani non sempre sono efficaci; ma c’è un Dio che
scruta la mente e i saggia i cuori. Questa è la nostra speranza di
fronte ai molti interrogativi che l’uomo rivolge a se stesso, di
fronte a quell’interrogativo che l’uomo è anzitutto per se stesso:
l’uomo e quanto lo costituisce come tale, la coscienza, la volontà,
gli affetti, l’intelligenza, sono un enigma, sono un abisso, ma un
abisso abitato. C’è un Dio che conosce le menti e scruta i cuori. È
Cristo, che davvero svela l’uomo all’uomo, ci consegna la piena
umanità di noi stessi e la verità di noi stessi! E come dice il
vangelo di Giovanni: la verità vi farà liberi.
Ma questa libertà fonda anche un altro aspetto
che la parabola ci ricorda e che non possiamo tralasciare: nella
misura in cui l’uomo è libero e agisce volontariamente l’uomo è
anche responsabile delle sue azioni, delle scelte che fa in vita, e
con queste scelte costruisce il suo futuro. Ci sono certamente
responsabilità comuni, strutture di peccato che condizionano il
nostro agire, condizionamenti che limitano la nostra libertà di
scelta e di azione, cose tutte che il Signore conosce e considera
meglio di noi, ma accanto, o dentro tutto questo, si pone in grado
variabile la nostra responsabilità. E l’opera di ciascuno, dice san
Paolo, sarà messa alla prova. Se il cammino di fede non diventasse,
tra le altre cose, anche assunzione consapevole e matura di questa
responsabilità personale, se come figli di Dio ci rendessimo
insensibili e deresponsabilizzati circa il valore del nostro agire e
delle sue conseguenze, come se poi tutto fosse lasciato in modo
indifferente all’opera riparatoria del Dio “tappa buchi”, come lo
definiva Bonoeffer, il nostro cammino di fede rischierebbe di
restare un po’ fiabesco, un po’ infantile nelle miglior delle
ipotesi, un po’ ideologico nelle peggiori. La quaresima forse ci
ricorda anche questo, ci ricorda che c’è un margine variabile di
responsabilità che tocca il nostro agire e che siamo invitati, come
cristiani innestati in Cristo, ad assumere, e che un giorno saremo
giudicati sull’amore.
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Domenica
16 marzo 2014
– II domenica quaresima –
fr. Giovanni Battista FMJ
Sembra strano, nel cuore della Quaresima,
ascoltare un testo così carico di Pasqua, così denso di luce, così
intriso di risurrezione e di vita. Sembra strano perché la quaresima
è un tempo che, forse talvolta, lo viviamo con un pizzico di
mestizia, un tempo che si apre con il ricordo del nulla che siamo:
polvere sei e in polvere ritornerai, un tempo in cui l’urgenza di
convertirsi si fa più pressante, più visibile, perché siamo invitati
entriamo a contatto con quello sguardo più realista su noi stessi
che ci impedisce di nascondere l’immondizia sotto un tappeto e ci
sprona invece a tirarla fuori, a presentare al Signore tutto ciò che
in noi non va, è lontano da lui, è distante dalla logica del
vangelo. Secondo questa prospettiva non c’è tempo, in quaresima, per
pensare alle cose belle e dunque il testo di oggi sarebbe un po’
fuori luogo, andrebbe letto in un altro tempo liturgico. Ma se
questo testo si legge oggi un motivo ci sarà e anche dalla liturgia
e da come la tradizione della Chiesa ha distribuito le letture e
scelto i testi da proclamare alla Messa, anche in questo c’è un
significato prezioso da scoprire, ed è ciò che vogliamo provare a
fare anche oggi in questa domenica della trasfigurazione. Perché dal
deserto delle tentazioni, tema più tipico, normale, per la
quaresima, si passa oggi al monte della trasfigurazione?
Un primo significato importante è legato al
legame che c’è tra trasfigurazione e crocifissione; il Cristo
trasfigurato non è un Cristo diverso del Gesù della Croce, e questa
identità è un identità che la totalità dei discepoli scoprirà dopo
la risurrezione; ricordiamo il famoso discorso di Pietro nel giorno
di Pentecoste: “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele
che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete
crocifisso” (At 2,36). I discepoli, e noi con loro, avevano bisogno
di questa anticipazione, di questa illuminazione che, in un certo
senso, anticipava la luce dello Spirito che avrebbero ricevuto poi,
e questo per rimanere fedeli nel cammino, soprattutto, per resistere
allo scandalo della Croce. Gesù non diventa Dio risorgendo, Gesù era
Dio anche prima, sia al Tabor quando è trasfigurato, sia al Golgota
dove è sfigurato: sia la gloria e il fulgore quanto il disprezzo, la
solitudine il buio della morte e della tortura della Croce, sono
entrambi gli eventi rivelatori della divinità di Gesù. E questo è
davvero straordinario. Dio non lo troviamo solo nel successo, nella
gratificazione, nei momenti estatici, sentimenti che umanamente
parlando colleghiamo più facilmente con la sfera del divino; Dio
rivela se stesso, la sua vera natura (che, non dimentichiamolo, è
amore) non solo nella luce ma anche nella tenebra della morte, non
solo nello splendore ma anche e, potremmo dire, soprattutto, nel
dono di sé fino alla morte e alla morte in Croce. Perché questo?
Perché Dio, essendo amore, non può rivelare autenticamente se stesso
se con il linguaggio dell’amore. Dunque grazie a questo evento che
accade oggi sul monte Tabor Gesù vuole far capire qualcosa ai tre
apostoli e anche a noi: rimanete fedeli sempre, sia quando siete
nella luce che quando vi trovate immersi nelle tenebre, sia nel
trionfo che nelle sconfitte, sapendo che la debolezza di Dio è più
forte della forza degli uomini, e che la sapienza degli uomini è
stoltezza agli occhi di Dio. Quanto è umano un Dio che si rivela
così!
Se siamo stati attenti alla proclamazione del
vangelo ci saremo accorti sicuramente che, tra i vari elementi
dall’alto valore simbolico che descrivono la scena, ce n’è uno molto
particolare: la nube luminosa: c’è una nube luminosa che, se così
possiamo dire, toglie la parola a Pietro, e copre i tre discepoli
con la sua ombra, e in questa nube il Padre parla: Ascoltate il mio
Figlio prediletto! Dico che questa nube luminosa è un elemento
dall’alto valore simbolico per varie ragioni bibliche, e non solo.
Anzitutto la nube che guidava Israele nel deserto, una nube che per
gli amici di Dio faceva luce, mentre per il faraone persecutore era
buio, tenebra, dispersione. Ma anche nel nuovo testamento si parla
di una nube, o meglio di un’ombra: Maria, lo Spirito Santo scenderà
su di te e ti coprirà con la sua ombra. Sul monte Tabor non c’è solo
luce quest’oggi ma c’è anche una strana oscurità; non c’è solo
evidenza della natura divina di Gesù, ma c’è anche ingresso in una
sorta di mistico nascondimento che svela e nasconde insieme, c’è
visione ma anche cecità e invito all’ascolto da parte di Dio Padre.
In altre parole il monte Tabor non è solo anticipazione della gloria
futura del Gesù risorto, ma anche ingresso in quella nube luminosa,
in quella paradossale “cecità vedente” che caratterizza il nostro
tempo attuale, la nostra vita terrena. Chi vuole camminare verso la
terra promessa che, in fin dei conti, è il Cristo Risorto, chiunque
voglia camminare e vivere la Pasqua di
Gesù e, in Lui, la propria Pasqua, deve entrare in questa nube
luminosa che è cecità per l’occhio umano, ma che è luce per la fede
di chi ascolta la chiamata di Dio e si lascia
guidare. Abram vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla
casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò; Abram entra
nella mia nube luminosa, non seguire ciò che vuoi tu, gli idoli che
tuo padre adorava o i tuoi progetti che ti danno sicurezza e
stabilità, ma ascolta la mia chiamata e va dove io ti indicherò. E
Abram partì senza sapere dove andava e solo così è diventò una
benedizione per tutte le famiglie della terra. Elia non cercarmi nel
vento impetuoso che spacca le rocce e neanche nel terremoto, e
nemmeno nel fuoco: cercami nel sussurro di un vento leggero, ascolta
questa flebile voce che ti chiama, che ti guida, che ti conduce
all’incontro con me. È questa, cari fratelli e sorelle, l’esperienza
che oggi siamo invitati a fare, il cammino che siamo esortati a
percorrere: entrare nella nube luminosa. La nostra beatitudine
attuale non sta nella visione ma nell’ascolto, non nel decidere dove
andare o cosa fare ma nel lasciarsi guidare da questa voce che si
ode nella nube, laddove cessa la voce di Pietro, laddove si calmano
le nostre voci interiori ed esteriori ed entriamo nell’ascolto. Il
nostro cuore non può consegnarsi a Dio se non passando attraverso
questa tenue luce dell’ascolto. Chi capisce questo non ha più paura
del buio, della prova, della Croce perché sa che anche lì il Signore
è presente, il Signore non ci abbandona: la notte è notte per noi ma
non per Colui che ci guida. In presenza della luce del Cristo
Trasfigurato, diventiamo ciechi per non vedere più con i nostri
occhi ma con gli occhi di Gesù.
Infine, non possiamo non soffermarci un istante
su questa sincera e forse anche un po’ ingenua esclamazione di
Pietro: Signore è bello per noi essere qui. La quaresima è tempo di
penitenza: digiuno, preghiera,elemosina, tre opere che non sono fini
a se stesse e non sono neanche degli atti di eroismo spirituale, ma
sono esercizi che la Scrittura ci offre per ammorbidire il nostro
cuore, distendere, rilassare, dilatare il nostro cuore che l’egoismo
tende a restringere. Ebbene, questo allargamento del cuore non si
compie solo nella mortificazione ma ancora di più nell’incontro con
la bellezza di Gesù. Gesù, oggi, sul Tabor, ci attira a sé senza
parlare, ci seduce, senza dire niente. È la bellezza di questo
sguardo che dobbiamo cercare in questa quaresima e in tutta la
nostra vita. Come camminare senza contemplare? Come strapparci
dall’uomo vecchio che è in noi senza innamorarci di quell’Uomo nuovo
che oggi vediamo in tutta la sua bellezza? Come abbandonare ogni
cosa o Signore senza intravedere nella tua bellezza il tutto che
ritroveremo, la mèta finale che ci attende? Alla tua luce o Signore
noi vediamo la luce che è in noi! La luce di Cristo è la sola luce
che non rimane esterna all’uomo, ma lo penetra, lo illumina, e
prende dimora in lui. Dall’incontro con Gesù, il più bello tra i
figli dell’uomo, noi facciamo una scoperta che cambia la nostra
vita: che non c’è bellezza o Signore fuori di te e che nulla è
davvero bello se non porta a te. Insieme agli apostoli atterriti
scopriamo, come diceva sant’Agostino, che “non c’è che un solo Dio
che può rendere beata l’anima. Essa diventa beata partecipando alla
vita di Dio.” Il nostro cammino di conversione sia allora una
cammino di ritorno alla bellezza: quella luce che il Signore ha
posto dentro di noi vuole ritornare a Lui. Spinti, sedotti, attratti
da questo desiderio soprannaturale si compia il nostro cammino verso
la Pasqua.
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venerdì
14
marzo 2014
– I settimana Quaresima
-
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il cammino quaresimale che abbiamo intrapreso è
un cammino che si è aperto la settimana scorsa con un invito non
solo a fare penitenza, ma soprattutto a convertirci. Convertitevi e
credete al vangelo, ci è stato detto durante l’imposizione delle
ceneri. Ora, che cosa è la conversione? È importante chiederselo per
evitare di andare fuori strada, di vivere qualcosa di diverso da ciò
che ci è proposto. Perché se noi non abbiamo chiaro che cosa voglia
dire convertirsi, di conseguenza tutto il cammino di conversione,
tutte le pratiche di conversione e di mortificazione si espongono
all’errore, rischiano di essere fuorvianti, di portarci fuori dalla
via, alla deriva. Il vangelo di oggi ci dice infatti che c’è una
conversione che non è quella cristiana, c’è, potremmo dire, un
itinerario quaresimale che non è davvero un cammino di conversione,
non è ricerca della vera giustizia. Dice Gesù: se la vostra
giustizia non supererà, non andrà oltre quella degli scribi e dei
farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Ecco il primo consiglio,
la prima dritta che riceviamo dal vangelo di oggi. C’è una forma di
giustizia che non è sufficiente per un cristiano, una forma di
giustizia di fronte alla quale il discepolo di Gesù non può
accontentarsi, non può dire: adesso mi sento a posto, ed è la
giustizia farisaica, cioè quella giustizia che si accontenta di fare
delle cose, di osservare delle regole, di compiere delle pratiche,
ma poi, come diceva il profeta Isaia, il cuore è lontano anche se le
labbra cantano le lodi di Dio, la persona, intesa nella sua
totalità, rimane distante da Dio, non compie un autentico cammino di
conversione che, il profeta Gioele, presentava appunto come un
ritornare al Signore: ritornate a me con tutto il cuore, laceratevi
il cuore e non le vesti. Questa è la conversione che ci viene
proposta, interiore, profonda, che tocca il cuore, che mette davvero
in gioco la volontà, l’intelletto e tutte le facoltà della nostra
persona per volgerle al Signore, per tornare a Dio.
