Domenica
29 dicembre 2013
– Santa famiglia
-
fr. Giovanni Battista
FMJ
Ancora immersi nella luce del Natale oggi la nostra attenzione non
si allontana da Gesù Bambino, il figlio che ci è stato donato, ma si
allarga sulla dimensione comunitaria, la prima comunità che accoglie
Gesù, che è appunto quella piccola comunità formata dalla sua mamma
e dal suo papà. Il Dio con noi è con noi anche in questo: nel voler
nascere e crescere in una famiglia umana, e così, come aveva
consacrato e benedetto il grembo di Maria con la sua presenza in
lei, oggi possiamo dire che la presenza di Gesù in seno alla sua
famiglia, consacra, benedice la famiglia, questa famiglia, ma anche
la famiglia in sé, la famiglia come istituzione, come luogo speciale
e insostituibile, tanto prezioso quanto delicato, in cui la vita
umana nasce, cresce e vive la sua fecondità più autentica.
Allora oggi vogliamo guardare con particolare attenzione e anche con
particolare affetto e devozione alla famiglia di Nazareth che la
Chiesa presenta alla nostra preghiera e riflessione. Non tanto per
farne un bel quadretto, ma per accoglierla, come abbiamo pregato
nella colletta, come modello di vita, perché anche nelle nostre
famiglie fioriscano le stesse virtù. Il vangelo stesso di oggi ci
impedisce di fare della santa famiglia un bel quadretto vista la
situazione drammatica che Maria e Giuseppe stanno vivendo, di
famiglia sradicata, profuga, minacciata e forse proprio per questo
ancora più unita a Dio e tra di loro. Ma andiamo per gradi.
Una
prima cosa di cui ci accorgiamo guardando alla famiglia di Gesù è
che non è messa insieme a caso, nessuno è lì per propria iniziativa
o per pura affinità reciproca; c’era sicuramente anche questo tra
Maria e Giuseppe, ma anzitutto Maria e Giuseppe sono dei chiamati,
scelti da Dio. La famiglia è una comunità di chiamati, è il Signore
che la raduna, che la convoca, che da la vita, ed è anche per questo
che la famiglia è definibile come chiesa domestica. Certo ci saranno
fattori umani e personalissimi che uniscono un uomo e una donna in
matrimonio, ma in una prospettiva cristiana, non possiamo fermarci
qui e non vedere, dietro tutto questo, la mano di Dio che chiama,
sceglie, unisce, e possiamo anche dire, crea, genera una famiglia.
Se è
vero questo è vera anche un’altra cosa: se la famiglia di Nazareth,
ma anche ogni famiglia, sono una comunità di chiamati, allora
significa che l’essere mamma e l’essere papà, come anche l’essere
figli, non è solo qualcosa di naturale, carnale, qualcosa legato al
sangue o all’anagrafe, ma è una vocazione. C’è una vocazione ad
essere mamma, c’è una vocazione ad essere papà, c’è una vocazione ad
essere figlio, vocazioni che vanno insieme, sono contemporanee,
vanno di pari passo, non solo perché la mamma e il papà non sono
tali finché non hanno figli e i figli non nascono se non ci sono dei
genitori, ma anche perché si tratta di vocazioni che nascono insieme
e si plasmano insieme. Pensiamo quanto Gesù, al di là che sia il
Figlio di Dio, ma semplicemente come bambino, abbia contribuito alla
crescita, alla maturazione di Maria e Giuseppe in quanto donna,
uomo, mamma e papà. Guardando alla famiglia in generale si potrebbe
dire che sono proprio i figli che rendono adulti i genitori; sono
proprio i figli che obbligano i genitori ad essere un uomo e una
donna maturi, proprio perché devono prendersi cura di loro e si
sentono responsabili di custodire e aiutare il dono che hanno
ricevuto da Dio. (cfr. Card Martini, Compleanni in famiglia, Centro
ambrosiano). D’altro canto, è vero anche il contrario: sono proprio
i genitori a rendere uomo il loro bambino, non solo perché lo
generano fisicamente, ma anche perché sono i primi, e spesso i più
influenti, modelli di vita che gli consegnano un modo di vivere in
questo mondo. Pensiamo a quanto la paternità di Giuseppe abbia
giocato nel rapporto di Gesù con il suo Padre celeste. Ecco, nella
famiglia, risalta al massimo grado quella realtà, vera anche in
altri contesti, di essere davvero gli uni per gli altri: o si cresce
tutti o non cresce nessuno. Nessuno nella famiglia può vivere per se
stesso, ma tutti ci si aiuta a crescere, a vivere, ad essere veri
uomini, ad amare.
Da
qui viene dunque una missione speciale della famiglia; la famiglia
chiamata è anche famiglia inviata, un invio anzitutto al suo
interno: è ciò su cui insiste san Paolo nella seconda lettura: mogli
siate sottomessi ai mariti, mariti amate le vostre mogli (che è un
modo diverso di dire ‘siate anche voi sottomessi a loro’, perché
l’amore vero, totale, ed esclusivo come quello di due sposi, include
una sottomissione reciproca), figli obbedite ai genitori, padri non
esasperateli (cioè fatevi obbedire ma obbedite un po’ anche voi a
loro, cioè a come sono fatti, ai loro tempi di maturazione, ai loro
modi di pensare diversi da quelli di quando eravate giovani voi,
modi di pensare che vanno sì educati e purificati ma non sradicati).
Al di sopra di tutte queste cose rivestitevi della carità che le
unisce in modo perfetto. Siete stati chiamati alla pace di Cristo.
Ciascuno ha qualcosa da dare e qualcosa da ricevere dall’altro e per
questo si vive in reciproca gratitudine e umiltà, ciascuno al suo
posto. Come ha voluto vivere anche Gesù con Maria e Giuseppe stando
loro sottomesso come loro erano sottomessi e obbedienti in tutto
alla responsabilità enorme, immensa, che Dio affidava loro con
questo loro figlio.
Ma
la famiglia è inviata anche al mondo, di cui essa stessa è parte, un
mondo che talvolta aiuta le famiglie, altre volte no, perché
talvolta il mondo, o meglio non il mondo in sé ma lo spirito del
mondo, prolunga, in certo senso, la minaccia di Erode: talvolta,
sottoforma di attraente lusinga, deforma la famiglia, frantuma il
focolare domestico, distrugge la vita: pensiamo al numero crescente
dei divorzi, alla piaga dell’aborto, al ricorso sempre più frequente
alla sterilizzazione, all’instaurarsi di una vera e propria
mentalità contraccettiva (cfr. FC 6), (e possiamo aggiungere alla
lista anche i tentativi di considerare famiglia ciò che famiglia non
è.) “Alla radice di questi fenomeni negativi – scriveva il Beato
Giovanni Paolo II – sta spesso una corruzione dell’idea e della
esperienza della libertà, concepita non come la capacità di
realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e sulla
famiglia, ma come autonoma forza di affermazione, non di rado contro
gli altri, per il proprio egoistico benessere.” (FC 6) La famiglia
ha bisogno di famiglie che testimonino nel mondo lo spirito della
famiglia di Nazareth, che mostrino la bellezza e l’attualità, anche
per il nostro tempo, del disegno del Creatore su ogni vera famiglia,
che siano segno credibile per tutti che solo la casa fondata sulla
roccia sta in piedi. La Chiesa stessa ha bisogno di famiglie da cui
imparare una dimensione più domestica, cioè più familiare, adottando
uno stile più umano e fraterno di rapporti. (cfr. FC 64).
Tutti allora, in quest’unico giorno di Natale, vogliamo fermarci a
Betlemme, sostare a Nazareth con Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù,
per ripartire da qui con una coscienza più consapevole e più matura
del valore della vocazione che abbiamo ricevuto, di ciò che siamo e
di ciò che facciamo, per ricordare a noi stessi, anzitutto, e a
tutti, che il vangelo è ancora una buona novella per una vita buona.
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mercoledì
25 dicembre 2013
– Natale
del Signore - Messa dell’aurora -
fr. Giovanni Battista
FMJ
Sulle labbra del nostro papa Francesco abbiamo sentito più volte
l’invito a uscire, ad andare nelle periferie. “Usciamo, - dice -
usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo” (EG 49) Questo
moto di uscita non siamo noi ad inventarlo come se fosse una nostra
iniziativa: altro non è che un invio, una missione che prolunga,
segue la dinamica stessa che Dio ha vissuto nell’incarnazione del
Verbo e che oggi celebriamo. Il nostro Dio è un Dio che esce perché
è un Dio che ama; anzi, è molto più che un Dio che ama: egli stesso
è l’amore, dunque è lui che definisce cosa è amore e cosa non lo è.
Al
di là di ogni possibile contenuto specifico dell’amore una cosa è
sempre presente in ogni manifestazione dell’amore vero. Amare
significa uscire da sé per volgersi verso l’altro; e nel contempo
amare è accogliere l’uscita che l’altro fa da se stesso per volgersi
verso noi. È un moto di uscita e di accoglienza quello che da forma
concreta all’amore, e se manca l’uno o l’altro dei due movimenti
l’amore rimane monco, potremmo dire che rimane offeso non nel senso
di risentito ma nel senso di menomato perché perde quel carattere di
reciprocità che gli da completezza, che lo compie. Non potremmo dire
infatti che l’amore si compie se c’è un rifiuto, una chiusura o
un’opposizione in una delle due parti. Rimarrebbe un movimento ad un
solo senso.
Oggi contempliamo questa uscita di Dio da sé: in questo bambino la
Trinità tocca la terra, esterna quel moto d’amore che dall’eterno
vive per rivelarcelo, per renderci partecipi di sé. Dio esce da sé
per farci entrare in lui. In questa uscita di Dio da sé, pur
rimanendo in sé, noi riceviamo questo invito di Dio ad accogliere il
suo amore, ad entrare in questo incontro inedito, impossibile prima
d’ora secondo questa forma, perché invisibile. Dio ci rivolge la
chiamata all’amore non obbligandoci a salire noi verso di lui, ma
scendendo lui verso di noi. Dio si fa al nostro livello per
chiamarci alla sua amicizia. In Gesù Bambino l’amore vuole essere
amato, l’amore chiede di essere accolto. Di fronte al Divino Bambino
scopriamo il volto di un Dio che vuole essere più accolto che
temuto, più amato che ragionato intellettualmente. In Gesù l’amore
di Dio parla il linguaggio della tenerezza, della misericordia, del
bisogno. È un Dio che vuole aver bisogno, è un Dio che cerca la
compagnia dell’uomo, un Dio che vuole farsi conoscere perché è un
Dio che ci ama. L’amore conosce e si fa conoscere, l’amore non si
chiude e non chiude ma apre e si apre, e il Dio amore vuole
insegnarci ad amarlo in verità, non più come se fosse solo un Dio,
ma amarlo come uomo. Amare Dio è diventato semplice come amare un
bambino.
Una
semplicità che diventa forse per noi la cosa più difficile.
All’aurora di questo nuovo giorno illuminato da un nuovo Sole,
dobbiamo compiere anche noi il nostro cammino, il nostro esodo, come
lo compirono Maria e Giuseppe per andare a Betlemme, come lo
compiranno i magi guidati dalla stella, come lo compiono oggi i
pastori nella notte: Andiamo, dicono i pastori, e vediamo questo
avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Dalla mangiatoia
Gesù attrae tutti a sé: venite e vedrete, sembra già pronunciare.
C’è un esodo che dobbiamo compiere se vogliamo incontrare Gesù
Bambino. Come i pastori dobbiamo andare e vedere. Ma andare dove? Da
nessuna parte, si tratta piuttosto di scendere! “Se Dio si rivela
non come uno che sta in alto e domina l’universo – dice papa
Francesco – ma come Colui che si abbassa, discende sulla terra
piccolo e povero, significa che per essere simili a lui noi non
dobbiamo metterci al di sopra degli altri, ma anzi abbassarci,
metterci al servizio, farci piccoli e poveri con i poveri. Ma è una
cosa brutta – continua il papa – quando si vede un cristiano che non
vuole abbassarsi, che non vuole servire. Un cristiano che si
pavoneggia dappertutto, è brutto: quello non è cristiano, quello è
pagano. (Catechesi 18.12.2013)” Cioè uno che non conosce Dio, non
l’ha incontrato, continua a cercarlo, se lo cerca, laddove Dio non
c’è perché Gesù, il Dio vero, non si è posto tra le cose grandi ma
tra le cose piccole, si è fatto bambino, e dai piccoli si lascia
incontrare e accogliere. Il Natale lo celebriamo in verità, nel
culto ma soprattutto nella vita, se non solo festeggiamo la nascita
di Gesù, ma se andiamo ad incontrarlo laddove si trova e dove ci
aspetta, nella stanza al piano di sotto. Laggiù bisogna scendere se
vogliamo trovarlo. I piccoli, i pastori sono i primi ad udire la
chiamata e i primi ad incontrare il Salvatore perché sono quelli più
capaci di scendere, perché si trovano già in basso. L’invito che i
pastori si rivolgono a vicenda sia la parola che chiama anche noi
oggi: Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il
Signore ci ha fatto conoscere. Il Signore ci aspetta nella stanza al
piano di sotto dove ha trovato posto perché anche noi troviamo posto
accanto a lui.
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martedì
24 dicembre 2013
–
Feria d'Avvento - Messa del mattino -
fr. Giovanni Battista FMJ
Con le parole del cantico di Zaccaria, la
liturgia ci lancia, per così dire, un ultimo appello, ci rivolge
un’ultima chiamata di questo tempo di avvento, per entrare con tutto
noi stessi nel nuovo giorno che si profila all’orizzonte, il giorno
illuminato dal Sole che sorge dall’alto. Lo fa, appunto, con le
parole di Zaccaria, le sue prime parole dopo mesi di mutismo. Sono
parole di benedizione, di lode, che esaltano la grandezza di Dio che
è un Dio fedele alle promesse, è un Dio che si ricorda, ed è un Dio
dei piccoli, un Dio che si rivolge a chi è umile, un Dio che libera
dai nemici. E qual era il nemico di Zaccaria, quel nemico che
l’aveva reso muto? Era l’incredulità. Le parole che Zaccaria ora
canta, colmo dello Spirito Santo sono parole cariche di dolcezza, di
gratitudine, di fiducia, egli canta davvero commosso per quanto Dio
stava compiendo, ma se ci pensiamo bene, Zaccaria prima non parlava
così, anzi, proprio per la sua incredulità alla parola dell’angelo
era stato reso muto. Ecco Zaccaria, gli disse l’angelo, “sarai muto
e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno,
perché non hai creduto alle mie parole.”
Questi mesi di mutismo forse potremmo
interpretarli semplicemente come un castigo, una punizione perché
non si era fidato, perché Zaccaria aveva messo in discussione le
parole dell’angelo. E così in effetti un po’ traspare dal testo
dell’annuncio della nascita di Giovanni Battista. Ma più in
profondità possiamo chiederci: che effetto ha avuto sull’esperienza,
sulla vita interiore di Zaccaria, il fatto di non poter parlare
proprio nei giorni in cui il Signore stava realizzando le sue
promesse? Ecco, Zaccaria, è messo di fronte all’opera di Dio senza
poter intervenire, senza poter proferire parola, commentare,
potremmo anche dire, coprire con le sue opinioni, i suoi progetti,
con le sue parole, la parola, l’opera di Dio che si stava compiendo.
Il silenzio di Zaccaria, anche se forzato, subìto, diventa quel
silenzio che lo rende un uomo capace di accogliere il dono di Dio.
Forse Zaccaria doveva fare quel cammino che Giuseppe, il custode
della sacra famiglia, aveva già compiuto: imparare ad accogliere il
dono di Dio e non mettere la mano sopra il dono di Dio. Nel
crogiuolo di questo mutismo Zaccaria vive il suo Avvento, compie il
suo esodo attraverso il deserto di un silenzio che gli impedisce di
mettere la mano su quel dono che da una vita attendeva, perché
scopre che già la mano del Signore era su di lui.
In questo cantico che proferisce estasiato,
troviamo il frutto di tutto questo cammino che Zaccaria ha percorso,
tutto il tempo di Avvento che anche lui ha dovuto vivere e che oggi
giunge al suo culmine, un tempo che ha plasmato in lui un cuore
capace di accoglienza, uno sguardo di fede capace di guardare oltre
il dono, non solo per cogliere il Donatore, ma anche per scoprire la
vera identità del dono, Giovanni Battista, non semplicemente dunque,
il suo bambino, ma il profeta dell’Altissimo, il figlio
consacrato fin dal seno di sua madre per appartenere al Signore.
Questo è stato l’avvento di Zaccaria, questo è
stato l’esodo di Zaccaria, potremmo dire, quell’esodo che l’ha reso
profeta e padre di profeta, e il suo vivere la paternità terrestre
come prolungamento della paternità di Colui che glielo pone fra le
braccia. Zaccaria ora sa trascendere la propria storia personale e
familiare per collocarla all’interno della storia della salvezza, un
piccolo ma importante anello di quella benedizione che da Abramo,
passando di lì, in Cristo andrà ancora più lontano.
Il canto di Zaccaria, meta del suo avvento,
vogliamo oggi farlo nostro come meta anche del nostro avvento, una
meta verso cui forse dobbiamo tendere ancora. In questo compimento
ci apriamo al nuovo inizio, al tramonto di un’epoca antica, quella
dei profeti, entriamo nel nuovo giorno, quello illuminato dal Sole
che sorge. Come Zaccaria vogliamo volgerci ad Oriente e di là, e non
da altrove, attendere la visita del Signore, quella visita che è
descritta come luce che risplende su quelli che stanno nelle tenebre
e guida tutti alla vera pace.
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venerdì
20 dicembre 2013
–
III settimana Avvento -
Commento ora media – Is 7, 10-14 -
fr. Giovanni Battista
FMJ
Il testo che abbiamo ascoltato, tratto da quella
parte del capitolo settimo del profeta Isaia detta Libro dell’Emmanuele,
è sicuramente uno dei testi più importanti che la tradizione
cristiana primitiva identificherà come profezia della nascita del
Salvatore, ed è per questo che la liturgia ce lo propone oggi, feria
di Avvento, abbinato con il vangelo dell’annunciazione del Signore.
La
tradizione della Chiesa, a partire dall’utilizzo che san Matteo fa
di questo testo al primo capitolo del suo vangelo, ha colto in
questo oracolo una valenza sia cristologica, sia mariana. Cioè
riconoscerà, alla luce degli eventi della vita di Gesù, che questa
profezia, che nel contesto storico dell’ottavo secolo avanti Cristo
annunciava la nascita del re Ezechia, portava in sé un significato
ulteriore. La parola del Signore annunciata dal profeta Isaia al re
Acaz non aveva esaurito la sua efficacia una volta dato alla luce il
figlio del re, ma era una parola che aveva ancora qualcosa da dire,
o meglio da compiere, un annuncio che continuava a brillare come
stella che indica una via futura, un evento futuro che troverà
compimento nella nascita del Salvatore, come si legge nel primo
vangelo: “Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era
stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco la vergine
concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di
Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23).
Forse
oggi non ci stupiamo più tanto nello scoprire questo ponte, questa
continuità tra i due testamenti che trova particolare evidenza nelle
profezie cristologiche, ma nei primi secoli era molto importante
mettere in luce questo filo rosso tra le Scritture ebraiche e il
Cristo, sia per ragioni apologetiche nei confronti della comunità
giudaica di allora, sia, nei confronti dei convertiti, per ragioni
di ordine catechetico, “per mostrare loro che gli eventi della vita
di Gesù entravano nel disegno divino già annunziato dalle Scritture”
(cfr. Ravasi, i vangeli del Dio con noi, ed. Paoline, pag 29).
Addirittura, per il grande filosofo e credente francese Blaise
Pascale, “la prova più grande di Gesù Cristo sono le profezie”
(Pensieri n° 526). Anche noi vogliamo allora leggere questo brano
non semplicemente da punto di vista storico, ma soprattutto con la
nuova intelligenza che ci viene dalla vita di Gesù.
Isaia
prima che parlare di una nascita annuncia un segno, un evento che
rimanda a qualcos’altro, che vuole far capire qualcosa. È un segno
che viene da Dio, è sua iniziativa nonostante la reticenza di Acaz
che non voleva chiederlo forse per timore di compromettersi troppo
con Dio o forse per paura di rimanere deluso qualora Dio non avesse
risposto alla sua richiesta. Il segno è annunciato dunque come
iniziativa, volontà di Dio stesso, ed è duplice: il concepimento e
la nascita del Dio con noi. La vergine concepirà e partorirà un
bambino che si chiamerà Emmanuele, Dio con noi. Dio manifesta il suo
intervento nella storia di Acaz, re di Giuda, spaventato dalle
minacce belliche di Israele e Damasco, con la debolezza di una
vergine e di una nuova nascita. Questo era il segno della presenza
salvifica di Dio in quella vicenda, prefigurazione, abbiamo detto,
della nascita di Gesù.
Dio
entra nella vita dell’uomo singolo, ma anche nella storia dei
popoli, conservando il suo carattere di Dio umile, di un Dio che si
fa debole perché non vuole imporsi all’uomo ma chiede di essere
accolto. È questo lo stile di Dio, è questo lo stile di chi è
veramente potente, è l’onnipotente. È questo lo stile di chi vuole
amare ed essere amato. Accogliere chi è debole obbliga a farsi
deboli, a disarmarsi e a saper accogliere ed accettare la debolezza
dell’altro. Scegliendo questa via per venire nel mondo, la via del
farsi bambino, Cristo non solo ha assunto la natura umana, ma ne ha
consacrato, in certo modo, i suoi tratti più teneri, più umili, più
deboli. Accogliere questo bambino diventa per noi, allora, scuola di
amore, un esercizio che nasce dalle cose più piccole, banali e
scontate della nostra vita, ma che per un bambino non sono scontate.
Il
Signore ci doni un cuore tenero, un cuore buono, un cuore che sia
capace di accogliere i piccoli, perché il Signore vuole essere
accolto così
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giovedì 19 dicembre 2013
- III settimana Avvento -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Nel Magnificat Maria, quando esultava stupita per
le meraviglie che il Signore stava compiendo in lei, esclamo: “il
Signore ha guardato l’umiltà della sua serva”. Il Signore guarda
Maria, e anche noi guardiamo particolarmente a lei, in questo giorni
di Avvento, la Vergine dell’attesa. Ma man
mano che ci avviciniamo al gran giorno del Natale, man
mano ci avviciniamo al giorno della Luce verso
cui convergono e lo sguardo di Dio e quello degli uomini, la
liturgia ci offre dei testi splendidi che ci testimoniano come
questo sguardo del Signore non era rivolto solo a Maria, ma anche a
tutti coloro che attendevano con fede la venuta del Messia.
Oggi ci è proposta la vicenda di due anziani,
Zaccaria ed Elisabetta: anche a loro il Signore rivolge il suo
sguardo, rivolge il suo ricordo, la sua memoria. Zaccaria significa
proprio il Signore ricorda. La loro tarda età era segno di una vita
trascorsa nella speranza, nella fedeltà al Signore e nell’obbedienza
operosa a tutte le sue leggi. Ma una vita anche segnata dalla
sterilità di Elisabetta: Elisabetta non poteva avere bambini; il
sogno della sua vita era la sua vergogna, così la chiama lei; e in
più Elisabetta era anziana.
Due buone motivazioni, umanamente parlando, per
lasciarsi andare alla rassegnazione: ormai siamo alla fine, quel che
fatto è fatto. Ma per Dio non si può dire: quel che è fatto è fatto,
perché Dio può fare sempre cose nuove, può iniziare sempre daccapo;
se non ce la facciamo noi, lui può sempre ripartire, anche quando è
umanamente impossibile. Lo sguardo di Dio su di noi non solo è
sempre nuovo, perché se il Signore ricorda, è vero anche che il
Signore dimentica i nostri errori, ci rinnova, ci da sempre una
nuova possibilità, non ci abbandona alle nostre sterilità, ma Dio è
capace in un attimo di far partire dal nulla una storia nuova, come
accade nella vicenda di oggi, un nuovo inizio che parte da due
vecchietti, una tale novità che Luca decide di collocarla all’inizio
del suo vangelo, è la prima scena.
Ora, nel testo, ci sono due indicazioni su cui ci
possiamo soffermare e anche in cui ci possiamo ritrovare perché
anche noi ci troviamo un po’ in questa situazione. Sono due
indicazioni, se vogliamo, marginali, di spazio e di tempo, ma che
possono dirci qualcosa: una riguarda i due coniugi e l’angelo, e
l’altra riguarda il popolo.
A più riprese si precisa, la posizione rispetto a
Dio di Zaccaria ed Elisabetta, i destinatari della chiamata. Ecco,
il testo a più riprese dice che tutti costoro erano, o stavano
davanti a Dio, dinanzi a Dio. I coniugi erano giusti davanti a Dio,
Zaccaria esercitava il suo sacerdozio davanti al Signore. Abbiamo
qui, lo capiamo bene, più che una collocazione spaziale, abbiamo
soprattutto una indicazione esistenziale. Costoro avevano posto la
loro vita davanti al Signore, alla sua presenza, nelle sue mani, ed
è il primo dei due atteggiamenti che possiamo fare nostro, sempre,
in ogni tempo, ma soprattutto in questi giorni in cui la nascita del
Salvatore è davanti a noi. Se vogliamo portare frutto nella nostra
vita, se vogliamo essere fecondi, dobbiamo metterci davanti al
Signore, non lontani, ma davanti al Signore, in ogni cosa che
facciamo. Il frutto che daremo avrà le stesse caratteristiche,
porterà l'impronta, del nostro stato di vita: chi semina nella carne
raccoglierà corruzione, che semina nello Spirito, dallo Spirito
raccoglierà vita eterna. E infatti, per Zaccaria ed Elisabetta che
caratteristica avrà il loro frutto? il loro Giovanni Battista? Anche
di lui si dirà: sarà grande davanti al Signore. Abbiamo un posto
davanti al Signore che dobbiamo occupare, non può rimanere vuoto, e
se noi lo occupiamo il Signore ci troverà al suo arrivo come ha
trovato Zaccaria ed Elisabetta.
La seconda caratteristica, quella di tipo
temporale, abbiamo detto, viene dal popolo: una volta che Zaccaria è
entrato nel tempio per compiere il suo culto, il testo ci da due
indicazioni circa il popolo, che possiamo considerare complementari:
il popolo era in preghiera e il popolo era in attesa. Attesa e
preghiera descrivono la qualità dell’assemblea che si riunisce
davanti al Signore: attende e prega, veglia pregando. Ritroviamo lo
stesso invito dell’inizio dell’avvento: vegliate pregando. Anche qui
in quella che potremmo considerare solo come una precisazione di
tipo cronologico, possiamo cogliere una valore più profondo.
L’attesa è desiderio di un compimento, un desiderio che nasce se c’è
il riconoscimento di una necessità: abbiamo bisogno di un
compimento; da soli non ce la facciamo, sentiamo il peso del nostro
limite. La preghiera è consapevolezza che questo compimento non ce
lo possiamo dare da soli, non viene da me ma devo chiederlo ad un
Altro. Il tutto sostanzia lo stare davanti al Signore che abbiamo
visto prima, senza fughe in avanti, ne indietro, ne in basso, ne in
alto, né dentro di sé né fuori di sé, ma solo rimanere davanti al Signore
e rimanere aperti, pronti ad accogliere il Salvatore delle genti,
cioè colui che salva me, te, noi, e tutti coloro che si lasciano
salvare.
Infine un'ultima
considerazione sul contenuto di questo compimento, una
considerazione che possiamo fare tornando a guardare Zaccaria ed
Elisabetta. I due anziani si trovano coinvolti, senza aspettarselo,
in un piano più grande, in un progetto di Dio per tutta l'umanità:
siamo nella pienezza dei tempi e l'opera, il desiderio di Dio giunge
al suo compimento nell'incarnazione del Verbo Incarnato annunziato
dal Battista. Ora, la pienezza dei tempi, non realizzerà, non
compirà solo questo desiderio di Dio, ma anche il desiderio
personale dei due coniugi, quello di avere un figlio, troverà un
inaspettato compimento in questo progetto più grande che li supera.
I due desideri, di Dio e dell'uomo, si toccano, si incrociano. Solo
Dio sa fare questo, solo Dio sa realizzare la sua storia, la sua
opera senza svilire quella dell'uomo, ma al contrario esaltando e
portando a compimento quanto di buono egli portava nel cuore. Così
il suo desiderio diventa il nostro e il nostro il suo.
È questo che allora possiamo fare in questi
giorni di attesa e di preghiera davanti al Signore: mettere il
nostro desiderio, tutto quanto portiamo nel cuore, nel cuore del
Signore e prepararsi ad accogliere Gesù, Colui che compendia e porta
a compimento tutto ciò che di buono desideriamo.
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martedì
17 Dicembre 2013
- III settimana
avvento - fr.
Giovanni Battista FMJ
Il
vangelo di oggi è un testo che potrebbe sembrare a molti alquanto
noioso, sia perché è un testo ripetitivo per l’elenco di nomi che
contiene, sia anche perché potrebbe sembrare un po’ inutile. Che
cosa ci serve sapere quali erano gli ascendenti di Gesù se sappiamo
già che lui è il Figlio di Dio? Che cosa ci importa di risalire
all’indietro in linea orizzontale quando sappiamo che il mistero di
Dio, la linea verticale, è presente in lui in modo pieno ed
insuperabile. E invece il testo della genealogia non è privo di
valore, ha un significato sia biblico, sia teologico, sia
spirituale.
Il
significato biblico lo capiamo se ci chiediamo a chi l’evangelista
indirizzava in primo luogo il suo scritto: Matteo scrive agli ebrei
del suo tempo, un popolo che non era unificato principalmente per
ragioni etniche, ma soprattutto per ragioni di fede: Dio aveva fatto
alleanza con il popolo d’Israele, un’alleanza che partiva da Abramo
per portare la sua benedizione ad una moltitudine numerosa come le
stelle del cielo. Ma Dio aveva fatto alleanza anche con Davide con
parole assolutamente irrevocabili: “La tua casa e il tuo regno
saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso
stabile per sempre” (2 Sam 7,16). Se ci pensiamo bene queste parole
erano parole pesanti, parole che non potevano tramontare nonostante
fosse di fatto tramontata la monarchia. Per cui presso i giudei era
rimasta viva questa attesa di un re, un’attesa che era diventata
attesa messianica, cioè che non guardava solamente al passato ma si
apriva al futuro: Dio doveva mantenere le sue promesse! Per Matteo è
dunque importante, necessario per la fede dei Giudei, mettere in
luce, dimostrare a loro che questo Messia che attendevano era venuto
davvero, ed era Gesù. Che il Cristo non era solo il figlio di
Giuseppe, lo sposo di Maria, ma soprattutto era il figlio di Davide,
il figlio di Abramo, cioè era il compimento e della benedizione e
del regno.
Una
seconda riflessione che possiamo fare a partire da questa genealogia
di Gesù, abbiamo detto, è di tipo teologico ma anche un po’
spirituale. C’è una storia della salvezza che si compie in Cristo
nella logica della profezia-compimento della profezia, ed è quello
che cerca, abbiamo visto, di mettere in luce Matteo, non solo qui ma
anche altrove. Ma prima di arrivare a parlare di storia della
salvezza, proviamo a fermarci alla storia. Dio entra nella storia,
Dio si rivela, incontra l’uomo non portando fuori l’uomo dalla
storia ma entrando lui nella sua storia: e questo è davvero
straordinario, è davvero divino! È il Dio che si fa incontro
all’uomo sul terreno dell’uomo. Dio consacra così la storia, rende
la storia dell’uomo la dimora dell’incontro con lui. Quanto ci fa
bene ricordarci di questo! Quanto ci fa bene pensare che con la
storia ha già luogo, seppur in minima parte, quell’incontro che è
rivelazione del Dio invisibile, che si realizzerà pienamente nel
mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio. In questo primo giorno
delle ferie di Avvento, in questo primo giorno in cui la nostra
attesa si fa più vicina al Natale del Signore, la liturgia ci invita
a questo ritorno al reale, a questo ritorno alla storia.
Qualche volta preferiremmo andare, e forse ci andiamo davvero, a
cercare il Signore fuori dalla storia, fuori dalla nostra storia,
lontano dagli altri e magari anche da noi stessi, in un mondo divino
da noi pensato, e siccome poi non ce la facciamo, cioè lì, in questo
bel mondo di ideali e di perfezioni platoniche il Signore non c’è,
torniamo nel nostro quotidiano, nella nostra profanità, con un pugno
di mosche in mano. Ah se mia moglie fosse così, ah se i miei
fratelli fossero cosà, ah se il mondo fosse migliore, ah se la
Chiesa fosse come dico io ecc. è bello sognare, ma a un certo punto
bisogna chiedersi: bene, la realtà è così, io stesso sono così e non
sono come sognerei: come e dove cercare e attendere il Signore in
queste condizioni, in questa storia e non nella storia che vorrei ma
che non c’è? La genealogia di oggi ci vieta ogni fuga dal reale, è
come se ci dicesse: vuoi attendere il Signore, attendilo insieme a
tutti coloro che l’hanno atteso, (tra l’altro non tutta gente casa e
chiesa) insieme a tutti coloro che hanno preparato la sua venuta,
che hanno scritto la storia di questa attesa, cercalo dove sei,
cercalo come sei, e allora lo troverai veramente, cioè troverai il
Dio vero, non quello che ti sei inventato tu. (Molti, al tempo di
Gesù, forse non lo riconobbero proprio per aver anteposto la propria
idea di Messia alla realtà del Messia che si rendeva loro presente
in Cristo.) Se vivremo così questi giorni santi pre-natalizi forse
riusciremo a vivere quello che Papa Francesco ci augura per questo
santo Natale: “se Lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia,
almeno lasciamo, noi, che Lui ci scriva la nostra storia. … Che il
Signore ti scriva la storia e che tu lasci che Lui te la scriva.”
(Omelia di oggi a Casa S. Marta)
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Domenica 15 dicembre 2013
- III dom. di Avvento - fr.
Massimo-Maria FMJ
Isaia con tono di grande gioia e speranza aveva annunciato, come
altri profeti, la venuta del liberatore, del Messia, di colui che
Israele attendeva con trepidazione. Lo aveva fatto in più riprese ed
in diversi testi. Un esempio particolarmente bello e poetico è
quello che la liturgia ci offre oggi.
Una profezia carica di gioia, ricca di speranza, colma di
intensa consolazione.
Il deserto, simbolo di solitudine, di aridità, di mancanza di
vita è invitato a rallegrarsi, perché la venuta del liberatore
cambierà anche la sua sorte, mutandolo in luogo glorioso e florido
quanto il Libano e il Saron.
Ma soprattutto per l'uomo malato, stanco, oppresso e sfinito
sotto il peso della sua fragilità, è riservata la più significativa
e consolante promessa: liberazione, riscatto, guarigione,
resurrezione.
Queste promesse avevano guidato il cammino faticoso di Israele,
avevano sostenuto le sue fatiche e le sue prove ed abitavano
profondamente ogni cuore.
Se ci accostiamo ora alla pagina evangelica, avendo sullo
sfondo questo meraviglioso panorama, senza dubbio ne possiamo
comprendere meglio il senso.
Giovanni il Battista era stato arrestato e messo in carcere
da Erode. Trovandosi lì, resta in questa attesa, continua ad
incarnare tutta l'attesa messianica dell'antico testamento, avendo
nel cuore le promesse di Dio anche quelle da noi oggi ascoltate nel
testo di Isaia.
Ma, probabilmente anche in lui, sorge qualche incertezza.
Il Messia che si attendeva era qualcuno di forte, potente, che
avrebbe magari sovvertito il potere romano che opprimeva Israele, si
sarebbe imposto con la forza del braccio potente di Dio, ed avrebbe
fatto prodezze e certamente stupito con prodigi. Ma Gesù, Colui che
lo stesso Battista aveva indicato come l'agnello di Dio era senza
dubbio in tono molto più dimesso rispetto alle attese. Diceva Beati
i poveri, i miti, i pacifici, i misericordiosi. Si era definito mite
di cuore e agiva sempre con uno stile di grande mansuetudine ed
umiltà. Non stava costituendo nessun esercito o organizzazione
pronta ad agire al momento opportuno.
Ecco allora che la domanda del Battista esprime forse un certo
disorientamento presente in tanti – e sappiamo che questa incertezza
resterà anche dopo persino nei discepoli.
“ Sei tu o dobbiamo attenderne un altro?”
Per capire meglio proviamo a pensare quando nel Vangelo di Luca
Gesù moltiplica i pani, le folle letteralmente pendono dalle sue
labbra – si dice in Matteo – vogliono farlo re, e lui obbliga i
discepoli a salire sulla barca a precederlo nell'altra riva, e lui
si ritira solo sulla montagna in preghiera con il Padre. I
discepoli, e forse soprattutto Giuda devono aver pensato: “ Ma cosa
sta facendo questo maestro, questo messia. Una occasione d'oro
buttata via, sprecata. Quando gli capiterà di avere così in mano le
folle. Sarebbe sta quella una occasione felicissima per agire, per
instaurare il regno messianico.