Ritornare a Dio, è semplice a dirsi, ma se
prendiamo sul serio il vangelo di stasera vediamo che non è poi così
facile ed immediato. O meglio, diventa semplice se facciamo una
scelta previa, cioè se accettiamo di non vivere questo itinerario,
questo ritorno a Dio, a metà. Per tornare al Signore bisogna volerlo
davvero. O questo ritorno lo vogliamo vivere, almeno nelle
intenzioni, in tutte le dimensioni e sfaccettature che compongono la
nostra esperienza umana, oppure rimarremo sempre un po’ come questi
farisei e scribi, osservanti ma con il cuore lontano. La totalità è
il contrassegno, la caratteristica di una conversione che veramente
vuole essere tale, una totalità che include dunque non solo il
nostro rapporto con Dio ma anche con tutto ciò che compone la nostra
vita dentro e fuori di noi: il nostro rapporto con gli altri e anche
il nostro rapporto con noi stessi. Potremmo dire che la via per
ritornare a Dio, non è una via diretta, privata, che posso vivere
solo in una dimensione intimistica, a tu per tu con il Signore, o
formale, cioè con l’apparenza, come se fosse un galateo di buone
maniere, ma è un cammino che attraversa due tappe importanti che
sono il fratello e la propria coscienza. Andare a Dio scavalcando
queste due relazioni, questi due interlocutori, significa, come
abbiamo detto, convertirsi a metà.
Venendo al primo di questi due interlocutori,
ossia il fratello, vediamo che Gesù assegna addirittura un posto di
precedenza, di priorità a questa relazione piuttosto che al culto
divino. Il culto divino, il sacrificio a Dio, può aspettare, anzi
dice Gesù, addirittura deve rimanere incompiuto (lascia lì il tuo
dono) se non si va all’altare con il cuore riconciliato con gli
altri, con il cuore pacificato. Prima fai la pace con il tuo
fratello, lascia lì la tua offerta, dimenticatela, non pensarci più
per ora, e vai dal tuo fratello che ha qualcosa contro di te, e poi
torna. E quella la prima offerta che attendo da te: quella della
pace ricevuta e donata. Il primo dono che il Signore vuole non è
tanto a Lui ma al tuo fratello, quello con cui sei in discordia,
quello che non puoi vedere: fai la pace con lui (e delle volte, lo
sappiamo, bastano piccoli gesti) e poi torna. Ritorna a Dio, ma
prima ritorna anche al tuo fratello. Questo è il primo passo della
conversione.
Leggendo ancora un po’ il testo vediamo che il fratello non è
l’unico con cui c’era bisogno di riconciliazione, ma si menziona
anche un altro nemico con cui riconciliarsi, un altro avversario con
cui mettersi in regola. Chi è questo avversario che cammina con noi
e che può gettarsi in mano al giudice e il giudice in prigione? Sono
state date varie interpretazioni: ne raccogliamo una, tra le
possibili, da un antico monaco vissuto nella prima metà del V secolo
e che si chiama Isaia Anacoreta. Lui fa un lettura interessante di
questo versetto, dice: “il nemico è la coscienza che si oppone
all’uomo che vuole fare la volontà della carne. Se l’uomo non lo
ascolta viene consegnato ai suoi nemici.” In quest’ottica allora la
coscienza può diventare nemica dell’uomo, quando l’uomo non la
ascolta o non la sa ascoltare, e vive alla periferia di se stesso,
non raggiunge il cuore profondo di sé in cui parla quella voce santa
che è la voce di Dio. Così l’uomo si frantuma, si separa, non solo
dal fratello ma anche in sé stesso. L’uomo può rendersi addirittura
nemico di se stesso. Il ritorno a Dio, la conversione, ci porta
allora anche questo ritorno a se stessi che implica il mettersi in
ascolto, ascoltare cosa c’è davvero dentro di noi, nel nostro cuore,
saper porgere l’orecchio a quella Verità che ci abita e che può
guidarci per la strada giusta se sappiamo darle retta e anche se
sappiamo distinguerla dalle false voci (talvolta falsamente amiche)
che si levano in noi.
Ritornare a Dio con tutto il cuore, con tutto se
stessi, è una strada che passa allora anche per il fratello e per la
nostra coscienza. Tutto ciò che è in noi e che orbita fuori di noi e
tocca la nostra esperienza, rientra in questo entusiasmante
itinerario che ci porta al Signore. E da lì poi, ripartirà un nuovo
cammino, una nuova vita non come prima ma come nuove creature, ma a
condizione che la nostra vita l’abbiamo giocata sul serio e non solo
a metà o in una percentuale ancora inferiore.
Sia questa allora l’offerta che vogliamo
presentare al Signore, per celebrare la Sua Pasqua con azzimi di
sincerità e verità.
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Domenica 2 marzo 2014
- VIII Domenica del T.O. -
fr. Massimo-Maria FMJ
Una parola che ritorna spesso oggi in svariati ambiti, da quello
sociale a quello familiare, amicale e persino politico è la parola:
fiducia. Nel nostro mondo che sempre più appare spaventato,
disorientato e persino angosciato tanti parlano di fiducia, molti la
invocano e tutti però con tanta fatica la accordiamo.
Nella Parola del
Signore di questa domenica la fiducia è il tema di fondo.
In essa ci è
rivelato dove, piuttosto in chi occorre riporre davvero ed
interamente la propria fiducia.
Evidentemente
è in Dio, nel Padre Potente, Fedele e Misericordioso la Parola ci
invita con chiarezza a riporre la nostra fiducia.
Due domande possono
guidarci nella riflessione e aiutarci ad approfondire il senso della
Parola ascoltata: Perché e Come!
Perché avere fiducia in Dio?
E Come occorre fidarsi di Lui?
Perché
quindi avere fiducia in Dio?
Il profeta Isaia ci dona la
prima risposta: " ....io no ti dimenticherò mai!"
Dio non si dimentica di
noi. Mai! Mai! Mai! Facciamo fatica è vero a crederlo. Quello che
Isaia pone come una cosa irreale oggi è spesso triste ed inquietante
realtà. Nel nostro mondo capita di tutto: persino appunto che una
madre si dimentichi del suo bambino; che lo sopprima quando la sua
vita è appena germogliata nel suo grembo.
Isaia a nome di Dio assicura
ad Israele, ed oggi a noi: a differenza di ciò che anche una madre
può fare, non avverrà mai che Dio dimentichi chi si è affidato a
Lui.
Quando nella vita a causa
di contrasti, incomprensioni, disavventure o agitazioni spirituali,
fallimenti o cose non riuscite, sofferenze morali o fisiche si
insinua la convinzione - come era capitato ad Israele - che non
siamo più nella memoria di Dio occorre ritrovare la fiducia in
questa parola degna di fede, in questa Parola che è di Colui che è
fedele: " ...Io non ti dimenticherò mai!"
Di Dio occorre fidarsi
ciecamente perché mai si dimentica di noi. La nostra vita, il nostro
respiro ne sono la più convincente prova. Se Dio per un solo istante
dimenticasse non solo noi, ma l'universo intero, ogni cosa
svanirebbe nel nulla.
Fidarsi di Dio perché
non ci dimentica. Ma ancora: perché si prende cura di noi, perché è
Padre Provvidente.
Fratelli e sorelle il mondo
non è in balia della capricciosità, nulla in esso, proprio nulla è
trascurato: neppure gli uccelli e nemmeno i fiori, pur dalla
stagione così effimera e dalla consistenza così fragile.
A giudizio di Gesù anch'essi
portano l'indice dell'attenzione del Padre, il quale a maggior
ragione non può trascurare chi conta più di loro: " Non valete forse
più di loro?"
Fratelli e sorelle poichè noi
valiamo più dei gigli e degli uccelli, e perché noi siamo preziosi
per il Padre più dei campi con mille fiori e dei monti così pieni di
fascino per il nostro cuore così imponenti e maestosi, bisogna aver
fiducia in Dio non premettendo che il nostro domani sia fonte di
ansietà e definito angosciante come se manchi un Padre che conosce,
si ricorda e si prende cura di tutti i suoi figli. Ogni volta che
perdiamo di vista questo - pensiamoci e rispondiamo nel nostro cuore
se non è così - ragioniamo da pagani, ci preoccupiamo come i pagani
e viviamo da pagani.
In Dio solo riposa la mia
anima ci ha fatto cantare il salmista, Lui solo è mia rupe e mia
salvezza, in Lui la mia speranza non potrò vacillare.
In Dio occorre riporre la
propria fiducia perché non dimentica, perché si prende cura meglio,
perché ci prende a cuore.
Ma c'è ancora l'altra
domanda: Come avere fiducia?
Una parola del Vangelo è
per questo capitale: " Nessuno può servire due padroni.....non
potete servire Dio e la ricchezza....."
Di Dio non ci si può fidare
con riserva, la fiducia o è totale o non è fiducia, non esiste la
fiducia a metà: il Padre non ammette rivali. In questo siamo molto
in pericolo.
Gesù denuncia spesso la poca
fede. Si crede sino ad un certo punto. Ci si fida sino ad un
termine. Ma la fiducia deve essere totale perché sia fiducia, e
perché possiamo ammirare i suoi frutti nella nostra vita.
Fratelli e sorelle Gesù
oggi nella sua Parola ci pone davanti al problema più importante
della nostra vita: aver fiducia di Lui: sceglierlo cioè senza
dubitare e senza tergiversare, amarlo, servirlo e seguirlo senza
alteranti ed ambigue frammistioni, prendendo decisamente la distanza
dalla più frequente tentazione quella cioè di porre accanto a Lui
ulteriori appoggi che lo affianchino e ci tutelino dalle sue
eventuali dimenticanze o ritardi.
Gesù oggi ci mostra il
Padre, meglio ci indica il Padre e ci dice: " Cercate Lui e non
preoccupatevi del domani" Non ci sta certo invitando alla
faciloneria e alla superficialità, ma alla fede, ad una fede solida,
rocciosa, a tutta prova.
Ci aiuta certo guardare
a Gesù, al suo rapporto speciale con il Padre, per noi esempio da
imitare.
Due episodi della vita di
Gesù, tra altri possono essere preziosi.
Nel racconto della
moltiplicazione dei pani Gesù si dice rende grazie prima di compiere
il segno. Ora questo rendimento di grazie non è proprio la preghiera
prima dei pasti, piuttosto un atto di fiducia nel Padre, che già
qualcosa ha dato - cinque pani e due pesci - e che non dimenticherà
lui e tutto quel popolo.
In effetti la situazione
non è semplice. La situazione è di grave carestia con cinquemila
uomini da sfamare in un luogo deserto. Altri sarebbero stati presi
da affanno, ansia ed angoscia - è il caso dei discepoli che
propongono una soluzione tutta umana: Mandiamo ciascuno a casa.
Gesù invece rendendo grazie
dice la sua fiducia nel Padre e questo contatto fiducioso con il
Padre sblocca la situazione incresciosa. Con la sua fiducia Gesù ha
aperto la strada alla bontà divina e il Padre ancora commosso apre
la mano e sazia la fame di ogni vivente.
Quante volte anche noi se
anziché lamentarci ci fidassimo di più di Dio vedremo tante
situazioni trasformate e noi stessi faremmo con la sua grazia cose
meravigliose: le anime che si fidano del Padre fanno sempre cose
stupende.
C'è poi un altro episodio più
sorprendente: Gesù davanti alla tomba di Lazzaro.
Se nella moltiplicazione dei
pani si trattava di evitare un pericolo ora il pericolo non è più
inevitabile, l'irreparabile è già avvenuto: Lazzaro è morto.
In questa situazione la
fiducia è ancora più evidente. Gesù prega: " Padre ti rendo
grazie perché mi hai ascoltato, perchè sempre mi ascolti...."
Lazzaro è morto, ma Gesù non
ha dubbi sull'intervento del Padre e con una straordinaria pienezza
di fiducia filiale rende grazie prima di vedere il segno della
vittoria.
Questo episodio costituisce
una straordinaria testimonianza della vita interiore del Signore,
della sua unione filiale con il Padre, della sua fiducia di superare
anche gli ostacoli più terribili.
Fratelli e sorelle,
quanta luce in questi
testi della Parola, quanta forza per la nostra vita.
Davvero occorre
ri-programmare la nostra vita, ri-ordinarla, ri-orientarla sulla
fiducia.
Il tempo della Quaresima che
arriva sia occasione propizia per convertirci alla fiducia nel Padre
che non ci dimentica mai, mai mai e che sempre sempre sempre si
prende cura di noi. Amen.
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venerdì
21 febbraio 2014
– Venerdì VI settimana T.O. –
Commento Ora media
- fr. Giovanni Battista FMJ
Il brano che abbiamo ascoltato si conclude con
un’immagine tanto eloquente quanto, forse, diversa, da quello che
abitualmente saremmo istintivamente portati a pensare. Giacomo dice
che come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza
le opere è morta. Perciò qui il corpo è immagine della fede e lo
spirito, cioè la parte immateriale dell’uomo, è immagine delle
opere. Questa allegoria, dicevamo, è diversa da quanto penserebbe la
logica comune dove la fede essendo qualcosa di invisibile e di
immateriale sarebbe forse più sensato connetterla con lo spirito
dell’uomo che, appunto, non si vede; e invece no, le fede è il
corpo, le opere sono lo spirito che tengono in vita il corpo, sono
quella fonte di vita che anima la fede.
Questa allegoria è interessante per comprendere
il resto del brano dove Giacomo ci mette in guardia da un pericolo
per tutti, e questo pericolo è la morte della fede, la fede può
morire: la fede, ci dice il testo, se non è seguita dalle opere è
morta in se stessa. E si riprende l’esempio di Abramo, un esempio o
meglio una testimonianza di questa consequenzialità del rapporto
fede-opere perché Abramo prima credette (capitolo 15 della Genesi) e
poi agì obbedendo alla voce del Signore che gli chiedeva di offrire
Isacco (capitolo 22 della Genesi): un’offerta che come sappiamo si
conclude con l’esclamazione dell’angelo: “ora Abramo so che temi
Dio”. In altre parole: ora Abramo conosco, so, vedo che tu hai fede.
Potremmo chiederci, che cosa sarebbe delle fede di Abramo, il nostro
grande padre nella fede, se quel suo atto di fede che gli fu
accreditato come giustizia, esempio tanto elogiato e richiamato sia
da Paolo che da Giacomo, non si fosse davvero concretizzato in un
gesto di consegna di tutto se stesso alla chiamata di Dio? Potremmo
cioè ancora definire Abramo “nostro padre nella fede” senza
considerarlo anche “padre nell’obbedienza di fede”?
Ebbene, questi interrogativi valgono anche per
noi. La fede cristiana è una fede che per sua natura deve incidere
sulla nostra vita. Potremmo usare un linguaggio simile a quello che
usava Gesù nel discorso della montagna: se il sale perde il sapore
con che cosa lo si renderà salato? Potremmo ancora chiamarlo sale?
Parimenti se la fede perde la sua efficacia nell’intervenire sulla
nostra vita per plasmarla, orientarla, muoverla in un cammino di
sequela di Gesù, potremo ancora chiamarla fede? Una fede che non
diviene obbedienza, come in Abramo, che valore ha? Le cose virtuali,
a cui siamo ormai abituati dal nostro tempo, in ambito di fede non
esistono o se esistono, non funzionano. E del resto è sempre più
forte la spinta che ci viene dal mondo a chiudere la nostra fede in
una stanza senza porte e senza finestre, a rendere la nostra fede
sterile e reclusa, incapace di comunicare con il resto delle realtà
che compongono lo spazio vitale, e anche urbano, in cui viviamo. Una
fede, in fin dei conti, incapace di generare, di venire allo
scoperto, di abitare tra gli uomini: le si consente vita solo nel
giardino chiuso del foro privato delle persone. Potremmo persino
arrivare a pensare che ormai molti hanno paura della fede e dunque
preferiscono che i cristiani non la testimonino con scelte concrete
e audaci, così non spaventa più. Ma San Giacomo quest’oggi ci esorta
richiamandoci a un dato essenziale e basilare della nostra vita
cristiana: la fede che non diventa vita nella nostra vita è
destinata a morire. La fede rimane per noi una chiamata quotidiana e
una sfida irriducibili alla sola sfera dell’interiorità e
dell’opzione fondamentale. Separare la fede dalla sua espressione
visibile e operosa significa condannarla a morte e separare l’uomo
in se stesso, tagliarlo in due, relegarlo in una cronica ambiguità
che impedisce l’unificazione dell’essere in Cristo.
“Nulla
vi è di nascosto – dice Gesù – che non sarà svelato né di segreto
che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi
ditelo nella luce.” (Mt 10, 26) Sia così la nostra fede, una fede
che rivela, che contagia, che si consegna nell’amore vissuto.
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mercoledì
19 febbraio 2014
– VI settimana T.O. –
fr. Giovanni Battista FMJ
Questo racconto che abbiamo a ascoltato ci fa
tornare in mente un’altra situazione di cecità che Gesù si trova ad
affrontare nel suo ministero pubblico, quella del cieco della
Piscina di Siloe, storia che ci viene raccontata nel vangelo di
Giovanni. Questo brano, in Giovanni, si era aperto con una domanda
dei discepoli che chiedono a Gesù: Rabbì, chi ha peccato, lui o i
suoi genitori perché egli nascesse cieco? Domanda che permetterà a
Gesù di chiarire il significato positivo e non negativo di questa
cecità : né lui ha peccato – dice Gesù – né i suoi genitori, ma è
così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. In altri
termini, grazie a questa cecità, Dio può rendersi manifesto a lui e
non solo a lui, ma attraverso di lui anche ad altri. Lo stesso brano
del vangelo di Giovanni si conclude con un’affermazione forte e
anche paradossale che spiazza i farisei: Se foste ciechi – dice Gesù
– non avreste alcun peccato; ma siccome dite: noi vediamo, il vostro
peccato rimane. Per cui di fatto le prospettive, in questo brano di
Giovanni, sono ribaltate: nel cieco si manifesta la gloria di Dio,
coloro che credono di vedere invece rimangono nel peccato, nelle
tenebre, cioè si trovano in una situazione contraria, sono loro che
hanno bisogno di guarigione e che non lo sanno.
Questo brano del vangelo di Giovanni ci aiuta a
capire un po’ di più il racconto di oggi per poter scorgere anche
qui le potenzialità di questa cecità, non in se stessa, chiaramente,
ma inserita nella relazione con Gesù. Se ci pensiamo bene infatti
questo cieco ha una forza che non tutti hanno, ed è una forza che
gli viene proprio dalla sua cecità: egli sa di non vedere, fa
l’esperienza quotidiana della sua infermità, della sua incapacità ad
orientarsi con sicurezza dove vuole. Qual è la sua forza? La forza
del cieco è questa: egli sa bene che ha bisogno degli altri e non ha
vergogna di riconoscerlo e di lasciarsi aiutare, e il brano si apre
proprio con questo lasciarsi condurre a Gesù. Non solo si lascia
condurre a Gesù, ma addirittura, dice il testo, Gesù stesso lo
prende per mano. In poche parole, il cieco si lascia guidare.
Sapendo di non vedere si fida dello sguardo degli altri, di quello
che gli dicono gli altri e soprattutto si lascia prendere per mano
da Gesù. Forse proprio perché abituato a fidarsi di quelli della sua
casa, della loro guida, non teme di andare da solo con Gesù perfino
fuori del villaggio: ha imparato, per forza, grazie alla sua
malattia, a fidarsi. In questo senso possiamo dire che la sua cecità
diventa per lui una vera benedizione. Nel buio questo cieco sa
accogliere la luce più di quanto talvolta sia capace chi vede e che
dunque, siccome vede, fa da sé, dice di non aver bisogno di nessuno,
e forse non vorrebbe nemmeno aver bisogno di qualcuno così non
avrebbe nemmeno da dire grazie. Chi crede di vedere, spesso cammina
nel buio perché si fida solo del proprio sguardo sulla realtà: vede
da sé, non ha bisogno di altre prospettive. In quest’uomo che vede,
o meglio, che crede di vedere, c’è forse l’uomo di oggi, l’uomo che
sta diventando capace di calcolare, prevedere, gestire tutto, studia
e analizza dal DNA dell’uomo fino a spingersi nell’immenso universo
eppure talvolta brancola nel buio, non sa dove va, non conosce il
vero senso, la vera direzione della sua vita e non sa rispondere ai
perché fondamentali dell’esistenza. Il cieco diventa simbolo invece
della vita dell’uomo che sa di non vedere, che riconosce che c’è un
mistero e sa di non poter andare oltre a questo mistero, e non
negando questo mistero semplicemente perché non lo vede, lo
accoglie, accoglie la luce della fede; sapendo che non può fidarsi
di se stesso perché non ci vede, si fida di Gesù che lo prende per
mano.
E inoltre aggrappandosi a Gesù, facendo
esperienza, sentendo su di sé questa presa sicura del Signore, ha
poi anche il coraggio di staccarsi da tutto quello a cui prima si
aggrappava per restare in piedi, ha il coraggio di camminare senza
troppi sostegni e stampelle, e di avanzare per sentieri nuovi,
inesplorati; non gli importa il fatto che non li conosca perché ciò
che è importante è che li conosca il Signore.
Se il Signore guida i ciechi e offre loro la sua
mano per guidarli sulle sue vie, allora anche noi non vogliamo né
odiare, né negare o nascondere le nostre piccoli o grandi cecità, ma
vogliamo riconoscerle, metterle davanti al Signore e chiedergli che,
proprio perché siamo ciechi, sia lui a prenderci per mano e a
guidarci per la via giusta. Se grazie alla nostra cecità possiamo
incontrare il Signore, davvero si potrà dire anche di noi quello che
Gesù disse del cieco della piscina di Siloe: è così perché si
manifestassero in lui le opere di Dio.
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venerdì
14 febbraio 2014
- Festa Santi Cirillo e Metodio -
fr. Giovanni Battista FMJ
Il vangelo che la Chiesa ha scelto per la
festività di oggi è quello dell’invio in missione dei settantadue
discepoli per cui non sono solo i Dodici, gli apostoli ad essere
inviati da Gesù, ma qui abbiamo un numero più ampio, i settantadue.
E già solo da questo particolare potremmo ricavare un primo
significato: la missione riguarda tutti, non solo i vescovi, che
sono i successori dei dodici, ma tutti, secondo il loro stato, sono
chiamati ad andare, ad uscire, a preoccuparsi dell’altro. È una cosa
che tra l’altro il nostro Papa Francesco non si stanca di ripetere:
“Oggi – dice il Papa – in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli
scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice
della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita”
missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il
cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad
accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il
coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della
luce del Vangelo.” (EG 20). Da queste parole del papa capiamo allora
quanto l’imperativo Andate! del vangelo di oggi sia un imperativo
che il Cristo, rivolge ancora a tutti noi anche oggi: nessuno deve
sentirsi escluso dal prendere parte alla missione della Chiesa, che
in fin dei conti, anche se questa missione si esprime in forme e
modi diversi, è mossa da uno stesso comune anelito: la
preoccupazione per la gioia, la felicità, la salvezza dell’altro,
tutte cose che, almeno noi credenti pensiamo, crediamo così, possono
trovare la loro pienezza, solo nell’incontro con Gesù Cristo.
L’evangelizzazione non ha altro fine che il bene del fratello, un
fratello a cui l’inviato vuole condividere, offrire, trasmettere,
certo nel rispetto della sua coscienza, il Bene più grande della
propria vita che è Gesù. Perché la missione, in fin dei conti,
l’apostolato mira a questo: fare sì che Cristo sia conosciuto, sia
annunziato, ma soprattutto che sia accolto, che Gesù sia una persona
vivente da incontrare.
Come lo si incontra Gesù? Il vangelo di oggi dice
che Gesù doveva recarsi in alcune città, ma prima manda davanti a sé
nei luoghi dove doveva andare, questi settantadue discepoli. Questo
ci viene detto all’inizio del vangelo di oggi e non è un dettaglio
di poco conto. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la gente non
vedeva subito Gesù ma prima la gente incontrava questi discepoli e
poi vedeva Gesù. Il primo incontro, quello semplicemente umano, con
dei fratelli come loro, preparava, anticipava qualcosa dell’incontro
successivo e decisivo: quello con il Signore. Forse, e qui capiamo
un’altra cosa, è proprio per questo che Gesù, nel preparare i suoi
messaggeri, non si sofferma tanto a dar loro dei contenuti teorici o
dottrinali da trasmettere; Gesù non fa ai settantadue un corso di
teologia prima di mandarli in missione, non parla tanto della
missione in sé o del suo contenuto dottrinale. Gesù si sofferma
piuttosto a parlare dell’apostolo stesso, dell’inviato, e
soprattutto del come l’apostolo deve andare in missione. Più che il
‘che cosa’ dire o annunziare per portare le genti alla fede, Gesù
insegna loro ‘come’ i settantadue devono vivere questo incarico che
ricevono: anzitutto andando in coppia non da soli: è una missione
comunitaria, i discepoli sono inviati come Chiesa, come comunità che
prepara e prolunga l’azione di Cristo, e non come liberi gestori,
prima cosa; secondo: dice Gesù come agnelli e non come lupi perché
Gesù sarebbe venuto poi come l’Agnello che toglie il peccato del
mondo, l’Agnello che salva e non come lupo che uccide; terzo: senza
portare borsa né sacca, ne sandali ecc.; e infine portando la pace
come primo dono del Signore che sta per venire, l’offerta di pace
come una sorta di grazia preparatoria all’incontro con Colui che è
la nostra pace, come dice san Paolo. Dunque in questa fase
dell’annunzio, che era quella della prima generazione di credenti,
in questa fase il modo, senza voler togliere importanza al che cosa,
al contenuto dell’annuncio, il modo di essere apostolo assume
un’importanza particolare.