Ecco questa domanda del Battista esprime un po' uno sconcerto
del genere. Ma sei tu o ci stiamo sbagliando? Qualcosa infatti pare
non tornare!
A questa domanda Gesù risponde inviando a raccontare a
Giovanni ciò che tutti vedono: storpi guariti, ciechi che ritrovano
la vista, sordi odono, la Buona novella è proclamata. I segni del
Messia che Isaia aveva preannunciato ci sono tutti. Ma aggiunge: “
E' beato colui che non trova in me motivo di scandalo.”
Perché?
Certo: i segni ci sono tutti! Il Messia è lui! Ma, lo stile
disarma e non poco. Come farà ad instaurare il Regno, a portare
libertà, riscattare gli schiavi e a rendere giustizia agli oppressi?
“
Sei tu o dobbiamo attenderne un altro?”
Fratelli e sorelle, in questa domenica che ci avvicina ancor più
al Natale, domenica della gioia, perché la liturgia nella Parola del
Signore e nei suoi testi ci fa pregustare la dolce gioia natalizia,
questa domanda del Battista occorre farla risuonare fortemente nel
cuore. Gesù che viene è il salvatore, Gesù che viene è il
liberatore, il redentore, il re, il re dell'universo.......ma nella
vita forse anche personale e certo dell'umanità il suo stile
talvolta ci disarma, la sua logica che brilla nel Vangelo e che
chiede divenga sempre più la nostra, talvolta ci fa sorgere delle
perplessità.
Gesù oggi come al Battista anche a noi ci chiede di aprire gli
occhi e rallegrarci. Se ancora tutta la potenza dell'amore di Dio
non splende nel mondo, se ancora tutti i frutti del suo Natale non
sono giunti a maturazione, se ancora il Vangelo non è l'unica grande
passione della nostra vita, se ancora il Regno di pace giustizia e
fraternità non è instaurato – sappiamo che lo sarà nella pienezza
solo al di là di questo mondo, oltre la storia, tuttavia già tanti
segni sono visibili e su questi bisogna aprire gli occhi. Tanti
cuori che parevano induriti si sono aperti, tanti occhi che parevano
ciechi si sono illuminati, tanti sordi e chiusi a Dio e agli altri
si sono sorprendentemente aperti.
E
più vicino a noi, tante zone della nostra vita che parevano bloccate
si sono liberate, tante tristezze fugate, tane durezze sciolte,
tante oscurità vinte, tanti perdoni offerti e ricevuti.
Davvero allora non possiamo non accogliere l'invito del Signore
a rallegrarci perché Gesù è davvero il Salvatore, il liberatore, il
Signore; e se è pur vero che tra i nati donna nessuno è più grande
del Battista è anche vero che ognuno di noi, per grazia non per
merito, figlio del Regno, è più grande di lui.
Amen
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venerdì
13 Dicembre 2013
– II settimana Avvento – S. Lucia
-
fr. Giovanni Battista FMJ
Gesù nel vangelo di oggi fa una considerazione
sulla generazione del suo tempo, una considerazione che rivela
l’atteggiamento di alcuni suoi contemporanei nei suoi confronti, e
non solo verso di lui ma anche nei confronti di Giovanni Battista,
in generale nei confronti del mistero di Dio che si sta rivelando in
Cristo. Gesù, di fronte a questa generazione, non denuncia un
peccato in particolare, non dice: siete troppo peccatori per
riuscire a capirmi, siete gente che non osserva la Legge ed è per
questo che mi svalutate. Il problema non è anzitutto, in prima
battuta, un problema morale, potrà esserlo eventualmente in un
secondo momento, ma in prima battuta il problema potremmo
individuarlo nell’indifferenza di queste persone. Sono persone
indifferenti, impermeabili ai segnali che Dio manda loro, persino a
Dio stesso che viene a loro in Gesù. Sono bambini che non si
lasciano coinvolgere, non stanno al gioco di Dio, e da questa
prospettiva di neutralità, valutano, o meglio svalutano, tutto ciò
con cui Dio cerca di entrare in relazione con loro: né la via della
penitenza proposta dal Battista né la vicinanza affettuosa di Gesù,
che sono i due poli in cui si gioca il cammino di conversione,
rappresentano per loro uno stimolo ad aprirsi. Non accolgono né il
lutto né la festa: con il Signore non vogliono né ridere né
piangere. Ma Gesù conclude, o meglio commenta, questa metafora che
ci dà con una parola tanto vera quanto severa: “La sapienza è stata
riconosciuta giusta per le opere che essa compie.” Cioè il valore
della rivelazione che in Cristo si compie, il valore delle opere che
Gesù compie, “il peso specifico”, potremmo dire, della Verità, va
aldilà del fatto che l’uomo lo riconosca, lo apprezzi, lo lodi.
Siccome questa è Parola di Dio che Gesù non dice
solo per il suo tempo, ma la dice anche per noi, e per il nostro
tempo, possiamo fare qualche considerazione. La prima riguarda
questa impermeabilità alla presenza di Dio, chiusura che anche oggi
non è assente nel nostro mondo: quanta gente è indifferente alle
questioni religiose in generale e a Cristo in particolare! Quanta
gente non si pone più domande o si dà risposte parziali, per non
dire del tutto sbagliate, come quelle che davano ai tempi di Gesù, a
quella sete di verità che sorge nel cuore dell’uomo e che solo il
Signore può soddisfare. Sono i frutti dell’indifferenza, ossia di
quel modo di accostarsi al mistero di Dio conservando la propria
neutralità, la propria indipendenza. Oggi l’uomo maturo, secondo il
modello in voga, è l’uomo che non ha bisogno di nessuno, che basta a
se stesso. Oggigiorno l’indifferenza è diventato il modo di essere
più ambito per dare una parvenza di stabilità e serenità alle
proprie inquietudini. Il problema è che l’indifferenza, che talvolta
è come l’atmosfera che avvolge non solo i nostri pensieri, ma
persino le nostre relazioni umane, l’indifferenza è una malattia che
se arriva al cuore dell’uomo rischia di addormentarlo e renderlo
freddo, un cuore che non vibra più di carità.
Anche noi cristiani, purtroppo, non siamo immuni
da questo pericolo, anzi, per noi oltre a questa fonte “culturale”
di indifferenza, se ne aggiunge anche un’altra, soprattutto per i
più praticanti, che è l’abitudine. Siamo così abituati alle pratiche
cristiane, che rischiamo viverle senza una fede che ci coinvolga
davvero, senza coglierne più il senso. Tutto rischia diventare un
dejà vu: il tempo di Avvento, il Natale, la parola del Signore, la
propria vocazione, la propria comunità, la propria famiglia, non ci
stupisce più nulla, tutto si risolve in quella normalità che non ci
fa più vedere lo Straordinario che contiene. Il Signore ci ha dato
un cuore di carne, e va a finire che pian piano lo facciamo tornare
come un cuore di pietra, un cuore che non sente più niente, non si
stupisce più, non vibra più. Abbiamo bisogno anche noi, talvolta, di
qualche massaggio cardiaco che ci rianimi un po’, faccia ripartire
il nostro cuore, lo aiuti a battere.
Due cose, se ci pensiamo bene, ci riattivano la
circolazione, ridestano la nostra attenzione sulla presenza di Gesù
nella nostra vita, e sono due esperienze che abbiamo fatto tutti,
credo, due esperienze che, come dire, ci aprono gli occhi, ci
svegliano un po’ dal sonno, per recuperare una parola di san Paolo
che ha orientato i primi passi dell’Avvento, e sono l’esperienza
della prova e l’esperienza della gioia. Noi preferiremmo
la seconda, ma anche la prima spesso è necessaria. Nella prova siamo
obbligati a venire allo scoperto, la neutralità e l’indifferenza non
ci proteggono più come prima, anzi diventano quella campana di vetro
in cui soffochiamo se non ne veniamo fuori; nella prova vengono
purificate come nel fuoco quelle convinzioni che ci custodivano
nella nostra serena indifferenza, per vedere se erano vere, se
avevano valore, se corrispondevano alla realtà delle cose o se erano
solo anestetizzanti per la coscienza; nella prova viene fuori quello
che abbiamo nel cuore come avvenne per Israele in cammino nel
deserto; nella prova di conseguenza cerchiamo il Signore,
riconosciamo che abbiamo bisogno di questo incontro se non vogliamo
venire meno. Scriveva il cardinal Martini: “Affrontare la prova in
un certo periodo è l’unica garanzia di serenità nell’esistenza. Non
è il rimuoverla, bensì il viverla che rende singolare la gioia del
cristiano”.
Ma, dicevamo,
che anche la gioia ci rivitalizza, perché la gioia non solo ci
consola, non è solo una carezza del Signore, ma ci conferma, ci
fortifica, ci fa sperimentare che il Signore è per noi e non contro
di noi. Quella gioia di vivere con l’intima consolazione che Gesù,
l’amico dei peccatori, ci vuole bene così come siamo e spinge anche
noi stessi a volerci bene così come siamo, e se ci invita a
diventare più santi è proprio perché ci vuole bene. La gioia ci
rende attenti, ci apre alla vita che scorre attorno a noi e ci aiuta
a vedere che ogni evento e ogni persona possono diventare una
benedizione per me, perché la gioia ci fa amare la vita e ce ne
rende pienamente partecipi.
Nei due richiami, quello austero di Giovanni
Battista e quello esultante del Signore Gesù, ritroviamo queste due
dimensioni di prova e di gioia che possono rendere il nostro cuore
più morbido, più sensibile e dunque più vigile. L’attesa
dell’avvento è proprio questa attesa vigilante, questa attesa non
indifferente ma con le lampade accese, perché il tempo è vicino.
Chiediamo allora al Signore per intercessione di santa Lucia, come
abbiamo pregato nella colletta, che riempia di gioia il nostro
cammino e di luce le nostre prove.
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martedì
10 Dicembre 2013
– II settimana Avvento
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il brano evangelico di stasera è un testo che ci
fa capire un po’ di più il tempo liturgico dell’Avvento, che è un
tempo che ci prepara ad un incontro, perché tutto in noi e fuori di
noi sia preparato, pronto, sistemato in vista di questo incontro col
Signore che viene. C’è una via da preparare nel deserto, abbiamo
ascoltato dal profeta Isaia, e tutto ciò che ostacola, intralcia
questa via, questa strada che il Signore percorre per giungere fino
a noi, va rimosso.
Ora, del vangelo di oggi che, essendo una
parabola, comunica con noi attraverso delle immagini, possiamo
mettere in luce alcuni aspetti particolari che aiutano la nostra
riflessione.
Un primo aspetto è la situazione di distanza, di
separazione, che viene a crearsi tra il gregge delle novantanove
pecore e la pecora che si perde, una separazione che è provocata
appunto da uno smarrimento. La pecora si perde, la pecora non
sa più qual è la strada giusta da percorrere e inizia un cammino un
po’ a naso, secondo quello che capisce, secondo la sua capacità di
orientarsi nel mondo, secondo i suoi gusti. Il suo cammino, da
sequela del pastore all’interno di un gregge si trasforma in un
vagare, un errare autoreferenziale dalla meta incerta e dalla
compagnìa non ben definita o fortuita. Da un momento all’altro la
pecora si ritrova ad essere una pecora senza pastore e
senza gregge. L’essere senza pastore e l’essere senza
gregge sono dunque le due caratteristiche che mettono la pecora
perduta in uno stato di smarrimento, senza bussola e senza
riferimenti. L’essere ritrovati dal pastore e l’essere
reinseriti all’interno del gregge permettono invece alla pecora
di riprendere il cammino verso il pascolo. La parabola finisce bene,
ma al di là, o meglio, prima di arrivare a questo lieto fino
potremmo chiederci: come mai la pecora si smarrisce?
Le cause, uscendo dalla metafora della parabola,
potrebbero essere tantissime e non tutte necessariamente
attribuibili solamente alla pecora smarrita. Ci possiamo limitare a
tre considerazioni, una relativa alla pecora smarrita, un’altra che
riguarda le altre pecore del gregge; infine, a queste due, potremmo
aggiungerne una terza, riferita non al pastore divino ma ai pastori
umani, cioè a tutti coloro che in famiglia, in comunità, nella
Chiesa, svolgono un ruolo di guida, di responsabilità, incarnano un
po’ la figura del pastore.
La prima considerazione la possiamo cogliere
dalla parola di Dio, più precisamente dal vangelo secondo Giovanni:
“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore
conoscono me…ascolteranno le mia voce e diventeranno un solo gregge,
un solo pastore.” (Gv 10, 14.16) Quando smettiamo o trascuriamo di
ascoltare la voce del pastore, ci esponiamo seriamente allo
smarrimento; quando il nostro cuore e la nostra coscienza non
dialogano più con Gesù, trascurano questa relazione fondamentale,
pian piano, come si suol dire, prendiamo la tangente, cioè la prima
cosa che viene a contatto con la nostra vita, magari cose anche
buone ma che non sono la voce del pastore, che non sono la nostra
chiamata, ci attrae e ci distrae, ci porta fuori, un pochino sempre
più lontano. Questo perché è provato che chi non ascolta il vero
pastore, poi si trova ad ascoltare e seguire altre voci estranee,
voci fasulle, e cerca gratificazioni in altro. Come è provato che il
contrario della fede non è la non fede ma l’idolatria.
La seconda considerazione, dicevamo, riguarda le
altre pecore del gregge: il Catechismo, citando la Gaudium et spes,
dice: “Alla genesi e alla diffusione dell’ateismo – che è una forma
di smarrimento – possono contribuire non poco i credenti, in quanto
per aver trascurato di educare la propria fede, o per una
presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della
propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che
nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della
religione” (CCC 2125) La nostra vita cristiana può nascondere o può
rivelare il volto del pastore. Possiamo essere un aiuto alla fede e
alla perseveranza degli altri come possiamo essere un ostacolo se
non uno scandalo. Nessuno può dire: io seguo il Maestro e del
cammino degli altri non mi interessa. Questo perché nessuno, nella
Chiesa vive per se stesso ma siamo tutti corresponsabili gli uni
degli altri e se c’è una pecora che lascia il gregge, che si
smarrisce, è qualcosa che forse riguarda tutti, che interroga tutti;
forse è un invito alla conversione non solo per chi si smarrisce, ma
anche per tutta la comunità.
Infine, la terza considerazione, quella relativa
a tutti coloro che in famiglia, in comunità, nella Chiesa, svolgono
un ruolo di guida, di responsabilità, la possiamo attingere dalla
prima lettura: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza … come un
pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri.”
In questa metafora bellissima ci viene offerto un modello, una
metafora che racchiude il senso e il modo di come il pastore ci
guida: il pastore ci guida non solo indicandoci il cammino e dandoci
una morale, ma il Signore ci guida accompagnandoci, facendo sentire
il suo affetto e la sua presenza nella nostra vita, il suo calore.
In poche parole, coltivando una relazione particolare con ciascuno:
a tutto il gregge dà da mangiare, lo porta al pascolo, ma in modo
diverso, in modo personale con ciascuno: il Signore si adatta a
ciascuno di noi: gli agnellini, li porta sul petto, le pecore madri
le conduce dolcemente, tutti raccoglie uniti attorno a sé.
Insomma la parola di Dio di oggi ci indica, a più
livelli, come preparare la via al Signore che viene nel suo Natale,
perché Gesù possa trovare noi e, attraverso di noi, possa trovare
tutti coloro che sono smarriti.
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Domenica
8 dicembre 2013
– Immacolata Concezione – II di Avvento
-
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Pensare e venerare Maria come l’Immacolata
concezione, la Tutta santa come ama definirla l’oriente cristiano, è
quanto ci invita a fare la solennità di oggi, un invito che però va
accolto e vissuto nel modo giusto. Infatti contemplare Maria come
l’Immacolata concezione, potrebbe tradursi per noi in una sorta di
viaggio ai confini o del tutto fuori della nostra realtà per entrare
in un altro mondo, il mondo delle cose di Dio, e lì poter
contemplare una figura così straordinaria come Maria. Esperienza
bellissima ma forse un po’ muta, un po’ isolata, incapace di darci
qualcosa al di là di tanto stupore e tanta meraviglia. E invece noi
vorremmo fare l’operazione opposta, cioè non quella di uscire noi
dalla nostra realtà per capire Maria, ma collocare Maria dentro la
nostra realtà, ho meglio scoprire che lei è già nella nostra realtà
e non in un altro mondo, che lei è presente nella nostra vita di
cristiani e cercare di capire chi sia per noi e cosa ci cambia il
fatto che Maria sia l’Immacolata piuttosto che non lo sia.
Prima però dobbiamo compiere un passo di
carattere fondamentale e catechetico: dobbiamo chiederci cosa vuol
dire che Maria è l’Immacolata concezione? Non è inutile ridirselo
perché questo è un dogma che non sempre è capito bene infatti
qualche volta accade che qualcuno pensi che questo dogma definisca
la concezione verginale di Gesù nel seno di Maria. Senza nulla
togliere alla verità di tale concezione verginale del Figlio di Dio
nel seno di Maria, il dogma dell’immacolata concezione non riguarda
però direttamente il concepimento di Gesù ma il concepimento di
Maria stessa, pur rimanendo legato all’altro. Secondo quanto
definito dal dogma proclamato da papa Pio IX nel 1854: “La
beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per
una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in
previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è
stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale.” In
altre parole Maria è nata già redenta, è nata in uno stato di
completa purezza e di integrità. La Chiesa, lungo i secoli, a
cominciare da Maria stessa che, dice il testo, si chiedeva che senso
avesse un saluto come quello che la definiva “piena, colmata di
grazia”, ha cercato di capire anch’essa che senso avesse un saluto
del genere e ha preso coscienza pian piano, o meglio ha raccolto
quanto già abitava il comune senso della fede e così ha compreso
meglio la condizione singolare della Madre di Dio, uno stato di
incomparabile innocenza e santità. Maria nasce senza quella ferita,
quella del peccato originale che significa anche inclinazione a
peccare, inclinazione al male, debolezza nel fare il bene senza il
sostegno della grazia di Dio, una ferita che noi tutti ci portiamo
addosso e che solo il Medico celeste, può curare. La prima cura
decisiva di questa terapia di guarigione è il Battesimo, ma è una
terapia che non finisce mai, la ferita rimane, sanguina, fa sentire
il dolore, soprattutto se trascuriamo di curarla se ci dimentichiamo
del nostro Battesimo e per questo dobbiamo continuare a pulire la
ferita, medicarla, fasciarla attraverso le speciali medicine
soprannaturali che il Signore ci offre, che sono i Sacramenti. Ma
questa ferita non passerà finché siamo qui sulla terra, anche se
possiamo fare molto per ridurne gli effetti sulla nostra vita. La
perfetta guarigione ce l’avremo in Cielo quando saremo pienamente
redenti, cioè pienamente risanati e resi figli di Dio in pienezza
nel regno dei cieli. Ecco Maria nasce, anzi viene concepita, per
speciale privilegio da parte di Dio, senza questa ferita. Ciò non
significa però che per questa ragione Maria appartenga ad un’umanità
diversa dalla nostra, appartenga ad un’altra specie. No, Maria è
donna come tutte le donne, è nostra sorella, con la sola differenza,
che non è poco, che non porta in sé questa ferita, questo
indebolimento del peccato e dunque anche l’inclinazione a peccare
che ne consegue. Maria nel cammino di fede non ha conosciuto i
ritardi e le deviazioni che conosciamo noi e non ha commesso peccati
personali. (cfr. CdA 764) Maria è concepita già guarita. E deve
questo suo stato di salute allo stesso Medico celeste che cura e
curerà definitivamente anche noi. La differenza tra noi e Maria è
cronologica: in lei, per privilegio, si è già compiuta in forma
preventiva, prima della sua nascita, al suo concepimento, quanto a
noi accade dopo e si perfezionerà in Cielo. Se noi veniamo tirati
fuori dal fango, Maria è preservata dal cadervi.
Ora, di fronte a questo stato di purezza e di
bellezza di Maria, cosa possiamo dire? Potremmo tornare ad ammirarla
come una sorta di semidivinità la cui beatitudine è così unica che a
noi ci cambia poco ci tocca poco. E invece non dobbiamo pensare così
perché se Dio ha concesso questo privilegio a Maria non è per fare
parzialità, non è per concedere qualcosa di più a lei rispetto che a
noi per uno sfizio divino. I nostri cuori un po’ gelosi ed invidiosi
talvolta hanno un po’ questa reazione quando ci sembra che qualcuno
abbia ricevuto più o meno doni, più o meno talenti di noi, più o
meno privilegi di noi. Ci scatta subito la logica del calcolo e del
paragone. Sant’Antonio, padre dei monaci, assorto in ragionamenti
simili a questi, di confronto, di paragone, si sentì rispondere da
una voce: “Antonio, bada a te stesso. Sono giudizi di Dio questi:
non ti giova conoscerli.” Una cosa però possiamo dirla, in
particolare per quanto riguarda Maria: se Dio dona qualcosa di
speciale, di unico, a qualcuno, se Dio predilige qualcuno, lo fa
sempre per compiere attraverso questa scelta che è un’elezione, un
dono speciale a tutti. La scelta di Dio di qualcuno non implica il
disprezzo, o anche solo un amore inferiore per gli altri. E quanto
ciò sia vero lo possiamo contemplare in Maria: se infatti è grazie
alla Pasqua di Gesù che noi siamo salvati, molto lo dobbiamo anche
al sì puro, limpido e pieno di Maria grazie al quale Gesù è venuto
nel mondo. Grazie all’elezione e al privilegio stabilito da Dio per
Maria, Gesù è giunto a noi.
Inoltre, seconda cosa, Maria non è solo
portatrice del dono per eccellenza che è Gesù. Maria non è solo la
porta attraverso cui Cristo entra nel mondo, o la bellissima
confezione che contiene il Dono. Maria stessa è un dono per noi! Se
Maria è senza peccato proviamo ad immaginare la straordinaria
capacità di amare che è in grado di vivere ed esprimere questa
donna. Maria è pura, Maria è perfetta ma non di una perfezione
umana, non è che lei non si dimenticava mai nulla o facesse tutto
con la massima efficienza, non si tratta di una perfezione di questo
tipo. L’assenza di peccato in Maria le consente di vivere la
perfezione che interessa a Dio che è la perfezione dell’amore: Maria
ama perfettamente, pienamente. Quanto era, ed è tuttora in grado, di
amare Maria! Senza il minimo attaccamento a se stessa e al male, era
un cuore aperto che condivideva con tutti l’amore di cui era capace.
Maria diventa così la Madre di tutti i viventi, la nuova Eva, la
nostra Mamma che ci accoglie tutti come figli suoi! Quando guarda
noi Maria pensa al suo Gesù, in noi vede Lui, e in Lui ritrova noi e
ci affida a Lui. Potremmo dire addirittura che Maria riflette in lei
e fuori di lei il volto materno di Dio. Da Maria possiamo imparare,
tutti, uomini inclusi, le virtù più belle della maternità e della
femminilità, ossia la tenerezza, la dolcezza, la fecondità,
l’accoglienza, virtù purtroppo sempre più rare nel nostro mondo per
lasciare il posto agli opposti: la durezza, l’acidità, la chiusura
alla vita e su se stessi e la sterilità. Quanto abbiamo bisogno di
incontrare un volto così dolce, così materno, così umano, e anche
così attraente (perché la santità è la più alta forma di bellezza)
come quello di Maria!
Infine, e qui concludo, non possiamo non
collegare la solennità di oggi con il tempo liturgico che stiamo
vivendo, il tempo dell’Avvento, un collegamento che oggi risalta
ancora di più per l’incrocio, tra questa festa della Madonna e la II
domenica di Avvento di cui abbiamo letto la seconda lettura. Paolo
VI mise bene in risalto questo legame tra Maria e il tempo di
Avvento, dicendo che il tempo dell’Avvento è un tempo
particolarmente adatto per il culto alla Madre del Signore perché
Maria è la Vergine in preghiera, Maria è la Vergine in ascolto e
dunque chi meglio di Maria possiamo prendere come modello di attesa
della venuta del Signore?
La festa di oggi però illumina in modo ancor più
profondo il legame tra Maria in attesa e la venuta del Signore:
Maria infatti era stata creata senza peccato in vista dei meriti di
Gesù ancor prima che il Signore si facesse uomo nel suo seno, ancora
prima che lei potesse anche solo immaginare che sarebbe stata
chiamata a divenire la Madre di Dio. Ciò significa allora che la
venuta di Gesù in lei è quell’incontro tra il Figlio di Dio e Maria,
che da senso al privilegiato stato di purezza in cui lei era stata
custodita. Così la venuta di Gesù nella vita di Maria compie e
realizza il perché e il come lei è stata creata tutta
santa. È quello che accade anche a noi quando incontriamo il Signore
e soprattutto quando diciamo di sì al suo progetto per noi, alla sua
elezione della nostra vita per fare qualcosa di bello e di grande.
Anche noi scopriamo non solo il volto di Gesù, ma capiamo anche il
senso pieno di noi stessi, della nostra vita, capiamo il senso di
ciò che c'era prima, di ciò che viene dopo, capiamo il perché di
molti doni unici, specifici, particolari che il Signore aveva fatto
a noi e magari non ad altri. Attendere Gesù allora significa
attendere anche noi stessi, la rivelazione dei figli di Dio, la
rivelazione del Dio nascosto che svela l’uomo all’uomo.
L’attesa del Signore che viene diventi allora per
noi speranza nelle sue due applicazioni concrete di cui fa
menzione anche Paolo nella lettura di oggi: la perseveranza e la
consolazione. Maria in questa attesa ci precede, ci accompagna, ci
mostra in se stessa la metà. Passato, presente e futuro si fondono
in lei, stella che annuncia il sorgere del Sole.
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mercoledì
4 dicembre 2013
– I settimana Avvento
- fr.
Giovanni-Battista
La
liturgia della parola è ricca di molti spunti interessanti per noi,
ma vorrei soffermarmi su un aspetto particolare del vangelo di oggi,
ossia il luogo specifico, preciso, verso cui Gesù rivolge la sua
attenzione, verso cui indirizza la propria potenza miracolosa. Dove
Gesù compie i due segni prodigiosi? Li compie stando sul monte ma,
se abbiamo ascoltato bene questi eventi si svolgono in basso, per
terra. Abbiamo due scene: nella prima Gesù cammina, poi si ferma e
pian piano si raduna attorno a lui una folla che, dice il testo,
depone ai suoi piedi zoppi, storpi, ciechi, sordi e gli altri
malati. Nella seconda scena, invece, Gesù da pochi pani e pochi
pesciolini sfama una moltitudine che, anch’essa, come i malati della
prima scena, si mette per terra, è invitata a mettersi giù, a
sedersi per terra. Dunque sia i malati prima, che le folle sfamate
dopo, fanno esperienza del dono di Dio in questa posizione di
abbassamento, giù, per terra.
Forse questo essere deposti ai piedi di Gesù, questo stare per terra
che per ben due volte ritorna nel vangelo di oggi, come luogo non
solo dell’incontro con il Signore ma soprattutto della scoperta, da
quel punto di vista, del suo sguardo d’amore su di loro, forse
questo luogo fisico è anche un po’ un luogo teologico, un luogo
esistenziale che ha qualcosa da dire al cammino di Avvento che
stiamo compiendo. Forse questo posto basso, questa prospettiva
minoritaria, così umile da cui guardare il Signore e da cui essere
guardati non è casuale ma porta in sé un significato e un valore
prezioso. Per chi si mette per terra, ai
piedi del Signore, si compie qualcosa di straordinario. Sembra quasi
che chi invece sta troppo in alto il Signore non lo vede, non lo
intercetta con lo sguardo, perché Gesù guarda chi sta in basso, è un
Dio che si china, come dice il Magnificat e tanti salmi. La
compassione di Gesù che è compassione, cioè ‘sentire-patire con’ chi
sta in basso e non con chi si innalza, è proprio questo suo chinarsi
sul povero, sul piccolo, sul malato, su chi non ha la forza di
alzarsi da sé e si lascia tirare su da Gesù. E se Gesù vede qualcuno
che sta in alto, per esempio, lo ricordiamo, Zaccheo, prima di
operare la salvezza lo invita a scendere: Scendi subito Zaccheo
perché oggi devo fermarmi a casa tua. E solo dopo essere venuto giù
da quel sicomoro, da quella prospettiva un po’ individualista per
entrare in una prospettiva di umile incontro e di relazione con il
Signore, grazie a quella discesa, la salvezza si compie anche per
lui e intorno a lui. Il Signore ama le persone che scendono;
cioè egli ama tutti, questo è chiaro, ma predilige i piccoli, chi
sta in basso.
A
questo proposito papa Benedetto in una sua omelia, potremmo dire,
inedita, inedita perché fatta da papa emerito, diceva: “noi ci
troviamo sulla via di Cristo, sulla giusta via, se, in sua vece e
come lui, proviamo a diventare persone che scendono per entrare
nella vera grandezza, nella grandezza di Dio che è la grandezza
dell’amore.” Collegando queste parole al tempo liturgico che stiamo
vivendo, possiamo dire perciò che Gesù passa, Gesù viene a salvarci
ed è lui che aspettiamo in questo tempo di Avvento, ma noi dobbiamo
farci trovare sulla sua via, sulla strada dove passa Gesù, e papa
Benedetto ci ricorda che si trova sulla via di Cristo chi prova a
diventare una persona che scende.
Del
resto questa era anche la vocazione di san Giovanni Battista,
emblema, insieme alla Madonna, del tempo di avvento, lui che aveva
fatto del suo diminuire, del suo scendere, per lasciar crescere
Gesù, il cuore di tutta la sua missione. Anche lui ci invita così a
metterci giù, per terra, ai piedi di Gesù, come i malati e le folle
di oggi. Da questa prospettiva di abbassamento il Signore si vede
meglio, il Signore ci vede meglio, lo si incontra meglio, la realtà
e gli altri si vedono meglio.
Ma
lo stare ai piedi del Signore è un luogo che ci fa tornare in mente
anche un’altra situazione che possiamo collegare con il tempo
liturgico che stiamo vivendo, ed è la vicenda delle sorelle di
Betania, Marta e Maria. Anche qui abbiamo chi sta per terra, Maria
ai piedi di Gesù per ascoltare la sua parola. Marta invece stava su,
forse troppo su per accorgersi del Signore, lo serviva ma senza
accorgersi veramente di lui, senza ascoltare quello che diceva, e
infatti il testo dice che Marta “era distolta dai molti servizi”. Si
accorgeva solo dell’inutilità della sua sorella, un’inutilità che
però piace a Gesù. A Gesù piace che ci sia qualcuno che, stando ai
suoi piedi, lo ascolta. Un luogo umile, un luogo inutile che però
Gesù definirà “la parte migliore” che non sarà tolta a chi la
sceglie. In questo senso in questo tempo di avvento potremmo
imparare un po’ questa inutilità che Maria in ascolto ci insegna,
l’inutilità di chi prende tempo per rimanere un po’ ai piedi di
Gesù, per lasciarsi raggiungere dalla sua parola e dal suo sguardo,
perché il Signore quando parla ti guarda negli occhi, guarda la tua
vita, si prende cura di te. L’ascolto della parola di Gesù è un
evento di guarigione e di nutrimento, come i personaggi del vangelo
di oggi. Abbiamo bisogno di imparare questa inutilità e, come dice
il Libro di Vita “il mondo ha bisogno che tu dica di essere
inutile”. Gesù si china su questi inutili, Gesù si china su questi
umili che scendono e si mettono ai suoi piedi. Tutti questi inutili,
piccoli e semplici sono i primi che il Signore va a trovare al suo
arrivo, perché li trova sulla sua strada, sono i primi che incontra
perché si fanno trovare al posto giusto. E lo sentiremo la notte di
Natale: i primi ad incontrare il Signore erano proprio dei semplici
pastori.
Ecco che allora anche noi, forti di questa parola di oggi e di
questi testimoni che con la loro vita ci esortano, possiamo provare
a chiederci: dove il Signore mi aspetta? Dove vuole che io mi faccia
trovare per non mancare al suo passaggio, per non essere assente, ad
un piano troppo alto per lui, quando lui arriva? Da dove devo
scendere per non essere troppo alto per lo sguardo, la compassione
di Gesù? Se rimaniamo chiusi nei nostri castelli forse faremo un
buon cenone di Natale, ma non godremo della vera festa, quella degli
amici di Gesù.
In
questo tempo speciale che è iniziato proviamo a metterci ai piedi di
Gesù, scendiamo per terra come le folle e i malati di oggi: faremo
felici lui, noi stessi e anche i nostri fratelli che da lì vedremo
meglio che dalle nostre alte finestre.
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Domenica 1 dicembre 2013
- Ia Domenica d'Avvento -
fr. Massimo-Maria FMJ
“
Venite saliamo sul monte del Signore,
perché ci indichi le sue vie
e
possiamo camminare nei suoi sentieri.”
Quanto mai opportuno risuona oggi l'invito del profeta Isaia in
questa prima domenica di avvento e di inizio di un nuovo anno
liturgico.
Quanto è importante camminare nei sentieri che siano di Dio e
lasciarsi indicare da Lui le vie sicure che sono solo le sue. Tante
infatti potrebbero essere le vie che crediamo sue, ma sono nostre,
tanti sono i cammini che pensiamo del Signore, ma sono in realtà –
direbbe il Papa – mondani.
Ecco allora il tempo di grazia di Avvento che particolarmente in un
clima di gioia serena e luce limpida viene a ri-orientare il nostro
cammino, e ridare vigore al nostro passo e limpidezza all'obiettivo
sul quale tenere fisso il nostro sguardo di pellegrini.
Alla luce del tempo liturgico che si apre e sostenuti dalla
Parola proclamata in questa liturgia, possiamo sicuramente
individuare tre piste che conducono alle vie di Dio e che con gioia
ed alacrità, audacia e determinazione dobbiamo percorrere.
La vigilanza! Il desiderio! La speranza.
Nella pericope evangelica del brano di Matteo, Gesù, parlando
del suo ritorno, usa una immagine piuttosto originale, quella del
ladro che viene nella notte, all'improvviso per derubare. Ora senza
dubbio Gesù non sottolinea tanto il ladro e il furto, ma il fatto
che per non essere presi di sorpresa occorre appunto essere desti e
vigilanti.
L'invito è chiaramente quello della vigilanza
rispetto al Signore che, dice il testo di Matteo, “ viene”.
Vigilare perché quando arriverà alla fine dei tempi ci trovi
disponibili, pronti, in attesa, operosi nel bene: con le buone opere
– dice la liturgia - e così ci ammetta al Regno, ma vigilare anche
perché quando “viene” ora, in ogni istante possiamo riconoscerlo,
godere la gioia della sua presenza e la pace della sua vicinanza.
In un certo senso non vigilare perché arriva il punitore, il
maestro che bacchetta gli scolari, o il padrone che sferza gli
operai, ma vigilare perché arriva Colui che è il nostro tutto e non
vogliamo perderlo né oggi nella sua venuta discreta ma reale e
rallegrante, né domani nella sua venuta palese e che sancirà per
sempre la nostra scelta nei suoi confronti.
Papa Francesco per vivere questa vigilanza ha indicato
qualche giorno fa due “strumenti” che particolarmente in Avvento, ma
non solo, siamo chiamati a utilizzare senza parsimonia: la preghiera
ed il discernimento.
La preghiera che se volete ci tiene tutti tesi, orientati al
Venient, al Signore. Il discernimento che ci strappa alla
superficialità e ci fa non perdere nessuno dei segni che dicono che
Gesù viene, qui, ora in una situazione, in una parola, in un
avvenimento, in una persona.
Vigilare quindi nella preghiera e nel discernimento.
Come è importante porsi spesso la domande: Ma in
tutto questo dov'è il Signore? Cosa mi dice? Cosa mi chiede? A cosa
mi chiama? Cosa da me attende?
La via della vigilanza sostiene e apre alla via del
desiderio.
Fratelli e sorelle, l'avvento è tempo di grazia per chiedersi con
verità: ma noi cosa davvero desideriamo? Davvero desideriamo il
Signore? La sua venuta?
Proviamo ad esaminare in questo tempo il nostro desiderio di
Dio, non quello che sappiamo come risposta del catechismo, ma quello
profondo, vero, reale, che ci provoca una sana e salutare ansietà.
Dall'intensità del desiderio di Dio capiremo la profondità
dell'amore per Lui.
A. Louf, monaco trappista definiva la vita monastica
come: "...attesa dolcemente ostinata dello sposo.” Questo è vero
anche senza dubbio per ogni vita cristiana autentica. Ma questa
attesa che sia dolcemente ostinata postula un desiderio vero,
sincero, profondo, incontenibile.