Ed è proprio questo ‘come’, questo modo
particolare di essere apostolo che contrassegna di un carattere
indelebilmente evangelico anche la testimonianza e l’opera
apostolica dei Santi Cirillo e Metodio. Sentite cosa scrisse di loro
il Beato Giovanni Paolo II nell’85 in una sua enciclica: “Accanto ad
un grande rispetto per le persone e alla sollecitudine
disinteressata per il loro vero bene, i due santi Fratelli ebbero
adeguate risorse di energia, di prudenza, di zelo e di carità,
indispensabili per portare ai futuri credenti la luce, e per
indicare loro, al tempo stesso, il bene, offrendo un concreto aiuto
per raggiungerlo. A tale scopo desiderarono diventare simili
sotto ogni aspetto a coloro ai quali recavano il Vangelo;
vollero diventare parte di quei popoli e condividerne in
tutto la sorte. (AS 9) Per tradurre le verità evangeliche in una
lingua nuova, i santi Cirillo e Metodio dovettero preoccuparsi di
conoscere bene il mondo interiore di coloro, ai quali avevano
intenzione di annunciare la Parola di Dio con immagini e concetti
che suonassero loro familiari. (…) Si trattava di un nuovo metodo di
catechesi.” In altre parole potremmo dire che Cirillo e Metodio
prima di arrivare al contenuto della fede, al che cosa annunciare,
si sono preoccupati di vincere, di superare quelle distanze umane,
culturali e sociali che rendevano questo contenuto non ben
comunicabile, potenzialmente fraintendibile, non aderente alla vita
delle persone a cui si rivolgevano. Per usare un linguaggio più
famigliare potremmo dire che prima di farsi apostoli Cirillo e
Metodio si sono fatti fratelli dei popoli che incontravano, fratelli
nel modo di vivere, nella cultura, prima che nella fede, e da qui è
iniziata appunto l’autentica inculturazione del vangelo nelle terre
della Russia meridionale e della Moravia. E davvero si tratta di
inculturazione autentica, cioè quella che non solo fa penetrare il
vangelo nelle culture rinnovandole e purificandole, ma che anche fa
del vangelo la forza motrice da cui si irradia un nuovo sviluppo
culturale. Pensiamo per esempio all’alfabeto cirillico, inventato
appunto da loro per tradurre in lingua slava la Bibbia e i libri
liturgici, che rimarrà in uso anche dopo fino ai nostri giorni.
Quanto è attuale anche per noi una testimonianza
di evangelizzazione così! Se il mondo non ha cessato di avere
bisogno di apostoli del vangelo, e per questo dobbiamo pregare, come
ci invita a fare il brano di oggi, perché il signore della messe
mandi nuovi operai, l’esempio di questi santi ci esorta e ci ricorda
che non basta essere operai nel senso di andare, fare, proclamare
senza vergogna la propria fede, ma serve anche uno stile in
quest’opera di annuncio che rimane, oggi come ieri, stile umano e
fraterno. Se no saremo solo dei mestieranti, gente che fa
pubblicità, propaganda, che guarda all’efficienza e al risultato più
che alle relazioni che si costruiscono e attraverso le quali passa
davvero (o non passa) il vangelo.
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mercoledì
12
febbraio 2014
– V settimana T.O. –
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il vangelo di oggi di pone ci fronte a
classificazioni che un po’ ci sfuggono, che non riusciamo a capire
bene. Infatti che senso ha per noi oggi parlare di alimenti puri e
impuri? Al massimo potremmo fare una distinzione tra i cibi che ci
fanno bene e quelli che ci fanno male, oppure intendere l’impurità
come intossicazione, un alimento velenoso che ci fa stare male.
Abbiamo questa prima difficoltà nell’avvicinarci al vangelo di oggi.
Più in profondità ne troviamo un’altra: che cosa vuol dire essere
puri, che cos’è la purezza? Domanda grossa che tocca più ambiti,
fisico, morale, spirituale, domanda forse oggi poco di moda perché
di purezza, anche tra i cristiani, se ne parla poco, non è più tanto
una cosa ambita l’avere un cuore puro. Preferiamo utilizzare altre
categorie, quella di santità, quella di umiltà, di amore, carità, ma
la purezza è forse poco presa in considerazione, forse proprio
perché così difficile da coltivare e da ricercare da sembrare un
traguardo irraggiungibile.
Comunque una cosa sul puro e l’impuro possiamo
dirla: Gesù non elimina questa categorie, le conserva; non le
applica più ai cibi, ma continua anche lui a parlare di puro e
impuro, qui ma anche altrove nel vangelo, pensiamo alle beatitudini:
beati i puri di cuore perché vedranno Dio. E poi Gesù dice anche
un’altra cosa: se parliamo di purezza non dobbiamo pensare al cibo e
al ventre ma al cuore: per cui è il cuore la sede, quel punto
nevralgico da cui ha origine la purezza o l’impurità. Da qui parte
tutto, purezza e impurità che poi, eventualmente, si spanderanno
anche fuori, nella vita delle persone, ma il nucleo centrale e
questo, il cuore. E chi può dire di aver un cuore totalmente integro
e puro?
Gesù non lega tanto la purezza o l’impurità allo
stato del cuore, alla sua situazione, quanto al lasciare uscire i
propositi di male dal cuore. Finché rimangono dentro di noi, senza
un’adesione della volontà, senza accoglierli come propri possiamo
ancora lottare contro di loro, possiamo ancora evitare che rilascino
in noi e fuori di noi la loro nocività. Finché rimangono dentro e
finché sono esposti al crogiuolo, all’opera purificatrice dello
Spirito Santo, sono in qualche modo sotto controllo. Il problema,
dice Gesù, è quando queste cose escono, vengono alla luce, cioè, in
altre parole, quando ci lasciamo determinare, nei nostri pensieri,
nei nostri giudizi, nelle nostre parole, nelle nostre azioni, nelle
nostre decisioni, da questi propositi di male che Gesù ha elencato.
Quando queste cose escono da quel luogo interiore in cui si gioca la
nostra battaglia, in cui possiamo presentarli al fuoco dello
Spirito, queste cose ci rendono impuri.
Ora, potremmo chiederci, chi subisce questa
impurità? Secondo il vangelo di oggi siamo noi stessi: noi stessi
siamo i primi a venire inquinati da quanto esce dal nostro cuore,
siamo i primi a farci del male, anche se certo questa fuoriuscita
velenosa condiziona anche la situazione di chi ne viene a contatto,
ma certo, in primo luogo, i primi a rimettercene, perdere purezza,
siamo noi. Ma potremmo anche chiederci: quali sono gli effetti
dell’impurità, che cosa provoca? Nell’antico testamento l’impuro non
poteva accostarsi né agli altri, alla comunità d’Israele, né a Dio.
Pensiamo ai lebbrosi che dovevano stare fuori dell’accampamento e
camminare a distanza gridando “impuro, impuro”. E prima di poter
tornare insieme agli altri il lebbroso doveva essere mondato,
purificato, nel corpo e anche di fronte a Dio davanti ai sacerdoti,
secondo varie tappe. Ma finché queste tappe non erano concluse il
lebbroso restava solo, fuori dall’accampamento, con la sua impurità.
L’impurità di cui ci parla Gesù, quella che esce
dal cuore, se è diversa nella sua espressione esteriore, nella sua
manifestazione, non lo è nei suoi effetti, perché il primo effetto
dell’impurità è proprio questa separazione, l’isolamento. Il male
che esce da noi, o meglio i propositi di male, cioè il male che nel
cuore diventa non solo istinto e tentazione ma proposito, cioè
nostra decisione, e potremmo rileggere l’elenco che fa Gesù, questo
proposito ha effetti simili all’impurità dei lebbrosi della bibbia:
ci rendono soli, creano una distanza tra noi e Dio, tra noi e i
fratelli. Del resto non serve essere cristiani per constatare anche
solo gli effetti umani di tali propositi cattivi, cioè a livello
semplicemente relazionale.
La domanda decisiva allora qual è per noi? Come
vincere l’impurità che esce dal cuore: con la vigilanza, la
preghiera, il rimanere in uno stato di conversione, con l’apertura
all’azione di Dio. Ma beato chi ce la fa sempre e non sbaglia mai! È
Dio che ci purifica ma la purificazione ha anche un risvolto umano,
esistenziale che potremmo inquadrare in questi due termini:
accettazione di sé e misericordia donata e ricevuta.
L’accettazione di sé significa fare ciò che ci
indica il nostro libro di vita al numero 5: “Accetta di riconoscere
che istintivamente tendi al male. Con lucidità, vedi che il fondo
del tuo cuore è egocentrico, egoista, geloso, aggressivo, avido.”
Riconoscere e accettare il male che è in noi, chiamarlo con il suo
nome, accettare di essere così e non secondo la bella immagine di
noi stessi che talvolta vogliamo custodire anche ai nostri stessi
occhi, è il primo passo della purificazione. Del resto senza questa
presa di coscienza di sé non ci potrà essere poi neanche il lavoro
attivo si di sé per vigilare sul nostro cuore e presentarlo alla
guarigione dello Spirito.
Il secondo termine del cammino di purificazione è
la misericordia ricevuta e donata. E questo non è sempre facile,
soprattutto nelle relazioni con gli altri perché riconoscere che
abbiamo bisogno del perdono di Dio lo accogliamo senza troppi
problemi; riconoscere che abbiamo bisogno anche del perdono degli
altri ci pesa di più forse perché ci mette in uno stato di debito
(come dice il Padre Nostro) e dunque di inferiorità rispetto a
qualcuno che ci condona il debito, che ci regala qualcosa o più che
qualcosa, ci regala se stesso, un pezzo di sé, del proprio cuore,
del proprio affetto, un pezzo, potremmo dire, delle proprie viscere
come si dice in ebraico la parola misericordia. Ed è proprio un
regalo quello che riceviamo o offriamo agli altri nel perdono perché
non solo fa sparire il debito, ma anche rende noi o gli altri più
puri perché il perdono toglie potere ai propositi di male che
avevano creato quella distanza che ci rendeva soli, come dei
lebbrosi. Il limite del male, diceva il beato papa Giovanni Paolo II,
è la misericordia. Davvero la misericordia, ricevuta e donata, da
Dio e dagli o agli altri, pone un limite a quel male che ci rende
impuri, dentro di noi, nel nostro cuore, e fuori di noi, cioè nelle
nostre relazioni con Dio e gli altri.
Il Signore ci conceda questa purificazione, il
Signore ci conceda un cuore puro, che vede Dio e che vede il
fratello, e persino noi stessi, in verità.
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Domenica
9 febbraio 2014
– V domenica T.O. –
fr. Giovanni Battista FMJ
Collocato nel contesto del discorso della
montagna, abbiamo ascoltato un breve brano del vangelo secondo
Matteo, uno dei passi più conosciuti, e forse anche più amati
perché, con le bellissime immagini del sale e della luce, ci rivela
un aspetto importantissimo della nostra vita di cristiani, e cioè
che abbiamo una missione da non minimizzare e da non dimenticare.
C’è un mondo che ci aspetta, il mondo, l’uomo, la vita in tutte le
sue dimensioni e in tutte le dinamiche che si trova ad affrontare,
hanno bisogno di sale e di luce, cioè di sapore, di senso, di
chiarezza di fronte alle molte situazioni e alle molte realtà che lo
rendono buio, triste, e, ancora peggio, senza senso. E a questo
mondo bisognoso di sapore, di senso, di luce Gesù ci invia. Gesù,
con le parole che oggi ci rivolge, dunque, vuole risvegliare in noi
questa coscienza profonda della nostra vocazione cristiana, il suo
carattere non solo missionario, ma rivelativo: il cristiano nel
mondo ha qualche cosa non solo da annunciare, ma da rivelare, da
condividere, da testimoniare, e questo è l’amore che in Gesù si è
fatto carne e vuole continuare a farsi carne attraverso la nostra
carne. Come ha affermato il Papa nella sua esortazione apostolica:
“essere discepolo significa avere la disposizione permanente di
portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente
in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una
strada” (EG 127). Possiamo dunque accogliere il vangelo di oggi come
una vera e propria chiamata di Gesù ad essere veramente, fino in
fondo, ciò che siamo, sale e luce del mondo. Un cristiano così non
può rimanere nascosto come non può rimanere nascosta una città
collocata sopra un monte.
Tra le due immagini, i due simboli, quello del
sale e quello della luce, il simbolo della luce è sicuramente quello
più carico di significati, quello dalla maggiore portata teologica e
spirituale. Il tema della luce infatti attraversa tutta la
Scrittura. La luce contraddistingue sia il piano divino, il mondo
divino, quello dove dimora Colui che abita una luce inaccessibile,
quel regno nascosto che ci sta di fronte come prospettiva finale e
beata che attendiamo nella speranza, quel regno dove non ci sarà più
notte né luce di sole perché il Signore sarà luce per tutti. E nel
contempo la luce è anche un elemento comune del nostro mondo, del
mondo creato, il mondo degli uomini, quel mondo in cui proprio la
luce fu la prima delle opere del Dio creatore di tutto che al primo
giorno della creazione, ci narra il libro della Genesi, disse
proprio: Sia la luce! E la luce fu. Nel creare la luce è come se Dio
avesse immesso nel mondo una primordiale traccia di sé. All’inizio
del mondo e della storia, come pure nel suo compimento finale ed
eterno, c’è la luce. Tra questi due estremi, tra il prima della
Creazione e il futuro di luce nella Gerusalemme nuova già visibile
nella luce del mattino di Pasqua, si pone il presente della nostra
storia, della nostra vita, del nostro mondo in cui si mescolano luce
e tenebre, bene e male. Tra questi due estremi luminosi, ci siamo
anche noi, noi pure segnati da questa ambiguità, da questa
mescolanza, talvolta indomabile, difficilmente gestibile, di santità
e peccato, e tuttavia chiamati ad una vita da risorti, un’esistenza
che rivela qualcosa di quanto ci è promesso e che già possiamo
sperimentare. A persone come noi, fragili, vulnerabili, Gesù rivolge
queste parole straordinarie: voi siete il sale della terra, voi
siete la luce del mondo.
Ma cosa significa questo per noi? E possibile
davvero? O sono solo parole che Gesù ci rivolge per caricarci un
po’? Una prima cosa che dobbiamo riconoscere a partire dalla
testimonianza della Scrittura è che l’essere luce del mondo non ci
appartiene come qualcosa di nostro, qualcosa di proprio. La luce del
cristiano è qualcosa che non ha in lui, cioè nella sua umanità, la
sua scaturigine originaria, ma è una luce, potremmo dire derivata.
Uno solo è la luce del mondo, Gesù, come riporta il vangelo di
Giovanni: “Io, dice Gesù, sono la luce del mondo; chi segue me non
camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.” (Gv 8, 12)
Come solo Gesù può dire di essere veramente, per natura, Figlio di
Dio, e noi solo per adozione, per grazia, così vale anche per il
discorso della luce: solo Lui è davvero la luce del mondo. Solo Lui
è il Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, come recitiamo
nel Credo. Noi lo siamo nella misura ci lasciamo raggiungere e
illuminare dalla luce del Cristo risorto. L’essere luce dunque non
ci appartiene, non ci compete in modo naturale, non è qualcosa di
nostro, ma è accoglienza in noi di qualcosa che viene da Gesù e
appartiene a Gesù.
Ma potremmo dire di più: l’essere luce non solo
non ci appartiene nella sua origine, ma neanche nella sua
destinazione, nel suo scopo! La luce non è per noi. È anche per noi,
ma la luce che dal Cristo si riflette sul cristiano e sulla Chiesa,
è per il mondo e deve riflettersi sul mondo: questa è la
destinazione ultima dell’illuminazione. Siamo dunque portatori di
qualcosa che non è nostro né nell’origine, né nella destinazione.
Qualcosa che ci obbliga a stare in mezzo, ad essere, in certo senso
dei mediatori che irradiano intorno a loro questa luce che proviene
da Gesù. E questo è un punto molto importante: solo Gesù è fonte di
luce e fonte di sapore, per recuperare l’immagine del sale: solo
Gesù può dare gusto alla vita e illuminare il mondo e noi potremo
davvero servire il mondo se rimaniamo in mezzo, tra Gesù e il mondo,
in una sorta di continuo ministero di inter-cessione, di cammino in
mezzo. Non abbiamo qualcosa di nostro da dare agli altri, o se ce
l’abbiamo, non è questo che ci rende sale o luce del mondo. Ne era
ben consapevole Paolo che, come abbiamo ascoltato nella seconda
lettura, lui che la luce di Cristo l’aveva vista davvero, si
presenta ai cristiani di Corinto consapevole della sua
vulnerabilità, della sua debolezza, e soprattutto consapevole di non
essere qualcuno che deve affermare se stesso o una sapienza umana ma
di essere un inviato, un testimone della potenza di Dio. La
tentazione del protagonismo o di fermarsi, come non voleva fare
Paolo, ad una semplice sapienza umana che forse affascina, attira,
rassicura, convince più istintivamente la ragione umana e il buon
senso, è una tentazione sempre in agguato: laddove ci sono delle
conoscenze, delle doti, dei talenti, delle capacità umane, delle
ricchezze, si presenta sempre la tentazione per l’uomo di mettere in
esse le proprie radici che generano certo frutti ma di una salvezza
umana, che portano sicurezze che non si basano sulla fede in Gesù e
Gesù Crocifisso ma sulla sapienza umana, e così, pian piano, il sale
perde sapore. Ma il mondo non ha bisogno di noi. Il mondo ha bisogno
di Cristo, di cui noi possiamo e dobbiamo essere discepoli,
imitatori, fratelli gemelli il più somiglianti possibili. Il mondo
non ha bisogno di fuochi d’artificio che lasciano a bocca aperta per
pochi istanti, giusto il tempo di attendere il botto finale, il
mondo ha bisogno di umili fiaccole, di umili lampade che rimangono
sul candelabro finché dura la notte. Certo queste fiaccole non
saranno affascinanti, appariscenti e divertenti come i fuochi
d’artificio, forse qualcuno non le noterebbe nemmeno considerandole
cosa ordinaria, scontata, in una casa, ma se ne renderebbe conto
qualora queste fiaccole non ci fossero più.
Infine, per concludere il discorso, possiamo
riascoltare le ultime parole del vangelo di oggi: “Così risplenda la
vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone
e rendano gloria al Padre vostro celeste che è nei cieli.” Ciò che
risplende non sono i cristiani in quanto tali, e neanche i cristiani
che parlano soltanto, ma ciò che risplende è la vita del cristiano
conquistato da Cristo! Quando la vita cristiana è vera brilla! Le
cose artefatte o di facciata, oltre al fatto che si nota che sono
finte, durano poco. Un antico predicatore anonimo, molto antico,
mentre esortava l’assemblea che aveva di fronte in una delle sue
omelie, (parole che ora ridico anzitutto a me stesso), così diceva:
“Portate la luce, insegnate non in modo che gli uomini ascoltino
soltanto le vostre parole, ma vedano anche le vostre opere buone.
(…) E’ cosa migliore operare e non insegnare che dare insegnamenti e
non metterli in pratica. Infatti chi agisce, pur tacendo, corregge
gli altri per mezzo del suo esempio; chi invece dà insegnamenti
senza attuarli, non solo non corregge nessuno ma scandalizza anche
molti.” (Anonimo, opera incompleta su Matteo, omelia 10)
Siamo dei tesori in vasi di creta, ma se offriamo
le nostre membra al Signore come strumenti di giustizia, il Signore
potrà farne grandi cose! Sia questa la nostra profezia in un mondo
che ha bisogno di sapore, di luce, di vedere Cristo in noi.
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mercoledì
5 febbraio 2014
– IV settimana T.O. –
fr. Giovanni Battista FMJ
Gesù ritorna nella sua patria, tra i suoi parenti
e nella sua casa, a Nazareth, dato che dopo l’inizio della sua
missione si era ormai trasferito a Cafarnao. Gesù ritorna qui, tra
tutti quelli che da sempre lo conoscevano, e rimane meravigliato
perché scopre che in realtà non lo conoscevano. Gesù certo se
l’immaginava perché comunque tra il prima della sua vita a Nazareth
e questo suo ritorno, c’è l’inizio del suo ministero pubblico,
ministero nel quale Gesù si rivela sempre più per quello che è
davvero: un profeta, ma non solo, il Cristo, l’unto di Dio, il
Messia.
Dunque una differenza tra il prima della sua vita
a Nazareth e questo suo ritorno c’è. E infatti questa novità che ora
si rivela per la prima volta agli occhi dei suoi compaesani, crea
disorientamento, stranezza, suscita delle domande, forse invidie,
gelosie, tutti sentimenti che l’evangelista Marco racchiude in una
parola sola: scandalo, Gesù era per loro, per i suoi, motivo di
scandalo, ossia un ostacolo, qualcosa che crea difficoltà, che
obbliga ad un salto, ad un passaggio, per superare questo ostacolo
ci vuole un salto che è il salto della fede. È interessante notare
che i nazaretani si ponevano delle domande interessanti
sull’identità di Gesù, e queste domande rappresentano un pochino,
come dire, il contenuto di questo scandalo: Da dove gli vengono
queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i
prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? C’è dunque qualcosa che
sfugge alla loro comprensione, c’è un di più inafferrabile alla loro
forma mentis, al loro modo abituale di ragionare e di conoscere Gesù
di fronte al quale rimangono bloccati. E questo è il loro problema:
si fermano a questo incomprensibile, non lo accolgono come qualcosa
di plausibile, di accettabile, come una parola che ha da dire
qualcosa alla loro vita. Si realizza del resto quanto espresso dal
prologo di Giovanni: venne tra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto.
Il problema non è solo
di tipo gnoseologico, cioè che riguarda il modo di conoscere, ma è
una questione di fede e di incredulità. La fede consente di andare
oltre, la fede non è chiusura ma è accoglienza di qualcosa che non
necessariamente coincide con il mio modo di vedere, con il mio modo
di pensare, è apertura e conoscenza nuova, inedita e per questo
potenzialmente scandalosa dell’Altro con la A maiuscola come non lo
conoscevamo prima, ma anche, potremmo dire, dell’altro con la a
minuscola, il fratello e la sorella che ci vivono accanto, quelli
della nostra casa. Perché anche costoro, i nostri fratelli e sorelle
rimangono un mistero da accogliere prima che essere una conoscenza
da possedere in modo inequivocabile. Anche il fratello può essere e
anzi di fatto è uno scandalo per noi, cioè qualcuno che presenta un
di più, un al di là, un’eccedenza rispetto a quanto noi possiamo
comprendere e oggettivare di lui una volta per tutte. Anche il
fratello è un mistero che, come fu per Gesù, necessita di uno
sguardo di fede per essere conosciuto in verità e non incasellato in
una delle nostre categorie, come facevano gli abitanti di Nazareth,
i suoi parenti, con Gesù. Le categorie ci danno sicurezza perché
plasmano la realtà che sta fuori di noi a nostra immagine, con le
semplificazioni o le complicazioni che la caratterizzano, e la
storia è piena di esempi in cui l’uomo è stato compreso solo a
partire da un’angolazione o di un’altra. Cose vere, cose importanti,
ma sono cose non esaustive e totalizzanti, che se estremizzate,
perdono quel rispetto del mistero che invoca timore prima che
conoscenza. E infatti il profeta che, la nostra traduzione italiana
rende come profeta disprezzato, nel greco del testo originale è
profeta àtimos (sine honòre, in latino) profeta non temuto, a cui ci
si volge senza timore. Il timore, in questo senso, è rispetto del
mistero dell’altro Dio o uomo che sia, è rifiuto di volerlo
possedere, è desiderio di accoglienza prima che di conoscenza. Il
Signore ci doni questa purezza di sguardo, questa sorta di castità
della mente e dell’intelligenza che non è chiusura ma apertura al
nuovo, al vero e dunque all’essere autentico.
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martedì
4
febbraio 2014
– IV settimana T.O. –
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il vangelo di oggi ci svela qualcosa di nuovo
all’interno della progressiva lectio continua del vangelo di Marco
che stiamo portando avanti da alcune settimane. Cos’è questa novità,
di che cosa si tratta? Ebbene si tratta di una forza speciale, di
una forza che guarisce, che risana, e potremmo dire anche che salva,
una forza che ne fa esperienza chi tocca o è toccato da Gesù, il Dio
fatto uomo. Ora non solo Dio lo si può incontrare, invocare,
pregare, ma addirittura Gesù si lascia toccare e da questo contatto
si sprigiona qualcosa di benefico, qualcosa che si sente, che cambia
il modo di vivere delle persone raggiunte dalla guarigione.