Quanti desideri allora in questo avvento da presentare al
Signore affinché li purifichi, li orienti, li converta, li tolga
anche e li renda unificati in uno solo, quello di Lui.
La vigilanza è sostenuta dal desiderio e certo fatta crescere dalla
speranza.
Vigilare perché il Signore viene, desiderare Lui che ci porti
la salvezza con la sua venuta, per il credente si riassume nella
speranza che è in un certo senso certezza, che questo si sta
compiendo già nella storia personale, comunitaria, universale.
Il discepolo di Gesù è essenzialmente un uomo e una donna di
speranza perché sa semplicemente e sicuramente che tutto ciò è vero,
reale, perché fondato, ancorato nella fedeltà di Dio che non ci
prende in giro, non ci illude, non delude non ci
abbandona......compie ogni promessa.
In un mondo che pare dare solo segni di disperazione, di
morte, di disillusione, di paure e angoscia di fronte al futuro noi
una volta di più in questo Avvento dobbiamo non solo non lasciaci
rubare la speranza – come dice il santo Padre-,ma di più alimentarla
questa speranza.
Il Signore viene ora, verrà alla fine dei tempi per compiere
quello che già si sta lentamente, invisibilmente, ma sicuramente
realizzando. E' vero che guerre, sconvolgimenti, cose terribili
paiono avere la meglio, ma se noi sappiamo guardare più in
profondità, forse anche non troppo lontano da noi c'è chi, magari
nella ferialità della vita e nella discrezione trasforma spade
spezzate in aratri; lance in falci, già c'è chi decide di non
esercitarsi più nell'arte della guerra ma piuttosto di camminare
nella luce di Dio.
Che il Signore allora ci trovi vigilanti, desiderosi di Lui,
pieni della serena speranza del Regno perché venga e nella gioia ci
rivesta interamente di Lui.
Amen
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venerdì
29
Novembre 2013 –
XXXIV Settimana T. Ordinario –
fr.Giovanni-Battista
FMJ
Nei
vangeli che stiamo ascoltando in questi giorni, che sono gli ultimi
dell’anno liturgico, con un linguaggio apocalittico ci viene
presentata la fase finale della storia, gli ultimi giorni della
storia, quando tutto il tempo dell’uomo entrerà pienamente nel tempo
di Dio. Sarà davvero tutto in tutti in modo pieno, in modo visibile,
e soprattutto, in modo definitivo. Cioè sarà un tempo in cui finirà
per l’uomo la possibilità di scegliere da che parte stare, se con
Dio o contro Dio, dalla parte del bene o dalla parte del male. La
storia sarà tutta unificata, ricapitolata in Cristo.
Ora
Gesù, se ci racconta questi eventi futuri, che hanno dei tratti
anche un po’ spaventosi perché parlano di guerre, calamità,
sconvolgimenti cosmici, cioè saranno eventi, giorni in cui sentiremo
davvero il peso della nostra fragilità mortale, ontologica e anche
morale, ecco, se Gesù ci mette in guardia su quanto accadrà, non è
tanto per farci paura, per terrorizzarci. Ma più che altro per
sollecitare la nostra attenzione su come viviamo il presente.
Rivelandoci la destinazione ultima della storia Gesù è come se ci
dicesse tre cose: la prima è che la storia ha anche una
destinazione, e se ha una destinazione vuol dire che ha una
direzione, e se ha una direzione significa perciò che ha un senso.
La seconda è che questa destinazione ultima della storia non sarà
l’uomo, per quanto potente ed influente nella storia, a deciderla ma
sarà Dio stesso, e questo è per noi sia fatica e ascesi sia garanzia
di liberazione. La storia, volente o nolente, converge verso questo
punto stabilito da Dio e secondo una cronologia che a noi sfugge. La
storia è nelle mani di Dio! È quanto abbiamo celebrato domenica
nella feste di Cristo Re dell’universo, cioè del tempo e dello
spazio. Terza cosa, Gesù mediante questi racconti apocalittici ed
escatologici forse vuole chiederci: voi, all’interno di questo
universo spazio-temporale, che direzione, che senso date alla vostra
storia, alla vostra vita? A noi la risposta. Dove siamo e come ci
collochiamo di fronte a questi eventi? È importante farsi queste
domande perché Gesù, se ci pensiamo bene, ci da tutti gli strumenti,
tutto ciò di cui abbiamo bisogno, per non navigare a vista nella
nostra vita e nelle nostre scelte ma al contrario per vivere bene il
presente. Cioè viverlo con discernimento, non come viene viene, ma
conoscendo il senso del nostro tempo, vivendo con profondità, con
sobrietà e con cuore libero, come ci direbbe il vangelo di domani
che però non leggeremo perché c’è la festa di sant’Andrea: “state
attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in
dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non
vi piombi addosso all’improvviso”. Gesù ci invita a guardare a
questo futuro che Lui in modo un po’ misterioso ci rivela, non per
farci paura ma per farci vivere bene il nostro presente: diceva papa
Benedetto nella sua enciclica sulla speranza: “La fede in Cristo non
ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l’alto, ma sempre
anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva
ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito
al cristianesimo la sua importanza per il presente” (§ 41)
In
particolare nel vangelo di oggi Gesù ci indica uno strumento di
grande importanza, una guida del tutto speciale per illuminare il
nostro presente e per orientare il nostro cammino perché, appunto,
non sia un navigare a vista, che rischierebbe di essere del tutto
autoreferenziale. E questa guida è la Sua Parola. La Parola del
Signore, che è espressione limpida della sua volontà di salvezza per
l’uomo, cioè esprime tutto quel desiderio di alleanza e di amicizia
di Dio con l’uomo, quel desiderio che l’uomo viva e viva sempre
anche aldilà di questa vita ferita dal peccato e dalla morte, la
parola del Signore ha questo di eccezionale: che è presente ed
efficace nel nostro tempo pur senza essere limitata a questo tempo
perché come dice il vangelo di oggi, non passerà mai. Se il cielo e
la terra passeranno, le mie parole non passeranno. Obbedire a questa
parola significa dunque prendere la strada giusta, non solo vivere
bene oggi, ma soprattutto orientarsi con sicurezza verso quei cieli
nuovi e terra nuova che prenderanno il posto degli attuali.
A
cavallo allora tra quest’anno liturgico che si compie e il nuovo che
si apre nell’attesa del Signore che viene, a cavallo tra un tempo
che si consuma e un nuovo tempo che ci viene donato come talento da
investire, da far fruttare per la nostra conversione e quella dei
nostri fratelli, un tempo di cui dobbiamo rendere grazie, Gesù ci
consegna la sua Parola, come pegno, come tesoro e nutrimento per il
viaggio, ricordandoci che non saremo pellegrini per sempre e che
dunque, finché lo siamo è importante imboccare la strada giusta,
quella che la sua parola ci indica, perché il tempo si è fatto
breve.
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Domenica
24
Novembre 2013
–
Cristo Re –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
La figura del re in Israele porta in sé fin dalla
nascita delle ambiguità. Se diamo uno sguardo, infatti, all’Antico
Testamento, e più in particolare a quel periodo di passaggio
dall’epoca dei giudici all’epoca della monarchia, vediamo che la
presenza di un re in Israele fu una condiscendenza di Dio, non un
suo comando o una sua volontà espressamente manifestata, ma solo un
tollerare, un accettare un’iniziativa del popolo. Dio all’inizio non
voleva che Israele avesse un re perché la sua richiesta di un re era
proprio espressione di una volontà implicita di mettere Dio da
parte. Diceva il Signore a Samuele: “Ascolta la voce del popolo,
qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno
rigettato me, perché io non regni più su di loro”. Il popolo chiede
un re per esser come gli altri popoli (lo spirito del mondo già
soffiava sulle Dodici tribù), e il profeta Samuele ammonirà subito
l’ingenuità di questo desiderio con parole di realismo, un realismo
che, purtroppo, troverà conferma anche in altre epoche della storia:
Fate attenzione israeliti perché “il re prenderà i vostri figli per
destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli … li costringerà ad arare
i suoi campi e mietere le sue messi … prenderà le vostre figlie per
farle sue profumiere e cuoche e fornaie … metterà la decima sulle
vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi.” Questo fu
l’ammonimento di Samuele agli israeliti che chiedevano un re, un
ammonimento che però rimane inascoltato: “No! Ci sia un re su di
noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da
giudice, uscirà alla nostra testa (espressione tra l'altro simile a
quella usata per il vitello d'oro, un dio che cammini alla nostra
testa) e combatterà le nostre battaglie.” (cf. 1 Sam 8) Per cui la
figura del re in Israele si presenta già fin dalla sua nascita
carica di tutte queste contraddizioni, di tutte queste ambiguità,
quelle cioè, da un lato, di un re che conduce alla salvezza il suo
popolo (questa era la speranza degli Israeliti), un re salvatore che
appunto cammina davanti al popolo, è il primo a dare la vita per
tutti; e un re che invece si servirà del popolo per il suo regno,
farà dei suoi sudditi strumenti del suo regno e non più fine del suo
regno; un re che dunque cerca di salvare se stesso prima che il suo
popolo. Il desiderio di Israele di essere come gli altri popoli si
rifletterà anche su diversi dei suoi re che saranno re come i re
delle nazioni pagane.
Ora, se noi leggiamo il vangelo di oggi
ritroviamo esattamente la stessa tensione, la stessa presenza di
questi due modi di concepire il re, ossia, quello del re che salva
se stesso e quello invece del re che è il primo a dare la vita per
salvare gli altri, che è Gesù C’è chi dice proprio questo: se tu sei
il re dei Giudei, salva te stesso. Per cui la prova della regalità
sarebbe in questo caso la propria salvezza, Gesù dovrebbe dimostrare
agli altri che è veramente re perché vince la Croce non
attraversandola ma evitandola. È ancora una volta l’idea mondana di
re, il re super-eroe, il più forte e potente di tutti, il prediletto
da Dio che dunque non sfiora nemmeno la tragicità della sorte umana;
è questa idea di re che viene proiettata sulla persona di Gesù.
Gesù, secondo quest’ottica non è un vero re perché non salva se
stesso. Tutti dubitano della sua regalità e cercano pure di gettare
addosso a Gesù questo dubbio con la frase provocatoria: “se tu sei
il re dei Giudei” un “se” che ci fa tornare in mente il “se tu sei
il figlio di Dio” sussurrato dal demonio all’orecchio di Gesù nel
deserto. Qui è come se Gesù si trovasse davanti all’ultima
tentazione, quella del scendere dalla Croce per mostrare a tutti la
sua onnipotenza. Ma Gesù rinuncia ancora una volta a quest’ultima
seduzione. Capiamo bene perché Gesù, nel suo ministero pubblico,
stava zitto e invitava sempre i suoi apostoli al silenzio
sull’identità della sua persona e ne parlava solo in privato, ai
suoi più intimi discepoli: perché troppo forte era il rischio che il
Dio vero venisse frainteso, troppo forte era il pericolo che il
Messia atteso da secoli, venisse celato, pilotato, e potremmo
persino dire, bestemmiato, dalla proiezione in grande dell’io
egocentrico e assetato di potere dell’uomo. La venuta del Figlio di
Dio sulla terra sarebbe stata una non-rivelazione e non la
manifestazione del Dio amore, del Dio crocifisso. Gesù è consapevole
di questi pericoli che hanno osteggiato tutta la sua vita terrena e
per questo sempre fuggiva le acclamazioni trionfali di chi lo voleva
il re che moltiplica i pani, il re che fa i miracoli, il re che
risuscita i morti, insomma il re che gratifica. Oggi invece Gesù si
rivela per molti non come il re che gratifica, ma come il re che
delude (le aspettative mondane), il re che è meglio non guardare
tanto è sfigurato il suo aspetto per essere ancora umano, il re che
preferiremmo non conoscere e infatti quasi tutti i suoi discepoli
scapperanno dal Golgota e Pietro dirà di non conoscerlo.
Solo uno, nel brano di oggi, capisce che Gesù non
è re per queste ragioni, ma è re perché è uomo fino in fondo, soffre
con l’uomo, piange con l’uomo e accompagna l’uomo fin nella fogna
più nera della morte. Solo uno capisce che Gesù è re perché
liberamente si spinge fino a questo inferno della crocifissione:
colui, che accanto a lui, ne condivide la sorte: “Gesù, ricordati di
me quando entrerai nel tuo regno” Tra i due crocifissi con Cristo,
nel loro modo di guardare a Gesù, uno che lo insulta come un
fallito, l’altro che scopre che sta morendo per lui e lo professa
Dio, si ripresenta per l’ennesima volta la secolare tensione che ha
segnato la storia d’Israele e che abita nel cuore dell’uomo di
sempre, quella tensione che può decidere anche del nostro
cristianesimo di oggi, quella tra il re che si salva e il re che
muore per salvare gli altri.
Di fronte a questa ambiguità che anche noi ci
portiamo dentro e con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno della
nostra vita, una domanda ci si pone oggi senza possibilità di fuga:
di quale re noi vogliamo essere sudditi? Nella prima lettura il
popolo osanna Davide dicendo: “noi siamo tue ossa e tue carne”,
ecco, noi di quale re vogliamo essere carne e ossa? Che religione
vogliamo vivere? Quale Dio vogliamo servire nella nostra vita? Quale
modello di discepolato stiamo cercando di incarnare nel nostro
cristianesimo e nella nostra vita consacrata?
Il vangelo di oggi ci pone questa domanda e ci
invita a dare una risposta, non solo guardando a noi stessi, alla
nostra coscienza e ai nostri desideri, ma soprattutto guardando Gesù
crocifisso. Oggi guardiamo Gesù Crocifisso e impariamo da lui come
essere cristiani. Cristo crocifisso, scandalo per i giudei,
stoltezza per i pagani, ci chiede se, con lui e come lui, vogliamo
anche noi divenire “scandalosi e stolti” come lui lo è stato agli
occhi dei pii e degli intelligenti del suo tempo, i grandi della
religione e i grandi dell'erudizione, che si erano messi così in
alto da non accorgersi che il Re dell'universo era quel “maledetto”
che pendeva dal legno.
Ancora una volta il Dio vero spiazza tutti, la
Verità spiazza tutti, rivelando le contraddizioni del falso,
dell'artificioso, del tarocco, dell'apparente. In questa
contraddizione si colloca lo spazio della nostra conversione, del
modo di pensare oltre che del modo di
agire, se accettiamo di essere anche noi spiazzati, contraddetti dai
suoi pensieri che non sono i nostri pensieri, dalle sue vie che non
sono le nostre vie. (Cf. Is 55,9)
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venerdì
22 Novembre 2013
– XXXIII Settimana T. Ordinario – Commento ora media
-
fr.Giovanni-Battista
La
persecuzione che il popolo ebreo sta subendo ad opera dell’impero di
Antioco IV giunge ad un momento di svolta. Gli israeliti zelanti,
quelli che non intendono cedere ad un cambiamento culturale e
religioso imposto con la forza, preferiscono morire pur di
abbandonare il Signore. La situazione provocata dall’oltraggio
subito dai pagani, che si era spinto fino a profanare il tempio di
Gerusalemme costruendo un altare dedicato a Zeus proprio sopra
l’altare dei sacrifici, poneva in serio pericolo non solo il culto
al Dio dei padri, ma l’esistenza stessa del popolo di Dio che o
apostatava o veniva eliminato. “Ecco le nostre cose sante, la nostra
bellezza, la nostra gloria sono state devastate, le hanno profanate
le nazioni. Perché vivere ancora? (1 Mac 2,3)”. “La gioia era
sparita da Giacobbe, erano scomparsi il flauto e la cetra” (1 Mac 1,
45).
Mattatia, protagonista della lettura di ieri, fu
il primo a dire no, con tutta la sua famiglia, no all’apostasia, sì
al Signore: “Se non combatteremo contro i pagani per la nostra vita
e per le nostre leggi, in breve ci faranno sparire dalla terra” (1
Mac 2,40). Alla sua morte l’impresa fu portata avanti dai suoi
figli, soprattutto da Giuda Maccabeo che guidava il piccolo gruppo
di ribelli.
In questa lotta contro il potere nemico essi
capiscono ben presto che non sono soli a lottare contro il male. Per
quanto sguarnito e poco numeroso, il piccolo gruppo di fedeli,
memore degli antichi successi del popolo d’Israele, rivive i prodigi
dell’Esodo, quando il Signore stesso combatteva contro l’Egitto. Il
Signore, come un tempo, anche ora è dalla loro parte, ed essi
ottengono grandi successi contro eserciti esperti nella guerra e ben
organizzati. Ma ciò che forse dava loro ancora più gioia era
scoprire che la loro sorte non era in mano ai potenti del tempo, non
era in mano al più forte, ma c’era una giustizia superiore, un Re
sopra tutti i re, un Dio sopra tutti gli dèi della terra, che libera
il debole dal più forte, il misero e il povero dal predatore (Cfr
Sal 35 (34) 10). Le loro vittorie non erano vittorie personali ma
era il Signore che difendeva se stesso e combatteva per i suoi
amici.
Per questo, appena fu loro possibile, Giuda e i
suoi decisero di riconsacrare il tempio di Gerusalemme dopo la
profanazione subita. In questa celebrazione non è solo uno spazio,
quello del tempio e dell’altare, a ritornare sacro; ma è l’intera
storia da loro vissuta che viene riconsegnata al suo vero autore, se
ne riconosce la sacralità che le viene dall’intervento in essa del
Signore, Colui che trascende e il tempo e il tempio pur rimanendo
immanente ad entrambi. Passato, presente e futuro, vengono
ricapitolati nel culto al Dio eterno autore della salvezza: come
liberò un tempo i nostri padri, così ora ha liberato noi e ci
libererà ancora. Ed è per questo che si presenta la necessità di
fare memoria anche in futuro di questi giorni di festa, celebrando
ogni anno, per otto giorni, la festa della dedicazione dell’altare.
Cosa ritenere da queste vicende che forse possono
lasciarci perplessi per l’uso, quasi giustificato che si fa secondo
la logica, e potremmo dire anche, della teologia del tempo, della
violenza e della guerra a servizio di Dio? Per quanto distante dalla
nostra mentalità di cristiani, la testimonianza di questi fedeli
alla Legge ci ricorda in modo molto plastico che la fedeltà al Bene,
con la B maiuscola, implica persone disposte a lottare contro il
male. Una lotta che non porteremo avanti con armi che uccidono e
feriscono, ma con le armi potenti del perdono, di una testimonianza
coerente al Vangelo in parole ed opere, e con l’efficacia suprema
della preghiera. Ancor di più per noi monaci cittadini si pone
l’urgenza della battaglia, come riconosce anche il nostro Libro di
Vita: “il monachesimo urbano richiede gente che lotta” (§ 129). La
lotta evangelica non è altro che assumere i tratti di Gesù, del Suo
modo di lottare, disarmato e disarmante, come i martiri, tra cui
santa Cecilia, hanno avuto il coraggio di imitare. Gesù e i martiri
inaugurano un nuovo modo di lottare, assurdo per la mentalità
bellica e vendicativa che ancora un po’ regna nel nostro tempo: si
tratta della lotta dell’amore che amando anche il nemico e persino
il carnefice, gli presenta quell’arma che può annientare l’odio che
porta in sé: la scoperta di essere amato. Quante conversioni da
questa scoperta! Ed è per questo che si dice che il sangue dei
martiri, Gesù in testa, è semen christanorum. Anche questo è
cercare e lavorare per il regno di Dio e la sua giustizia: non
lasciarsi vincere dal male, ma vincere il male con il bene (cfr Rm
12,21)
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mercoledì
20 Novembre 2013
– XXXIII Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi potremmo forse intitolarlo
‘fiducia e paura’. Sono questi i due terreni, per usare un’immagine,
in cui vengono seminati i doni che il re della parabola fa ai suoi
cittadini. Fiducia e paura sono i veri protagonisti della parabola
di oggi: fiducia dell’uomo nobile che affidando ai suoi servi le
monete d’oro si espone con loro, si fida di loro, da loro qualcosa
di proprio e di prezioso. Fiducia dei primi due servi che rispondono
alla chiamata ricevuta, alla fiducia ricevuta con la loro operosità
fiduciosa. E infine paura del terzo servo che nasconde la moneta in
un fazzoletto. Ci troviamo di fronte ad una panorama di immagini che
richiama a situazioni molto reali, concrete, per nulla fantasiose,
della nostra vita umana e spirituale, della nostra relazione con Dio
e anche, possiamo dirlo, del nostro rapporto con gli altri. Paura e
fiducia sono due dei poli in cui si gioca la nostra relazione con
l’esterno, con ciò che sta fuori di noi, che sia Dio, che sia
l’uomo, che siano le cose, che siano tutte e tre questi
interlocutori.
Secondo il vangelo di oggi la fiducia porta alla
fedeltà e alla bontà: bene servo buono ti sei mostrato fedele nel
poco ecc.. La paura porta a chiudere la moneta, metafora non solo di
ciò che abbiamo ma di ciò che siamo, in un fazzoletto, certo al
sicuro, ma anche nell’isolamento. La fiducia apre, dilata, da
coraggio, da la forza di rischiare, di esporsi per portare a termine
il mandato ricevuto. La paura chiude, blocca, non è solo un
sentimento del cuore, ma è qualcosa che ha un riverbero sulle nostre
azioni, è un’energia negativa, una non-energia, che ci rinchiude in
noi stessi.
Ma paura di che? Da cosa nascono le nostre paure
e da dove può venire invece la nostra fiducia? Secondo la parabola
di oggi il terzo servo ha paura perché sa che il re è un uomo severo
che prende quello che non ha messo in deposito. L’immagine del
padrone che porta in sé determina fortemente, totalmente in questo
caso, la sua azione. Questa è una prima fonte della paura: le
immagini, i fantasmi che ci portiamo dentro. Spesso abbiamo paura di
fantasmi più che della realtà; ed è così anche per il terzo servo.
Spesso ci fidiamo più dei nostri fantasmi che della realtà che ci
sta intorno. Però il terzo servo non ha tutti i torti, in parte ha
ragione nel definire il suo padrone come uomo severo che prende ciò
che non ha messo in deposito ecc. , e il padrone non lo contraddice,
non gli dice: non è vero non sono severo. Cosa manca però al terzo
servo per liberarsi da questa paura che lo blocca? Gli manca una
sguardo più completo perché questo servo vede solo una parte del
volto del suo padrone, vede solo l’esigenza della lavoro da fare, il
traguardo da raggiungere, il dovere da attendere e di cui rendere
conto, ma non coglie la fiducia del padrone che l’ha incaricato
dandogli qualcosa di suo. Vede il dovere da compiere senza cogliere
la relazione in cui questo dovere si colloca e da cui nasce.
Rinunciando alla missione che il padrone gli affida, rinuncia anche
a fare esperienza di lui, del suo modo di agire. Per questo sarà
spinto più ad una relazione di timore e di rispetto che a una
relazione di fiducia e di amore. E questo fa del padrone un nemico a
priori, un avversario con cui non avere a che fare e con cui non
entrare in relazione.
Però una cosa possiamo imparare da questo servo
malvagio, non certo l’avere paura e il rimanere bloccati in essa, ma
avere il coraggio di riconoscere, come lui, le nostre paure. Come
lui dobbiamo dirci: ho avuto paura. Perché spesso non solo anche noi
siamo bloccati dalle paure, di Dio, degli altri, dei nostri difetti
e delle nostre immaturità che ci rovinano l’immagine, ma facciamo
fatica a riconoscere che abbiamo paura. La paura ci fa paura e così
abbiamo paura di dirci che abbiamo paura. E preferiamo rimanere
chiusi nel nostro elegante, rassicurante fazzoletto, piuttosto che
vincere le paure. Ecco che dal terzo servo possiamo imparare questo:
vedere e riconoscere quali sono le nostre
paure. Il primo passo per vincerle è riconoscere che ci sono davvero
e dirci quali sono. Anche noi, senza aspettare il momento del
rendiconto finale a cui questa parabola fa riferimento, dobbiamo
avere la sincerità, prima che il coraggio, di riconoscere quali sono
le nostre paure. Non abbiamo da dimostrare nulla a nessuno perché
Dio, non cerca dei super uomini, e i santi non sono dei super
uomini, come ci ha ricordato anche il Papa, né sono nati perfetti.
Sono come noi, come ognuno di noi, sono persone che prima di
raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con
gioie e dolori, fatiche e speranze. Ma che cosa – ha aggiunto il
Papa – ha cambiato la loro vita? Quando hanno conosciuto l’amore di
Dio, lo hanno seguito con tutto il cuore, senza condizioni e
ipocrisie; hanno speso la loro vita al servizio degli altri, hanno
sopportato sofferenze e avversità senza odiare e rispondendo al male
con il bene, diffondendo gioia e pace. La paura ci impedisce di
conoscere l'amore di Dio. L’amore invece scaccia il timore, la
misericordia libera dal peccato e custodisce sicuri da ogni
turbamento. Di questo abbiamo bisogno di fare esperienza per vivere
non solo da servi ma da amici, e come dice il nostro Libro di vita,
“da uomo sottomesso diventa figlio che collabora.”
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venerdì
15 Novembre 2013 – XXXII
Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ (Strasbourg)
Dans
l'évangile d'aujourd'hui, Jésus fait une comparaison entre les jours
du Fils de l'homme et les jours de Noé et de Lot.
Si nous
relisons les chapitres de la Genèse qui parlent de l'histoire de Noé
et de Lot, deux aspects très différents, qui sont aux antipodes
entre eux, sont présentés à notre attention : d'une part la
méchanceté des hommes , le mal radical du cœur humain ; le texte dit
même que «le cœur de l'homme ne formait que de mauvais desseins » et
« le Seigneur se repentit d'avoir fait l' homme sur la terre et il
s'affligea dans son cœur » (Gn 6,5-6 ). D'autre part, le désir de
Dieu de purifier et sauver le genre humain, un désir de salut du
Seigneur pour l'homme qui se réalise dans l' appel adressé d'abord à
Noé ensuite à Lot à se sauver face au désastre imminent. Nous
avons donc, d'une part , les hommes qui mènent leur vie selon leur
désir, comme Jésus aussi le dit: " on mangeait, on buvait, on se
mariait" et qui ne sont pas au courant des plans de Dieu; et d'autre
part, l'intervention de Dieu dans l'histoire qui saisit tout d'un
coup , par surprise, sauf ceux qui avaient été préparés à cette
action. Il y a une histoire qui semble aller son propre chemin dans
laquelle s'inscrit le plan de Dieu.
Ces
aspects nous les retrouvons aussi bien au temps
de Jésus, comme lui même le met en lumière dans l'évangile, que de
nos jours, où beaucoup mangent, boivent, achètent, vendent, bref
vivent comme si Dieu n'existait pas et ne saisissent donc pas le
but et le sens de leur marche dans le temps.
Pour nous
aussi il est urgent, nécessaire, d'être avertis chaque jour de
passer d'une existence toute occupée d'elle-même, toute plongée en
elle-même comme si rien d'autre n'existait
que nous et le temps présent dont tirer profit, à
une vie qui, comme le texte de la Genèse le dit de
Noé, marche avec Dieu, au pas de
Dieu, sous le regard et dans l'écoute de l’appel quotidien
de Dieu. Une existence qui ne regarde à elle-même qu'
après avoir saisi le regard de Dieu sur elle, et munie de cette
nouvelle intelligence, lumineuse, prophétique aussi dirions-nous,
avance vers son but.
A ce stade,
nous pouvons voir un autre aspect de la similitude entre les jours
de Noé et de Lot et les jours du Fils de l'homme, une analogie que
nous pourrions considérer synthétisée en ces mots de Jésus: "Qui
cherchera à conserver sa vie la perdra, et qui la perdra la
sauvegardera" Le jour qui manifestera le Fils de l'homme
manifestera aussi dans toute sa vérité et de manière
inévitable notre radicale incapacité à nous sauver tous seuls, de
nous-mêmes. Toute tentative d' “auto - salut” ne mènera à aucun
résultat , sera vaine et totalement inefficace . Il s'agit d'une
logique qui commande déjà notre vie terrestre: sans Jésus nous ne
pouvons rien faire . Sans Jésus, non seulement nous ne pouvons pas
vaincre la mort , mais nous ne pouvons même pas nous libérer du
péché qui déjà tue un peu notre vie, la rend un peu moins vie et un
peu plus mort . Le saint , le chrétien radical n'est rien de plus,
en fin de compte, qu'un homme qui accepte de se laisser sauver par
Jésus, qui accueille dans toute sa vie et par toute sa vie, sans
faire de choix sélectifs , (ceci oui, cela non ) la parole de Dieu
qui blesse et guérit , purifie et renforce , met à l’épreuve et
console . Comme nous l'a dit, il y a quelques jours, le Pape
François: «Les saints ne sont pas des super-hommes , ne sont pas non
plus nés parfaits. Ils sont comme nous, comme chacun de nous, ce
sont des gens qui avant d'arriver à la gloire du ciel ont vécu une
vie normale, avec ses joies et ses peines , ces luttes et ses
espoirs . Mais qu'est-ce qui a changé leur vie?”, a ajouté le Pape.
“Quand ils ont connu l'amour de Dieu , ils l'ont suivi de tout leur
cœur, sans conditions et sans hypocrisie; ils ont passé leur vie au
service des autres, ont enduré la souffrance et l'adversité , sans
haine et en répondant au mal par le bien, répandant joie et paix. "
( Angelus , 1 Novembre 2013).
L’évangile
d'aujourd'hui n'est donc pas une invitation à avoir peur des jours
du Fils de l'homme, du jour où nous rencontrerons le Seigneur face à
face , ni du jour où nous sera demandé de rendre compte de notre
vie, mais il s'agit plutôt d'une exhortation à nous préparer, à nous
entraîner tous les jours à cette rencontre, à nous accrocher dès
aujourd'hui à la main que le Seigneur nous tend , la seule qui peut
vraiment nous arracher au mal et à la mort. C'est reconnaître que
nous avons besoin de l' amour et du salut de Dieu, et faire de ce
besoin chronique, ontologique de nos vies, la porte par où nous
laisser rejoindre par la puissance salvatrice de Jésus.
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mercoledì
13 Novembre 2013
– Mercoledì XXXII Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi è un vangelo che ha molto da
dirci e da insegnarci, qualcosa che va oltre il miracolo compiuto da
Gesù, che va oltre la guarigione fisica per arrivare ad una
guarigione integrale dell’uomo che coincide con la sua salvezza. Ed
è proprio questo il culmine della vicenda di oggi, l’annuncio di
salvezza di Gesù sul lebbroso: “Alzati e va’; la tua fede ti ha
salvato”. Il racconto di oggi, nella sua semplicità, tocca il come
ed il perché noi andiamo a Gesù, il come ed il perché noi cerchiamo
il Signore, un come ed un perché che trovano risposte diverse nei
protagonisti di oggi, i dieci lebbrosi.
La vicenda si gioca su due movimenti: il primo è
il movimento dei dieci lebbrosi che, dice il testo, “vennero
incontro a Gesù”, rimanendo a distanza lo chiamano, invocano il suo
aiuto, chiedono la sua misericordia e ottengono la guarigione
sperata. Punto e basta. La relazione con Gesù, per nove di loro, si
esaurisce qui. Esauritosi lo stato di bisogno si esaurisce anche la
loro sete di lui. Finita la necessità finisce anche l’interesse a
correre a lui, a gridare a lui, a invocare il suo aiuto. Al centro
di questo incontro non c’è la relazione con Cristo, ma il beneficio
che si può ottenere da lui.
Gesù però non è soddisfatto, e nel mostrare la
propria delusione mostra anche qual’era lo scopo del miracolo
concesso ai lebbrosi: l’incontro con loro, l’ingresso in una
dimensione di dialogo che Gesù esprime con il “tornare a rendere
gloria a Dio”. Un lebbroso però torna indietro, un lebbroso che
forse non tollerava l' aver visto solo da lontano colui che l’ha
guarito: voleva vederlo bene, forse abbracciarlo, comunque voleva
essergli vicino, voleva conoscerlo. Allora torna indietro e fa
quello che prima non poteva fare, non solo con Gesù ma con nessun
altro uomo sano, in quanto lui era un lebbroso e non poteva
avvicinarsi a nessuno: si butta ai piedi di Gesù. Ecco che per
quest’uomo Gesù non pronuncerà solo una diagnosi, per così dire, di
guarigione, ma addirittura, una sentenza di salvezza: “Alzati e va’;
la tua fede ti ha salvato”. Gesù non solo gli fa passare la lebbra
che era quanto lo isolava da tutti, gli impediva di vivere una vita
normale con gli altri, ma Gesù gli regala soprattutto una relazione
nuova con se stesso, lo mette in comunione con lui, lo salva, pur
non essendo nemmeno un membro del popolo eletto perché era un
Samaritano, uno straniero, politicamente e religiosamente estraneo.
Grazie a Gesù quest’uomo incontra Dio, ritrova la propria salute, si
orienta, dopo questo incontro, ad una nuova relazionalità con gli
altri: questi sono i frutti della salvezza, queste le conseguenze
dell’amicizia con Gesù!
Da questi due movimenti del vangelo si pongono
allora per noi due icone, due modelli del vivere la nostra vita di
fede. Il primo modello è quello che vede in Gesù una tappa del
proprio cammino: vado incontro a Gesù tenendo le distanze a causa
della mia lebbra, che possiamo facilmente identificare con la lebbra
del nostro peccato, chiedo ciò che voglio, lo ottengo e poi proseguo
oltre per la mia strada. Questo è il primo modello, il modello nel
quale Gesù non è il mio fine ma è una tappa dove transitare; poi
vado avanti per la mia strada, non torno da Gesù. Il secondo modello
è invece il modello del “tornare indietro”, un rallentare, arrestare
la propria corsa per tornare a Gesù e riconoscere il suo dono,
riconoscere me stesso, la mia vita come suo dono e rendere, davanti
a lui, gloria a Dio. Tornare a Gesù per ripartire
da Gesù.
A noi il collocarci in uno dei due modelli:
quello dell’andare avanti, dritti per la nostra strada,o quello del
tornare al Signore. A noi chiederci che relazione vogliamo vivere
con il Signore, se mi interessa una sorta di lucro, di guadagno, e
poi tengo bene le distanze con il Signore, oppure se mi interessa
essere suo amico, essere un suo adoratore, essere un testimone che
può dire a tutti: “il Signore mi ha amato e ha dato se stesso per
me”, come diceva san Paolo. Sta a noi allora la scelta, se vogliamo
solo ottenere qualcosa dal Signore o se vogliamo incontrare lui. Ha
proprio ragione san Silvano del monte Athos quando diceva “Credere
in Dio è una cosa, conoscerlo un’altra” (pag 188).
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giovedì
7 Novembre 2013
– XXXI Settimana T. Ordinario –
fr.Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi, con due delle splendide
parabole della misericordia, ci rivela un volto particolare del
Signore, un volto che se stasera vogliamo scoprire e lasciarci
raggiungere dal suo sguardo dobbiamo fare una scelta previa,
dobbiamo disporre il cuore, la mente, cioé intelligenza, affetti
e volontà, nel modo giusto. L'introduzione del vangelo di oggi
infatti ci mostra due modi ben diversi di accostarsi a Gesù che
parla: quello dei farisei che mormorano e quello dei peccatori che
ascoltano. I farisei se mormorano è perché credono di saperne di più
di Gesù tanto che si possono permettere di criticare il suo
atteggiamento. La mormorazione infatti è l'esatto contrario
dell'ascolto, esprime una diffidenza di fondo, una non fiducia, che
trabocca anche nelle parole: ma costui accoglie i peccatori e mangia
con loro! I peccatori invece sanno di non saperne di più di Gesù,
consapevoli della loro miseria morale vogliono imparare qualcosa e
si avvicinano a lui e lo ascoltano. Anche noi allora stasera
possiamo chiederci da che parte stare: dalla parte di coloro che
credono già di sapere tutto e non hanno niente di nuovo da imparare
dalla bocca di Gesù, oppure dalla parte di coloro che hanno bisogno
di crescere, hanno bisogno di essere guariti dal peccato, hanno
bisogno di essere cercati. Preparare il cuore nel modo giusto è
quanto ci consente non solo di sentire la Parola ma di accoglierla
in noi e lasciarla agire, lasciarci cambiare.
E
questa Parola stasera, come dicevamo, ci rivela un volto particolare
del Signore, un Dio che è alla ricerca dell'uomo. Il pastore lascia
le novantanove per cercare la pecora perduta. Chi è questa pecora
perduta? É l'uomo che, con il peccato, si allontana da Dio, è l'uomo
che si allontana da Dio si smarrisce e rimane solo; l'uomo che perde
Dio perde anche se stesso. É il vivere per se stessi e morire per
stessi di cui ci parla Paolo nella prima lettura: tutto parte da me
e tutto ritorna a me, non c'è nessun'altro all'infuori di me stesso.