Eppure, se siamo stati un po’ attenti
nell’ascoltare il testo, se ci ricordiamo un po’ come sono andate le
cose, vediamo che questa forza che esce da Gesù, queste energia che
risana, anche se il termine energia va preso con le pinze perché
oggi giorno può essere equivocato, vediamo che questa potenza che fa
vivere in modo nuovo, in fondo era già all’opera anche prima delle
due guarigioni. Ancora prima che Gesù guarisca e l’emorroissa e la
fanciulla dodicenne, già c’era una segreta forza motrice che
animava, metteva in moto, cambiava il modo di vedere le cose e
dunque di vivere e di agire.
Cosa è questa forza che cambia tutto il modo di
pensare, di agire e di vivere? Questa energia è la fede. Noi forse
siamo abituati a dare un po’ per scontato, nella nostra vita di
credenti, il fatto che abbiamo fede, che crediamo, perché basandoci
su quanto crediamo noi facciamo tante cose, a partire, per esempio,
dall’andare a Messa, dal pregare, dal rispondere alla vocazione,
alla chiamata che ciascuno di noi ha ricevuto. Per fede, e potremmo
dire anche certamente per amore, noi diciamo sì ad una donna, ad un
uomo, diciamo di sì al Signore in una comunità religiosa o
semplicemente diciamo di sì al cammino che abbiamo capito essere
quello che il Signore ci chiama a percorrere. E tutto questo è vero,
è sacrosanto e da non toccare. Però, possiamo chiederci una cosa:
questa fede che rappresenta la base di tante nostre scelte ormai
quotidiane e abitudinarie, è ancora una fede che possiamo
considerare come energia, è ancora una fede che ci mette in
movimento come una forza motrice che ci spinge ad andare dietro al
Signore oppure è una fede che subiamo passivamente? siccome sono
credente devo andare a Messa, devo essere fedele a mia
moglie/ marito, devo pregare, devo obbedire al
Superiore.
In poche parole, è ancora, la nostra una fede che
ci tiene in vita oppure abbiamo bisogno di altre cose che ci tirino
un po’ su? Proviamo a dare un’occhiata alla testimonianza di fede
che ci dimostrano i personaggi del vangelo di oggi: ancora prima di
ricevere qualcosa dal Signore si mettono in cammino, si mettono in
moto, la loro è una fede che li anima, che li muove. Addirittura si
tratta per l’emorroissa di una fede che distingue in modo del tutto
singolare il suo toccare Gesù: tutti lo toccavano, tutti gli erano
come pressati addosso, eppure solo il contatto di questa donna
libera quella forza invisibile che la guarisce dopo tanti anni di
tentativi sempre deludenti. E Gesù se ne accorge, Gesù si accorge di
chi lo tocca con fede, mentre non si accorgeva degli altri. Fu così
anche per Giairo: una fede che va oltre il senso di scoraggiamento,
di fallimento che gli suggerivano quelli della sua casa, quelli che
pensavano di vedere lontano, quelli che pensavano di capire davvero
quello che stava succedendo: lascia stare, ormai tua figlia è morta,
perché disturbi ancora il maestro? Ma Giairo, aiutato da Gesù, non
si fida di loro, si fida di Gesù, non ascolta i ragionamenti di chi
non ammette possibile altro se non ciò che si vede e si pensa
comunemente. E così non cede, Giairo non rinuncia a credere che
quella persona in cui ha messo tutta la sua fiducia sarà anche
capace di fare ciò che promette. E così avviene! La bambina ritorna
in vita, la salvezza si rende presente, la fiaccola della speranza
non aveva arso invano.
Allora anche noi possiamo chiederci: chi ha
guarito prima l’emorroissa e poi la bambina? Le ha guarite Gesù?
Diciamo di sì e diciamo di no, potremmo dire ni. Queste due donne le
ha guarite Gesù insieme alla fede di chi l’aveva toccato ed
implorato. La forza che vince il male e la morte dimorava già in
quell’ostinata insistenza che animava la preghiera e
l’intraprendenza di questi bisognosi della grazia di Dio. Il loro
bisogno, una volta canalizzato, orientato su Gesù e su nessun altro,
era diventato quella forza che con decisione e perseveranza, li
spingeva avanti, li faceva andare dritti e cocciuti alle fonti della
salvezza.
Anche noi vogliamo una fede così, anche noi
desideriamo di tutto cuore che la nostra fede non sia una fede
scontata, una fede accantonata, messa da parte come una ricchezza
chiusa in una cassaforte, ma sia una fede da spendere, da investire,
una fede che ci mette in movimento, che ci mantiene attivi e svegli
nell’andare a Gesù e nell’avere perfino l’ardire di toccarlo di
proposito e non solo perché ci troviamo nella ressa, trascinati
dalla massa. E allora sentiremo forse anche noi la parola
rassicurante e vittoriosa di Gesù, e laddove vince Gesù vinciamo in
verità anche noi: figlia, figlio, la tua fede ti ha salvato.
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sabato
25 gennaio 2014
– Conversione di San Paolo
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Nella vicenda della conversione di san Paolo noi
abbiamo un caso particolare, strano di conversione. C’è infatti
qualcuno che critica l’uso di questa parola conversione per
descrivere la vicenda di Paolo. Di per sé non è sbagliato parlare di
conversione, cioè di un cambiamento di strada per Paolo, ma dobbiamo
capire bene qual è il nucleo essenziale di questa conversione, di
questo nuovo orientamento della vita di Paolo. È importante capirlo
non solo per sapere come sono andate le cose per lui, ma anche, e
forse è la cosa che più ci importa, per capire come vanno per noi,
cioè che cosa davvero ci cambia, ci rinnova, ci converte.
Paolo, lo racconta lui stesso, era un super
religioso, sapeva tutta la legge a memoria e la osservava con il
massimo zelo. Eppure, un uomo così preparato, così osservante e
deciso nel proprio ideale di vita religiosa, invece che servire Dio
lo stava perseguitando! Può sembrare assurdo ma Paolo letteralmente
perseguitava Dio, gli faceva del male. Saulo Saulo perché mi
perseguiti? Un giorno Paolo sente questa voce e vede una luce nuova,
quella luce che lo illumina a tal punto da renderlo consapevole
della sua cecità: lui che credeva di vedere invece era cieco! È
questo il vero evento che cambia la vita di Paolo, la vera
conversione. È grazie a questo incontro, e non grazie alla sua
competenza in materia religiosa e al suo zelo furibondo, che Paolo
comincerà a diventare un santo, un apostolo, qualcuno che dovrà
soffrire molto per il nome di Gesù. Da persecutore di Cristo a
perseguitato per Cristo!
In questo incontro con Gesù Paolo rilegge tutta
la sua vita, tutta la sua fede, tutta la sua esperienza religiosa,
tutte le relazioni che aveva con i suoi contemporanei e i suoi
correligionari, e ne capisce il vero senso e il vero orientamento.
Esteriormente non cambia strada, continua verso Damasco, ma il suo
cuore è nuovo. In questo incontro con Gesù Paolo scopre il senso di
tutto e di tutti, Paolo scopre la sua vocazione, Paolo scopre Dio in
verità, e si scopre non come fedele servo dell’Altissimo ma come
violento persecutore del Dio che credeva di servire.
Quanto è preziosa anche per noi questa vicenda di
san Paolo! Quanto ha da insegnare al nostro cammino di discepolato
che rimane un cammino di conversione! E che cosa impariamo da questa
vicenda? Che cosa ci insegna san Paolo? Ebbene, ci insegna che la
vera conversione, quella profonda, quella che penetra fin nelle
midolla e nelle giunture della nostra vita, avviene quando
incontriamo personalmente il Signore Gesù, quando facciamo
esperienza di Lui. Che energia si sprigiona da questo incontro! Che
potenza riconosciamo nel nostro cuore quando scopriamo lo sguardo di
Gesù su di noi, una potenza che se ci sbatte a terra come accadde
per Paolo, è anche capace di rialzarci, consolarci e trasformare
coloro che prima erano i nostri nemici, coloro che volevamo
uccidere, in fratelli che ci aiutano a diventare santi. Tutto in noi
e sempre deve essere esposto a questo incontro, tutto, come fu per
Paolo che iniziò da capo il suo cammino di fede. Da grande esperto
formato alla scuola di Gamaliele si ritrova a dover imparare l’abc
di un nuovo modo di amare e servire Dio.
Anche noi allora chiediamo il coraggio della
conversione. E se, diciamo, che ci siamo già convertiti, ricordiamo
che la conversione non finisce mai perché è un continuo riplasmare
sotto lo sguardo di Gesù, in questo incontro forte, liberante e
soprattutto personale con Cristo, tutto quello che prima credevamo
giusto, santo e vero.
In questo riplasmare il nostro modo di vivere la
fede, di vivere le relazioni, di vivere la vita, come fu per Paolo,
si compie la vera unità dei credenti, perché come lui, diventeremo
un po’ più fratelli e un po’ meno persecutori. È questo che tutti
vogliamo augurare gli uni agli altri al termine di questo ottavario
di preghiera per l’unita dei cristiani.
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venerdì
24 gennaio 2014
– II settimana T.O. –
fr. Giovanni Battista
FMJ
La
chiamata degli apostoli è un evento, un racconto fondante per la
vita della comunità cristiana, della Chiesa, un racconto che siamo
invitati a leggere in una luce particolare durante questo ottavario
di unità dei cristiani.
Gesù
chiama i dodici, o meglio costituisce i dodici, fa i dodici, come
nucleo originario di quella Chiesa che giunge a noi fino ad oggi. In
quella chiamata sono custodite come in forma originaria e
paradigmatica alcune costanti di ogni chiamata e di ogni missione e
dunque anche di quella di ciascuno di noi.
La
caratteristica che per prima balza alla nostra attenzione è il
contenuto di questa chiamata, cioè cosa vuol dire far parte dei
Dodici, cosa vuol dire essere apostoli. Se apostolo vuol dire
inviato, colui che va, l’apostolo deve capire anzitutto dove deve
andare. Il dove, la direzione dell’andare dell’apostolo, Marco la
presenta così: perché stessero con lui e anche per mandarli. Sono
questi i due poli, i due orientamenti fondamentali della chiamata
dell’apostolo, lo stare con Gesù, o più letteralmente l’essere con
Gesù, e poi l’annuncio in parole e gesti cioè la guarigione da ogni
forma di male.
Detto
questo ci possiamo chiedere: questi due poli che rapporto hanno
l’uno con l’altro? Sono forse questi due momenti sconnessi, il
ritiro e l’invio, due fasi separate della vita dell’apostolo? La
vita cristiana è forse una vita a settori separati e impermeabili,
cioè c’è la fase dell’andare a Cristo e poi quella del lasciare
Cristo per l’invio? Dobbiamo dire di no. Si tratta piuttosto di due
livelli che convivono insieme e, se hanno distinzione, questa è solo
dal punto di vista visibile, esteriore, fenomenico ma ad un livello
più profondo questi due livelli convivono, devono convivere, e guai
se non fosse così!
Questo per due ragioni: la prima è legata al fatto che l’apostolo,
inteso anche in senso lato, cioè qualsiasi cristiano che riconosce
il proprio dovere di testimonianza e di evangelizzazione che, come
ci ha ricordato il papa, compete a tutti seppur in diverso modo,
l’apostolo non è portatore solo di un messaggio, di un’informazione.
L’apostolo non dice solo, guarda che Dio c’è davvero, ma dev’essere
un portatore di Dio stesso, l’apostolo con la sua stessa persona
pienamente unita a Cristo, non deve solo annunziare ma dev’essere
trasparenza stessa di Cristo nel mondo, perché Cristo stesso è il
messaggio dell’apostolo, Cristo vivo, Cristo presente e non solo un
parlare di Cristo. E capiamo bene che questo è possibile se lo stare
con Gesù diventa una costante, una comunione ininterrotta
ventiquattr’ore su ventiquattro. Prima ragione.
La
seconda ragione del perché i due livelli convivono e devono
convivere è quella che più ci fa riflettere in questi giorni di
preghiera per l’unità dei cristiani. Se noi infatti stacchiamo,
separiamo i due momenti di chiamata ed invio, se l’invio ad extra
perde il suo legame con la chiamata, con la scelta che Dio fa di noi
e con il nostro costante andare a lui, ecco che tutto ciò che
facciamo si espone seriamente al rischio di non essere più un invio
da parte di Dio ma la realizzazione di un nostro progetto personale
o comunitario. È questo un rischio non solo dell’apostolo ma anche
di qualsiasi cristiano che svolge un servizio per gli altri. Finché
questo servizio scaturisce da una chiamata del Signore e ritorna al
Signore stesso attraverso il beneficio che ne traggono le sue stesse
membra vive che siamo noi, finché quanto viene da Dio continua a
portare l’impronta di questa chiamata originaria e diventa così
portatore della sollecitudine di Dio stesso per il suo popolo, la
Chiesa si edifica e cresce. Quando noi invece tra chiamata e invio
poniamo il nostro progetto, accade che la chiamata non vivifica più
l’invio, e diventiamo noi i protagonisti di un’opera nostra e così
nascono i problemi, si creano divisioni, le fazioni, i gruppi e
diamo al mondo una parola vuota se non nociva, una parola che non
rivela più Gesù. Ecco le divisioni tra i cristiani, ecco le
divisioni tra le confessioni cristiane, ecco che ognuno allora
rischia di avere un suo progetto, una sua dottrina, un suo culto,
perfino all’interno dello stesso gruppo di credenti.
Nel
nostro piccolo e nelle nostre vite, che forse non prenderanno parte
al dibattito delle commissioni teologiche che portano avanti il
dialogo ecumenico, possiamo però già vivere questo continuo ritorno
alla fonte, alla base, alla radice della chiamata che il Signore ha
rivolto tutti noi presi sia come singoli che come comunità monastica
e comunità ecclesiale. Solo se unito alla radice l’albero riceve la
linfa e porta frutto; se staccato dalla radice nutriamo l’albero con
una linfa nostra, i frutti saranno frutti nostri, e avranno il
sapore del nostro modo di pensare, della nostra cultura, ma non del
vangelo di Cristo.
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venerdì
17 gennaio 2014
– Memoria di sant’Antonio abate
- fr. Giovanni
Battista FMJ
È sempre una gioia per una comunità monastica
celebrare la memoria di un padre, Antonio, padre dei monaci, una
figura straordinaria che come affascinava molti nel suo tempo, così
anche oggi non cessa di affascinare chi ama la vita monastica e non
solo, e anche noi vogliamo lasciarci raggiungere dal suo fascino, il
fascino di un uomo che non ha fatto altro che prendere il vangelo
sul serio e cercare di viverlo con tutte le sue forze.
Le
letture di oggi vogliono illuminare degli aspetti particolari della
vita di Antonio, due in particolare risaltano: l’aspetto della
chiamata e l’aspetto della lotta contro il male, male sia con la m
minuscola, sia con la Maiuscola, il diavolo. I due temi sono
connessi, si toccano, in quella che potremmo definire la vittoria di
Cristo.
Antonio un giorno, dopo la morte dei genitori, entra in una chiesa e
ascolta proprio il vangelo che abbiamo appena sentito anche noi: “Se
vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai
poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”. E il suo
ascolto diviene obbedienza, il Signore non solo parlava ma gli
parlava e Antonio – scrive il suo biografo sant’Atanasio – “come se
quella lettura fosse stata fatta proprio per lui, usci subito dalla
chiesa, donò ai vicini i poderi avuti in eredità dai genitori perché
non infastidissero più lui, né la sorella”. Antonio lascia
sprigionare nella sua vita tutta la potenza della parola di Dio,
tutta la potenza della vittoria di Cristo. La sua docilità alla voce
divina è la sua forza, la sua passività di fronte all’azione dello
Spirito è la sua vera potenza, la sua fermezza nel seguire il
Signore lo condurrà lontano nella conformazione a Cristo.
Ma
il cammino di Antonio fu tutt’altro che spensierato perché il Nemico
di ogni bene, l’amico del peccato, il diavolo, fece tutto il
possibile per colpire Antonio e condurlo sulla via di una
rassicurante e tranquilla “normalità” di vita. Qual è il segreto di
Antonio? Come fa Antonio ad essere così forte contro il male tanto
che i demoni non possono più nulla contro di lui? Il segreto di
Antonio non è tanto una sua personale potenza, quasi fosse in grado
da sé di vincere il male. Il segreto di Antonio si chiama Gesù.
Antonio aveva imparato, era ormai abituato a lasciar vincere il
Signore nella sua vita, nelle sue cose personali, la famosa e poco
di moda “mortificazione di sé”, e seguendo questa via Antonio
diventerà egli stesso un vincitore, un alleato di Cristo, un
portatore della vittoria di Cristo nella sua povera umanità che non
era diversa dalla nostra. E così Antonio vince il male, o meglio il
Salvatore vince il male in Antonio.
Ci
può forse sembrare una vita rude e un po’ cinica una vita vissuta
così, eppure di Antonio si dice che, vivendo in tal modo, era
incredibilmente amabile e amato da tutti. Anche qui possiamo ancora
chiederci? Qual è il segreto di Antonio? La risposta è sempre
quella: avendo imparato a lasciar vincere il Signore in sé stesso,
l’Altro, con la A maiuscola, abituatosi al disarmo e alla docilità
di fronte a Dio, vive così anche di fronte agli uomini, apprezzando
tutto ciò che di bello, di santo, tutte le piccole vittorie del
Signore negli altri. Si legge nella sua vita che “Si mostrava
volentieri sottomesso agli uomini zelanti che visitava, faceva
tesoro per sé di come ciascuno eccellesse per virtù e pratica
ascetica. Di uno, infatti, ammirava la grazia, di un altro l’amore
per le letture, di uno la perseveranza, di un altro il digiuno e il
dormire in terra, di uno la mitezza, di un altro la generosità. Di
tutti notava l’amore per il Cristo e l’amore reciproco.” (4) In
poche parole, Antonio quando stava con gli altri cercava di imparare
qualcosa da tutti e, scrive Atanasio, “raccogliendo nel suo animo le
virtù di ognuno, si sforzava di realizzarle tutte in se stesso.” Il
grande abate, e maestro, e padre dei monaci continuava a farsi
piccolo e discepolo; vinto da Dio e per questo vincitore, non
invidiava ma emulava le vittorie degli altri e così restava in
perpetuo cammino. Ogni giorno, per Antonio, che avrebbe potuto
adagiarsi sui tanti anni di esperienza di vita, era un nuovo inizio,
era quell’oggi da cui iniziare nuovamente dimentico del passato e
proteso verso il futuro senza misurare la sua virtù sul tempo
trascorso ma con desideri e propositi buoni da perfezionare
continuamente.
In
sant’Antonio il Signore ha un amico e un discepolo, e noi scopriamo,
ancora una volta, che la vera vittoria, la vera umanità piena,
realizzata e santificata, il vero ideale monastico, e perfino la
lotta contro il male, non sono protagonismo e grandezza nostri, ma
protagonismo e grandezza di Cristo in noi. Noi dobbiamo assecondare
con tutto il nostro impegno questa grazia e imparare anche un
pochino, quando occorre, a farci da parte di fronte ad essa. Vinti
diventeremo così vincitori. È strano ma vero, forse paradossale, ma
il Vangelo funziona così.
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Domenica 12 gennaio 2014
- Battesimo del Signore -
fr. Massimo-Maria FMJ
Il tempo del Natale si conclude con la festa del Battesimo del
Signore. In tutto questo tempo santo siamo stati invitati a volgere
lo sguardo al Bambino di Betlemme.
La identità profonda e vera di Gesù ce l'hanno annunciata gli
angeli con i loro canti, i pastori con il loro pellegrinare in cerca
del segno annunciato, i magi con i loro doni.
Oggi la rivelazione è forte e solenne:
·
il Padre rompe il silenzio e proclama l'identità di Gesù: " Questi è
il Figlio mio, l'amato in cui ho posto tutto il mio compiacimento";
·
lo Spirito, disceso su di Lui in forma di colomba, lo presenta come
il consacrato, il servo di Dio, l'eletto di cui già Isaia aveva
profetato.
·
E
vogliamo porre particolare attenzione all'annotazione
dell'evangelista: "...si aprirono per Lui i cieli."
Gesù è il Figlio del Padre, l'unto l'eletto di Dio e per Lui si
sono aperti i cieli, cioè Dio non è più lontano, separato, distante,
irraggiungibile, ma vicino, incontrabile, toccabile.
Ma possiamo ora fare un passo ancora in avanti.
Gesù che scende nel fiume Giordano, che si mette in fila con i
peccatori, non pone tanto un gesto profetico del Battesimo
cristiano, ma principalmente un gesto di grande solidarietà con
l'uomo, e con l'uomo peccatore. In Gesù Dio si è fatto solidale
con l'uomo, e questo perché l'uomo divenisse "solidale" con Dio. I
cieli sono davvero aperti nei due sensi in Gesù: perché Dio potesse
scendere sino a noi e affinché noi potessimo salire sino a Lui. Dio
si è immerso nell'umano perché l'umano potesse immergersi in Dio.
Addirittura: il Figlio di Dio si è fatto uomo perché l'uomo potesse
divenire figlio di Dio.
Ecco il cuore del mistero del Natale che abbiamo celebrato e
stiamo celebrando. Ora possiamo chiederci:
Come questo grande ed impensabile mistero si realizza per
ogni uomo?
Come questo raggiunge e si attualizza per ogni uomo di ogni
tempo, per ogni uomo disperso nel tempo della storia e nello spazio
di questo mondo? Come questa possibilità diviene concreta, reale, "
applicata" - è brutto ma rende l'idea - ad ogni uomo? La risposta è:
attraverso il dono del Battesimo.
Attraverso il Battesimo Dio ci ha raggiunto e resosi solidale
con noi nel Figlio ci ha reso solidali a Lui facendoci figli, fino
al punto che in ciascuno di noi il Padre vede il Figlio, ci chiama
l'amato, e pone su ciascuno di noi il suo compiacimento.
Questo è il dono del Battesimo che abbiamo ricevuto. Tutto
questo che andiamo dicendo il Battesimo ce lo dona.
Ma occorre non solo ricevere il dono, perché questo grande
mistero risplenda e si veda, occorre che lo Spirito che nel
Battesimo abbiamo ricevuto possa agire trasformandoci in Gesù.
Ecco allora che possiamo dire che a questo dono occorre abbandonarsi
permettendogli che con la sua forza, sempre più, ci trasformi ad
immagine di Gesù.
Al Battista che voleva resistere al Signore che chiedeva di
essere battezzato Gesù dice : " Lascia fare....". Possiamo
riprendere oggi questa Parola e pensare che lo Spirito ricevuto nel
Battesimo che vuole trasformarci in Gesù ci chieda continuamente -
particolarmente quando siamo rigidi, duri, ribelli, ostinati, chiusi
alla sua azione: " Lascia fare - cioè - Lasciami agire."
Ora evidentemente quando diciamo che lo Spirito ricevuto nel
Battesimo voglia trasformarci in Gesù non significa che questo
avvenga nei lineamenti esterni del volto o dello sguardo o cose
simili, ma piuttosto è nell'uomo interiore, nei sentimenti,
nell'amare, nella relazione al Padre, nel rapportarci ai fratelli,
che lo Spirito vuole farci come Gesù.
Ecco che nella Parola ascoltata c'è un passaggio che ci
aiuta a capire meglio verso dove il dono del Battesimo - per usare
l'espressione del Vangelo: lasciato fare - ci vuole condurre. Quali
lineamenti di Gesù lo Spirito vuole imprimere in noi. I lineamenti
del volto di Gesù che lo Spirito vuole imprimerci sono quelli che
Isaia attribuisce al servo del Signore - profezia di Gesù:"......egli
porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono,non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla
fiamma smorta...."
Nel Battesimo resi solidali, di più figli nel Figlio, il dono
dello Spirito - se noi lo lasciamo fare - scolpisce questi tratti
del volto del Figlio, tratti di umiltà e di mansuetudine, tratti di
dolcezza e discrezione, tratti di chiarezza e amore per la
giustizia, ma tratti di pace e mitezza, benevolenza e mite fortezza.
Come aiutare lo Spirito in questa opera iniziata il giorno del
nostro Battesimo?
Restare sempre in un reale e vero cammino di conversione
volgendo lo sguardo costantemente a Gesù, cercando, custodendo e
rafforzando una relazione vera, radicale profonda personale con Lui.
Ogni volta che lo sguardo è distratto dal volto di Gesù crescono le
resistenze allo Spirito, la durezza del cuore si accentua, anziché
lasciar fare allo Spirito facciamo noi ed ecco che come il Papa ha
detto ieri ai preti, ma vale per tutti, il risultato è che: "....si
diventa non unti ma untuosi, devoti del dio narciso."
Oggi allora la liturgia chiudendo il tempo di Natale e
aprendoci da domani al tempo ordinario ci riconsegna la sfida del
Battesimo che abbiamo ricevuto: " .....lasciare fare allo Spirito!
Lasciarlo fare perché imprima in noi il volto mite e luminoso del
Signore; perché ci conduca nel cammino di una sempre più grande
somiglianza con il Figlio amato. Così che la nostra vita dica al
mondo che Dio per tutti ha aperto i cieli e si è fatto vicino.