E attenzione, questo modo di pensare è il più stimato e valorizzato
oggi giorno: l'uomo che si arrangia da sé, l'uomo che non ha bisogno
di nessuno è il vero uomo, che è riuscito a divenire immune da ogni
necessità di essere umile, da ogni necessità di aver bisogno degli
altri e di Dio. É l'uomo autosufficiente. Ma l'uomo autosufficiente,
lo sappiamo, in fin dei conti è un uomo solo! Ciò che mette in
pericolo la pecora perduta è proprio l'aver abbandonato questa
relazione con il Signore e con le altre pecore del gregge, questo è
il vero pericolo e il peccato è proprio la strada per giungere a
questo stato di solitudine e di separazione da Dio e dagli altri.
Qualche volta anche in noi rimane un po' il miraggio, il segreto
desiderio, il prurito di questa vita finalmente emancipata,
autonoma, finalmente sono indipendente e faccio da me. È il vivere
per se stessi e morire per se stessi che sta esattamente all'opposto
del vivere per il Signore. Finché siamo quaggiù non siamo mai del
tutto vaccinati a questa malattia. Ma c'è una medicina, c'è una
terapia che può essere o una prevenzione o una vera e propria cura
di recupero, e che la parabola ci presenta con l'immagine della
pecora ritrovata. La medicina è proprio questa: il lasciarsi
ritrovare e prendere da Gesù, fuori di metafora, il fare esperienza
dell'amore che il Signore ha per noi, che ha per me, amore speciale,
personale, così unico per ciascuno che impedisce gelosie ed invidie.
Così è l'amore di Gesù per noi. Perché il pastore va a cercare non
le pecore, ma la pecora. La donna non trova le monete, ma la moneta.
Fare esperienza di questo amore, cioè scoprire che c'è davvero e che
è per me e per me solo, perché per gli altri il Signore ha gli altri
suoi infinti modi tutti unici, tutti ad hoc per amarli e trovarli,
ecco lo scoprire e fare veramente questa esperienza ci strappa a noi
stessi per restituirci ancora a noi stessi ricchi di un amore che
prima ignoravamo nella nostra solitudine.
Infine un'ultima cosa che possiamo scovare nella parabola di oggi è
l'immagine della pecora che rientra nel gregge non da sola ma sulle
spalle del pastore. Proviamo a pensare le altre pecore rimaste nel
gruppo cosa vedono: non vedono solo la pecora, ma vedono anche
quanto il pastore che ce l'ha sulle spalle le vuole bene, e allora
anche loro, se vedono che il pastore vuole così bene a quella
pecora, cercheranno di amarla così, come la ama il pastore. E quanto
dobbiamo fare anche noi gli uni con gli altri: vederci, guardarci,
stimarci non con i nostri occhi, le nostre valutazioni, se no va a
finire che facciamo come i farisei che mormoravano. Ma, almeno un
attimo, almeno un pochino, proviamo non solo a vedere il fratello,
la sorella, il coniuge, il collega di lavoro, il datore di lavoro,
ma anche a vedere l'amore che Gesù ha per lui, quell'amore unico e
irripetibile che ha per ciascuno ad hoc, e allora, in quell'istante,
forse vedremo non solo Gesù che porta lui o lei sulle spalle, ma
anche Gesù che porta noi, e sarà davvero gioia grande davanti agli
angeli di Dio.
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venerdì
1°
Novembre 2013
– Solennità di Tutti i Santi
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fr. Giovanni-Battista FMJ
Celebriamo oggi la solennità di tutti i santi,
giorno nel quale siamo particolarmente invitati ad unirci alla
preghiera di questi nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto
nel cammino cristiano, e che l’hanno portato a compimento, aiutati
dalla grazia di Dio. Il prefazio, cioè quella preghiera che diremo
prima della consacrazione parla dei santi come di amici e modelli di
vita, cioè come dei compagni di viaggio che ci sono vicini, con la
loro intercessione, nel nostro cammino verso la Gerusalemme del
Cielo; ma anche come modelli, cioè come esempi veri e propri,
concreti, che il cammino della santità è possibile per tutti coloro
che lo desiderano. Loro sono la prova che la santità non è qualcosa
di assurdo o irrealizzabile. A nessuno, in qualsiasi stato di vita
cristiana si trovi ecc. è chiuso il cammino della santità.
Le letture che ci sono proposte per questa festa
ci invitano a riflettere un pochino sull’identità di questi santi,
cioè su chi sono i santi. E guardando alla seconda lettura vediamo
che il santo non è altro che qualcuno che è diventato pienamente
figlio di Dio. Il santo è qualcuno che è generato dall’amore di Dio.
“vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati
figli di Dio e lo siamo realmente”. L’amore del Padre ci ha generati
e continua a generarci come figli di Dio. Noi in quanto cristiani e
figli di Dio veniamo da questo amore del Padre in Cristo e
camminiamo verso la realizzazione sempre più piena di questa vita di
carità. Da questo dono che è identità profonda per noi discende un
primo dovere di cristiani che è proprio quello di non dimenticare
mai da dove veniamo, non dimenticare che è l’amore del Padre che ci
ha generati, ed è un amore che dobbiamo sempre accogliere, sempre
fare nostro nella nostra vita. Se noi dimentichiamo o trascuriamo di
accogliere questo amore del Signore, di conseguenza diventa anche
più pallida, meno lucente, la nostra identità di figli di Dio, cioè
non viviamo più in modo profondo la nostra vera identità. Ci
sviliamo non solo moralmente, perché il nostro agire sarà vuoto
d’amore, ma anche ontologicamente, sul piano dell’essere. Se noi
invece viviamo di questo amore, coltiviamo una relazione profonda
d’amore con il Signore, ci lasciamo amare, allora ecco che tutto in
noi cambia, non solo il nostro rapporto con Dio, ma anche il nostro
rapporto con gli altri. Questo perché l’amore è qualcosa che non
riusciamo a tenere solo per noi stessi, è qualcosa che in modo
naturale ci porta agli altri, ci apre agli altri, cambia,
trasfigura, il nostro modo di guardare la realtà e le cose.
Il vangelo di oggi ci fa andare più lontano
ancora nella comprensione di chi sia un santo. Se abbiamo detto che
il santo è un vero e proprio figlio di Dio, ecco che il vangelo va a
declinare, a elencare, diciamo così, il contenuto, l’esplicitazione,
la concretizzazione di questa vita da figli di Dio. E il profilo che
viene fuori da questa pagina straordinaria delle Beatitudini è
proprio il volto di Gesù. È lui il povero in spirito, il mite,
l’afflitto, l’operatore di pace che realizza nella sua carne la pace
fra cielo e terra e dai due popoli divisi fa l’unico popolo santo di
Dio. Nei santi noi ritroviamo il volto di Gesù. E qui non è solo una
questione di immagine, non è solo una questione di contemplazione,
ma è una questione di vita! Il santo non è qualcuno che attira a sé
per se stesso, il santo ci fa andare più lontano; il santo è
qualcuno che ci rimanda a Gesù, che ci indica Gesù, che ci
incoraggia ad andare a Gesù e con Gesù. Il santo è contagioso,
perché ci attira e ci coinvolge in questo sguardo di adorazione e di
lode che tutta la Chiesa rivolge al Dio Trinità. Il santo ha il
profumo di Cristo e ci inebria di questo stesso profumo di cui lui è
stato inebriato.
Il nostro mondo come quello di ogni epoca e di
ogni luogo ha bisogno di questo profumo di santità, questo profumo
di Cristo, ha bisogno di santi, non solo in Cielo ma anche sulla
terra, che riflettano, portino in essi il volto di Gesù così che
tutti possano riconoscere che davvero Dio c’è, davvero Gesù è il Dio
che è sempre con noi. Potremmo dire, in certo senso, che i santi
sono carne di Cristo, sono sangue di Cristo, sono presenza di Cristo
nel tempo che inaugura l’eternità già in questa terra.
Infine in questo giorno ci viene fatta una
promessa, ci viene consegnata una speranza che dobbiamo conservare
sempre viva nel nostro cuore e nella nostra mente: scrive l’apostolo
Giovanni: “saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
Saremo simili a lui! Proviamo a pensare come cambia il nostro
sguardo sulla vita presente se custodiamo nel cuore questa speranza:
vedremo Dio, saremo simili a Dio! Questa speranza ci cambia, non
solo ci rallegra, ma, dice il testo, ci purifica, ci rende puri come
egli è puro, ci rende capaci di vedere Dio. Il ricordo di Dio ci
rende puri, capaci di guardare la realtà con quell’occhio luminoso
che vede Dio, lo riconosce e lo ama in tutte le cose. Capiamo allora
perché i santi sono davvero felici, beati. Perché in ogni cosa
incontrano e amano il loro Signore, il Bene supremo amato per se
stesso, in vista del quale amano tutto il resto, come dice S.
Agostino. La vita santa è una vita degna di essere vissuta senza
sconti. Una vita che è iniziata e non finirà mai più.
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mercoledì
30
Ottobre 2013 –
Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista
FMJ
Le
letture di oggi si illuminano a vicenda nell’illustrare il nostro
cammino verso la salvezza.
Un
primo frutto di questa reciproca illuminazione, di questo incontro
tra i due testi di oggi, è la specificazione di che cosa sia la
salvezza. “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Ma cos’è
questa salvezza vista dal punto di vista umano e non solo di
compimento escatologico, cioè nella vita dopo la morte? Paolo ci
presenta la salvezza come un realizzare pienamente la chiamata che
abbiamo ricevuto ad essere conformi all’immagine del Figlio di Dio.
Essere salvi non è solamente non andare all’inferno, ma in positivo,
diventare conformi a Gesù. Questa è la salvezza: raggiungere pian
piano quello stato di somiglianza con Cristo in vista del quale
siamo stati creati, tanto che Paolo parla addirittura di
predestinazione: siamo stati creati in vista di questo destino, ed è
raggiungendo questo destino che di conseguenza raggiungiamo anche la
pienezza di quello che siamo.
Da
questo capiamo anche un’altra cosa, e cioè che la salvezza è già
iniziata. Non ci sta semplicemente davanti come qualcosa che potrà
realizzarsi in un lontano futuro, ma la salvezza è già iniziata.
Nella misura in cui noi progrediamo in questa aderenza sempre più
perfetta a Gesù, a questa trasformazione da creature a figli di Dio
cristiformi, cioè dalla forma di Cristo, noi godiamo già della
salvezza, entriamo già un pochino e sempre di più in quella
trasformazione che un giorno ci prenderà totalmente. E credo che
ciascuno di noi, se guarda alla propria esperienza può vedere e
riconoscere quanto l’accogliere in sé questa vita di Cristo abbia
veramente già portato salvezza nella propria vita, anche in termini
di pienezza di vita, pur tra le difficoltà del tempo presente.
Ma
c’è un altro aspetto che merita la nostra attenzione: Gesù nel
vangelo di oggi è molto schietto, è estremamente chiaro nel metterci
di fronte all’esigenza reale, e anche alle fatiche a cui andiamo
incontro se vogliamo entrare in questa salvezza. Gesù non ci illude,
non ci dice tanto per ammiccarci e sedurci un po’: venite è tutto
facile! Ci richiama invece alle vere esigenze e fatiche dell’essere
suoi discepoli. Gesù vuole dei discepoli che diano tutto di sé, che
mettano tutto se stessi in questa relazione con lui. Ma questo Gesù
lo può chiedere perché lui, per primo, ha dato tutto se stesso, ha
messo e continua a mettere tutto se stesso in questa relazione. E
questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Noi, quanto possiamo fare in
ordine alla nostra salvezza, in ordine alla nostra crescita umana e
spirituale in cui questa salvezza già prende carne, tutto questo è
sempre legato e debitore, a quanto Dio in Cristo ha fatto e continua
a fare per noi. La salvezza allora non sarà per noi il premio perché
siamo stati bravi, ma sarà il frutto concreto ed eterno di questo
dialogo con il Signore che Lui ha provocato per primo e nel quale,
dopo, noi siamo entrati. Gesù può dirci dunque sforzatevi
perché lui, prima di noi e per noi, si è sforzato con tutto
se stesso per farci salvi.
Infine un’ultima cosa importante che vien fuori dal vangelo di oggi
è questa: abbiamo detto che salvezza è entrare fino in fondo in
questo dialogo che vede come primo interlocutore, il primo a
prendere la parola, il Signore stesso. Ora, la parola dialogo
è una parola che se la applichiamo con il significato corrente che
ha, così com’è, al nostro rapporto con Dio, rischia di ridurlo un
po’, rischia di non esprimerlo bene. Nel nostro linguaggio infatti
il dialogo è qualcosa che riguarda solo o prevalentemente l’ambito
delle parole, dei discorsi, dei ragionamenti. Ecco, con Dio non è
così. Con Dio è lui che, avendo preso la parola per primo,
stabilisce anche il linguaggio da usare, il tenore del dialogo. E
Dio non ha parlato solo con le parole, ma ha parlato anche e
soprattutto con la vita, con la carne del suo Figlio. Questo è
importantissimo perché significa che se noi vogliamo parlare,
dialogare con Dio, il nostro dialogo non potrà essere solo un
dialogo a parole ma dovrà diventare un dialogo con tutta la nostra
vita. Dialogo dunque non solo a parole ma un dialogo vitale,
esistenziale, entrare in questo rapporto d’amore e di salvezza con
tutta la nostra vita, con tutta la nostra carne. Non possiamo essere
cristiani, religiosi e preti solo a parole, ma tutta la nostra vita,
deve mettersi in gioco con Dio e, in lui, con gli altri. Se no
rimarremo sempre un po’ degli estranei a Dio e anche agli altri,
come quelli a cui il Signore nel vangelo di oggi dice “Non so di
dove siete”. Ma come Signore, “abbiamo mangiato e bevuto in
tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”, c’eravamo
anche noi! “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me.”
Signore, non cessare di chiamarci a te, non cessare di vincere le
nostre resistenze! Il tuo Spirito venga in aiuto alla nostra
debolezza!
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venerdì
25 Ottobre 2013
– XXIX Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Gesù, nel vangelo di oggi, parla alle folle, con
un linguaggio che cerca di fare leva sulla loro intelligenza, sulle
conoscenze che queste persone avevano delle cose della vita normale,
della vita comune, nel caso specifico la questione del clima, del
tempo meteorologico, per invitare loro e anche noi ad esercitare
questa capacità di comprensione, questa intelligenza, anche nelle
cose di fede, che per loro era riconoscere in quel tempo la pienezza
dei tempi, e in quel Gesù, il Messia atteso da secoli. Mai, come in
quell’epoca, capire la storia significava capire il disegno di Dio,
l’apice della storia della salvezza. Queste povere folle forse
nemmeno immaginavano in quali eventi storici erano coinvolte, tanto
che noi, duemila anni dopo, siamo ancora qui a parlare di loro.
Dalle parole di Gesù però si apre una pista
ulteriore che spinge a riflettere anche noi sul tempo, sul tempo in
generale e sul nostro tempo. C’è un tempo infatti che non è solo
tempo cronologico, un susseguirsi indifferente e anonimo di tanti
attimi uno dietro l’altro, ma è un kairòs (ed è proprio questa la
parola greca del testo), cioè un tempo che chiede di essere
interrogato, chiede di essere compreso, perché è un tempo gravido di
senso, ha una direzione, ha qualcosa da rivelare, da dire, da
esprimere all’uomo. Il tempo, come anche lo spazio, ci parlano, ci
dicono qualcosa che riguarda la nostra vita. Il tempo, la storia e
lo spazio, già solo per il fatto che ci sono ci obbligano a
chiederci il perché, il perché di loro e il perché di noi. Porsi
questa domanda è necessario per una vita che voglia camminare in una
direzione ben precisa e non sia un andare dove capita o un
abbandonarsi a se stessi, alla perplessità o allo scetticismo.
L’invito che oggi Gesù ci rivolge è forse proprio questo: credere
che c’è un senso del vivere, del morire, dello spazio e della
temporalità, credere che tutto questo ha un senso dal quale capiamo
anche ciò che è giusto e ciò che non è giusto. E credere che il
tempo ha un senso è la base per iniziare ad investigarne il senso.
La cosa non è di poco conto in un’epoca, come la
nostra, in cui ogni paletto fisso, ogni indicazione di verità, di
morale e dunque di senso, danno fastidio, sono viste non come luci
per camminare sulla strada giusta, ma come minaccia alla mia libertà
che preferisce rimanere nel buio, nella confusione, o negli
strettissimi confini del mia opinione personale che, anche se non ha
alcun fondamento, ha valore semplicemente perché è la mia. Se le due
ali che sostengono, se di sostegno si può parlare, questo modo di
pensare, sono relativismo e soggettivismo, il cristiano può invece
fare affidamento su due ali ben più sicure che sono le fede
illuminata dalla ragione, dall’intelligenza. Con queste due ali
possiamo arrivare pian piano a riconoscere anche nel nostro tempo,
nella nostra epoca, il senso, la verità che ci rende liberi. Ed è a
ciò che ci invita oggi il Signore spronandoci a valutare, a
giudicare noi stessi questo tempo e ciò che è giusto.
Tra l’altro nella seconda parte del vangelo di
oggi il Signore ci offre già una sorta di interpretazione del tempo
dell’uomo. Gesù ne parla con un’immagine come di un cammino
dell’uomo verso un giudice insieme ad un avversario che,
evidentemente, ha delle buone chance per farlo arrestare. I padri
della Chiesa si sono scervellati per capire chi fosse questo
avversario. Agostino ne da un’interpretazione a dir poco geniale che
forse possiamo fare nostra: “Questo avversario – dice Agostino – è
la Parola di Dio se tu non sei in armonia con lei. Questa armonia si
realizza quando tu trovi il tuo piacere nel fare ciò che ti ordina
la Parola di Dio. L’avversario diventa così amico e al termine della
strada non ci sarà più nessuno che ti consegnerà al giudice.”
Che bello allora pensare che il nostro avversario
non è altro che la Parola di Dio, un avversario che vuole il nostro
bene, la nostra salvezza e che da nemico può diventare, se lo
vogliamo, l’amico che ci accompagna nel cammino di tutta la nostra
vita verso la vita piena e ci rivela il senso del nostro vivere e il
senso del nostro morire, il senso del nostro tempo. Ma che bello
anche pensare e credere che la Parola di Dio orienta verso il bene e
la pienezza quel desiderio di verità, di autenticità, di senso, che
tutti portiamo nel cuore. Ancora una volta scopriamo che il Signore
può tirare fuori il meglio di ciò che siamo e abbiamo, e ci rende
capaci di riconoscere il suo volto, la sua presenza, nelle nostre
giornate e nella nostra città.
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giovedì
24 Ottobre 2013
– XXIX Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista
C’è un passaggio delle parole di san Paolo che
abbiamo ascoltato, che potremmo considerare un sorta di definizione,
una delle possibili definizioni del cristiano. Chi è il cristiano?
Il cristiano è un liberato dal peccato, fatto servo di Dio e avente
come traguardo la vita eterna.
Questa condizione, questo status privilegiato che
ci ha messi in un rapporto nuovo con il Signore, un rapporto di
figli, noi l’abbiamo acquistato una volta per tutte nel battesimo,
ma dobbiamo essere consapevoli di una cosa: il battesimo e tutti i
sacramenti con cui siamo stati generati alla vita cristiana,
realizzano in noi una realtà nuova, un nuovo stato di vita i cui
effetti però non si compiono del tutto se, questo dono di Dio, noi
non lo prolunghiamo, non lo riattualizziamo, non lo rendiamo ogni
giorno presente e vivo nella nostra vita. Ciò significa che noi, pur
essendo già stati liberati dal peccato e fatti servi di Dio,
dobbiamo ogni giorno e ogni minuto rivivere questo evento, questa
Pasqua, questa liberazione dal peccato per metterci al servizio di
Dio. È una specie di battesimo continuo in cui noi dobbiamo
immergerci. Come nella Messa è sempre lo stesso sacrificio di Gesù
che si riattualizza, così potremmo dire, la nostra vita, se vogliamo
che sia una vita coerente col nostro battesimo, dev’essere un
rendere sempre nuovamente presente e attiva nella nostra vita la
grazia del battesimo che abbiamo ricevuto.
Come vivere questo? Come fare per far sì che ogni
giorno noi passiamo dalla schiavitù del peccato al servizio di Dio?
Nel vangelo Gesù ci parla di un fuoco che lui stesso è venuto a
gettare sulla terra. Il fuoco è un elemento dall’alto valore
simbolico nella Bibbia perché il fuoco era quanto consumava i
sacrifici dell’Antico Testamento. Un animale, da qualcosa di profano
com’era, passando attraverso il fuoco, consumato dal fuoco,
diventava un’offerta a Dio che poi poteva essere un’offerta di
comunione o un’offerta di espiazione; passava cioè dal piano
terrestre al piano di Dio, dalla profanità alla santità di Dio. Nel
nuovo testamento invece il fuoco, come sappiamo, esprime anche un
altro significato: il fuoco come simbolo dello Spirito Santo. Il
fuoco dello Spirito non ci consuma fisicamente come il fuoco vero e
proprio ma ci consuma spiritualmente, cioè ci purifica, ci rende
persone gradite a Dio, capaci di vivere fedelmente nella sua
amicizia.
È forse questo il fuoco che Gesù è venuto a
gettare sulla terra, quel fuoco con cui ci ha infiammati la prima
volta nel battesimo ma che deve rimanere acceso fino all’ultimo
nostro battesimo, che sarà quello della nostra morte, in cui, come
tutti speriamo, entreremo definitivamente nella santità di Dio. Gesù
ha acceso questo fuoco ma sta anche a noi tenerlo acceso ed esporci
ad esso che continua in noi questa trasformazione da uomini vecchi a
uomini nuovi. Il fuoco dello Spirito non agisce in noi
automaticamente e contro la nostra volontà, ma brucia se lo lasciamo
bruciare, consuma se lo lasciamo consumare, ci rinnova se gli
permettiamo di rinnovarci, ci converte se ci lasciamo convertire. In
una parola dobbiamo, è proprio il caso di dirlo, buttare benzina sul
fuoco! E invece quante volte, forse, buttiamo acqua su questo fuoco
dello Spirito, quante volte spegniamo l’opera di Dio in noi, non
cogliamo le provocazioni e gli inviti che il Signore ci porge per
farci crescere e per farci santi! Abbiamo talvolta la capacità di
renderci ignifughi perfino di fronte a Dio, corazzarci a tal punto
che tutto “ci rimbalza” addosso, nulla ci tocca, nulla ci entusiasma
e ci sprona per una sequela di Gesù più radicale.
La preghiera che possiamo rivolgere a Gesù che è
venuto proprio per gettare questo fuoco dello Spirito Santo sulla
terra sia allora questa: Signore, aiutaci a lasciarci toccare,
bruciare, purificare, infiammare dal tuo fuoco, perché sperimentiamo
che di fronte a te non abbiamo bisogno di difenderci, ogni difesa è
nociva a noi stessi, perché sei tu il nostro muro di fuoco che ci
custodisce e ci rende caldi del tuo calore, e luminosi della tua
luce.
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Domenica
20 Ottobre 2013
– XXIX Domenica T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Le letture che abbiamo ascoltato ci introducono
in modo splendido al tema della preghiera, una preghiera immersa
nelle vicende più concrete della vita del popolo d’Israele nella
prima lettura e della vita di una vedova, nella parabola che Gesù
narra nel Vangelo. Entrambe queste letture ci pongono di fronte a
due casi, uno reale e l’altro, quello della vedova, espresso in modo
metaforico, ma certo verosimile e pieno di senso, di preghiera
insistente esaudita. La preghiera fatta con fede e perseveranza
viene esaudita.
Su questo aspetto dobbiamo però soffermarci un
pochino perché talvolta noi abbiamo un po’ un’idea della preghiera,
soprattutto delle preghiere in cui chiediamo qualcosa a Dio, come di
una sorta di nostro intervento su Dio, sulla sua volontà, perché il
Signore conceda ciò che noi vogliamo. Quasi un esercizio per
distogliere Dio da sé e volgerlo a noi, alle nostre necessità e a
ciò che vogliamo. Poi, quando le cose non vanno come volevamo noi,
secondo la nostra preghiera, diciamo che Dio non ci ha esaudito. Su
questo dobbiamo soffermarci un pochino, dobbiamo provare a
riflettere sulle preghiere non esaudite, non per arrivare a
decretare che non è vero la preghiera fatta con fede e perseveranza
viene esaudita, ma per capire meglio cosa vuol dire “essere
esauditi”.
Se partiamo dal vangelo di oggi notiamo, per
esempio, che non si dice che Dio esaudisce sempre la preghiera, ma
si dice che Dio farà giustizia prontamente, Dio farà ciò che è
giusto per i suoi eletti. La cosa è ben diversa, perché ciò che è
giusto secondo Dio non è detto che necessariamente corrisponda alle
mie aspettative, a ciò che è giusto secondo il mio giudizio. Come
nota anche Origene, non sempre il bene è ciò che noi consideriamo
bene e che chiediamo da Dio, e non sempre il male è ciò che vogliamo
evitare ad ogni costo (In Spidlik pag 188). Ma possiamo spingerci
ancora più in là dicendo che Dio può anche trarre un bene dalle
conseguenze di un male pur non volendo positivamente il male.
Da questo, ma anche dall’esperienza di preghiera
che ciascuno di noi ha, capiamo allora che pregare ed essere
esauditi non sono cose meccaniche e automatiche perché pregare
significa accettare di entrare in una relazione libera e
disponibile con Dio: libera perché esprime il nostro
desiderio di rivolgerci a Dio; disponibile perché richiede,
da parte nostra, che una volta chiamato Dio in causa, accettiamo
anche che il Signore operi nelle nostre cose e le disponga come
vuole lui, secondo quanto ritiene giusto. E Dio farà ciò che è
giusto.
La preghiera dunque ci inserisce in una
reciprocità con il Signore che non chiama solo Dio in causa, ma
coinvolge anche noi, cambia anche noi, cioè la preghiera ci rende
idonei, capaci di camminare nei disegni di Dio, da lui voluti o da
lui tollerati, la preghiera plasma in noi un cuore di discepolo che
non pretende qualcosa dal Signore ma presenta qualcosa
al Signore e poi attende la sua opera, come dice anche un salmo
bellissimo: “Affida al Signore la tua via, confida in lui ed egli
agirà.” (Sal 37,5).
E qui possiamo inserire un altro aspetto che Gesù
mette in risalto della preghiera: che sia una preghiera costante,
che vinca la stanchezza. Ciò perché in effetti la preghiera può
conoscere la stanchezza, lo scoraggiamento, la noia, il senso di
inutilità, che cioè pregare non abbia senso, sia una perdita di
tempo. La nostra preghiera è spesso chiamata ad attraversare il
deserto dell’attesa. Alle volte sembra davvero che il Signore non
voglia esaudirci subito. Però quando il cristiano attende, non solo
attende, ma il cristiano spera! E così l’umana attesa diventa
teologale speranza. C’è un legame che unisce preghiera e speranza
nel quale sant’Agostino coglieva un particolare esercizio del
desiderio: “Rinviando il suo dono, – dice sant’Agostino – Dio
allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l’animo e
dilatandolo lo rende più capace di accogliere Lui stesso” (Spe Salvi
33). Se la preghiera è dunque espressione di un nostro libero
desiderio espresso a Dio, la preghiera in ultima istanza, fa di noi
stessi desiderio, desiderio di Dio. La preghiera, anche in questo
caso, non tocca solo Dio, ma trasforma anche noi.
Infine, detto questo, possiamo tirarne le
conclusioni: se, come abbiamo detto, Dio non esaudisce tout
court, ma fa ciò che è giusto; se la preghiera non è solo
qualcosa che parte da noi per agire su Dio, ma è anche qualcosa che
cambia, trasforma noi stessi, plasma in noi un cuore di discepolo
che accetta di camminare nei disegni di Dio; se infine la preghiera
non semplicemente dice il nostro desiderio di qualcosa ma rende noi
stessi desiderio, e non più solo desiderio di un bene specifico, ma
desiderio di Dio stesso, possiamo allora affermare che il termine di
questo cammino di preghiera non può essere solo il pregare ma il
divenire preghiera. Questa è la meta, come scriveva in proposito
don Divo Barsotti: “Noi dobbiamo vivere questa eterna preghiera, noi
dobbiamo trasformarci in questa preghiera. Non si deve pensare che
la preghiera sia un mezzo per l’apostolato, un mezzo di
santificazione: è anche un mezzo, ma, mentre l’apostolato avrà
termine, quando avremo raggiunta la meta, la preghiera non potrà
terminare mai perché la preghiera è anche il fine stesso, la meta
del lungo cammino. Per questo un “chassid” diceva che la preghiera è
Dio stesso.” (Divo Barsotti, La preghiera, lavoro del cristiano, Ed.
San Paolo, pag 129)
Possiamo allora capire perché il Signore dice che
pregare sempre non è un optional ma è una necessità,
qualcosa di necessario non solo per preti e monaci, ma per
vivere fino in fondo la nostra comune vocazione cristiana. Perché la
preghiera è qual cordone ombelicale che nutre in noi la vita divina,
che ci fa crescere e maturare come uomini e figli di Dio. In fin dei
conti perché la preghiera rende il nostro cuore più simile a quello
di Dio e credo che ciò sia quanto noi tutti desideriamo.
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venerdì
18 Ottobre 2013
– Festa di San Luca
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fr. Giovanni-Battista FMJ
La figura dell’evangelista Luca non riusciamo a considerarla con
pienezza, nella sua profondità, se prima di guardare a ciò che Luca
ha fatto per la Chiesa, cosa ha lasciato alla Chiesa, cioè degli
scritti di estrema importanza per la nostra fede e per la nostra
conoscenza del Signore, non volgiamo lo sguardo a ciò, o meglio, a
chi egli era. Ed è proprio a questo tipo di sguardo su san Luca, a
chi egli era prima che a ciò che faceva, che le letture scelte per
festeggiarlo, ci invitano.
Il vangelo parla infatti dell’invio dei
settantadue discepoli e ne parla non principalmente descrivendone
l’opera, ma prima di tutto mettendo in luce i tratti essenziali del
discepolo. Quali sono queste caratteristiche del discepolo?
Una prima caratteristica è che il discepolo è un
inviato: non parte da se stesso, per sua iniziativa, ma come Gesù è
mandato dal Padre, così anche il discepolo è un inviato, è un
mandato perché è il signore della messe che manda i suoi operai!
Inviati perché chiamati.
Secondo aspetto: il discepolo è inviato davanti a
Gesù, letteralmente “davanti al suo volto”; la gente prima di
vedere, di incontrare il volto di Gesù, incontrava il volto del
discepolo e da questo si faceva un idea del volto di Gesù prima
ancora di vederlo.
Poi c’è una terza caratteristica che è l’essere
inviato come agnello e non come lupo, esattamente come Gesù che è il
Pastore perché è il vero Agnello.
Infine il discepolo porta la pace di Gesù,
costruisce e diffonde la pace del Signore che, come sappiamo, è il
primo dono del Cristo risorto, che la prima cosa che diceva quando
appariva era proprio “Pace a voi”.
Ora, queste caratteristiche del discepolo – se ne
potrebbero certo trovare altre – sono caratteristiche,
sostanzialmente, di somiglianza con Cristo. Il discepolo è uno che
somiglia a Gesù, che porta in sé e porta agli altri l’immagine di
Cristo, ed è per questo che può dire: Il regno di Dio è vicino. Il
discepolo, l’inviato davanti al volto di Gesù, non porta in giro se
stesso ma trasmette, dona agli altri il volto autentico del Signore.
Venendo a San Luca: cosa sono i suoi scritti,
Vangelo ed Atti degli apostoli, se non un prolungamento di questa
missione di portare a tutti il volto autentico del Signore? Ma
questo è stato possibile perché san Luca, prima che evangelista
guidato dallo Spirito per trasmettere la Parola di Dio, è stato quel
discepolo che ha assunto in sé i tratti di Cristo, ha lasciato che
lo Spirito scolpisse in lui l’immagine di Cristo e così, sempre
assistito dalla mano di Dio, ha saputo disegnarci il volto di Gesù
nei suoi scritti. Luca, prima che un biblista o un evangelista, è un
discepolo santo! E chi accoglie Gesù in sé, lascia anche un frutto
che rimane, un frutto che nutre gli altri, che aiuta gli altri nel
loro cammino di somiglianza a Gesù. La Parola di Dio, che un po’
oggi pure festeggiamo insieme a san Luca, è infatti anche questo:
non è solo annuncio ma è anche forza che lavora in noi, potenza che
ci trasforma in ciò che ascoltiamo, in ciò che contempliamo, in ciò
che adoriamo, potremmo dire.
Luca come discepolo e come evangelista, non solo
ha accolto la Parola, si è lasciato plasmare; non solo l’ha
annunciata, ma l’ha donata, si è posto con tutta la sua opera a
servizio del dialogo, dell’incontro di Dio con gli uomini. Sono
queste le persone che lasciano davvero un segno indelebile nella
storia della Chiesa e nella storia dell’umanità, quelle persone che
accettano di lasciare posto a Dio, lasciare Dio agire in loro e
attraverso di loro, lasciare Dio scrivere, attraverso di loro, quel
dialogo che salva l’uomo perché lo strappa dal dialogo vuoto con gli
idoli – e anche oggi ce ne sono molti – i falsi dèi, e lo mette, in
dialogo, in comunione con il suo Signore, il Dio vero.
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giovedi
17 Ottobre 2013
– XXVIII Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Le parole dure di Gesù sia nel vangelo di oggi
sia in quello di ieri sono parole che non vogliono terrorizzare né i
farisei di allora né noi oggi, ma sicuramente sono parole che ci
vogliono scuotere in senso positivo, cioè ci vogliono
responsabilizzare. Infatti il nocciolo del problema incarnato qui da
scribi, farisei e dottori della Legge, ma che può ripetersi anche
oggi, è più o meno lo stesso, l’ipocrisia, cioè il fare qualcosa non
con il cuore, non perché ci si crede veramente, non per entrare e
vivere una vera relazione con Dio e con gli altri, ma per fini
diversi, fini di apparenza, di convenienza, di immagine o di fama.
Ora, questo atteggiamento che noi comunemente, ma
Gesù stesso, definiamo ipocrita, se ci pensiamo bene è un
atteggiamento, in fondo, irresponsabile cioè che nasconde una
situazione umana e spirituale che si mantiene sempre al di fuori
della relazione con Dio, mantiene sempre le distanze, non si mette
mai in gioco fino in fondo in modo sincero e responsabile, appunto,
per rispondere con tutto il proprio io al Tu di Dio. Per cui, anche
la prassi religiosa si dedica agli aspetti più marginali agli occhi
di Dio ma più visibili agli occhi della gente: si pagano le decime
delle erbe e si trascura la giustizia e l’amore di Dio; si cercano i
primi posti più che la vicinanza vera con il Signore; si stilano
ardui programmi morali per gli altri (i pesi insopportabili) così si
da un’immagine di radicalità e di fine conoscenza della Legge di
Dio, ma che rimangono per gli altri e non per sé. Insomma si fa
tutto ciò che non tocca veramente il cuore e la coscienza, che
perciò rimangono sotto la signoria di qualcos’altro o di qualcun
altro. È forse per questo che Gesù oggi riporta queste persone, che
ammonisce duramente, alla loro responsabilità: vi sarà chiesto conto
del sangue di tutti i profeti; voi siete responsabili del sangue
versato da Abele in poi. La cosa ci sembra assurda e perfino
ingiusta che costoro paghino per le colpe dei loro padri, ma la
sensazione di ingiustizia finisce quando viene alla luce il loro
vero pensiero: persone pie, persone ineccepibili quanto a fama e
osservanza della Legge, eppure iniziano ad agire esattamente come i
loro padri con i profeti: “cominciarono a trattare Gesù in modo
ostile … tendendogli insidie” dice il testo, e poi sappiamo come la
storia andrà a finire: lo uccideranno come tutti gli altri e anche
peggio.
Con questo stile sbagliato di vivere la religione
dobbiamo anche noi confrontarci. Il nostro libro di vita dice: o
sarai monaco nel più profondo del cuore o non lo sarai mai. Credo
che possiamo estendere il concetto a tutta la vita cristiana: o
saremo cristiani nel più profondo del cuore o non lo saremo mai. O
il Signore lo lasciamo entrare nel nostro cuore sempre di più, o
almeno desideriamo giungere a questa meta, o se no faremo di tutto,
per difenderlo da Dio stesso, per tenere lontano il Signore e anche
i canali modi, personali ed impersonali, che lui usa per parlarci,
per entrare il comunione con noi, dalle cose che davvero contano
nella nostra vita. È il Signore così diventa per noi un estraneo, un
avversario perfino un nemico.
Sant’Ignazio di Antiochia il cuore l’aveva
davvero aperto e consegnato a Gesù ed è per questo che ha saputo
offrire anche il corpo con tanto coraggio. Ignazio, se arriva a
questo livello di ardore come quello che si legge nei suoi scritti,
non è perché era un super eroe perché era anche lui un uomo come
noi, ma perché pian piano si era allenato, aiutato dalla grazia, a
lasciar vincere il Signore nella sua vita, e aveva sperimentato che
quando vinceva il Signore in realtà lui, Ignazio, non perdeva, ma
vinceva anche lui. E così ha fatto vincere il Signore anche
nell’ultima professione di fede, quella che gli costò la vita.
Ignazio sapeva che Gesù era morto per lui, si sentiva responsabile
del sangue di Cristo e ha saputo renderne conto, cioè rispondere a
questo dono totale d’amore con il suo dono totale d’amore.
Vediamo quale libertà ci ha procurato il sangue
di Cristo e quale libertà ci testimoniano i martiri! Cerchiamo di
non cadere nella schiavitù di una vita cristiana, e anche religiosa,
vissuta come ricerca di sé.
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sabato
12 Ottobre 2013
– XXVII Settimana T. Ordinario -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi tocca il tema della
beatitudine con una prospettiva particolare che è quella mariana,
che mette in luce cioè, indirettamente, quale sia la vera
beatitudine di Maria, che appunto non è solo quella di aver portato
in grembo Gesù e di averlo allattato, ma prima ancora, un prima non
solo cronologico ma vitale, esistenziale in Maria, quello di essersi
aperta tutta alla Parola di Dio, e così lasciarsi fecondare da Dio
nel cuore prima che nel corpo.
Di come Maria ascolta la parola e la osserva si
potrebbero dire molte cose, ma una in particolare possiamo
collegarla con il tema della beatitudine del vangelo di oggi. Maria
ha vissuto un ascolto della Parola di Dio non semplicemente in modo
generico, come dire: se voglio vivere come buona giudea devo vivere
secondo queste regole, questa fede, questo culto. Non solo questo.
Cioè in Maria non c’è stata unicamente, se così la possiamo
definire, una generale opzione fondamentale di essere una donna di
fede. In Maria ci sarà stato questo sicuramente, ma soprattutto, ed
è ciò che conta ai fini di questa beatitudine di cui parla il
vangelo di oggi, c’è stato il momento dell’Annunciazione in cui
Maria ha ascoltato, certo in modo unico e straordinario la Parola di
Dio, ma in essa, ha accolto la chiamata di Dio, la volontà di Dio
per lei, per la sua vita, per la storia futura. E questo è un punto
importantissimo anche per il nostro cammino. Dio parla, va bene,
questo lo crediamo tutti, ma le cose nella nostra vita iniziano a
cambiare davvero quando crediamo che Dio parla a noi, ci parla, Dio
ci chiede qualcosa di specifico che magari non chiede ad altri o che
ad altri chiede in modo diverso. Quando anche noi, come Maria,
riconosciamo attraverso l’ascolto che c’è una volontà precisa e una
chiamata, una vocazione particolare per noi stessi, quando scopriamo
che nella parola di Dio c’è la sua voce che ci chiama personalmente,
allora capiamo quanto diventi concreto ed urgente non solo l’ascolto
del Signore e della sua Parola, ma soprattutto il rispondere a
questa Parola. Perché l’ascolto diventi beatitudine non può restare
un ascolto vago, generico, passivo. Finché non cogliamo nella Parola
di Dio, la parola per noi, la chiamata per noi, la volontà precisa
del Signore per noi, anche la conseguente messa in pratica, la sua
osservanza, come dice il testo, resterà ad un livello, appunto, di
osservanze, di pratiche e di precetti; difficilmente la vivremo come
risposta alla voce, al tu di Dio che ci chiama e che in ultima
istanza ci invita alla beatitudine.
In questo modo ci è dato già fin d’ora di
partecipare un pochino alla beatitudine piena che ci attende nei
cieli, quando entreremo nella gloria di Cristo e di tutta la
Trinità. La beatitudine inizia proprio quando noi accogliamo e
rispondiamo a questa chiamata che Dio ci rivolge, in cui fin dei
conti è Dio stesso che già si dona a noi, come a Maria. E allora il
nostro cammino sarà un continuo progredire verso questo fine ultimo
della beatitudine in Dio, verso questo bene supremo, il “bene di
ogni bene” che, come diceva sant’Agostino, “è quella cosa in vista
della quale amiamo le altre, mentre essa è amata per sé medesima.”
Apriamo allora, come abbiamo pregato nella
colletta, il nostro cuore alla beatitudine dell’ascolto con la
fiducia di chi non cammina nel buio o nella nebbia, ma guidato da
Gesù che ci ha fatto una promessa: “Sapendo queste cose, sarete
beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).
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venerdì
11 Ottobre 2013
– XXVII Settimana T. Ordinario – Commento ora media
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fr. Giovanni-Battista FMJ
Nel testo che abbiamo ascoltato ci troviamo di
fronte ad un esempio molto concreto di lettura dei segni dei tempi,
di esercizio del carisma profetico da parte del profeta Gioele. Cioè
il profeta contempla la presenza di Dio all’interno delle vicende
del suo popolo, positive o negative, felici o tristi, e grazie a
questo sguardo contemplativo sulle vicende umane, riesce a cogliere
il segno lasciato da Dio, o meglio, riesce a percepire ed annunziare
che la storia non è assurda, non è priva di senso, ma converge verso
un punto, un compimento che, nel brano di oggi, è intravisto nel
giorno del Signore: “è vicino il giorno del Signore”.
L’uomo di sempre, quando è nella gioia o quando è nel dolore, quando
le cose gli vanno bene e quando invece gli vanno male, è sempre
tentato da due atteggiamenti opposti ma simili ed entrambi negativi,
che sono la presunzione e la disperazione. Sono due atteggiamenti
opposti e insieme simili perché il primo crede di poter fare tutto
con le proprie forze senza aver bisogno di nessuno, il secondo
invece, la disperazione, è il fallimento di questa illusione pur
rimanendo ancora chiuso in essa, e dunque rimanendo incapace di
chiedere aiuto e di aprirsi alla speranza. Sia nella presunzione che
nella disperazione, è sempre l’autosufficienza a regnare. Quando
l’uomo pensa di salvarsi da sé, finché le cose vanno come voleva lui
tutto contribuisce alla sua gloria, ma quando la vita gli fa capire
che non è lui a dirigere ogni cosa, l’autonomia e l’indipendenza che
prima tanto lo esaltava e gli stava a cuore, diventa la causa della
sua rovina.
Il profeta Gioele è confrontato con una
situazione simile: il popolo è stato colpito da una terribile
invasione di locuste che hanno mangiato tutto e non hanno lasciato
nulla, nemmeno quanto offrire al Signore. Dice addirittura il testo
che: “Quello che ha lasciato la cavalletta l’ha divorato la locusta;
quello che ha lasciato la locusta l’ha divorato il bruco; e quello
che ha lasciato il bruco l’ha divorato il grillo” (1,4) proprio per
far capire le dimensioni della calamità. È un danno non da poco,
soprattutto per l’economia del tempo che viveva di agricoltura.
Umanamente, in casi come questi, la reazione
sarebbe la disperazione, corroborata anche dall’idea che una
tragedia come questa sarebbe il segno esplicito, evidente, che Dio
ci ha abbandonato, ci ha lasciati. Noi oggi diremmo che Dio non
esiste: come fa Dio ad esserci con tutto questo male? O se c’è è un
dio cattivo! Di fronte ad una tentazione così forte per il popolo
che, già provato materialmente, sprofonderebbe ancora di più, si
leva la voce profetica di Gioele: “Proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione, gridate al Signore!”. Gioele, che vede più
lontano degli altri perché è assistito dallo Spirito del Signore,
invita all’attesa nella preghiera, esorta il popolo ad aprirsi a
Dio, ad impedire che questa tragedia chiuda ancora di più i cuori
già provati dalla sofferenza, una chiusura che sarebbe un lasciar
penetrare la morte e la desolazione circostante, nel cuore
dell’uomo. Gioele invita ad aprirsi a una speranza che nasce dal
rimettere Dio al centro della propria vita: è questo in fin dei
conti il giorno del Signore, in tutte le varianti con cui è stato
espresso nella letteratura profetica e apocalittica, un giorno in
cui Dio prenderà in mano lui le cose, la sorte del suo popolo.
Perché il Signore, come sentiremo domani nel proseguo del testo, “è
un rifugio per il suo popolo, una fortezza per gli israeliti.”
La voce del profeta Gioele è rivolta anche a noi
come invito a non cedere mai alla tentazione di vedere e capire, sia
le cose belle che quelle dolorose, mettendole fuori dal disegno di
Dio come se il braccio del Signore fosse troppo corto per
intervenire nelle nostra vicende, oppure di farne una lettura
“laica”, come si dice oggi, con la pretesa di una sguardo più neutro
ed oggettivo. Si tratta di vivere il munus profetico che abbiamo
ricevuto nel battesimo e che dobbiamo esercitare non solo per
sostenere noi, ma anche per incoraggiare coloro che soffrono, coloro
che sono nella prova, e anche coloro che non hanno fede e che,
proprio per questo, forse hanno bisogno di qualcuno che li
incoraggi, li consoli, li aiuti a vedere che Dio c’è, perché ce lo
ha promesso.
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mercoledì
9 Ottobre 2013
– XXVII Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Una prima cosa che ci colpisce del vangelo di
oggi è vedere Gesù pregare. Possiamo immaginare lo stupore e la
curiosità anche dei suoi discepoli quando lo vedevano in preghiera.
E anche noi ci stupiamo, ci colpisce pensare a Gesù che prega perché
sappiamo che Gesù è Dio e allora che bisogno ha Dio di pregare?
Perché Gesù prega se qualsiasi cosa desidera può ottenerla con la
sua Parola in modo immediato?
Ma un discepolo rompe gli indugi e gli chiede:
Signore insegnaci a pregare! Lui, il discepolo, forse non ci pensava
tanto, ma una domanda come questa avrebbe portato, come di fatto è
accaduto, ad entrare un pochino di più nel mistero della persona di
Gesù, il Figlio di Dio. E infatti Gesù risponde, apre la sua
preghiera con una sola parola, tra l’altro ancora più spoglia nella
versione di Luca che ci è data stasera, la parola Padre. Gesù nella
sua preghiera, qui come anche in altre sue preghiere che ci sono
state trasmesse dagli evangelisti, dice Padre. Cioè ripete quel Tu
che da sempre ripete nel seno della Trinità. La preghiera di Gesù è
questo: è un prolungamento di quel dialogo filiale che egli vive da
sempre nella Trinità. Nel suo modo di pregare di fatto Gesù traduce,
prolunga, esprime con cuore, mente ed anima umane, ma anche divine,
quel dialogo di amore incessante che da cui egli stesso, potremmo
dire, lui il Verbo, ha avuto origine dall’eternità. Se dall’eternità
il Padre dice Figlio, il Figlio dall’eternità dice Padre, e nel
vangelo di oggi ci giunge un eco di questa relazione carica di
mistero. Il pregare di Gesù segue dunque con perfetta continuità
l’essere di Gesù: cioè Gesù prega secondo quello che è, come è. Lui
che era già in piena comunione e continuità ontologica, di natura,
di essere, con il Padre, vive, nella sua preghiera, questa
immersione nel suo essere profondo che sarebbe indefinibile, oltre
che inesistente, senza il Padre, perché senza il Padre non ci
sarebbe neanche il Figlio e viceversa.
Se questo è quanto vale per Gesù, il discepolo
del vangelo di oggi sposta però l’attenzione su di noi perché
chiede: Signore insegna a noi a pregare! Una richiesta che
già ci fa capire una prima cosa: il cristiano, il discepolo che
vuole pregare deve mettersi alla scuola di Gesù. Questo non
semplicemente perché è Gesù il Signore e noi, nel nostro agire,
dobbiamo obbedienza a lui, dobbiamo fare come ci dice lui, dunque
non solo per una ragione di subordinazione e di obbedienza a Gesù.
Ma anche per un’altra ragione più profonda, che tocca l’essenza del
cristiano. Il discepolo non è chiamato a diventare altro, qualcosa
di diverso, rispetto al Suo maestro, ma a diventare come il
suo maestro. E noi, lo sappiamo, siamo figli nel Figlio, siamo
inseriti, innestati per grazia in questa relazione di Gesù con il
Padre. Se la preghiera di Gesù è qualcosa, come abbiamo visto, che
si irradia dal Suo essere, da chi lui è, ciò è vero anche per noi.
Nella preghiera infatti noi non semplicemente chiediamo a Dio
qualcosa, ma nella preghiera noi ritorniamo alle radici del nostro
essere, della nostra adozione filiale. La preghiera è quel grembo
che ci genera in quanto cristiani (pensiamo al battesimo e agli
altri sacramenti che sono preghiera liturgica della Chiesa) è quel
grembo che ci riporta all’origine, ci riporta a questo confronto e
contatto autentico, puro ed immediato con quell’identità di Dio
Trinità da cui proviene anche la nostra identità di figli di Dio. È
infatti, se ci pensiamo, il Pater è la prima preghiera che viene
consegnata al catecumeno desideroso di ricevere il battesimo. Con
Gesù, in Gesù, allora anche noi possiamo dire Padre.
Ma la preghiera del Padre Nostro non si ferma
qui, va ancora più in là. Se nella preghiera noi ritorniamo
all’origine della nostra figliolanza divina in Cristo, per cui non
possiamo dire in modo pieno e in modo autentico Padre se non ci
riconosciamo e non viviamo come figli, questo va esteso anche ad
un’altra prospettiva che è quella della fraternità: come siamo figli
in Cristo, così siamo fratelli e sorelle in Cristo. Dire Padre non
solo prevede ma obbliga a dirsi fratelli! Ne va di mezzo il nostro
essere figli. E dirsi fratelli segue l’essere fratelli, un
essere con cui pure veniamo a contatto nella nostra preghiera, come
quanto valeva per l’essere figli. Il Padre nostro è esplicito in
questo perché ci esorta a chiedere a Dio, e dunque a volerlo
profondamente, che ogni debito tra noi sia rimesso come Dio lo
rimette a noi. E questo linguaggio del debito e del peccato è il
linguaggio della comunione perché sappiamo che è il peccato che
rompe la comunione con Dio. Per cui quanto noi chiediamo e vogliamo
essere in comunione con il Signore, così dobbiamo chiedere e volere
questa comunione anche tra noi fratelli. Se il peccato contro Dio
può infrangere la comunione anche con la Chiesa, che è l’assemblea,
la comunione dei fratelli in Cristo, così il peccato contro un
fratello danneggia anche il mio legame, la mia comunione con il
Signore. Il vangelo, o prima ancora la nostra identità di figli di
Dio e fratelli in Cristo, non ammette doppiezze o ambiguità in
questo. Spesso ci sta tanto a cuore la riconciliazione con Dio, ci
confessiamo e magari facciamo anche, lodevolmente, penitenza, ma se
si tratta di fare il primo passo per ricostruire o rinforzare la
comunione con il fratello siamo molto più restii e talvolta nemmeno
lo riteniamo doveroso. Ecco non dimentichiamo che queste relazioni
fraterne con gli altri sono interne al nostro rapporto e alla
nostra comunione con Dio, non estranee.
Da tutto questo capiamo che la preghiera
cristiana allora non è meno esigente di quanto lo sia la vita
cristiana, che è vita nuova, cioè non è vita secondo i criteri della
carne e del sangue, ma secondo quelli dello Spirito perché è lo
Spirito che ci rende e fratelli e figli, e che costruisce,
attraverso di noi, la vera comunione.
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Domenica 6
Ottobre 2013
– XXVII Domenica Tempo Ordinario
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Ab 1,2-3; 2,2-4 / Sal 94 (95) / 2 Tm 1,6-8.13-14/
Lc 17,5-10
Le
letture di questa domenica, come abbiamo sentito, sono attraversate
dal tema della fede, un tema che potrebbe essere guardato e
illuminato da diverse prospettive e da diversi punti di vista. E già
i testi di oggi ci offrono almeno tre o anche quattro chiavi di
lettura di questo argomento. Però, invece che riflettere noi,
possiamo provare a metterci, per quanto ci è possibile, nei panni di
questi apostoli, dei Dodici che rivolgono a Gesù una domanda
straordinaria: Gesù, accresci in noi la fede!
Perché questa domanda? Sulle labbra dei Dodici non è scontato
sentirla perché i Dodici, lo sappiamo, sono proprio coloro che sono
stati scelti, costituiti apostoli, e saranno i testimoni
privilegiati degli eventi pasquali tanto da fare della loro fede, la
fede di tutta la Chiesa, che è appunto non una fede qualsiasi ma una
fede apostolica, è la fede degli apostoli. Ecco, proprio loro
chiedono a Gesù di aumentare la loro fede, loro che, istintivamente,
ci sembrerebbero nelle condizioni di non avere bisogno di altra
fede, con tutti i prodigi che hanno visto e data la loro posizione
privilegiata di apostoli. Se fossimo stati noi al loro posto,
diremmo, credere sarebbe un gioco da ragazzi. Eppure questi Dodici
si rendono conto che, alla fine, hanno bisogno di fede perché solo
se acquistano uno sguardo di fede sempre più autentico, sempre più
puro, possono essere davvero dei discepoli di Gesù. Senza la fede
Gesù rimane un incompreso se non uno sconosciuto, rimane un
interrogativo senza risposta o con risposte sbagliate, e senza la
fede i Dodici smettono di essere dei discepoli in uno stato di
sequela e ritornano ad essere gente errante per i fatti suoi; i
Dodici smettono di essere un gruppo compatto, cessano di essere
Chiesa e Gesù, da Signore quale è rimane per loro un Maestro tra gli
altri, o un profeta, come infatti la gente diceva. La fede è quanto
ci fa vedere la realtà intorno a noi e la realtà che è in noi nel
suo significato più autentico, ci fa andare oltre l’apparenza delle
cose e ci fa percepire l’essenza più vera di tutto. Proviamo a
pensare a quante cose cambierebbero nella
nostra vita se cessassimo di guardarle con uno sguardo di fede. Dal
nostro stato di figli di Dio, ai sacramenti, alla nostra vocazione
particolare, alla realtà della Chiesa e dei suoi pastori che la
guidano in nome di Cristo, alle stesse persone che ci vivono
accanto, alla speranza di salvarci dopo la morte. Tutto questo
riusciamo a sostenerlo, a viverlo e anche a comprenderlo in modo
profondo ed autentico solo nella fede. Senza la fede molto, per non
dire tutto delle cose più importanti che fondano la nostra vita,
crollano. Ecco che allora ci rendiamo conto di una prima motivazione
del perché gli apostoli fanno questa a domanda a Gesù. Perché
iniziano a comprendere che per quanto stiano con il loro Maestro, se
non coltivano uno sguardo di fede non possono continuare a seguirlo,
ad essere suoi. Quando molti, quasi tutti lasceranno Gesù per il suo
linguaggio duro, proprio Pietro motiverà il perché della loro
perseveranza con ragioni di fede: “Signore, da chi andremo? Tu hai
parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che
tu sei il Santo di Dio.” (Gv 6,68-69) Senza la fede né gli apostoli
né tanto meno noi, possiamo perseverare dietro a Gesù.
Ma da
questa richiesta degli apostoli a Gesù di aumentare in loro la fede,
possiamo capire anche un’altra cosa ed è questa: se i Dodici il dono
della fede lo chiedono al Signore, vuol dire che non sono loro a
darsi la fede ma riconoscono che hanno bisogno di supplicarla, di
pregare Gesù per ottenerla. Per poter essere veri discepoli di Gesù
che credono in Lui, hanno bisogno che Gesù li illumini. La fede è un
dono di Dio, “la fede – dice il Catechismo – è dono dello Spirito
Santo, che la previene, la suscita, la sostiene, l’aiuta a crescere”
(CdA 90). “Nessuno può venire a me – dice Gesù – se non lo attira il
Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44).
Purtroppo molta gente capisce solo questo aspetto della fede, cioè
che è un dono di Dio, e dicono: io non ho fede, Dio a me non l’ha
data, non ci posso fare niente. Ora, questo modo di pensare non è
corretto, perché è vero che la fede è un dono di Dio, ma è vero
anche che la fede bisogna volerla. La fede è vero che è un
dono di Dio, è vero che è Dio che suscita
la fede, che attrae a sé l’adesione dell’uomo attraverso le mozioni
interiori dello Spirito Santo. Questo è vero ma questo non basta,
perché se questo bastasse allora i discepoli non avrebbero dovuto
chiedere a Gesù di aumentare la loro fede, avrebbe fatto tutto lui
in modo automatico (tra l’altro senza rispettare la loro libertà).
Il fatto che loro invece lo chiedono ci dimostra anche che loro
questo dono lo vogliono, vogliono credere. E qui arriviamo a
un punto capitale, non perché sono io a dirlo ma perché lo diceva
già sant’Agostino e pure san Tommaso lo riprende. Agostino diceva: “Nessuno
crede se non perché lo vuole”. Per credere bisogna volerlo, non
nel senso che è la mia volontà che crea artificiosamente i contenuti
della mia fede, o si impone volontaristicamente e in modo forzato di
credere qualcosa, ma perché è la mia volontà che deve accettare,
deve dire sì al fatto che Dio possa essersi rivelato al mondo e
possa ancora rivelarsi a me.
Perché non sembrino assurdità queste cose che diciamo, vi riporto
un’applicazione concreta, un esempio vivente nel suo tempo (ora non
più) di questo desiderio di credere, che il Signore poi esaudì con
larghezza: il beato Charles de Foucauld. Charles de Foucauld
ricordando, in un suo scritto, la sua fase di conversione, cioè
quando non solo non era ancora né monaco trappista né eremita, ma
nemmeno cristiano, scrive: “ho iniziato ad andare in chiesa senza
essere credente, non mi trovavo bene se non in quel luogo e vi
trascorrevo lunghe ore continuando a ripetere una strana preghiera:
«Mio Dio, se esisti, fa’ che io ti conosca!»”. Ecco, questo è un
esempio di voler credere, di intelligenza e volontà aperte alla
fede. Capiamo allora che credere non è solo avere in testa delle
idee, darci la fede non è solo responsabilità di Dio; credere è
qualcosa che tocca la volontà, chiede un cambiamento, una
conversione del cuore, da uno stato di chiusura o indifferenza, ad
uno stato di disponibilità a lasciarsi guidare, disponibilità
all’eventualità che ci sia un Dio che voglia rivelarsi, e che si
riveli così com’è, non come ci piacerebbe a noi.
Per
cui, ricapitolando, crediamo se Dio lo vuole e se ci offre
gli aiuti soprannaturali per venire alla fede (e ce li offre!), ma
anche crediamo se noi lo vogliamo,
se accettiamo che l’incognita Dio, abbia un volto.
Infine, per concludere, un ultima domanda che chiediamo al testo di
oggi: a chi i Dodici chiedono la fede? Certo a Dio, ma a quel Dio
che è il Signore Gesù che sta di fronte a loro: Tu, Gesù, accresci
in noi fede! Ora, Gesù, lo sappiamo, non è solo Dio ma è anche uomo.
Per cui Cristo non è solo il destinatario dell’atto di fede nostro e
dei discepoli del Vangelo, ma è anche il modello perfetto del
credente. Per cui i Dodici che chiedono a Gesù: aumenta la nostra
fede, in concreto è come se gli chiedessero anche: Gesù, facci
credere come credi tu, facci vedere Dio, il mondo, noi stessi, gli
altri e perfino te stesso, come li vedi tu. È come quando vedendolo
pregare gli chiesero: “Signore insegnaci a pregare!” Ecco, qui
abbiamo il frutto magnifico della fede, il vero sguardo
contemplativo: vedere le cose come le vede Gesù. La fede che tocca,
che interpella la volontà dell’uomo, può coinvolgerla fino ad
entrare nello sguardo stesso di Gesù. Anche il Papa ce lo insegna.
Dice il Santo Padre Francesco: “Nella fede, Cristo non è soltanto
Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio,
ma anche colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non
solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi
occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere.” (Lumen fidei 18)
Di
fronte ad una prospettiva così alta e così bella di vita cristiana,
che anche il Papa ci ricorda, riusciamo a capire un po’ di più cosa
vuol dire che con il battesimo noi abbiamo iniziato un cammino di
divinizzazione, partecipiamo alla natura divina, ci siamo rivestiti
di Cristo (come abbiamo cantato all’inizio). O sono cose che stanno
per aria, o se no, come sono davvero, sono realtà che ci
trasformano, ci trasfigurano ad immagine di Gesù, ci rendono non
solo suoi discepoli ma anche suoi amici e suoi fratelli. Chi ci
guarda potrà dire: “Quello lì assomiglia a Gesù!”.
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mercoledì
2
Ottobre 2013
– Memoria dei Santi Angeli custodi
-
fr.
Giovanni-Battista FMJ
San Girolamo così commenta il passo evangelico
che abbiamo ascoltato, quello che dice: “I loro angeli nei cieli
vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Girolamo
dice: “è tanto grande la dignità delle anime che ciascuna di esse
ha, fin dalla nascita, un angelo deputato alla sua custodia.”
Da questo commento di Girolamo possiamo ritenere
subito una cosa, che è questa: a ciascuno di noi è stato assegnato
un angelo custode, o piuttosto l’inverso, ciascuno di noi è stato
assegnato ad un angelo custode. Tutti, fin dalla nascita. E ciò
significa allora che questo vale non solo per i cristiani
battezzati, ma anche per i non cristiani. Ogni uomo è accompagnato
dalla nascita fino alla morte dal suo angelo custode.
Cosa possiamo dire di questa assistenza
dell’angelo, di che genere di aiuto si tratta? Come lo dice la
parola stessa, si tratta di un’opera di custodia. Gli angeli ci
accompagnano, ci proteggono, ci custodiscono. Ma tentando di andare
più in là nella riflessione dobbiamo cercare di capire in cosa
consiste quest’opera di custodia. È importante questo non solo per
conoscere come agisce l’angelo custode con noi, ma anche per tentare
di imitarlo, con noi stessi e con gli altri, in questa attività di
custodia che talvolta riduciamo solo ad un aspetto, che è quello –
che rimane vero – del prendersi cura, della protezione di quanto di
buono abbiamo e siamo.
San Tommaso intende quest’opera di custodia
dell’angelo come un guidare e muovere l’uomo al bene. Ora, per fare
il bene, dice san Tommaso, si richiedono due cose: la prima è che
l’affetto cioè il desiderio dell’uomo sia inclinato al bene: e in
noi ciò si compie mediante l’abito delle virtù morali. La seconda
cosa è che l’uomo non solo abbia l’affetto, il desiderio, la volontà
orientati al bene, ma bisogna anche che la sua ragione trovi la via
giusta per operare l’atto virtuoso, capisca quali scelte concrete
deve fare per giungere al bene, e questo è un compito che Aristotele
prima e Tommaso poi assegnano alla virtù della prudenza, cioè la
virtù che orienta verso il fine giusto, il fine del bene, tutte le
nostre buone potenzialità, le nostre virtù. A questo livello si pone
l’opera degli angeli: gli angeli non solo ci proteggono, ma ci
aiutano, ci orientano, ci favoriscono, come loro sanno fare, in
questo cammino verso il bene. Si tratta della cosiddetta
“illuminazione” dell’angelo custode, come anche chiediamo nella
preghiera all’angelo custode: “angelo di Dio che sei mio custode,
illumina, custodisci, reggi e governa me”.
Un altro aspetto che possiamo mettere in luce e
da cui possiamo imparare qualcosa dall’angelo custode è quello di
frapporsi, interporsi tra Dio e noi; cioè l’angelo svolge un
ministero, una missione ricevuta da Dio per noi, come abbiamo
ascoltato anche nella prima lettura in cui si diceva: “Ecco io mando
un angelo davanti a te per custodirti nel cammino”; e poi aggiunge:
“il mio nome è in lui” e anche “Se tu dai ascolto alla sua voce e
fai quanto ti dirò”. Cioè ascoltando la voce dell’angelo si
obbedisce a Dio stesso, ciò significa che l’angelo non agisce da sé
ma si muove e muove l’uomo secondo il volere, la Provvidenza di Dio.
L’angelo buono non viene a noi se non perché mandato da Dio. E qui
potremmo avere non solo un criterio di “angelicità” ma anche di
buona e santa umanità. Sentirsi – in quanto cristiani – non solo
inviati ai fratelli, inviati a chi ci è prossimo, ma inviati per
custodire, per proteggere, per guidare al bene, per muovere al bene.
In una parola, inviati del Signore, con i tratti di cura e amore che
il Signore vuole per tutti. In questo senso anche noi possiamo
essere angeli di noi stessi e degli altri, cioè persone capaci di
aiutare gli altri secondo il volere di Dio, muovere gli altri al
bene, stimolarli, suscitare delle passioni positive, buone,
salutari.
Infine un’ultima caratteristica dell’angelo
custode è la sua invisibilità, il suo nascondimento. L’angelo c’è ma
non si vede, o meglio, non si vede ai nostri occhi ma è visibile
solo agli occhi di Dio. L’angelo opera eppure ci sfugge nel
concreto, nei particolari, che cosa dobbiamo attribuire al suo
aiuto. In questo l’angelo è ancora, non solo un custode ma anche un
maestro per noi. Un maestro che ci insegna che il bene va fatto non,
come dice san Paolo, ad oculum servientes, cioè per farci
vedere ed ammirare dagli altri, ma il bene vero, il bene autentico,
si accontenta che sia Dio a vederlo, senza troppi sbandieramenti più
o meno espliciti e manifesti. “Il bene non fa rumore” dice il Libro
di vita.
Ecco allora quante cose impariamo e riceviamo
dagli angeli: protezione, custodia, guida verso il bene, ma anche,
se lo vogliamo, uno stile “angelico”, è proprio il caso di dirlo,
nel fare il bene.
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martedì
1° Ottobre
2013
– XXVI Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni- Battista FMJ
Memoria di S. Teresa di Gesù Bambino
La lettura continua del vangelo di Luca ci
conduce oggi ad un momento di svolta all’interno della narrazione,
perché si sottolinea che siamo all’inizio del compimento, ossia si
stanno compiendo, si stanno perfezionando, stanno per consumarsi,
nel senso di giungere al loro fine, i giorni in cui Gesù, dice il
testo, sarebbe stato elevato in alto – espressione questa che indica
l’avvicinarsi di Gesù ai giorni della Pasqua decisiva, della Sua
Pasqua e nella Sua, anche della nostra.
Gesù è consapevole di questo stato di cose, è
consapevole a tal punto da scegliere liberamente di dirigersi verso
Gerusalemme, con una ferma volontà. Gesù, dice letteralmente il
testo, indurì il volto nel senso di rendere saldo, stabilire,
decidere in modo fermo e irrevocabile di mettersi in cammino verso
Gerusalemme. È questa un’espressione molto chiara e concreta,
plastica, per descriverci l’atteggiamento di Gesù che va a
Gerusalemme con tutto se stesso, in tutta la sua volontà.
Ora, noi sappiamo che questo dirigersi verso
Gerusalemme rappresenterà per Gesù l’incamminarsi verso il cuore
della propria missione. Gesù aveva già operato molti segni, molti
prodigi, aveva guarito e liberato molta gente, eppure non sono
queste le opere grazie alle quali noi siamo salvati. Gesù sa che in
questo viaggio e soprattutto negli eventi che stanno al termine di
questo viaggio, lui avrebbe compiuto la missione ricevuta dal Padre
e il perché profondo della sua presenza tra gli uomini avrebbe
trovato una risposta definitiva. E tutto quanto accadrà dopo gli
eventi di Gerusalemme, dopo il mistero di passione, morte e
risurrezione, sarebbe stato, rispetto ad essi, relativo. Gesù va
verso un punto di arrivo che sarà di fatto un punto di partenza, il
cuore, il centro di tutto ciò che seguirà ma anche di ciò che veniva
prima. La Pasqua di quell’anno 30 – secondo i calcoli degli studiosi
– sarà quella Pasqua totale, quella Pasqua eterna grazie alla quale
non solo qualcuno ma tutti vengono salvati. Così il cuore, il centro
della missione di Gesù diventa il cuore il centro di tutto il mondo.
Anche Santa Teresa di Gesù Bambino si era
chiesta: qual è il cuore della mia missione, qual è il cuore della
mia vocazione? E questa non è una domanda stupida o inutile, una
domanda per chi ha tempo da perdere, ma è una domanda a cui tutti
prima o poi dobbiamo dare una risposta, e soprattutto, una risposta
che sia giusta, che sia secondo Dio se non vogliamo vivere alla
periferia di noi stessi o fallire un’esistenza intera. Teresa dunque
si chiese meditando un testo di San Paolo: ci sono apostoli,
profeti, dottori, e io che cosa sono, che cosa faccio, come servo
questo corpo del Signore che è la Chiesa? Teresa capì, con l’aiuto
di san Paolo, che anche i carismi migliori sono un nulla senza la
carità, e che questa carità, dice Teresa, è la via più perfetta che
conduce con sicurezza a Dio. E concluse questa sua riflessione con
la celebre frase: “Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò
l’amore ed in tal modo sarò tutto.”
Ma, detto questo, dobbiamo aggiungere una cosa:
Teresa capì che l’amore non era solo il cuore della sua vita, della
sua vocazione, ma era anche il modo per raggiungere tutta l’umanità
pur rimanendo chiusa nel suo chiostro. Teresa ha saputo così avere
un cuore così grande da vivere, in questo incontro con l’Amore che
esercitava nel concreto verso le sue consorelle monache, l’incontro
con tutti. Teresa aveva scoperto il modo di arrivare fino agli
estremi confini della terra servendo ed amando l’umanità che
incontrava nel monastero. E questa sua testimonianza che sarà poi
ratificata dalla Chiesa che la proclamerà patrona delle missioni
insieme a S. Francesco Saverio, lei, una monaca di clausura, è una
testimonianza che certamente ci edifica, ci stupisce, ma
soprattutto, ci deve far riflettere. L’amore ci rende prossimi anche
se fisicamente non lo siamo. L’indifferenza e l’egoismo invece ci
rendono lontani anche se siamo fisicamente prossimi, anche se siamo
nel centro di una metropoli, nel cuore della città. In questo senso
possiamo affermare che dalla Croce di Cristo in poi ormai tutto è
relativo perché la Croce di Gesù ha stabilito non il che cosa
bisogna fare per amare, ma il come fare ogni cosa se vogliamo che
sia un vero atto d’amore, un’incarnazione e un prolungarsi nel tempo
e nello spazio dell’amore di Gesù. Questo è quanto ci ha insegnato e
ci ha consegnato Gesù, questa è la fecondità che ci testimonia oggi
santa Teresa di Gesù Bambino che nella sua “piccola via” come si
dice in genere, ha trovato la strada per un amore universale, per
amare tutti.
Davvero per chi vive ed ama in Cristo non ci sono
più barriere da superare se non quelle del proprio cuore quando
sceglie di non amare.
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Domenica 29 settembre 2013
-
26 Domenica del T.O.
- fr.
Massimo-Maria FMJ
“
Lampada per i miei passi è la tua parola luce sul mio cammino.”
Questa parola del salmista risulta quanto mai preziosa oggi per
cogliere il senso della Parola di Dio di questa Domenica.
La
Parola sempre vuole fare luce sul nostro cammino, e la Parola di
questa domenica ha certamente una luce particolare, una luce vivida,
forte, diremmo una luce impegnativa per il nostro itinerario.
Pensando specialmente al Vangelo mi pare sia necessario prendere le
distanze da alcune possibili tentazioni affinché la Parola possa
illuminare davvero il cammino.
La
tentazione della paura: la paura non è mai il segno della presenza
di Dio e delle cose di Dio.
Ma
la paura in effetti può sorgere da questa parola; si parla di
tormenti, di castighi e di inferno. Allora ecco la tentazione: presi
dalla paura, si sorvola, si cerca di passare in fretta ad una altra
Parola che magari cogliamo molto più consolante, rassicurante.
Occorre in realtà esorcizzare questa paura ed accostarsi serenamente
a questa parola discostandosi decisamente da queste paure poiché la
Parola o meglio lo scopo della Parola non è farci paura, ma
rivelarci in positivo qualcosa di importante per la vita di oggi.
Altra tentazione è quella dell’accostamento alla Parola in modo
intellettuale in cui gli faccio dire quello che voglio – tra l’altro
è un modo diverso di esorcizzare la stessa paura di cui sopra - e
non mi lascio invece illuminare da quello che lei mi vuol dire: E’
la tentazione di chi ragiona più o meno così: Suvvia tormenti,
inferno e cose simili etc. Dio è buono, siamo dopo il Concilio, il
pensiero teologico contemporaneo, l’esegesi storico critica e così
via, ci permettono di capire che la Parola vuol dire questo o
quest'altro. Occorre prendere le distanze anche da questo approccio
perché ancora - benché l’inferno, il fallimento totale di una
esistenza resta una possibilità che noi possiamo scegliere e resta
nel catechismo della chiesa cattolica definito in senso lato
l’ultimo documento del concilio – tuttavia la Parola in questione
non vuole parlarci di questo principalmente. Quindi prendere le
distanze da questo approccio che può essere tentazione che
scandalizza – fa ostacolo – alla Parola.