Amen
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venerdì
10 gennaio 2014
– Commento ora media
- fr.
Giovanni Battista FMJ
Riascoltate nel contesto del tempo di Natale, le parole
dell’evangelista Giovanni rivelano ai nostri occhi una luce
particolare, quella che si irradia da Gesù Bambino, il Verbo
incarnato. Contemplando e adorando il Verbo fattosi carne per la
nostra salvezza infatti non solo possiamo pensare, immaginare,
l’amore di Dio, ma possiamo giungere perfino a toccare,
nell’esperienza di fede e nella vita cristiana, la plasticità, o
meglio, la fisicità del significato dell’espressione: “Dio ci ha
amati per primo”. Dio ci ha amati fino a donarci il Suo Figlio. Si
tratta certo di un’affermazione di fede ma, non per questo di
qualcosa che appartenga al mondo di Dio e non al mondo degli uomini,
al mondo del puro abbandono di fede, e non anche al mondo dei sensi
e della ragione. Così Dio ha voluto mostrare il Suo amore per noi,
venendoci incontro nel modo più comprensibile e percepibile dalla
nostra umanità: la relazione umana. In questo incontro si compiono
tutti i modi di dialogo, di contatto, tutte le benedizioni e le
promesse che il Dio dei Padri aveva rivolto al suo popolo. Dio non
parla più dall’alto ma parla dalla terra di cui si è fatto
cittadino.
Due
cose possiamo dire a riguardo tra le molte che potrebbero emergere
dalla nostra riflessione e dalla nostra preghiera. Una prima cosa è
che se Dio ci ha amati per primo dobbiamo riconoscere a questo
primato, a questa priorità, a questo amore che possiamo definire
senza esagerazioni, primordiale, tutta la precedenza che gli è
propria, sia dal punto di vista cronologico, che kairologico, che
ontologico che esistenziale. L’amore di Dio ci precede in tutto. In
nulla possiamo precederlo, è sempre lui che ci precede e dunque ci
attende e ci accompagna. In questo amore primordiale, noi troviamo
allora quel grembo che ci ha generati e che continua a generarci se
vogliamo considerarci e vivere come Sua discendenza, cioè come figli
di Dio. Tutto ciò che è in noi e da noi proviene se vuole essere un
prolungamento, una discendenza di Dio, se vuole portarne il nome,
deve ritornare ripetutamente a questa generazione dall’amore di Dio.
Se no avremo sì un nostro nome, ci faremo un nome, ma non porteremo
in verità, cioè nei fatti, nella realtà, il nome di figli di Dio.
La
seconda cosa che questo testo ci suggerisce riguarda il nostro modo
di amare. Dio è amore, è lui che ci amati per primo e, abbiamo
detto, tutto in noi deve ritornare a questa scaturigine. Ma possiamo
andare oltre, possiamo dire che non basta amare Dio e non basta
amare i fratelli, ma dobbiamo amare l’Uno e gli altri come lo fa
Gesù. Questa è la sfida continua del nostro pellegrinaggio terreno,
una sfida che si chiama conversione. A volte vorremmo chiamare
amore, giustizia, verità, bellezza, bontà eccetera molte cose, ma
siamo sicuri di attribuire a queste categorie, a questi contenuti,
il giusto significato? Ciò che si trova in Dio in modo sommo può
trovare solo in lui autentica definizione ed espressione, e può
dunque essere considerato tale solo se, almeno in parte, partecipa
di questa pienezza che è in Dio solo. In altre parole, solo se
manteniamo il contatto con il grembo che ci ha generati, anche
quello che genereremo noi potrà portarne l’impronta, potrà essere
rivelazione di Dio, e creare comunione. Se no sarà babele, disordine
e divisione. (cfr per questo ultimo pensiero: M. Canopi, Liturgia
del silenzio, ed. Piemme, pag. 9)
In
Gesù si incontrano e si congiungono i due movimenti, quello che
parte da Dio per volgersi verso di noi, l’amarci per primo, e quello
che nasce dalla nostra risposta umana a questo amore per volgersi
verso l’alto e verso chi ci vive intorno. Il messaggio che allora
vogliamo ricevere come un’eredità che questo tempo forte del Natale
ci consegna è allora l’urgente invito a metterci alla scuola di
Gesù, a mettere le orme sulle orme lasciate dal Salvatore, come la
Beata Elisabetta della Trinità chiedeva per sé: “Oh, se potessi
essere piccola come lui e poi crescere al suo fianco mettendo i miei
passi sull’orme dei suoi passi divini!”
Intercessioni Ora media:
-Benedici o Padre le istituzioni, ecclesiastiche e non, che si
spendono per portare pace, aiuti umani e materiali in quei luoghi in
cui la dignità dell’uomo è più calpestata.
-Dona
sollievo o Padre a coloro che hanno subito un’ingiustizia, a chi è
maltrattato, umiliato, ingannato, truffato: sperimentino, nella loro
vita, la potenza della fede che vince il mondo.
-
Accendi o Signore, in tutti i cristiani, il desiderio di mettersi
alla sequela di Gesù mediante un’intensa vita sacramentale,
l’ascolto della tua Parola e l’esercizio della carità fraterna.
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mercoledì
1° gennaio 2014
– Maria Santissima Madre di Dio
-
fr. Giovanni
Battista FMJ
In questo primo giorno dell’anno la Chiesa ci
invita a guardare alla prima delle donne redente, la prima
conquistata dalla bellezza di Cristo. Il più bello tra i figli
dell’uomo ha reso sua Madre la più bella delle donne, una bellezza
non solo da guardare, da ammirare, da contemplare, da pregare, in
Maria abbiamo molto di più. In Maria Madre di Dio scorgiamo la
presenza dell’Assoluto, del Trascendente, del totalmente Altro, di
Colui che è inafferrabile e tuttavia decide di rendere partecipe di
sé l’uomo a tal punto da farsi figlio dell’uomo. Il Figlio di Dio
prolunga visibilmente il suo eterno essere figlio nel seno del Padre
prendendo carne nel seno di Maria. Come per dire: da sempre sono
figlio, vi voglio rendere come me, vi voglio rendere figli di Dio. A
chi lo accoglie, dice san Giovanni, ha dato potere di diventare
figlio di Dio, e san Paolo, nella lettura di oggi cerca di
convincerci con tutte le forze che davvero siamo figli e se sei
figlio, dice san Paolo, sei anche erede. Erede di cosa? Erede della
salvezza, erede della redenzione, erede dell’identità di figlio di
Dio e partecipe di quello sguardo d’amore che il Padre da sempre
rivolge al suo Figlio. Ma erede anche di una Madre, la Sua Madre,
Maria. Maria, portando in grembo il suo Figlio e dandolo alla luce,
in certo senso partorisce anche la nostra nuova identità, e se ne
prende cura custodendola con immenso amore.
La divina maternità di Maria è un mistero che si
può osservare da moltissime prospettive, ma c’è una dimensione
speciale che le accomuna tutte o quasi tutte, e non è altro che il
riflesso nella maternità di Maria di quel mirabile scambio che si è
compiuto tra la nostra natura e quella divina nel figlio di Dio. In
che senso? Come il Figlio di Dio ha assunto la natura umana per
renderla partecipe della natura divina, così in questo misterioso
scambio si apre per l’uomo anche un’altra possibilità, anche un
altro scambio che potremmo quasi definire genealogico, cioè la sua
mamma, la mamma di Gesù diventa anche la nostra mamma, e noi, i
fratelli di Gesù membri della stessa sua umanità, diventiamo figli
di Dio ma anche figli di Maria. Così Maria, Madre di Dio è anche
Madre nostra e Madre della Chiesa. Cosa significa questo per noi?
Significa sostanzialmente una cosa: che Maria continua verso di noi,
che siamo il corpo mistico del Suo Figlio, quello che lei prima
faceva nei confronti di Gesù. La maternità fisica di Maria del suo
Figlio Gesù prosegue in modo spirituale in tutto il corpo mistico
dello stesso Cristo che siamo noi.
In cosa consiste quest’opera nascosta ma reale di
Maria nei confronti del corpo mistico del Suo Figlio? Non è facile
da definire ma qualcosa possiamo dirlo. E per non andare troppo
lontano possiamo limitarci al mistero del Natale del Signore in cui
la solennità di oggi è contestualizzata. Qual è la prima cosa che
Maria fa verso Gesù? La prima cosa che Maria fa in quanto Madre è
l’essere accogliente: non ci stancheremo mai di leggere il brano
dell’Annunciazione e di venerare il sì di Maria, il sì di Maria alla
volontà di Dio. In questo sì di Maria a questa misteriosa nascita è
già chiaramente racchiuso il suo sì ad essere Madre. Il primo atto
che la rende Madre, e Madre anche nostra, è proprio questa sua
apertura alla vita, questa sua accoglienza così libera, così
consapevole, così amante, della chiamata di Dio che la rende una
donna straordinaria, una donna capace di non rigettare nulla di ciò
che le viene da Dio, di non allontanare nulla e nessuno di quanto il
Signore le affida. Maria così è la Vergine accogliente, la Vergine
che come disse sì all’angelo dice di sì anche a noi ogni volta che
ci rivolgiamo a lei per compiere la volontà di Dio. Primo atto
dunque della maternità divina e umana di Maria è questa sua
accoglienza che attira a sé e lo sguardo di Dio e il nostro sguardo.
Il secondo atto, conseguente al primo, che rende
Maria Madre di Dio e prepara la sua maternità anche verso di noi è
il concepimento del Verbo Incarnato nel suo seno, la sua gestazione,
e la sua nascita. Maria, in unione con lo Spirito Santo genera in sé
il Figlio di Dio che viene nella carne, offre se stessa, la sua
carne e il suo sangue, a questa misteriosa gravidanza. Lo concepisce
e ce lo offre, lo offre a tutta l’umanità di tutti i tempi. Maria ci
dona Gesù. È quel concepimento unico, straordinario, e irripetibile
nella storia dell’umanità che ha inaugurato i tempi nuovi. Ma, anche
qui, è unico e irripetibile fino a un certo punto, perché Maria
continua anche dopo, anche ora, questa sua fecondità non più però
nell’ordine naturale, come con Gesù, ma nell’ordine della grazia.
Maria, in certo senso, continua a generare il suo Figlio in tutti
coloro che formano il corpo mistico di Cristo Gesù, Maria continua a
donarci Gesù. Non in modo autonomo, perché sappiamo che Maria rimane
una donna, continua ad essere solo una creatura anche se già assunta
in cielo e partecipe del trionfo glorioso del Suo Figlio; ma Maria
esercita questa reale maternità grazie alla sua singolare
cooperazione all’azione dello Spirito Santo. È lo Spirito Santo che
ci innesta in Cristo e nel Suo mistero pasquale che ci rende figli
di Dio, ma ogni volta che nasce un cristiano, ogni volta che un
nuovo figlio di Dio viene alla luce nelle acque del Battesimo, Maria
è là e lo adotta, lo prende come suo bambino. Per questo Maria è
detta anche Madre della Chiesa. (cfr. CCC 2675. 2677)
Infine, terzo atto di Maria, Maria in quanto
Madre custodisce. È questa è un attitudine tutta speciale di Maria
perché Maria custodisce non solo fuori di sé, circondando di tutto
il suo amore il Bambino che Dio le affidava, ma Maria custodisce
anche dentro di sé, come è detto nel vangelo di oggi: “Maria
custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Tutto
quanto ha a che fare con Gesù, parole, eventi, persone, tutto
rientra tra le cose che Maria custodisce come preziosissime, le cose
di cui si prende cura in modo speciale. Quanto più allora anche noi
abbiamo a che fare con Gesù, tanto più facciamo parte anche delle
“cose” che Maria custodisce nel suo cuore, entriamo nei suoi
pensieri, diventiamo oggetto della sua custodia premurosa e della
sua benevolenza materna. Maria che non dimenticava neanche una delle
cose che si dicevano del Figlio suo, Maria che, laddove c’era il suo
Figlio, c’era anche lei, come può dimenticarsi di noi che ormai
siamo una cosa sola con Lui, carne della sua carne e sangue del suo
sangue? Maria custodisce anche noi, Maria porta dentro di sé anche
noi come suoi figli.
In tutto questo Maria è Madre che ci precede, che
ci accompagna, che ci indica, con tutta la sua vita, naturale e
soprannaturale, la via verso Gesù di cui è pura trasparenza. E
insegna anche a noi ad essere come una madre, una Madre che
accoglie, che è feconda proprio perché accogliente, e che custodisce
il dono di Dio con l'amore speciale che solo una madre può avere.
Davvero nulla Gesù ha tenuto per sé di quanto aveva, davvero ci ha
dato tutto, persino la sua mamma che oggi vogliamo invocare, imitare
e amare un po' di più.
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