Ultima tentazione – altre sarebbero possibili – tentazione piuttosto
ricorrente, è quella di chi troppo in fretta tira conclusioni: non
sono mica io un riccone di quelli di cui parlano i gossip dei mass
media. Sono magari benestante, ma faccio regolarmente l’elemosina e
se mi chiedono un panino diamine gli do anche la frutta e il dolce.
Questa parola non è per me! Ecco quella che chiamo la sindrome del
vicino di banco – molto diffusa- in cui quando una Parola è
proclamata sono maestro nell’individuare bene con chiarezza di chi
sta parlando, a chi si sta rivolgendo, chi dovrebbe ascoltarla:
tutti, il vicino di banco o di coro, ma non io.
E
invece cari fratelli e sorelle la buona notizia di oggi è che questa
parola è tutta per ciascuno di noi, nessuno escluso.
Cosa ci vuol dire? Facendo saltare le tentazioni di cui sopra certo
già tanto dirà a ciascuno, ma almeno una mi pare importante
sottolineare.
La
Parola sta dicendo che i ricchi vanno
all’inferno e i poveri in paradiso? Non propriamente. Il problema di
sempre non è la ricchezza, ma l’attaccamento del cuore di fronte ad
essa, l’atteggiamento del cuore di fronte al suo fascino.
Nella Parabola allora c’è Lazzaro il cui nome vuol dire “ Dio aiuta
“ e c’è un ricco che dalla stessa descrizione pare esplodere
dall’opulenza della sua vita. Talmente carico di cose, di cibo, di
ricchezza con la quale non vive, ma per la quale vive, che – ecco il
vero peccato, ecco il vero inferno, ecco la vera tragedia – non vede
Lazzaro non si accorge di colui che sotto la sua tavola mangia gli
scarti, le molliche di pane che gettava dopo essersi pulito la bocca
– così come era usanza presso i ricchi orientali.
La
ricchezza anziché strumento per fare del bene, lo rende cieco, lo
rende incapace di vedere chi gli stà accanto. Ecco la Parola per
noi. Non è necessario avere conti in banca con tanti zeri per essere
ricchi, ognuno ha delle ricchezze materiali spirituali,
intellettuali, umane. Queste le uso per gli altri o mi impediscono
di vedere gli altri, di accogliere gli altri, di ascoltare gli
altri, di servire gli altri, di accorgermi degli altri?
Il
problema non è solo l’inferno di domani, ma è già l’opportunità
persa di fare del bene oggi, di vivere bene oggi. Il Manzoni nei
promessi sposi dopo aver parlato di un personaggio simile al nostro
ricco epulone raccomanda al lettore: “Non pensare a star bene, pensa
a fare il bene: starai meglio.”
Ecco l'invito allora della Parola di Dio: non una minaccia per
intimorire, ma un invito alla condivisione, all'attenzione agli
altri, a conservare intatto vivendolo il comandamento di cui parla
Paolo scrivendo a Timoteo, il comandamento
dell'amore. A conformarci sempre più al Signore che non solo si
accorge degli altri, ma si prende cura. Il ricco epulone non si era
accorto di Lazzaro, eppure lo aveva a fianco. Ma Dio sì! E gli viene
in aiuto.
Questo fare del bene piuttosto che pensare a star bene per
riprendere la frase del Manzoni non solo ci fa star meglio, ma ci
conforma al mistero del Signore, al suo amare incondizionato, al suo
condividere diremmo esagerato, al suo donarsi smisurato e
disinteressato.
Il
rischio di vivere ciechi a causa delle ricchezze che tutti abbiamo è
sempre molto forte, ma la chiamata è a fare come Dio che spogliò se
stesso per rendere noi ricchi con la sua povertà.
Il
rischio di non accorgerci dell'altro perché presi dai nostri
interessi, spesso buoni addirittura molto
buoni, è più reale di quanto sembri, ma la chiamata è per noi ad
uscire da se per andare verso l'altro, il Papa continua a dire verso
le periferie e spesso queste periferie non sono molto lontane da
noi.
Il
Signore ci doni allora in questo giorno di non temere di accogliere
questa Parola nella nostra vita, di non esitare a cercare il bene
dell'altro condividendo le nostre ricchezze – di ogni tipo - e non
solo staremo meglio, ma ciò che più conta è che il Signore ci
chiamerà oggi amici e un giorno beati. Amen
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giovedì
26 Settembre 2013
– Giovedì XXV Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Nei vangeli noi troviamo vari modi di Gesù di
relazionarsi con le persone, di guardare la gente che incontra, una
relazione che si esprime nei termini di una chiamata, talvolta di
una guarigione, altre volte con un esorcismo. Gesù chiama i Dodici e
altri discepoli, guarisce da malattie, libera dal demonio, oppure
semplicemente annuncia la parola di Dio e racconta parabole.
Nei vangeli però non c’è solo questo, ma ci sono
anche modi diversi dell’uomo di relazionarsi con Gesù. Si va dalla
supplica, alla richiesta di aiuto impetrata da terzi, altra gente
pone a Gesù quesiti di scuola, cioè quesiti teologici o morali.
Comunque, da entrambe le prospettive, quella di
Gesù verso di noi e quella dell’uomo verso Gesù, ci troviamo
nell’ottica del dialogo, della reciprocità. Nei vangeli, o meglio in
Gesù, l’Emmanuele, prosegue quel dialogo che da secoli che Dio aveva
intessuto con il popolo d’Israele, un dialogo che in fin dei conti
non era altro che un rispondere ad una chiamata, un dire un sì
sempre nuovo all’alleanza con Dio. E gli antichi profeti non erano
altro che degli uomini scelti proprio per nutrire, per alimentare
con tutto il loro essere, vita e parole, questo dialogo tra Dio e
l’uomo. Così il popolo giungeva alla conoscenza del Dio dei Padri, e
sempre nella relazione, nello scambio e nel dialogo, la gente
incontrava e conosceva Gesù.
Con Gesù non esistono i monologhi in cui parla
uno solo, e Gesù stesso alle volte era lui stesso che chiedeva,
interrogava, provocava una conversazione, cercava risposte dai suoi
interlocutori o si mostrava anche bisognoso di aiuto, pensiamo al
brano della samaritana. A Gesù interessa non anzitutto insegnare dei
contenuti nuovi, che pur ci sono, trasmettere delle verità nascoste,
anzi molto di questo lo “delegherà” alla futura opera dello Spirito
che appunto, dice, vi condurrà alla verità tutta intera, prenderà
del mio e ve lo annuncerà, ecc. A Gesù interessa anzitutto farsi
conoscere dagli uomini, incontrare gli uomini, stare con gli uomini,
far vedere che è loro amico, creare una relazione con noi per
portarci alla salvezza. La Dei Verbum dirà proprio questo: “Il Dio
invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si
trattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con
sé” (DV 2)
Ora, qual è l’opposto di questa relazione di
amicizia che il Signore vuole costruire con gli uomini? Come
rendersi impermeabili a questo legame? Ecco non anzitutto con l’odio
o il disprezzo, ma con l’indifferenza, o nel caso del vangelo di
oggi, con la neutralità.
C’è una cosa che accomuna Erode e Zaccheo, ed è
proprio questa neutralità nel guardare Gesù. In questo lo sguardo di
Erode su Gesù è simile a quello di Zaccheo dall’alto del suo
sicomoro. Simile ma non identico: c’è infatti una differenza
importante: Zaccheo è vero che sale sul sicomoro per guardare senza
essere visto, per conservare la sua neutralità, ma quando Gesù lo
chiamerà e gli dirà “scendi subito”, Zaccheo accetterà di entrare in
questa reciprocità di sguardi.
Come invece Erode guarda Gesù? Lo rivela
l’atteggiamento di Gesù. Gesù, davanti ad Erode rimane in silenzio.
Questo silenzio è la risposta di Gesù alle provocazioni di Erode che
lo interrogava e sperava di vedere qualche miracolo. Erode tratta
Gesù come un oggetto di divertimento, come una cosa sua, come
qualcosa con cui saziare la sua curiosità. Insomma tratta Gesù
volendo dominare la situazione. Erode non cerca il dialogo sincero,
come non lo cercava con Giovanni Battista. Erode non cerca una vera
relazione con Gesù e Gesù allora con lui non parla.
Da tutto questo capiamo allora che non possiamo
conoscere Gesù se vogliamo rimanere nella nostra neutralità, o
peggio ancora, nella nostra arroganza, tranquilli nelle nostre case
ben coperte, come dice il profeta Aggeo, e guardare tutto dalla
finestra. No! Se vogliamo conoscere Gesù dobbiamo avere il coraggio
della relazione con Gesù, dobbiamo avere il coraggio di entrare in
questo dialogo, in questo trattenersi di Gesù con noi. Dobbiamo
avere il coraggio dell’umiltà, quell’umiltà che si lascia guardare
da Gesù, si lascia chiamare da Gesù, si lascia amare da Gesù, e gli
risponde, gli parla, lo ama. Gesù non cerca degli spettatori ma
degli amici, e chi diventa amico di Gesù attira poi altri amici,
impara da Gesù l’arte, il balsamo dell’amicizia, impara da Gesù a
essere amico, a farsi amico, a uscire da sé per andare verso un
incontro, una relazione che è già evangelizzazione perché era il
modo stesso di evangelizzare che usava Gesù.
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venerdì
27 Settembre 2013
– XXV Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Se proviamo a dare una lettura veloce al vangelo
di Luca vediamo che il brano che leggiamo oggi è la prima occasione
in cui Gesù interroga i suoi discepoli sulla loro fede. Già da tempo
lo seguono, cioè già da tempo vanno dietro a Gesù, ascoltano Gesù,
obbediscono a Gesù pur non sapendo ancora bene chi sia, e ora il
Signore vuole sondare la loro fede.
Perché questa domanda, o meglio queste domande,
perché sono due? Forse perché il Signore non conosceva ciò che
domandava, lui, che come dice san Giovanni, conosce quello che c’è
nell’uomo? Chiaramente non è per questa ragione. Perché allora Gesù
si informa su cosa pensano gli altri e su cosa pensano loro, i
discepoli?
Una prima ragione possiamo dedurla dal contesto
in cui questo brano è collocato nel vangelo di Luca. La posizione di
questo brano è più o meno centrale nel vangelo di Luca, non in senso
geometrico, perché non siamo esattamente a metà, ma nell’andamento
del vangelo stesso. Gesù sta per salire a Gerusalemme, e come
sappiamo, Gesù non ci salirà da solo ma vi andrà con tutto il gruppo
degli apostoli. Gesù prima di salire a Gerusalemme vuole mettere
alla prova la fede dei suoi, o più che metterla alla prova, vuole
che la esplicitino, vuole che dicano le loro sensazioni, le loro
idee su di lui, vuole che la loro opinione su Gesù venga a galla.
Gesù vuole che i suoi discepoli lo seguano in modo consapevole. E
questo è molto importante anche per noi. Non possiamo seguire Gesù
senza sapere chi è Gesù. Sapere chi è Gesù significa infatti
rendersi consapevoli, riconoscere in se stessi prima che di fronte
agli altri, che Gesù è degno di fede, è degno di fiducia e perciò è
degno di essere seguito. Se la vocazione cristiana è una vocazione
libera vuol dire anche che è una vocazione consapevole, cioè che non
va alla cieca, non avanza senza un perché. Ciò non significa che
dobbiamo necessariamente capire tutto del nostro cammino, però è
essenziale capire e credere una cosa, almeno questa cosa: Colui che
stiamo seguendo non è un uomo qualsiasi ma è il Cristo, il Figlio di
Dio. Se questa fede è chiara e consapevole in noi tutto il resto può
anche rimanere meno chiaro, ma l’importante è sapere che colui che
ci guida è il Figlio di Dio. Se questa fede invece non c’è, è dura
andare avanti, perseverare dietro a Gesù.
Anche perché, e qui arriviamo ad un secondo
punto, Gesù non è un Dio come ce lo faremmo noi, come ce lo
immagineremmo noi. E meno male! Se no avremmo un dio che sarebbe
proiezione in grande dei nostri ideali, dei nostri desideri e
perfino della nostra personalità: per cui il dio super-uomo, il Gesù
femminista e così via. Insomma una versione perfetta di noi stessi.
Per cui le nostre idee su di Gesù rimangono idee che vanno
sottoposte ad una conversione, ad una crescita, dobbiamo esporle ad
una maturazione perché Gesù non è un Messia qualsiasi, se così
possiamo dire, o come lo vorremmo noi. Gesù è un Messia crocifisso,
il Dio crocifisso come lo chiama sant’Agostino. La Croce ha segnato
una volta per sempre il corpo di carne di Gesù, ormai è qualcosa che
fa parte di Lui come fa parte di Lui la risurrezione. Non possiamo
separare Gesù dalla Croce. Come non possiamo scindere il mistero
pasquale, cioè come non possiamo più pensare che la morte abbia
l’ultima parola dopo la risurrezione di Cristo, così però non
possiamo separare Gesù dalla Croce. Chi fa questa operazione
indebita e antistorica, predica un altro Gesù, un Gesù che non è il
Gesù di Nazareth, non è più Gesù Cristo. E questo è un rischio per
tutti perché talvolta vorremmo che la vita cristiana non fosse una
sequela di Gesù, ma qualcosa di diverso, un modo di vivere bene, una
saggezza interiore o una bella morale o perfino un battezzare il
nostro modo di pensare lasciandolo così com’è. Il cuore del cammino
cristiano è e rimane un cammino dietro a Gesù che ha anche per noi,
come per Gesù e i Dodici, un punto di partenza e un punto di arrivo,
o piuttosto, luogo di transito, che si chiama Golgota. Non possiamo
seguire Gesù senza portare la Croce.
Se non abbiamo chiaro questo, di fatto ci
troviamo a pensare anche noi come pensano le folle: Gesù è Giovanni
Battista, è Elia, è uno degli antichi profeti, ma non è il Messia da
seguire. Si va da Gesù, come le folle (e infatti questo brano viene
subito dopo quello della moltiplicazione dei pani) quando abbiamo
bisogno noi, ma di seguirlo dove vuole lui non ci stiamo. E
attenzione, le folle, non era gente che non aveva mai incontrato
Gesù, ma era gente che l’aveva incontrato, l’aveva visto all’opera
nel fare i miracoli Eppure queste folle non pensano come discepoli
di Gesù, non sono discepoli di Gesù, parlano di Gesù senza seguirlo.
Ci sono infatti i lontani dalla Chiesa, ma ci sono anche i lontani
nella Chiesa. Questo può accadere anche a noi cristiani e a noi
consacrati e monaci quando dimentichiamo che Gesù lo si venera, lo
si adora, lo si cerca, (il famoso quaerere Deum) seguendolo,
camminando dietro di lui. Questa è la nostra professione di fede.
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Domenica
22
Settembre 2013
– XXV Domenica T. Ordinario –
fr.
Giovanni Battista FMJ
Le letture di oggi ci invitano a riflettere sul rapporto che il
cristiano, il discepolo di Gesù, deve avere con il denaro, con la
ricchezza e con il lavoro, un rapporto che non è disgiunto dal fine
dell’uomo, dal bene della sua anima, dalla salvezza eterna. Un
rapporto del quale dovremo rendere conto come l’amministratore del
Vangelo di oggi.
Un primo criterio di valutazione di questo
rapporto ce lo offre il vangelo stesso che si conclude con
un’affermazione chiara e netta che ci invita ad una scelta, ci
esorta a prendere posizione, ci impedisce di tenere il piede in due
scarpe: “ non si possono servire due padroni, non potete servire Dio
e la ricchezza.” Queste parole già ci interrogano e ci invitano a
chiederci: chi noi vogliamo servire? Chi è il Dio che vogliamo
adorare? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? È importante farsi
questa domanda e, chiaramente, rispondervi.
La prima lettura ci trasmette, tramite il profeta
Amos, le parole di coloro che hanno scelto come loro dio il denaro;
non solo ce ne trasmette le parole, ma ci presenta a quali frutti
porta, a quali conseguenze conduce una scelta di vita che mette al
primo posto la ricchezza: ingiustizie sul povero e sull’umile, uso
di bilance false, compravendita di persone come se fossero oggetti
di cui disporre liberamente. L’uomo che sceglie di fare della
ricchezza il suo Dio di conseguenza subordina tutto il resto,
persino le relazioni con gli altri uomini, a questo valore supremo
che è il diventare ricchi, l’accumulo per sé. Tutto deve servire a
rendermi grande, a rendermi ricco, a rendermi potente. E attenzione,
questo non vale solo per la ricchezza materiale ma possiamo
estenderlo anche per la ricchezza umana come la cultura,
l’intelligenza, lo studio, le proprie capacità umane e persino
spirituali, queste cose che in sé sono buone, possono diventare il
dio della nostra vita e creare violenza, discriminazione o anche
schiavitù intorno a noi. La lettura però si conclude con delle
parole che ci fanno capire che Dio, il vero Dio, non è un Dio
distratto, ma è un Dio che vede tutto e si prende cura dei suoi
poveri: “Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non
dimenticherò mai tutte le loro opere»”.
Se però noi decidiamo di servire Dio e non la
ricchezza, di conseguenza dobbiamo anche riconoscere, se vogliamo
andare fino in fondo nelle cose, per essere coerenti con questa
scelta, che allora la ricchezza non può avere il primo posto nella
nostra vita, non possiamo considerarla come una valore assoluto ma
dev’essere ridotta al rango di un valore strumentale, cioè qualcosa
che non dev’essere per noi un obbiettivo da raggiungere in se stesso
o per accrescere il nostro grandeur, ma qualcosa che ci serve
solamente per raggiungere gli obbiettivi che più sono coerenti con
la nostra scelta fondamentale di servire Dio. È un po’ quello che
cerca di fare l’amministratore disonesto che, con quella scaltrezza
che viene elogiata dal padrone, fa di tutto per sistemare le cose.
Lui che aveva sperperato i beni del suo padrone, cioè aveva fatto
dei beni del suo padrone un uso che non era più un servire il suo
padrone ma un lucro per se stesso, ora cambia: organizzando
diversamente gli stessi beni cerca di fare qualcosa che possa
salvarlo. Potremmo certo ribattere che comunque l’amministratore
ritoccando le ricevute dei debitori sta agendo ancora per il proprio
interesse, per il proprio vantaggio. Sì, ma adesso l’amministratore
non cerca più solo un vantaggio economico, finanziario come prima,
ossia un lucro fine a se stesso, ma sta cercando un guadagno per il
futuro, quel futuro che nella parabola che usa un linguaggio
simbolico, un linguaggio metaforico, è presentato con l’immagine del
trovare accoglienza, del trovare ospitalità, che fuor di metafora
significa, trovare accoglienza nella vita eterna. La ricchezza a
questo punto diventa di giovamento per la propria anima, per la
propria salvezza.
Un secondo aspetto che possiamo cogliere dalle
letture di oggi e che già ci è diventato un po’ più chiaro, un po’
più evidente, è questo: la ricchezza in sé non è nè buona nè
cattiva, può essere invece buona o cattiva la scelta che l’uomo fa
di come utilizzare questa ricchezza. L’uomo ha il potere di rendere
buone o cattive le cose, può cioè renderle dei beni o dei mali,
degli strumenti di benedizione di Dio e di beneficio per sé e gli
altri, o trasformarle in strumenti per maledire il Creatore e far
del male a sé e anche agli altri. L’uomo, in tutto questo, svolge
una mediazione, l’amministratore di fatto è un mediatore, qualcuno
cioè che si pone tra il vero proprietario della ricchezza (che è Dio
in ultima istanza) e gli effetti che l’utilizzo di questa ricchezza
provocano a valle. Una mediazione di cui l’uomo-mediatore dovrà
rendere conto.
Ora, la seconda lettura di oggi fa menzione
anch’essa di un mediatore dicendo che uno solo è il mediatore tra
Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Come media l’uomo Cristo Gesù?
Di che genere è la mediazione di Gesù? È una mediazione, come
sappiamo, nell’ordine della creazione (per mezzo di lui tutte le
cose sono state create) e nell’ordine della redenzione (per noi
uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo). In tutto questo
Gesù esegue fedelmente il volere di Dio per il quale esercita la
mediazione, la amministrazione, e la volontà di Dio è espressa
chiaramente pocanzi nella lettura: “Dio vuole che tutti gli uomini
siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”. Ecco il
criterio ultimo, vero e fondante della mediazione di Gesù a cui si
deve conformare il discepolo di Gesù: tutto ciò che fa sia in ordine
alla salvezza e alla conoscenza della verità. Se dunque noi ci
chiediamo come essere amministratori non solo di quanto possediamo
in questa vita ma soprattutto di quanto siamo, come dobbiamo essere
amministratori di noi stessi, dobbiamo continuamente guardare a
Gesù, fare nostro il criterio, il modo, il fine della mediazione
dell’unico mediatore fra Dio e gli uomini che è Gesù, e cioè la
salvezza nostra e di tutti. Come è la sua mediazione
così dev’essere anche la nostra mediazione non
nel senso che ci siano più mediatori tra Dio e uomo, solo Gesù lo è.
Ma nel senso che la nostra mediazione non dev’essere altro che un
prolungamento, una continuazione di quell’unica mediazione con cui
Gesù ci ha procurato la salvezza, dev’essere un collaborare con
l’opera di Cristo. A questo punto la linea per agire è più chiara:
se qualcosa di ciò che facciamo nuoce alla salvezza degli uomini o è
di ostacolo all’incontro con Dio o alla conoscenza della verità, non
dobbiamo farla. Tutto ciò che invece è fedele a questo volere di Dio
dobbiamo farlo con tutte le nostre forze. È questa l’amministrazione
che ha successo agli occhi di Dio, il buon governo di sé e del
mondo.
Infine, per concludere, possiamo spendere due
parole su quanto Gesù dice alla fine della parabola, una parola che
ci piace sentire sulla bocca di Gesù perché ci sfata un po’ la
caricatura del cristiano come uno un po’ tonterello, poco sveglio.
Gesù riconosce che i figli di questo mondo, con i loro pari, sono
più scaltri dei figli della luce. Sono parole interessanti per due
ragioni: la prima è che Gesù, nonostante la disonestà
dell’amministratore, riesce a cogliere qualcosa di positivo nel suo
atteggiamento, che è la scaltrezza. Noi forse saremmo stati più
sdegnati, dall’alto della nostra onestà, avremmo visto solo la
scorrettezza del servo, avremmo detto che quell’uomo era
un’opportunista, cercava i propri interessi, un furbastro, cose che
possono essere vere. Gesù però che ha uno sguardo più vero e più
equilibrato del nostro sulle vicende e sulle dinamiche umane, mette
in luce gli aspetti positivi del mondo e di questa vicenda. Gesù non
è nemico del mondo, non è nemico degli uomini. Nella sua mediazione
di cui vogliamo diventare partecipi rientra anche questo: uno
sguardo che certo vede le cose del mondo, ma che cerca anche di
comprendere, di discernere, di far emergere il buono e non solo il
cattivo.
La seconda ed ultima cosa, è che se Gesù non è
nemico degli uomini e del mondo, non è nemico neanche
dell’intelligenza e della furbizia dell’uomo. Anzi, Gesù ci invita
ad una santa furbizia. Oggi, come altrove nel vangelo come per
esempio quando dice: “Sapete interpretare l’aspetto del cielo e non
siete capaci di interpretare i segni dei tempi?” (Mt 16,3), Gesù ci
esorta ad usare la nostra intelligenza non solo nelle cose che ci
stanno a cuore come il lavoro, la famiglia, gli affetti ed il
guadagno, ma anche nel considerare ed organizzare il nostro cammino
di santità. Per questa ragione loda la scaltrezza del servo
disonesto e invita così anche noi ad imparare da lui e a farci furbi
nelle cose di Dio come i figli del mondo lo sono nelle cose del
mondo. Talvolta mettiamo tutto il nostro impegno, la nostra
professionalità e la nostra intelligenza nelle cose di questa terra
(sport, calcio, lavoro, politica ecc.) e poi rimaniamo atrofizzati,
un po’ ignoranti e poco pratici nelle cose di Dio che sono, tra
l’altro, quelle da cui possiamo ottenere il bene, il guadagno
maggiore e migliore. Ascoltiamo allora quest’oggi la voce di Gesù
che è come se ci dicesse: Fatevi furbi! Fatevi santi!
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mercoledì
19 Settembre
2013 –
XXIV Settimana T. Ordinario –
fr.Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi si chiude con un’affermazione
che ricorre anche altrove nel vangelo, in genere associata a episodi
di guarigione, di miracolo compiuti da Gesù: “la tua fede ti ha
salvata, vai in pace.” Gesù, con queste parole, sottolinea la fede
di questa donna peccatrice che si rannicchia ai piedi di Gesù, ma,
se leggiamo i versetti precedenti con attenzione, sembrerebbe che la
cosa più importante non fosse tanto la fede. Gesù non aveva parlato
di fede ma di amore e di perdono, e d’altro canto la donna, non dice
nulla che dimostri la sua fede se non un atteggiamento di affetto e
di pentimento nei confronti di Gesù. Ci saremmo dunque aspettati che
Gesù dicesse non la tua fede ti ha salvato ma una frase come: il tuo
amore ti ha salvato, il tuo pentimento! E invece no, Gesù parla di
fede. Gesù vede nell’atteggiamento della donna, e in particolare
nell’amore con la quale essa esprimeva il suo pentimento e la sua
gratitudine verso Gesù, in tutto questo Gesù legge la fede della
donna. La donna professa la sua fede, proclama, potremmo dire, il
suo Credo, il suo Te Deum, amando. Da questa donna possiamo imparare
molto anche noi, anzitutto una cosa: se la fede cristiana non ci
porta ad amare, a vivere nella compassione, ad avere in noi il germe
del bene che è l’amore, potremmo essere anche le persone più
osservanti, più generose, più ossequienti alla Legge; potremmo
perfino, direbbe san Paolo, consegnare il nostro corpo per essere
bruciato, tutto questo a nulla ci gioverebbe senza l’amore. L’amore
rivela la fede, l’amore è epifania della fede perché dove c’è
l’amore c’è Dio!
Un secondo aspetto interessante del vangelo di
oggi lo troviamo nella breve parabola che Gesù racconta: Gesù dice
che i due debitori non avevano di che restituire il debito. In
questa situazione ci troviamo noi tutti e anche ogni uomo nei
confronti di Dio. Davanti a Dio tutti siamo persone in debito,
persone non in grado di restituire quanto da lui riceviamo, e
neanche capaci di risanare, di recuperare pienamente di fronte a lui
e di fronte agli altri, il danno causato dai nostri peccati. Nei
confronti di Dio siamo e saremo sempre in debito, persone in
deficit. Questo stato di perenne e cronica, potremmo dire,
incapacità di dare una risposta a Dio che sia, anche solo
minimamente, alla pari di quanto da lui riceviamo, invece che essere
una disgrazia è quanto può aprire davvero il nostro cuore ad una
relazione liberante, ad una relazione che non abbia più da
dimostrare o da rimborsare nulla a Dio, una relazione d’amore.
L’amore non attende che essere amato, non vuole altro; l’Amore non
attende altro che essere accolto ed essere vissuto, ringraziato,
imitato. È questa la vita divina che deve scorrere nelle nostre vene
e che può cambiare noi, il nostro modo di pensare e perfino il mondo
intero. Se non accettiamo questo squilibrio cronico tra noi e Dio
saremo sempre persone che vorranno farsi ed apparire grandi e
giusti, persino di fronte a Dio. Rimarremo anche noi al livello del
fariseo, molto giusto ma di una giustizia che non è quella di Dio,
devoto del suo dio e non del volto autentico del Signore che infatti
non riesce a riconoscere pur avendolo di fronte. Da questa giustizia
più umana che divina nascono, di conseguenza, relazioni tra gli
uomini più secondo il mondo che da figli di Dio, relazioni di
giudizio, di critica, di separazione in categorie di giusti e di
ingiusti, di amici e di nemici, di peccatori e di santi. La misura
che Gesù usa nel vangelo di oggi è l’amore: questa donna per quanto
peccatrice nella sua vita passata ha incontrato in Gesù un amore che
il fariseo nemmeno riconosce. Ha sperimentato quella potenza della
misericordia di Dio, di cui parla l’orazione colletta di oggi, che
l’ha rinnovata, l’ha resa una donna nuova. I capelli, le labbra, gli
occhi, il profumo, le mani, tutto quanto prima in lei era a servizio
di una vita di peccato, ora lo usa per onorare il corpo del Signore.
È questa la vera conversione, è questa la potenza
della misericordia: quella forza che non distrugge ma rinnova, rida
dignità perché tutti siano felici e fieri di abitare nella casa del
Padre.
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Domenica 15 settembre 2013
- XXIV Dom. del T.O. -
fr. Massimo-Maria FMJ
La Parola di Dio che questa domenica la liturgia ci
offre è particolarmente ricca. Cerchiamo di raccogliere alcuni
riflessi di questi testi luminosi perché il nostro cammino ne sia
rischiarato e nulla della nostra vita personale o comunitaria sia
volutamente tenuto fuori dalla grazia di questa Dono.
Il tema senza
dubbio è quello misericordia di Dio verso l'uomo peccatore. Ma
stranamente la liturgia della Parola si apre con testo – quello
dell'Esodo – in cui, se non ci fosse stato Mosè, i sentimenti e i
propositi di Dio avevano decisamente preso tutt'altra direzione
rispetto alla clemenza ed alla misericordia.
“ Il
Signore disse a Mosè: "Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo
dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di
loro e li divori. “
Una
Parola dura, diremmo tremenda da parte di Dio, ma ecco la figura di
Mosè: non solo tratta con Dio, ma gli ricorda dell'alleanza, gli
ricorda il patto che aveva fatto giurando su se stesso. E Dio grazie
all'intervento di Mosè si pentì del suo proposito.
Davvero strano questo testo, davvero misterioso. Dio che minaccia e
Mosè che intercede. Cosa vuole rivelarci la Parola ? Ci si chiede
allora!
L'autore Sacro mostra volutamente Dio simile all'uomo – utilizza un
cosiddetto antropomorfismo - presenta cioè un Dio che, come l'uomo,
si irrita e persino parrebbe volersi vendicare scoprendosi tradito.
Ma così facendo prepara il terreno perché attraverso l'atteggiamento
di Mosè si sveli il vero volto di Dio che, Mosè, in realtà conosce
bene.
Mosè infatti, nonostante le parole forti e i propositi drammatici di
Dio, insiste, ha il coraggio di andare oltre le parole di Dio
perché ormai conosce il cuore di Dio e quindi non crede in un
certo senso a questo proposito di Dio.
E'
interessante come si esprime il testo:"Mosé supplicò", ma piuttosto
il verbo significa "incominciò ad accarezzare il volto del Signore".
In altre parole Mosé accetta di essere come un figlio che sa di
essere amato e che gioca con il padre e usa tutte le sue risorse per
poter portare il padre al sorriso. E lo fa perché lo conosce, lo
conosce bene, e sa che il cuore è altro rispetto al volto
apparentemente irato. Ecco che questo brano è un testo davvero bello
della Scrittura.
Mosé, ha scoperto veramente il volto di Dio, un volto che dà fiducia
e garantisce confidenza. Da qui nasce l'intercessione di Mosè,
intercessione che profetizza l'Intercessore e Mediatore per
eccellenza: Gesù il Figlio amato.
Gesù infatti intercede perché conosce il cuore del Padre. Potremmo
soffermarci tanto sul mistero e ministero della preghiera di
intercessione nel corpo della Chiesa- ministero che appartiene
particolarmente al ministero sacerdotale e ed al ministero
monastico, ma non certo in modo esclusivo.
Intercede veramente, con gioia, con intensità e - diremmo con
convinzione - chi conosce il cuore di Dio profondamente perché ne
ha fatto esperienza.
Il vero intercessore infatti, come Gesù, ha scoperto la bellezza e
la bontà di Dio, crede in Lui e sempre misteriosamente si mette
davanti a Lui sentendo di poter serenamente prendere la parte del
più debole, del fratello più bisognoso di bontà e misericordia,
perché in fondo Dio non aspetta altro.
Ma, evidentemente, la misericordia del cuore di Dio splende
sul volto di Gesù e nella Parola che attraverso l'evangelista Luca
ancora oggi ci dona.
Voglio sottolineare tre cose importanti della Parabola del
Padre Misericordioso; la terza che Gesù racconta nel capitolo 15 di
Luca.
La Parabola dice che il Padre: divide le sostanza, lascia
partire il figlio e lo aspetta.
Che
il Padre attenda il figlio non è detto chiaramente, ma lo si capisce
dal fatto che, nel momento del ritorno, il padre – dice il testo-
lo vide quando era ancora lontano.
In questa attesa c'è tutta una prima sfumatura di questa
misericordia. La misericordia non perde mai la speranza!
Se Mosè conosce il cuore di Dio e per questo intercede, possiamo ora
dire che il padre conosce il cuore del figlio e sa che in fondo c'è
del buono, c'è della bontà, perciò spera, lo ama, lo aspetta.
La misericordia è molto di più che perdonare dall'alto della nostra
magnanimità, è credere al buono che c'è nel peccatore anche se non
si vede. Spesso proprio quel buono, pur infinitamente piccolo,
diviene il piccolo resto da cui tutto – per misterioso disegno di
Dio – tutto riparte, il cammino di conversione rinasce. La
misericordia è – possiamo dire - sostenuta dalla speranza.
Ma ancora: nel momento in cui il figlio ritorna, si era preparato un
bel discorsetto, forse per far colpo sul Padre. Ma non c'era
bisogno! Il Padre misericordioso infatti non glielo fa dire tutto,
ma solo una prima parte, e cioè: “ Padre ho peccato verso il cielo e
davanti di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.”
Se la misericordia è sostenuta dalla speranza, è anche
suscitata e animata dalla verità. Non è una grazia a buon mercato
disse il Papa Benedetto; ci è offerta sempre, immeritatamente,
all'infinito, non fa che assicurarci Papa Francesco: a noi però è
chiesto di fare verità. Non ci è chiesto di flagellarci, di farci
rodere dai sensi di colpa, ci è però chiesto di essere veri, di non
far finta di nulla davanti al male, ci è chiesto di chiamarlo col
suo nome. Chiamare le cose con il proprio nome quanto è importante,
e quanto libera e dà pace. L'ipocrisia è l'esatto contrario.
Colpisce se ci fate caso che Papa Francesco, che forse passerà alla
storia come il Papa della misericordia e della tenerezza – e Papa
Benedetto come Papa della mitezza e l'umiltà - insista – Papa
Francesco - sul confessare il proprio peccato, chiamandolo per nome,
individuandolo chiaramente. Non basta quando ci si confessa dire
sono un peccatore – ha detto – ma chiamare le cose con il proprio
nome: ho fatto questo, questo e questo.
E tanto meno non è il caso di confessarsi dei peccati degli altri
per non vedere i propri.
Essere veri davanti a Dio, davanti a noi stessi, non raccontarsela
su tanto, questa verità davvero spalanca la porta ad una gioia
immensa e liberante: si chiama esperienza della misericordia.
E in ultimo: il Padre non semplicemente fa al figlio un
discorso tenero, bello, incoraggiante pieno di misericordia, ma pone
dei gesti chiari, concreti, visibili, esperimentabili: gli si gettò
al collo, lo baciò, gli mise l'anello, il vestito e i calzari, e
fece una grande festa.
Dio fa così con noi! Ecco che forse il primo invito allora è aprire
gli occhi per vedere questi segni concreti della sua misericordia
nella nostra vita. Quanta misericordia Dio ci usa e ci ha usato! Il
Salmista come stupito da una tale esperienza canta: “ Canterò senza
fine le misericordie del Signore.”
Accorgerci di questo non solo ci da la gioia di sentirci sempre più
perdonati, ma anche ci guarisce dal male della nostalgia e della
lamentela.
Ma anche possiamo chiederci – a partire da ciò - come noi
testimoniamo concretamente agli altri la misericordia ? Lo facciamo
con le teorie, o con gesti, con segni, con fatti concreti? Dio ci ha
detto e dato la sua misericordia con il Figlio suo Crocifisso e
risorto, noi non possiamo pensare di dire la sua misericordia ai
fratelli solo con discorsi, senza porre gesti, senza sporcaci le
mani, senza fare della nostra vita un dono. ( La vita monastica è
cantare questa misericordia nel dono di sé a Lui per i fratelli )
Il Signore ci invita oggi allora a lasciarci provocare dalla sua
misericordia: accogliendola. Chi davvero ne fa esperienza, chi
davvero conosce il cuore di Dio non solo diventa intercessore – come
Mosè e soprattutto Gesù – ma di questa misericordia diviene
concretamente testimone.
Il Signore ci conceda ci credere davvero a questa misericordia che è
sostenuta dalla speranza, animata dalla verità e sempre molto
concreta.
S. Ambrogio ne era convinto e scriveva infatti: “ Non avere mai
timore che Egli non ti accolga. Già ti corre incontro al vederti
tornare. Tu temi il castigo, ma Egli ti porge un bacio; ti aspetti
un invettiva ed Egli ti invita al banchetto.....Ti riporta a spalle
come fa un pastore, viene a cercarti come fa una madre; ti riveste
come fa un padre.”
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sabato
14 Settembre
2013 –
Festa dell’Esaltazione della Santa Croce
- fr.
Giovanni-Battista FMJ
La liturgia di questa festa dell’esaltazione
della santa Croce non poteva non scegliere come lettura un passo del
vangelo secondo Giovanni, il vangelo che più mette in risalto la
dimensione gloriosa della Passione di Cristo,un Cristo padrone di sé
che se viene ucciso è perché si consegna volontariamente e
liberamente alla morte. Non è uno sventurato il Gesù secondo
Giovanni, ma è un uomo libero, un uomo che dona se stesso fino alla
fine per amore e può farlo in modo unico e pieno proprio perché è
pienamente libero. Per questo la sua morte è innalzamento, contiene
già in sé qualcosa di glorioso cha la risurrezione non farà che
ratificare, esplicitare, rendere evidente a tutti coloro che
credono. Da ciò possiamo ritenere una prima luce di questa festa:
l’offerta libera di Cristo al Padre mediante la sua consegna nelle
mani degli uomini, è frutto di quella libertà così piena, così
perfetta di Gesù da non essere altro che la traduzione, in forma
umana, dell’onnipotenza di Dio. L’uomo-Dio Gesù mostra la sua
onnipotenza donando se stesso per amore, e donandosi liberamente, e
traccia, in questo modo, anche per noi, il cammino della vera
grandezza, quello dell’offerta libera di sé per amore.
In tale dono di sé è già impresso il segno della
gloria. Il cristiano che vive nella sua vita, e talvolta anche nella
sua carne, il mistero della Croce in comunione con Cristo,
sperimenta quanto san Paolo esprimeva in termini di sapienza e
forza, stoltezza e debolezza: “Ciò che è stoltezza di Dio è più
sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte
degli uomini. (…) Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto
per confondere i forti. (…) Perché nessuno possa vantarsi di fronte
a Dio” (1 Cor 1,25.27b.29). Si tratta di un mistero di dolore
redento, e per questo, di dolore fecondo, cioè un dolore, una
sofferenza che ormai, come affermerà Giovanni Paolo II, ha un valore
redentivo. La Croce di Cristo sottrae ormai per sempre al non senso,
all’inutilità, alla solitudine, la sofferenza umana, per innestarla
in quel dolore di Cristo per noi uomini nel quale si è consumata la
redenzione di tutto il genere umano. Il cristiano che soffre con
Cristo e per Cristo e in Cristo è ormai inserito nel mistero
pasquale che Gesù ha sigillato con il suo sangue e che nessuno potrà
mai più scindere o separare. Non si può spezzare il mistero
pasquale, non si può più, per l’uomo unito a Cristo, separare
abbassamento ed innalzamento, dolore e beatitudine, morte e vita.
L’uomo che soffre con Gesù, infatti, fa una sola cosa con Cristo, è
diventato quella carne di Cristo che completa ciò che manca ai suoi
stessi patimenti a favore del Suo corpo che è la Chiesa.
Stiamo forse facendo del dolorismo come qualcuno
potrebbe pensare della fede cristiana? Tutt’altro! Stiamo piuttosto
proclamando che la gloria di Cristo ha ormai invaso e fecondato
anche il deserto più arido della sofferenza per renderlo terra di
speranza, luogo di vita nuova, rivelazione dell’onnipotenza divina,
presagio di gloria.
Non dobbiamo però dimenticare che tutto questo
viene da Dio: questo linguaggio, agli occhi del mondo rimane
stoltezza, debolezza, follia. Senza la fede in Gesù la sofferenza
rimane senza un vero senso, e Cristo stesso uno sventurato, per non
dire un maledetto.
L’uomo perciò secondo questo modo di ragionare,
deve cercare di esaltarsi da solo, di costruire da sé stesso la
propria gloria ma così facendo è come se rinunciasse alla gloria che
viene da Dio. La prima lettura di oggi lo dice esplicitamente:
“Cristo Gesù umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e
a una morte di Croce. Per questo Dio lo esaltò, e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni altro nome.” L’uomo che si esalta da sé,
l’uomo che si fa un nome, come a Babele, è un uomo che sbaglia
strada, non segue la via della vera realizzazione, che per Cristo è
stata la salita al monte Golgota, è un uomo che abbandona la via di
Cristo. Benedetto XVI ha detto recentemente ai suoi ex studenti:
“Noi ci troviamo sulla via di Cristo, sulla giusta via, se in sua
vece e come lui proviamo a diventare persone che “scendono” per
entrare nella vera grandezza, nella grandezza di Dio che è la
grandezza dell’amore.” “La Croce – continua il papa emerito – nella
storia è l’ultimo posto” e il “Crocifisso non ha nessun posto, è un
‘non posto,”, è stato spogliato, “è un nessuno” eppure – nota il
Santo Padre – Giovanni nel Vangelo vede “questa umiliazione estrema”
come “la vera esaltazione”. “Così, Gesù è più alto; sì, è
all’altezza di Dio, perché l’altezza della Croce è l’altezza
dell’amore di Dio, l’altezza della rinuncia di se stesso e la
dedizione agli altri.” “Questo è il posto divino.”
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venerdì 13
Settembre 2013
– XXIII Settimana T. Ordinario – Commento ora media – 1 Tm
1,1-2.12-14
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Cominciamo oggi la lettura della prima lettera di
San Paolo a Timoteo, lettera che ci accompagnerà per alcuni giorni.
Si tratta della prima di quel gruppo di lettere paoline denominate
“lettere pastorali” perche sono indirizzate a dei pastori della
Chiesa, Timoteo e Tito, e, a differenza di altri scritti di san
Paolo, queste epistole, insieme al brevissimo biglietto indirizzato
a Filèmone, sono le sole ad essere rivolte a singole persone e non a
comunità intere.
La preoccupazione generale di questi testi è di
singolare importanza perché riflette un’epoca particolarissima ed
irripetibile per la storia della Chiesa, ossia il passaggio
dall’epoca apostolica a quella, potremmo dire, sub-apostolica, e
queste lettere pastorali sono proprio “il primo documento che
attesta la preoccupazione per la trasmissione dell’autorità
apostolica alle generazioni successive. Infatti non ci sono più gli
apostoli, ma ci sono ministri, episcopi, presbiteri, diaconi che
hanno il compito di custodire e trasmettere quanto ricevuto” (Parole
di Vita 4/2012 pag 6). Già più volte Paolo aveva sottolineato questo
aspetto essenziale della vita della Chiesa, l’aspetto della
Tradizione, con espressioni come quella della prima lettera ai
Corinzi: “A voi, fratelli, ho trasmesso, anzitutto, quello che
anch’io ho ricevuto”. L’Apostolo infatti avverte come un onere
assolutamente doveroso la retta custodia e la retta trasmissione del
deposito della fede, non come un insieme inerte di contenuti, ma
come un messaggio sempre vivo e capace di dare vita se viene
conservato e proclamato fedelmente. Si tratta infatti di una fedeltà
ad una Parola da cui dipenderà, di conseguenza, la fedeltà morale
del singolo cristiano destinatario del messaggio di salvezza, in
quanto dalla fede dipende la morale. Una connessione, quest’ultima,
che risulta evidente, per esempio, nella lettera ai Galati, ai quali
addirittura Paolo aveva fermamente dichiarato che non esiste un
vangelo diverso da quello che lui aveva loro proclamato “e se anche
noi stessi – precisò l’Apostolo – o un angelo dal cielo vi
annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato,
sia anatema” (Gal 1,8)
Nei versetti che la liturgia di oggi ci propone,
Paolo, come altrove nei suoi scritti, sottolinea l’origine del suo
mandato apostolico, un’origine che affonda le sue radici nella
volontà stessa di Dio, in un comando di Dio. Egli si rivolge al suo
vero figlio nella fede, Timoteo, mettendo in luce, già solo con
questa espressione, la natura del ministero apostolico, quella cioè
non solo di raccontare una vicenda, organizzare una comunità,
ingiungere precetti e norme per i cristiani e vigilarne
l’osservanza, ma anzitutto quella del generare alla fede. E Paolo di
questo ne è profondamente convinto quando afferma ai Corinzi:
“Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo
molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il
Vangelo” (1 Cor 4,15). Da qui l’importanza della relazione tra chi
guida e chi è guidato, una relazione umana e spirituale insieme come
contesto insostituibile per generare alla fede, perché il messaggio
vada al cuore della persona a tal punto da aprirlo ad una relazione
ulteriore e superiore, quella con Dio stesso. Del resto Paolo,
proprio nella pericope di oggi, fa allusione all’origine della
relazione speciale che lui stesso ha con Dio, evento singolare e
particolarissimo, che marcherà tutto il suo futuro di apostolo.
Paolo ama e segue Gesù non perché ha scoperto una regola di vita
bellissima e superiore alla Legge che prima osservava
scrupolosamente, ma perché ha incontrato in Cristo un amore che l’ha
toccato, accolto, convertito, rinnovato, fortificato, inviato, ma
soprattutto che gli ha dato fiducia: “Rendo grazie a colui che mi ha
reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno
di fiducia mettendo al suo servizio me che prima ero stato un
bestemmiatore, un persecutore e un violento.” Paolo ha potuto
credere in Gesù perché ha scoperto che Gesù credeva in lui. Da tale
sguardo di fiducia di Gesù sul suo Paolo è nato un apostolo, un
padre desideroso di farsi tutto a tutti, come Giudeo per i Giudei,
senza Legge per coloro che non hanno Legge (Cfr. 1 Cor 9, 20-21), e
così non essere più uno straniero o uno sconosciuto per nessuno e
rendere anche Dio meno estraneo alla vita dei fedeli.
I sentimenti di cui Paolo rende partecipi i suoi
figli sono gli stessi che si perpetuano nella Chiesa laddove ci sono
dei padri nella fede. E ciascuno di noi ricorda sicuramente chi, per
il proprio cammino, è stato più che un pedagogo, ma un vero padre.
Non esistono, infatti, dei cristiani, e ancor meno, dei consacrati,
senza padre; tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo avuto uno o più
padri nella fede. Ricordando con affetto l’opera con la quale ci
hanno generati in Cristo e consegnati alla nostra vocazione
specifica, custodiamone grati il ricordo, imitiamone l’affetto,
seguiamone l’esempio, la testimonianza, la cura nell’accompagnarci e
farci crescere, e non solo scopriremo che dietro tutto questo c’è
quella fiducia di Cristo in noi che anche Paolo riconosceva per sé,
ma forse impareremo un po’ il segreto di una speciale fecondità
spirituale.
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mercoledì
11 Settembre
2013 –
XXIII Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Dalla liturgia di oggi possiamo raccogliere due
passaggi della Parola di Dio che inquadrano e orientano verso lo
stesso orizzonte la nostra riflessione. E questo orizzonte sono i
cieli, luogo figurato della dimora di Dio e prospettiva ultima della
nostra speranza: “Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto
alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a
quelle della terra.” È questo l’invito di san Paolo che ci definisce
persone ormai morte, defunti ma viventi di una vita nuova, la vita
nascosta con Cristo in Dio. Il vangelo dice la stessa cosa
utilizzando il linguaggio della beatitudine e della ricompensa:
“Beati voi…rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la
vostra ricompensa è grande nel cielo.”
Il beato del vangelo di oggi è un beato la cui
gloria è invisibile, è l’erede, colui che arricchisce presso Dio e
non esaurisce, ogni giorno sempre di più, la sua gloria, ma
l’attende, ce l’ha di fronte come prospettiva ultima e definitiva.
Il beato, in fin dei conti coincide con quel “nascosto con Cristo in
Dio” che attende la manifestazione di Cristo per apparire con lui
nella gloria.
Da ciò possiamo ritenere alcune considerazioni
importanti per il nostro cammino. La prima riguarda il cammino del
discepolo di Cristo: il discepolo di Cristo è qualcuno chiamato alla
beatitudine, è questo il traguardo ultimo della sequela di Gesù. La
vita cristiana è una vita che cerca e desidera la gioia vera, quella
gioia che il mondo, da solo, non può dare, perché è una gioia che
può nascere solo da delle relazioni, con le cose, con il mondo e con
se stessi, che mettono Dio al centro. Nella misura in cui Dio è al
centro di queste tre relazioni essenziali dell’uomo (con le cose,
con il mondo, cioè gli altri, e con se stesso), l’uomo si orienta e
può entrare, un po’ già fin d’ora, in questa beatitudine, in questa
vita gioiosa e piena che è la vita autenticamente cristiana.
Se questo è vero allora capiamo anche che il
cammino del discepolo di Gesù è un cammino che non rende ragione di
se stesso se non coinvolgendo nella propria storia personale e
quotidiana la prospettiva ultima, la comunione con Dio e la Sua
ricompensa. Se pensiamo di capire tutto, in modo quasi scientifico e
sicuro, della fede, della Chiesa, del nostro cammino cristiano e
potremmo anche dire delle infinite variabili che costituiscono la
vita umana, senza prendere in considerazione la meta finale verso
cui tutti, volenti o nolenti, tendiamo, in altre parole, se pensiamo
di rendere ragione della storia senza uscire dalla storia, o meglio
senza accogliere quell’Eterno che nella storia è entrato,
prepariamoci al fallimento. Come un cieco non può guidare un altro
cieco senza cadere in una buca, così una storia senza la luce di uno
sguardo sull’oltre della storia, sarebbe destinata alla medesima
cecità e alla medesima caduta. Che in termini esistenziali significa
disperazione o “uomo ad una sola dimensione” come l’hanno definito
alcuni filosofi del secolo scorso.
Capiamo allora che, in fin dei conti, la
beatitudine di cui ci parla Gesù, o meglio, che Gesù proclama e
promette, non è una fuga dalla storia e dalla nostra piccola storia
personale per entrare irresponsabilmente in un’utopia rassicurante:
se così fosse vana sarebbe la nostra fede e la nostra predicazione e
saremmo, come diceva Paolo a coloro che dubitavano della
risurrezione di Cristo, da biasimare più di tutti gli uomini. La
beatitudine di cui Gesù ci parla è quanto svela alla storia il suo
vero senso, il suo vero perché. Il cristiano allora può allora
permettersi di camminare a testa alta, non perché superbo, ma perché
capace guardare in alto, di alzare lo sguardo e di conseguenza di
rivolgerlo alle cose della terra con quella speranza che, lo
sappiamo, è sorella gemella della fede e generatrice di una carità
capace di perdere tutto pur di guadagnare Cristo.
È questo il profilo del discepolo di Cristo, un
discepolo che crede, spera e ama e così partecipa della beatitudine
finale che già è data in pegno a chi cerca in Dio la propria gioia.
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venerdì
6 Settembre 2013
– XXII Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il ministero pubblico di Gesù, dopo aver riscosso
i primi successi, incontra ora le prime perplessità, le critiche e,
verosimilmente, l’invidia di scribi e farisei che si rendono conto
che Gesù non è uno di loro, agisce in modo diverso oltre che parlare
in modo diverso: perdona i peccati, facendo dunque qualcosa che
compete solo a Dio, si intrattiene con i pubblicani e mangia con
loro addirittura a casa loro, e infine non si attiene alle pratiche
ascetiche e alle osservanze tradizionali della pietà del tempo. Gesù
e il suo gruppetto di discepoli non soddisfano i criteri, i
paradigmi di religiosità dei farisei; sono diversi e per questo
criticati. Forse sembrano loro gente superficiale, troppo libera per
essere un’autentica scuola religiosa, gente che gioisce della vita
invece che farne un sacrificio a Dio.
Gesù, di fronte a questi sguardi poco convinti
che, pian piano, diverranno anche ostili fino a programmare la sua
morte, non fugge, ma si mette in dialogo. Un dialogo che cerca di
non fermarsi alla questione particolare del digiuno, ma va più in
profondità fino al cuore del discorso per andare, in fin dei conti,
al cuore dei suoi interlocutori. Gesù cerca di mostrare ai suoi
interlocutori la relatività, la temporaneità, la strumentalità di
tutte queste osservanze che hanno valore non in se stesse ma nella
misura in cui sono percorsi che conducono ad una relazione di
conoscenza, di fiducia, di alleanza e di amore con Dio, insomma di
comunione con Lui, quella comunione che era descritta dai profeti in
termini nuziali o con l’immagine di un ricco banchetto. E infatti
Gesù recuperando dalla tradizione profetica e sapienziale l’immagine
dello sposo non solo annuncia che la pienezza dei tempi è ormai
giunta e che il regno di Dio è vicino, ma soprattutto Gesù annuncia
che Colui che i farisei, con tutte le loro osservanze, cercavano di
servire, è lì di fronte a loro, si è fatto loro incontro, possono
essere partecipi della beatitudine di vedere ciò che i profeti di un
tempo avrebbero voluto vedere ma non lo videro. Eppure tale
rivelazione non si compie; l’incontro fisicamente realizzatosi tra
Gesù e questi farisei rimane un non-incontro, non prendono parte
alla festa di nozze; gli occhi, e soprattutto i cuori dei farisei
rimangono chiusi nelle loro convinzioni, nella loro immagine di Dio
che cercavano di custodire con la loro pietà.
È questo un pericolo non solo per la classe dei
farisei, ma anche per ogni credente praticante cristiano: l’essere
così convinto che la fede, la vita spirituale e perfino il modo di
scrutare e comprendere la realtà e di valutare i fenomeni e gli
eventi che la abitano, non possano contenere nulla di inedito, nulla
che ci possa spiazzare, far cambiare idea, metterci in discussione,
convertire. In altre parole il pericolo è quello di credersi
maestri, persone che credono di essere esperte in ambito di fede,
mentre in realtà tutta la loro esperienza potrebbe essere soltanto
limitazione alla propria prospettiva, a quello che sanno e nulla
più, esperienza che è, in fin dei conti, sinonimo di chiusura e
cecità. Si tratta di un problema che non tocca solo l’ambito
religioso ma più in generale l’ambito della conoscenza umana, il
pensare e il volere, dominati, ai nostri giorni, come i Papi e
teologi contemporanei hanno messo in luce, da quel diffusissimo
soggettivismo che ha perso il gusto del Vero, o meglio, l’ha
appiattito al “modo di vedere e di sentire” la realtà e soprattutto
la natura della realtà, della persona e dei fenomeni, che ciascuno
vuole avere anche qualora non avesse alcun fondamento se non nell’io
volubile del singolo individuo.
Di fronte a tale cecità, dell’uomo e del
cristiano, Gesù propone un’unica strada, la via del rinnovamento
totale: vino nuovo in otri nuovi! Un’immagine che dice che è il
contenuto a stabilire la qualità del contenitore e non viceversa. È
il tipo di vino che stabilisce come devono essere gli otri, non il
contrario. Il contenitore è relativo e conseguente al contenuto, è
determinato dal contenuto. “Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi
… Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi”. E ancora un’altra
immagine: il cristiano non strappa dal nuovo per cucire su un abito
vecchio ma abbandona l’abito vecchio per rivestire il nuovo perché
il cristiano è un rivestito di Cristo, il suo abito è Cristo perché
interamente ed interiormente sia trasformato in Cristo. E se ciò
avviene una volta per tutte nel battesimo sappiamo che tale
rinnovamento non deve mai arrestarsi. Gesù viene a noi ogni giorno
come un vino eternamente giovane, che chiede, per essere accolto, di
essere disposti a diventare otri nuovi, creature nuove. Come può
realizzarsi questo incontro se vogliamo rimanere identici a prima?
Non siamo noi a trasformare Gesù in noi stessi ma è lui che, venendo
a noi, ci rende Suo corpo.
Signore trasformaci in otri nuovi! Sia questo il
nostro desiderio nel prendere parte, tra pochi istanti, alla cena
del Signore.
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mercoledì
4
Settembre 2013
– XXII Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di ieri ci ha presentato un Gesù
autorevole, un Gesù la cui parola non è come quella di scribi e
farisei che, quando parlano di Dio, devono essere sostenuti e
approvati da argomenti o citazioni tratte dalla Scrittura, e nemmeno
come quella degli antichi profeti che dovevano dire: oracolo del
Signore o così dice il Signore. No, Gesù parla con un’autorità tutta
Sua. Egli è Dio e la Sua parola funziona, agisce per forza propria
non perché accompagnata dal sostegno di qualcuno a lui superiore.
Eppure nel vangelo di oggi ascoltiamo, da parte di Gesù, una frase
che ci colpisce. È necessario – dice – che io annunci la notizia del
regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato.
È un Gesù umile e obbediente al Padre quello che parla: “E’
necessario” dice Gesù. Il potere, l’autorità e potremmo anche dire
la sovrana libertà di Gesù sono orientate da una necessità: la
necessità di quell’amore universale che è l’anima di tutta la sua
missione; una necessità che altro non è se non la volontà del Padre
che l’ha mandato, perché quell’amore eternamente vivo nel seno della
Trinità diventasse visibile, tangibile. “È apparsa la grazia di Dio
– scriveva san Paolo a Tito – che porta salvezza a tutti gli
uomini.” Per Gesù questa volontà del Padre che lo invia è una
necessità, è quell’urgenza che passa davanti a tutto il resto e che
Gesù, con determinazione, porta a compimento. È una necessità che
ritroveremo anche più in là nel vangelo, nelle ore più decisive del
Getsemani e della risurrezione: “non bisognava che il Cristo patisse
queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”
Di tale necessità dell’amore, perché l’amore è
necessità, preme sulla coscienza come una chiamata a cui prima o poi
bisogna rispondere Sì, è pervaso tutto il vangelo. Tutta la vita di
Gesù è un riflesso multicolore dalle mille sfumature della sua
fedeltà fino al sangue, fino alla Croce, ad una missione che non
poteva tradire.
La mentalità della gente di Cafarnao però è
ancora a livello di una religiosità, potremmo dire, da “vitello
d’oro”: visti i miracoli, le guarigioni, gli esorcismi che Gesù
compie vuole tenerlo per sé, a casa loro, vuole qualcuno che risolva
i loro problemi, un Dio-amuleto che cammini alla loro testa, o
meglio che cammini dove vogliono loro. Insomma, certo in buona fede,
gli abitanti di Cafarnao vogliono fare di Gesù un idolo, un Dio che
soddisfi tutti i loro desideri, tutti i loro bisogni. Hanno trovato
il “parroco perfetto” e non vogliono lasciarlo. Ma Gesù li spiazza
perché Gesù non è questo, il Cristianesimo non è questo, e si volge
altrove. E l’afflato universale di Gesù sarà uno stimolo per la fede
di queste povere persone così entusiaste della presenza di Gesù, a
fare un salto di qualità, a guardare Gesù in modo nuovo. In un certo
senso le rende partecipi di una missione che ancora oggi non ha
cessato di percorrere le strade e di varcare nuovi confini.
Ciascuno di noi sa, se ascolta attentamente la
voce di Dio dentro di sé e attraverso le mediazioni che il Signore
ci offre, che tutti, ciascuno a modo suo, siamo resi partecipi di
questa urgenza di amore del cuore di Gesù che nei modi più diversi
ci chiama, ci coinvolge, ci invia, ci chiede di collaborare alla sua
opera di redenzione di tutto il genere umano che, se si è compiuta
una volta per tutte nel mistero pasquale, purtroppo non ancora da
tutti è accolta, e talvolta neppure conosciuta. Paolo, quasi
esponendosi ad una auto-maledizione, diceva a se stesso: “Guai a me
se non annuncio il Vangelo?” … “Infatti annunciare il Vangelo non è
per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone” (1 Cor
9,16).
Anche noi chiediamoci: qual è la chiamata che
urge nel nostro cuore, che vi si impone come una necessità? Qual è
quella parola, quell’invito che il Signore rivolge alla nostra vita
per il quale potremmo dire: “guai a me se non lo facessi”?
Chiediamocelo in sincerità e facciamolo con fiducia, con tutto il
nostro cuore senza perderci a destra o a sinistra. Mai nessuno
infatti si è pentito di aver seguito il Signore.
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Domenica 01 settembre 2013
- XX domenica T.O. - fr.
Massimo-Maria FMJ
“ Figlio compi le
tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto
più sei grande tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al
Signore...ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la
potenza del Signore e dagli umili egli è glorificato.”
Queste parole
del libro del Siracide risuonano con forza, nella nostra assemblea
liturgica in questa domenica, all'inizio di un nuovo tratto del
nostro cammino di discepoli e credenti.
Ma, se ci fate
caso, risuonano non come una minaccia, né come un severo monito e
neppure come una serie di massime moraleggianti.
Piuttosto
risuonando esercitano nel cuore un fascino segreto, rimettono
nell'animo come il desiderio di una freschezza perduta, di una
libertà smarrita, di una gioia serena, di qualcosa di cui abbiamo
tanto bisogno e di cui non ci rendiamo forse più conto perché troppo
occupati dal mostrarci forti, sicuri, determinati, saggi di una
saggezza che è del mondo, ed è lontana dalla sapienza del Vangelo.
In una parola sentiamo che questa Parola, pur così lontana dai
criteri di oggi, così distante forse anche dal nostro modo di fare
istintivo, abituale, ci fa bene, ci dà pace, speranza, gioia,
riempie il cuore, ci fa dire: “ E se fossimo così, se il mondo fosse
così quanto le cose andrebbero meglio, saremmo più sereni,
tranquilli, in pace.
Possiamo allora
porci una prima e preziosa domanda: “ Perché questa Parola ha questo
effetto particolare? Perché questa parola è come detonatore di un
misterioso fascino e sorgente di così particolari desideri,
sentimenti, considerazioni?
Affermando
che:”... dagli umili Dio è glorificato....ai miti rivela i suoi
segreti...” l'autore sacro del Siracide suggerisce che esiste come
un misterioso legame, una strettissima relazione tra Dio e umiltà,
tra Dio e mitezza.
Meglio, esiste
una indubbia familiarità, prima che tra Dio e l'umile, tra Dio ed il
mite, tra Dio e l'umiltà, tra Dio e la mitezza.
Non a caso, se
ricordate, il serafico padre san Francesco canterà nelle lodi di Dio
Altissimo: ”.....Dio tu sei umiltà, Dio tu sei mitezza.”
Questa Parola del
Siracide allora non ci colpevolizza ma ci ridesta un bisogno di una
pace smarrita e di una freschezza desiderabile perché ci ri-pone nel
cuore il desiderio di Dio che è umiltà, di Dio che è mitezza dal
quale con la nostra superbia e la nostra arroganza ci allontaniamo
spesso, troppo spesso.
Questo
insieme di sentimenti che la Parola suscita, questi desideri, questo
anelito alla pace che la Parola veicola si chiamano ispirazioni
buone che vengono dallo Spirito di Dio, e che noi siamo chiamati,
per camminare nella pace, per avanzare verso la pace e costruire la
pace, siamo chiamati ad assecondare, a seguire, ad obbedire
generosamente e con gioia.
Ecco allora che
il brano del Vangelo, con l'episodio ancora oggi non così difficile
da verificarsi della corsa ai primi posti, in cui Gesù rivolge una
Parola chiara ai suoi discepoli non è un testo di buon galateo, e
neppure innanzitutto un insegnamento morale, ma una rivelazione e
profezia, rivelazione di quanto Gesù aveva fatto nell'Incarnazione,
e profezia di quanto avrebbe fatto sulla croce, rivelandoci così,
chiaramente e senza malintesi, che: Dio è mitezza, Dio è umiltà.
Prima che
indicarlo a noi infatti è Lui che ha scelto ed occupato l'ultimo
posto con infinita umiltà e mansuetudine. Per cui solo lì lo si
trova, lo si incontra, si gusta la libertà e dolcezza di Dio. Solo
nell'umiltà ci si avvicina a Dio e si gusta la vera gioia, la gioia
di Dio.
Scrive una
autrice spirituale contemporanea: “ L'umiltà è il segreto di una
gioia indicibile, donata da Dio agli ultimi; essa appartiene alla
sfera della Sapienza divina e per questo rimane sconosciuta a chi
persegue la falsa sapienza del mondo asservita alla logica superba
del principe delle tenebre...” ( Madre A. M. Canopi ).
Ma non solo nell'umiltà ci si avvicina e direi, si comprende Dio,
ma insieme. solo nella mitezza ed umiltà ci si avvicina davvero agli
altri e li si comprende. L'umiltà infatti è atteggiamento che dice
ascolto; la mansuetudine è habitus che dice un cuore che ama e crea
comunione.
Anche per esercitarci in questo Gesù ci indica il cammino nella sua
Parola:
“...quando
offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai
beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua
ricompensa alla risurrezione dei giusti".
E' il cammino della gratuità esercitata a favore
dei piccoli, degli ultimi, dei poveri, di coloro che non possono
ringraziare, di coloro che non possono offrirci prestigio umano, ma
assicurarci però, senza dubbio, la benevolenza del Padre, perché
suoi prediletti.
Il Signore oggi ci ripropone di riprendere il
nostro cammino dietro a Lui scegliendo la mitezza, scegliendo
l'umiltà.
Ha detto il Papa Francesco proprio parlando
dell'umiltà: “
è «la regola d’oro»: per il cristiano «progredire»
vuol dire «abbassarsi». Ed è proprio sulla strada dell’umiltà,
scelta da Dio stesso, che passano amore e carità.....l’umiltà è
quella di Gesù, che finisce sulla croce. E questa è la regola d’oro
per un cristiano: progredire, avanzare è abbassarsi. Non si può
andare su un’altra strada. Se io non mi abbasso, se tu non ti
abbassi, non sei cristiano. “Ma perché devo abbassarmi?”. Per
lasciare che tutta la carità di Dio venga su questa strada, che è
l’unica che lui ha scelto — non ne ha scelto un’altra — che finirà
sulla croce. E poi, nel trionfo della risurrezione».
Il Signore allora ci conceda – e vogliamo
chiederglielo questa domenica – di ascoltare le ispirazioni buone
che lo Spirito ha suggerito al nostro cuore attraverso questa
Parola, di assecondarle, di obbedire per gustare la sua gioia che il
Signore riserva ai miti, e costruire la pace quella che costruiscono
gli umili. Amen.
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mercoledì
24
Luglio 2013 –
XVI Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista
FMJ
La
parabola del seminatore è un testo che Gesù propone ai suoi
discepoli e a tutti coloro che stavano ad ascoltarlo, ed è appunto
un testo espresso in parabola. Ossia Gesù, come si legge nel brano
seguente a questo, parla a tutti allo stesso modo ma, in qualche
modo, la sua parola si adatta a chi l’ascolta, alla sua capacità di
comprendere. Infatti la parabola stessa si chiuderà con: “Chi ha
orecchi, intenda.”
Nel
testo stesso della parabola del seminatore Gesù fa riferimento in
forma, appunto, parabolica, a quattro tipi di terreno sui quali il
seminatore, immagine del Figlio di Dio, esce per spargere il seme
della Sua Parola. Sono quattro terreni che, secondo la spiegazione
che in privato Gesù poi darà ai Suoi discepoli, sono a loro volta
immagine di quattro situazioni spirituali, quattro condizioni di
credenti che ascoltano in modo diverso la Parola del Signore: si va
da chi l’ascolta ma senza appropriarsene in tempo, così che poi il
Maligno ruba la parola seminata. C’è l’incostante, cioè colui che si
rallegra subito per aver accolto la Parola ma poi non dura nella
messa in pratica; c’è chi, nella lotta, potremmo dire, tra l’ascolto
della Parola e l’ascolto delle preoccupazioni e della seduzione
della ricchezza obbedisce più a queste che a quella. E c’è infine il
terreno buono, profondo e fertile, immagine del discepolo che
ascolta la Parola, la comprende e da frutto.
Ora,
questi quattro modi di incontro del seme con il terreno che
corrispondono a quattro diverse condizioni spirituali dei credenti
non è detto che non possano sussistere in un’unica persona. Anzi, in
noi possiamo trovare, e forse di fatto ciascuno di noi l’ha già
sperimentato, terreni diversi, modi diversi di vivere il nostro
ascolto della Parola di Dio, e più in generale il nostro rapporto
con Dio. Attitudine spirituale che varia a seconda dei momenti, dei
luoghi, degli stati d’animo, e persino a seconda dei contenuti della
Parola: talvolta infatti c’è qualcosa che ascoltiamo più volentieri
di altro, un seme che preferiamo ad altri. Anche in noi c’è un
terreno esposto all’opera furtiva del demonio, un terreno sassoso
poco profondo, un terreno pieno di rovi che soffocano il seme, e
infine la preziosa porzione di terreno buono. Rendersi conto di
questa nostra eterogeneità e volubilità nel nostro rapporto con Dio
è un passo molto importante per chiedersi poi: che tipo di terreno
voglio essere? A che livello del mio essere lascio che la Parola di
Dio, la volontà di Dio, la chiamata di Dio mi raggiunga? Il Signore
certo spargerà con abbondanza il seme della Sua Parola, ma io che
terreno metto a disposizione del Signore? A che livello voglio
vivere il mio rapporto con il Signore? Al livello più esterno, di
una pratica cristiana o anche monastica di facciata e superficiale?
Al livello poco profondo in cui mi lascio raggiungere e rallegrare
dalla Parola di Dio ma non cambiare, e lasciando dunque tutte le
cose, nella mia vita, come le ho sistemate io, cioè senza lasciare
spazio al seme per germinare e crescere? O al livello del cuore, al
piano più intimo del mio essere dove la Parola penetra come spada a
doppio taglio per ferire e sanare, convertire e consolare? Qui, a
questo livello, la Parola può operare in noi. Qui il seme può porre
radici, nutrirsi, prendere possesso del terreno che siamo,
riempirlo, compattarlo e offrire frutti di vita eterna.
Se
nel capitolo 55 del libro del profeta Isaia la resa della Parola di
Dio era sicura, quasi automatica com’è automatico il beneficio della
pioggia e della neve per un campo seminato, nella parabola di oggi
il Signore Gesù richiama ancora una volta alla nostra libertà, come
se ci dicesse: non tutto dipende da me, non faccio tutto da solo!
Anche tu devi mettermi a disposizione il tuo terreno buono, non
lasciarmi semplicemente la ghiaia e i rovi.
L’opera di unificazione interiore tanto attesa nella vita spirituale
è forse proprio questo: rendere omogeneo il terreno che è in noi,
lavorarlo e concimarlo per trasformarlo, con l’aiuto della grazia di
Dio, in terreno buono capace non soltanto di accogliere il seme ma
di custodirlo e lasciarlo crescere.
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martedì
23 Luglio 2013
– Festa di Santa Brigida
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Le letture che la Chiesa ci propone per celebrare
la festa di Santa Brigida convergono nel tracciare dei lineamenti
ben precisi alla santità. Cioè noi, leggendo queste pagine, capiamo
chi è un santo.
Il primo ad aiutarci in questa comprensione è san
Paolo che, in pochi versetti, per due volte si definisce morto:
morto alla Legge mediante la Legge, e crocifisso, dunque ancora
morto, con Cristo. Due volte morto perché possa vivere per Dio, e
soprattutto perché Cristo possa vivere in Lui. Paolo dunque
attraversa due esperienze di morte per accogliere in se stesso una
vita nuova che è la vita di un Altro, la vita di Cristo in Lui.
Paolo ormai è come se non avesse più né vita né morte ma vive della
vita di Cristo e muore della vita di Cristo. Il santo è questo, è
qualcuno che si è consegnato a Cristo, soltanto dopo, però, che
Cristo abbia consegnato se stesso per lui. Da questa reciproca
consegna per amore si compie una compenetrazione che rende l’uomo,
il santo, un altro Cristo.
Il vangelo richiama al medesimo concetto mediante
l’immagine del tralcio e della vite. Il tralcio di per sé non ha
vita propria, non porta frutto da se stesso, anzi, il testo del
vangelo è quanto mai chiaro nel bandire dalla vita cristiana ed
evangelica ogni ideale umano di autosufficienza: “Il tralcio non può
portare frutto da stesso se non rimane nella vite … e senza di me –
dice Gesù – non potete fare nulla.” Il tralcio è immagine del
discepolo che in due modi riceve vita e può portare frutto:
rimanendo innestato in Cristo e accettando la potatura del Padre per
portare più frutto: da un lato è innestato nella vite, stabile in
Cristo; dall’altro si lascia destabilizzare, tagliare, amputare.
Stabilità e instabilità sono i due movimenti che ritmano la vita del
santo, e, secondo il testo, entrambi vengono da Dio e conducono a
quel di più di frutto che non nutrirà tanto se stessi ma sarà cibo e
bevanda, uva e vino, per rallegrare il cuore degli altri. Questo
doppio movimento del rimanere e del potare, stabilità e instabilità,
è il segreto nascosto dietro ogni forma di santità e di fecondità
nella nostra vita e nella Chiesa.
In questo ritratto della santità offertoci dalle
letture di oggi, ritroviamo anche il volto di Santa Brigida di
Svezia. Una santa che ha vissuto con singolare profondità questo
duplice movimento del rimanere e del tagliare.
Fin da fanciulla Brigida visse un intensissimo
rapporto con Cristo e con la Sua passione che le consenti di
riconoscere la volontà di Dio anche in eventi che contrastavano con
i suoi desideri, come per esempio, il matrimonio combinato dal padre
con Ulf. “Lei, in verità, avrebbe desiderato donarsi a Dio nella
vita religiosa, ma vide nel desiderio paterno un segno della volontà
di Dio e disse il suo sì con serenità” (Enrico Pepe, Martiri e santi
del calendario romano, Ed. Città Nuova, Roma, 1999, 373). La
profonda fede di Brigida la rese una donna brillante e soprattutto
feconda! Fu madre di otto figli – tra cui santa Caterina di Svezia –
che educò mettendo in pratica un suggerimento che lei dice aver
avuto un giorno dalla Madonna: “Fa’ che i figli tuoi siano anche
figli miei”. E dopo la morte del coniuge fondò l’Ordine del Santo
Salvatore formato sia da monaci che da monache che abitavano in due
monasteri distinti, ma avevano in comune la chiesa per le
celebrazioni liturgiche. Entrambe le comunità obbedivano per quanto
riguarda la vita religiosa, fatto più che singolare nella storia
della Chiesa, all’unica badessa e lo facevano per onorare la santa
Madre di Dio. Brigida inoltre fece di tutto per far tornare il Papa
da Avignone a Roma, missione di cui però non vide, se non dal cielo,
il compimento che arrivò grazie all’opera provvidenziale di un’altra
grande santa di nome Caterina da Siena. (Cfr. Op. Cit. 374-375. 379)
Cosa ritenere della vita di santa Brigida? Certo
molte luci ed una testimonianza altissima di vita umana e cristiana.
Ma una in particolare può arricchire il nostro cammino: Brigida non
ebbe paura della Croce, non ebbe paura della potatura di Dio di
fronte alla quale, lungi dal disertare il cammino di discepolato, si
innestò ancor di più nella vite che è Cristo. Tale fu il segreto
della sua maternità umana, spirituale e monastica così feconda e
benefica per il suo tempo. Da Brigida dunque possiamo imparare
questo: la fecondità non si improvvisa ma nasce da una vita
innestata in Cristo, una vita da discepoli che si lasciano nutrire e
potare con fiducia da Dio, l’agricoltore. Paradossalmente il portare
più frutto non viene dal conservare egoisticamente se stessi ma dal
lasciarsi potare, perché si compia la parola evangelica: “In questo
è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate
miei discepoli”.
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Domenica 21 luglio 2013 -
XVI Domenica T.O. - fr.
Massimo-Maria FMJ
Mentre Gesù si
reca a Gerusalemme ed entra in un villaggio. Nel villaggio, a
differenza di altre città che non accolgono il Signore, una donna,
Marta, lo accoglie a casa sua. Apre le porte della sua casa a Gesù e
mette in atto tutte le modalità per una accoglienza che poteva certo
considerarsi di eccellenza.
Tenendo presente
l'insegnamento che Gesù aveva dato ai settantadue discepoli prima di
inviarli in missione, si capisce che questo fare di Marta si carica
di un significato profondo, importante, in piena linea con
l'insegnamento di Gesù.
Marta è posta
così nella linea di coloro che nella Scrittura sono considerati
giusti per la accoglienza che riservano all'ospite. Dare anche solo
un bicchiere di acqua fresca al missionario non resterà senza
ricompensa, aveva promesso Gesù. Addirittura spesso – è il caso del
testo della Genesi ascoltato nella prima lettura – con l'ospite si
accoglie ed incontra Dio stesso.
Marta compie
così un'opera molto più che meritoria, compie un'opera a cui Gesù
stesso aveva promesso ricompensa, compie un'opera in piena fedeltà
al Vangelo.
Nel racconto
però, improvvisamente e discretamente, emerge poi un'altra figura:
Maria, la sorella di Marta.
Di lei si dice
non tanto che ascoltava Gesù, ma la Sua Parola, e lo faceva stando
accovacciata ai piedi del Maestro. Questa precisazione pone
decisamente Maria nell'atteggiamento discepolare, atteggiamento che,
però, era riservato in modo esclusivo agli uomini.
L'atteggiamento
di Maria risulta davvero strano per la mentalità del tempo: si
sottrae al dovere di rispettosa ospitalità e fa suo un atteggiamento
che era riservato agli uomini.
Da questo si
capisce meglio la reazione giustificata di Marta. Lei infatti non si
lamenta semplicemente dell'essere stanca, ma del fatto che la
sorella si stia comportando in modo davvero scorretto rispetto ai
suoi doveri. A ragione perciò può denunciare alla sorella di averla
lasciato sola a servire e a Gesù di non curarsi di questa evidente
scorrettezza.
Ciò che disarma e
diviene per noi la Parola forte di questa Domenica, è la risposta
che Gesù dà a Marta: “ Marta Marta tu ti affanni e ti agiti per
molte cose, ma di un'unica cosa c'è bisogno. Maria si è infatti
scelta la parte migliore ( buona ) che non le sarà tolta.”
Se Marta ha
reagito in modo scomposto sino a rimproverare Gesù e la sorella a
causa di quelle molte cose da fare per cui era stata lasciata
sola, ora Gesù ribalta l'opposizione tra le molte cose che
agitano Marta e la sola cosa buona, quella migliore, che Maria ha
scelto.
Quello che per
la mentalità efficientista del mondo e per gli usi sociali del tempo
era considerato importante Gesù lo smaschera come affanno e sterile
inquietudine. Quello che appariva come un gesto audace e ardito di
Maria Gesù lo definisce invece la cosa sola buona, la parte
migliore. In definitiva Maria ha scelto ciò che è davvero importante
allo sguardo di Dio, tanto che non le sarà tolto.
Fratelli e
sorelle Gesù non sta opponendo assolutamente azione e contemplazione
come qualche volta si rischia, ma sta opponendo un fare che distrae
e un restare perennemente in un atteggiamento discepolare nei
confronti del Maestro, attraverso essenzialmente l'ascolto, da cui
eventualmente il fare deve essere prolungamento.
Gesù in
definitiva non sta ponendo un contrasto tra fare e ascoltare, ma
piuttosto una gerarchia di cose: il fare è discepolare uguale se
nasce dall'ascolto e dall'obbedienza al Maestro.
Questa pagina ci
propone poi ancora una ulteriore provocazione che non possiamo non
raccogliere. Se la parte buona è il dimorare discepoli, possiamo
dire in verità che la parte buona da scegliere è quindi Gesù stesso.
Maria infatti nel suo ascolto attento e generoso mostra di aver
scelto Gesù. Prima che di fare delle cose a Lui, e per Lui, Maria ha
scelto Lui.
Questo è
molto importante per la nostra vita discepolare. Non è scontato aver
scelto Gesù anche quando si fanno cose buone per Lui e in suo nome.
Si possono infatti scegliere cose buone, vicine a Gesù: opere
sociali, l'evangelizzazione, persino il sacerdozio o la vita
monastica senza scegliere Gesù. Capite che questo è pericoloso
perché senza di Lui anche le cose buone, nobili ideali, possono
divenire sottili idoli.
Questa
domenica la Parola ci ripropone, nel cuore dell'estate, la vera
scelta della vita, quella che conta, quella davvero importante: il
Signore. Certamente l'abbiamo fatta, ma non mai abbastanza. Possiamo
sempre più fare un passo di più nel diventare discepoli, nel mettere
Lui al centro della nostra vita. Diventi sempre più nostro questo
proposito che invitava a fare Papa Benedetto in una delle sue ultime
omelie:
“ Non abbiate
paura di puntare su Cristo. Abbiate nostalgia di Cristo come
fondamento della vita! Accendete il desiderio di costruire la vita
con Lui e per Lui! Perché non può perdere colui che punta tutto
sull'amore crocifisso del Verbo Incarnato.”
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venerdì
19 Luglio 2013
– XV Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi si conclude con
un’affermazione che, detta da Gesù nel contesto della controversia
dei farisei circa il sabato, suona come una sorta di principio
regolatore, di chiave di lettura non tanto della Legge in sé quanto
del modo di applicare, o meglio, di vivere la Legge: “Misericordia
io voglio e non sacrifici”.
Questo principio che Gesù trae dal profeta Osea
ha però un valore che va aldilà del caso presente, quello della
violazione del sabato. E del resto se i discepoli di Gesù avessero
avuto bisogno di misericordia in questo contesto, Gesù non li
avrebbe proclamati innocenti. L’innocente non ha bisogno di
misericordia. Da questo possiamo allora capire che forse ci troviamo
qui di fronte a qualcosa di più ampio, a un criterio di vita
religiosa, ebraica prima e cristiana poi, che trascende la questione
del sabato in senso stretto: “Misericordia io voglio e non
sacrifici.”
Nel Nuovo Testamento, più precisamente al
capitolo ottavo della prima lettera ai Corinzi, troviamo una
situazione simile a quella che Gesù vive nel vangelo di oggi. San
Paolo tratta il caso della liceità o meno di mangiare le carni
sacrificate agli idoli e per risolvere la questione divide i fedeli
in due categorie: quelli dalla coscienza forte, che sanno che gli
idoli non sono nulla e che dunque anche se mangiassero le carni
immolate in loro onore non entrerebbero in comunione con alcuna
divinità pagana; e i fedeli dalla coscienza debole, quelli, cioè che
non hanno in sé la fermezza interiore degli altri e, timorosi di
compiere un atto idolatra, preferiscono astenersi dalle carni. San
Paolo, come Gesù, offre un principio di azione regolato non soltanto
sulla base della conoscenza delle cose, ma anche sulla carità,
sull’amore, che è l’altra faccia della misericordia: “Riguardo alle
carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma
la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica.” (1 Cor
8,1) e così conclude il capitolo: “Per questo, se un cibo
scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne, per non dare
scandalo al mio fratello.” (1 Cor 8,13)
Ora, ritornando al vangelo di oggi, chi è che da
scandalo e chi viene scandalizzato? O meglio, chi ha la coscienza
forte e chi quella debole? Stando alla conoscenza del vero senso
della Legge possiamo dire che è Gesù ad avere la coscienza forte, la
conoscenza autentica che è fonte di libertà. Ma allora forse Gesù
sta dando scandalo ai farisei? In un certo senso sì, perché se
scandalo, come sappiamo, è l’ostacolo che mi fa cadere, Gesù è
pietra d’inciampo, come afferma san Pietro: “onore a voi che
credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori
hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo,
pietra di scandalo.” E aggiunge: “Essi v’inciampano perché non
obbediscono alla Parola.” (1 Pt 2,8)
Cosa dire dunque? Esistono due tipi di scandalo:
uno nocivo, uno privo di misericordia e di carità che nasce da un
esercizio superbo e unicamente autoreferenziale della propria
libertà e della propria conoscenza e che conduce alla caduta dei
piccoli. Scandalo dunque da cui tenersi lontani. E poi c’è uno
scandalo buono, quella buona provocazione che Gesù stesso non teme
di far arrivare ai farisei sicuri di sé e delle loro conoscenza
imperfette fin al punto di divenire accusatori degli altri. Uno
scandalo che è espressione non di una volontà cattiva ma desiderosa
della loro salvezza.
Se ci pensiamo bene, in tutti e due i tipi di
scandalo, il principio discriminante che li distingue è sempre
quello offertoci da Gesù prima e da Paolo poi: la misericordia e
l’amore! Ha proprio ragione san Giacomo (2,12-13): “Fratelli miei,
parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una
legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro
chi non avrà avuto misericordia. La misericordia (invece) ha sempre
la meglio nel giudizio.”
Sia questo il nostro modo di conoscere la verità
e di viverla, e sapremo allora agire “secondo verità nella carità” (Ef
4,15) ed essere, gli uni per gli altri, fratelli che si edificano a
vicenda, e non accusatori.
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mercoledì
17 Luglio 2013
– XV Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Nel mistero del Suo rivelarsi agli uomini, Dio
non solo decide che cosa dire, che cosa rivelare, o meglio chi
rivelare, perché sappiamo che in fondo Dio rivela se stesso, ma
anche a chi rivelarsi. Nel vangelo di oggi Gesù fa riferimento
proprio a tale decisione del Padre di rivelarsi ai piccoli: “Hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai
piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso …” Che i piccoli siano
prescelti per essere coinvolti in un dialogo particolare di Dio e
con Dio, in una speciale amicizia, voluta e cercata da Dio stesso,
non è dunque un evento casuale, un dettaglio privo di valore. È un
decreto, una decisione del Padre che si tiene lontano dai dotti
superbi, ossia i dotti che credono già di sapere tutto, come dice
anche un salmo: “Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile ma al
superbo volge lo sguardo da lontano”.
Basterebbe tenere presente questo per essere già
in grado di tracciare un cammino di vita cristiana senza sapere
troppe altre cose. Il Signore ha scelto e continua a scegliere i
piccoli che nel vangelo di oggi non sono tanto i non adulti, ma i
senza cultura, gli umili nei ragionamenti e incapaci di sostenere
una discussione dotta. In poche parole si tratta delle persone che i
farisei e i dottori della legge disprezzavano, perché, a loro
parere, non conoscevano le cose di Dio (Cf Aldo Martin su “Parole di
vita” 3/2008 pag. 36). Gesù invece esulta, si compiace del cuore
umile, aperto e disponibile ad una conoscenza sempre più vera di
Dio. Non perché l’intelligenza e l’erudizione siano in sé qualcosa
di negativo, ma perché tale conoscenza può portare l’uomo, come in
possesso di un piccolo potere, a leggere tutto unicamente a partire
da queste cose che sa, chiudendosi in una sorta di arroganza
intellettuale e religiosa che di fatto esprime autosufficienza nel
discernere il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e
l’ingiusto, indipendentemente da Dio. Non è questa forse la
tentazione che spinse Adamo ed Eva a mangiare dell’albero, appunto,
della conoscenza del bene e del male?
Ma c’è anche un’altra ragione meno teologica e
più, potremmo dire, esistenziale. Dio che si rivela non vuole
unicamente trasmetterci delle verità da imparare ma vuole chiamarci
ad un rapporto di discepolato e di amicizia, ad un legame di
intimità semplice ma profondo, un dialogo cuore a cuore. Il dotto,
l’intelligente, se non rimane piccolo e anche discepolo, cioè non
semplicemente desideroso di imparare, di conoscere, ma disposto a
servire e a seguire, cioè a fare e ad andare dove vuole un Altro,
non potrà entrare in questa amicizia profonda con il Signore che non
è un’amicizia alla pari ma è amicizia tra Maestro e discepolo, tra
Dio e uomo. “Voi siete miei amici – dice Gesù – se fate ciò che vi
comando” (Gv 15,14).
Dunque tra intelligenza e umiltà vale di più
l’umiltà e solo se inserita in questa anche l’intelligenza, come
pure tutti gli altri doni che da Dio abbiamo ricevuto, potranno
essere strumenti a vantaggio del regno di Dio e a servizio della sua
opera. Altrimenti potrebbero divenire addirittura causa di
allontanamento dal Signore e dai nostri fratelli, qualcosa che era
meglio perdere che trovare. In questo senso potremmo estendere il
detto di Gesù: se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo… se
la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala (Cf. Mt 5,29-30),
anche al tema di oggi: se la tua cultura ed erudizione ti sono
motivo di scandalo, prendine le distanze!
Comprendere queste cose richiede per noi un
cambio di mentalità rispetto alla logica del mondo in cui chi è
grande e magari ha anche il titolo di professore viene rispettato,
chi è piccolo e ininfluente non è nemmeno preso in considerazione.
Noi veniamo da questo modo di pensare e se vogliamo capire un
pochino il modo di pensare di Dio abbiamo bisogno di conversione,
cioè di spogliarci dell’uomo vecchio non solo a livello morale ma
soprattutto, anzi, prima di tutto, a livello mentale, del nostro
modo di pensare, perché noi in genere agiamo secondo quanto pensiamo
e crediamo.
Tale conversione gioverà certo al nostro rapporto
con Dio ma, non meno, anche al nostro rapporto con gli altri perché
solo nell’umiltà possono nascere e crescere relazioni non dominate
dal peso e contrappeso delle rivalità, della competizione, del
carrierismo, dell’esercizio di un dominio sugli altri, magari anche
attraverso la cultura e l’erudizione. Se San Paolo menzionava quelli
che lui definiva “falsi fratelli”, il piccolo e l’umile sono
certamente da ascrivere nella categoria dei “veri fratelli” tanto
che è addirittura Dio stesso che li sceglie come Suoi amici e li
rende partecipi dei suoi segreti.
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Domenica
14
Luglio 2013
– XV Domenica T. Ordinario –
fr.
Giovanni Battista FMJ
La parabola del buon samaritano che abbiamo
ascoltato è un testo che scuote le nostre coscienza che talvolta si
comportano come quel dottore della Legge che si vuole giustificare
davanti al comandamento di Dio: Ama il prossimo tuo come te stesso.
Ma chi è il mio prossimo, chi devo amare, chi si merita di essere
amato da me? Gesù risponde non con un nuovo comandamento, concetti,
leggi, come magari si aspettava il pio giurista, ma con una
parabola, un esempio di vita.
La parabola si sviluppa quasi interamente nello
stesso luogo, sulla stessa strada, il cammino che va da Gerusalemme,
la città santa, a Gerico, città sacerdotale, un cammino che è
metafora del tempo, della vita umana, che ci vede protagonisti dello
stesso percorso: tutti ci troviamo sulla medesima via. Uomini
diversi percorrono dunque la stessa strada e si imbattono in un uomo
ferito e lasciato mezzo morto. Le reazioni, lo sappiamo, sono
differenti: con gli stessi verbi Luca descrive l’atteggiamento dei
primi due passanti, un sacerdote e un levita: scendendo, per caso,
per quella medesima strada, videro e passarono oltre. Dunque
curiosità ed indifferenza sono i tratti del loro agire. Il verbo
greco è significativo: “antiparèlthen”, passare dall’altra parte,
lontano. “Essi schivano qualsiasi contatto, anche perché il
sacerdote se toccava un ferito, peggio ancora un morto, non poteva
poi mangiare delle decime, doveva compiere dei complessi riti di
purificazione” (Ravasi, Il Vangelo di Luca”, EDB, Bologna, 1988,
123-124). Quell’uomo per terra non rappresenta per loro una
chiamata, non rientra nel loro cammino pur trovandosi sulla loro
stessa strada. Prima che una questione di compassione si tratta di
una questione di relazione: l’altro uomo, anche se lo vedono, è come
se non esistesse, si consuma un non-incontro potenzialmente fatale.
E sappiamo tutti quanto fa male, quante ferite provoca, ancora al
giorno d’oggi, l’indifferenza, il non rendersi conto dell’altro,
vivere come se l’altro, il vicinissimo, non ci fosse. Talvolta siamo
super zelanti nell’intessere relazioni con gente lontana, amicizie
con persone che incontriamo una volta all’anno, oppure grandi slanci
di carità ed elemosine verso terre lontane e gente lontane, o anche
semplicemente verso la città, cose tutte buone, per carità!, ma poi
non sappiamo guardare in faccia chi cammina sulla nostra stessa
strada, chi vive nella nostra stessa casa, il marito, la moglie, il
collega di lavoro, il confratello, la consorella, insomma le persone
e le relazioni che consideriamo ormai “scontate”, “ovvie”, “dovute”
e che sono poi, tra l’altro, quelle che più si prodigano per noi,
verso cui siamo più debitori.
Talvolta persino, l’uomo ferito che non sappiamo
o non vogliamo vedere siamo noi stessi. Siamo noi i malati, siamo
noi i feriti e bisognosi di cure, di guarigione, di liberazione dal
male, e non ne abbiamo consapevolezza, abbiamo paura a guardare le
nostre ferite, le nostre povertà. In questo senso ci esorta il libro
del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo
alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo…non è di là
dal mare. Anzi questa parola è molto vicina, è nella tua bocca e nel
tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” “Fa’ questo e vivrai.”
Il Vangelo non ci chiama anzitutto a gesti
straordinari, a fare chissà quali opere grandiose e visibili, ma ad
accorgerci dell’uomo ferito che incontriamo sul nostro cammino
quotidiano, esattamente sul nostro cammino, non al di là del mare o
chissà dove. Se la vita cristiana non si incarna nella nostra
esistenza quotidiana potremo chiamarla forse favola cristiana, sogno
utopico, ma non vita cristiana. In questo caso avrebbe ragione chi
la definì “oppio dei popoli”, una fuga dalla realtà, droga per chi
non può permettersi di meglio. Se il vangelo non penetra nel cuore
dell’uomo e non lo cambia, non lo guarisce nel profondo, allora
potremmo assimilarlo al livello di un manuale di buone maniere, uno
speciale e antico galateo.
Il fratello, ogni fratello, a partire da noi
stessi rappresenta una chiamata quotidiana, feriale, vicinissima
alla nostra vita, una chiamata che impone un rallentare, un fermarsi
da quell’agile corsa dell’uomo che il Signore non apprezza. È quanto
fa il samaritano della parabola che si trova su quella strada, dice
il testo, non per caso, come gli altri due, ma perché era in
viaggio, cioè il suo camminare aveva un senso, una provenienza e una
direzione significativa ed ulteriore rispetto al semplice muoversi
da un posto all’altro, non era lì per caso. Fuor di metafora, non
viveva per caso, ma percorreva un cammino, rispondeva ad una
chiamata. Questo buon Samaritano vede e accetta di entrare in
relazione col ferito: “ne ebbe compassione”, letteralmente “si
commosse in modo viscerale”, sentimento squisitamente cristologico.
E infatti i Padri della Chiesa hanno colto in questo anonimo
passante il volto del Cristo che si china sull’umanità ferita e se
ne prende cura.
Cristo avverte, ascolta la chiamata, il grido
dell’uomo. Il primo a rispondere ad una chiamata, la nostra, è lui!
Cristo obbedisce al grido di aiuto che si leva dalla nostra
coscienza bisognosa di liberazione. È Gesù il prossimo che facendosi
vicino a noi rende noi stessi suo prossimo, perché prossimo è una
categoria duale. Non esiste un unico prossimo, ma si è prossimi di
qualcuno che lo è per noi. Alla domanda del dottore della Legge,
Gesù con intelligenza, risponde ribaltando la prospettiva: Chi è il
mio prossimo? Tu sei prossimo di qualcun altro!
La cosa migliore che possiamo chiedere al
Signore, prima che aprirci il cuore, è che ci apra gli occhi, che ci
faccia vedere l’altro, incontrare l’altro, accorgerci dell’altro.
Lasciamoci scuotere da questo invito di Gesù ad andare aldilà di noi
stessi per aprirci alla relazione con l’altro, all’incontro con
l’altro, che è già un divenire partecipi della beatitudine del Dio
Trinità, il Dio relazione di amore e di compassione.
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venerdì
12 Luglio 2013
– XIV Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
La liturgia di oggi ci propone il seguito del
discorso apostolico di Gesù, un discorso paradigmatico, normativo di
come l’inviato alle pecore perdute della casa d’Israele debba
svolgere la propria missione di apostolo rimanendo discepolo, un
uomo chiamato alla sequela di Gesù.
Tale aspetto discepolare che perdura anche
durante la missione apostolica risalta particolarmente in due
passaggi del testo di oggi, uno riguarda l’essere dell’apostolo, il
secondo il suo parlare ed operare.
Il primo è quello che accosta pecore e lupi:
“Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi”. Pecore e lupi sono
simbolo di due modi di relazionarsi con gli altri: mite e innocua la
pecora, feroce, temibile e pericoloso il lupo. La prima, incapace di
difendersi con la violenza, il secondo fa della sua aggressività il
proprio punto di forza. Infine, erbivora la pecora, mentre il lupo
si ciba proprio degli animali che uccide. La metafora è dunque
facilmente comprensibile: l’apostolo deve essere un altro Cristo,
deve incarnare la mansuetudine e all’umiltà del suo Signore.
L’armatura del cristiano è la mitezza, lo stile del testimone è la
mansuetudine e la dolcezza, così come invitava san Pietro: “siate
sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e
rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui
si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano
sulla vostra buona condotta in Cristo.” (1 Pt 3,16) La tentazione di
essere lupo è sempre molto forte nel cuore dell’uomo perché così
sembra essere più convincente, e più rispettato. La sua missione,
umanamente parlando, sarebbe certo più al sicuro se custodita da un
lupo piuttosto che da una pecora, ma chi ragiona così dimentica che
la missione non è la sua, ma del padrone della messe che l’ha
chiamato ed inviato; non si tratta di una missione umana ma divina,
anche nei mezzi e nello sviluppo.
Infine alcuni, ne parla altrove Gesù stesso, sono
addirittura dei lupi travestiti da pecora, molto bravi nel simulare
un atteggiamento innocuo, dolce, fraterno, ma incapaci di superare
la prova della verità indicata da Gesù: “dai loro frutti li potrete
riconoscere”.
Ma scorgiamo un’altra differenza sostanziale tra
la pecora e il lupo, soprattutto se colleghiamo l’essere pecora del
discepolo con l’essere Agnello di Gesù, ed è questa: il lupo genera
male, fa male, produce male, la pecora invece elimina il male non
restituendolo ma portandolo su di sé insieme a Gesù, l’Agnello di
Dio, il solo che toglie il peccato del mondo. In questo senso
l’apostolo non solo annunzia Cristo ma continua nel mondo la
missione di “bonifica dal male” come quel torrente della profezia di
Ezechiele, che uscendo dal lato destro del tempio risana il mare
intero.
Se il primo passaggio paradigmatico di come il
discepolo debba essere apostolo riguarda l’essere, il secondo,
dicevamo, riguarda la parola: “non siete voi a parlare, ma è lo
Spirito del Padre vostro che parla in voi”. Parlare di Dio significa
in fin dei conti lasciar parlare Dio. La missione dell’apostolo per
quanto attiva e pragmatica, rimane un evento dello Spirito, un
evento mistico. L’apostolo è inviato da Gesù per essere segno e voce
della chiamata di Dio alla salvezza rivolta a tutti gli uomini,
tanto che Gesù stesso dirà ai Dodici: “Chi ascolta voi ascolta me,
chi accoglie voi accoglie me”. In questo senso l’apostolo più che un
intermediario dev’essere un mediatore di una mediazione di
trasparenza e di presenza, tanto più efficace e luminoso quanto
saprà mettere da parte se stesso per lasciare la parola a Dio.
Se tale dinamica ha certamente degli aspetti di
passività, appunto il “lasciare la parola a Dio”, bisogna tuttavia
riconoscere che tale traguardo non si raggiungerà semplicemente
“abbandonandosi”, come in uno stato di rapimento estatico o di
totale inerzia, ma nell’attivo e volontario cambiamento del proprio
modo di pensare e dunque di parlare. Intriso di Dio e della sua
parola il cristiano rigetta deliberatamente, a partire da se stesso,
ogni modo di pensare e di parlare che stride con il linguaggio di
Dio che è un linguaggio di giustizia e di carità, di verità e di
misericordia, di denunzia e di liberazione.
La vocazione dell’apostolo è una vocazione che,
seppur con ruoli e ministeri diversi all’interno della comunione
gerarchica della Chiesa, è rivolta a tutti e a tutti richiede la
stessa comune esigenza che san Paolo, l’Apostolo delle genti,
riconosceva per sé: l’essere separato, segregato per annunciare il
Vangelo (Cfr. Rm 1,1). Chi non accetta tale “taglio” rimarrà un
apostolo a metà, incapace di dire pienamente, con la sua vita e le
sue parole, il nome di Cristo al mondo.
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mercoledì
10 Luglio 2013
– XIV Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
L’invio degli apostoli da parte di Gesù è
sostanziato da un annuncio: “strada facendo, predicate, dicendo che
il regno dei cieli è vicino”. E Gesù da agli apostoli l’incarico non
solo di annunciare questo con le parole, ma anche di provarlo con
dei segni speciali che davvero rivelavano la presenza di una
Signoria particolare e potente: “Guarite gli infermi, risuscitate i
morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni” (Lc 10,8)
Questi segni parlavano da soli. Come non credere
davanti a questi eventi che rendevano manifesto che il mondo si
trovava nella pienezza dei tempi? Tutti o quasi tutti credevano,
tanto che poi Gesù doveva stare attento che non venisse travisato il
suo messianismo, come tutto terreno, tutto materiale, tutto
politico.
Oggi l’urgenza e dunque il mandato di annunciare
che il Regno di Dio è vicino non si è esaurito, anzi è ancora più
urgente in un tempo in cui le capacità dell’uomo, il suo ingegno
tecnico e le sua conoscenze scientifiche potrebbero far pensare che
adesso sia l’uomo a far miracoli e non più Dio e che dunque sia più
necessario promuovere un regno dell’uomo invece che cercare il regno
di Dio. Infatti quanti tra i cristiani ragionano ancora opponendo
Dio e uomo, ragione e fede, come se quest’ultima fosse il campo
dell’assurdo e dell’irrazionale? All’apostolo di oggi rimangono solo
delle parole da sostenere con argomenti su argomenti, capacità di
persuasione, e tecniche di convincimento o abbiamo ancora dei segni
che rivelano che il regno dei cieli è vicino? Per quale ragione la
gente dovrebbe fidarsi di quello che diciamo, dovrebbe creder che
Dio c’è e che è meglio essere credenti che non credenti?
Se leggiamo bene il vangelo di oggi e se andiamo
anche un po’ più in là nel testo, oltre il brano di oggi, vediamo
che Gesù non semplicemente da agli apostoli dei poteri sugli spiriti
impuri per scacciarli e di guarire ogni malattia e infermità, non
solo accompagna i Dodici con dei segni, ma chiede che loro stessi
siano “segno”, un luogo rivelativo, epifanico, convincente, che il
regno dei cieli è vicino. Gesù vuole che quanto l’apostolo annuncia
lo annunci perché ne è convinto, non perché sta giocando un ruolo o
sta svolgendo una professione, come se fosse un rappresentante
dell’azienda di Gesù. È per questa ragione che l’evangelizzatore
sarà tale se sarà egli stesso il primo evangelizzato, il primo a
rendere visibile nel campo della sua vita che il regno dei cieli non
solo è vicino, ma è già abitabile, già può modificare il mio modo di
vivere! In questo senso la missione, l’invio, rimane una sequela di
Gesù.
Oggi la gente, e il santo Padre Francesco ce lo
sta facendo capire senza troppa retorica, guarda più alla vita che
alle parole. O meglio, prima guarda alla vita e, a seconda di come
questa sia, ascolta le parole. La gente crede se ci vede convinta di
quello che diciamo, convinta almeno quanto basta per obbedire anche
noi, pur con tutte le nostre povertà, a quanto proponiamo agli
altri. E in tale esigenza di coerenza tra vita e annuncio deve
trovare posto la l’umiltà e la richiesta di perdono, ossia il
riconoscere noi per primi, le nostre incoerenze, quando abbiamo
contraddetto il vangelo invece che annunciarlo. Saremo credibili se
saremo sinceri. Nessuno presterebbe fede ad un furbo! L’apostolo più
che un puro dev’essere un vero, uno che come san Pietro, primo degli
apostoli, si mette a piangere di fronte al suo rinnegamento di
Cristo. Chi invece cerca di nascondere, o peggio di negare, le
proprie innegabili ed evidenti povertà – perché tutti siamo
perfettibili, uomini e donne in cammino – salverà forse la faccia,
ma starà togliendo un po’ di vigore e credibilità al vangelo che
annuncia.
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Domenica 07 luglio
2013 - XIV
Domenica T.O. -
fr.Massimo-Maria FMJ
La liturgia ci offre sempre il punto di osservazione
privilegiato per metterci in ascolto della Parola. In questa
domenica, l'orazione che abbiamo pregato proprio prima della
liturgia della Parola, la cosiddetta colletta, si è così espressa: “
O Dio che ci chiami ad essere pienamente disponibili all'annuncio
del Regno, donaci il coraggio apostolico e la libertà
evangelica.....”
Possiamo
chiederci allora che cosa siano questo coraggio apostolico e questa
libertà evangelica che rendono disponibili per il Regno e capaci di
rendere presente il Regno ovunque?
La
preghiera così formulata dalla liturgia evidentemente riprende e
riassume i testi della Parola, per questo proprio accostandoci alla
Parola possiamo trovare la risposta alla nostra domanda.
Il testo
del Vangelo di Luca descrive l'invio in missione dei settantadue
discepoli da parte di Gesù. E' evidente come nel testo Gesù non
semplicemente li invia in missione ma con attenzione e precisione
offre indicazioni, dona istruzioni, pone condizioni, e infonde
motivazioni.
Li invia
avanti a sé e ricorda innanzitutto che il Padrone della messe è
qualcun altro, è Lui che occorre pregare perché mandi operai. Il
discepolo quindi non è proprietario né dell'annuncio, né della
missione, né tanto meno del Regno. Ogni ansia di protagonismo è
definitivamente bandita. Il discepolo non si è proposto, è stato
chiamato, non si è candidato ma gratuitamente è stato scelto.
Il discepolo
poi è inviato come agnello tra i lupi, è mandato cioè non con uno
spirito di conquistatore, ma in grande debolezza, in grande mitezza,
con tanta umiltà, senza particolari appoggi umani, quasi apparendo
indifeso, senza particolari motivi di vanto. San Paolo nella seconda
lettura scrivendo ai Galati ci ha proprio ricordato che la croce di
Cristo – segno di fallimento e debolezza- resta l'unico vanto del
discepolo di Gesù. Non ce ne sono altri, non bisogna soprattutto né
costruirne né tanto meno cercarne altri.
Gesù poi
sapendo bene che andando in missione il discepolo sarebbe tentato di
prendere delle umane ricchezze, degli appoggi legittimi che diano
sicurezza, che aiutino, perché no, la missione stessa, raccomanda
decisamente la povertà come stile di annuncio: “ Non prendete né
borsa, né sacca, né sandali.....”
La parola
che il discepolo porta non è solo una parola, ma ha effetto su chi
la riceve, effetto che dice la presenza reale del Regno. Ecco le
guarigioni, le liberazioni, le piccole o grandi salvezze realizzate.
Tutti questi segni Gesù preannuncia al discepolo che invia per
mostrare che il Padrone della messe, il Signore del Regno
accompagna, sostiene, è con colui che è inviato. Il discepolo non và
a titolo personale, ma neppure và da solo. Negli Atti degli Apostoli
si dirà che il Signore confermava l'annuncio degli apostoli con i
segni che li accompagnavano.
Ci sono poi
delle indicazioni che potrebbero sorprenderci: “ Scuotere la polvere
davanti al rifiuto, ritirare la pace dinanzi alla ostinazione....”
Queste indicazioni non contraddicono certo quanto detto finora, ma
piuttosto sono per ricordare al discepolo di non addomesticare
l'annuncio, di non rendere ibrido il Vangelo. La chiarezza
nell'annuncio, l'autenticità nella predicazione. Il Vangelo non è
del discepolo, l'annuncio non è del missionario e non può né deve
addomesticarlo, né tanto meno aggiustarlo.
Infine c'è
ancora un passaggio prezioso. Quando i discepoli ritornano e sono
gioiosi perchè diremmo l'annuncio funziona Gesù con decisione
ammonisce di non rallegrarsi perchè “ funziona” ed essi compiono
prodigi, ma perché i loro nomi sono scritti nel cuore di Dio, perché
sono figli, perchè sono amati.
Coraggio
apostolico e libertà evangelica dicevamo: cosa sono?
Mi pare tre
caratteristiche riassumano alla luce della Parola cosa siano
coraggio apostolico e libertà evangelica, e non solo le riassumano,
ma ne dicano la presenza.
Autenticità.
Sobrietà. Gioia.
Il coraggio
apostolico non è prima di tutto il dire il Vangelo in luoghi
rischiosi che richiedono appunto coraggio. Certo è anche questo! ma
non solo! Se così fosse sarebbe riduttivo infatti perché possibile
solo a chi è in contesti particolari, o sembrerebbe riguardare solo
chi ha per vocazione l'essere missionario in senso stretto.
Il coraggio
apostolico, a cui tutti i battezzati in tutte le vocazioni sono
chiamati è l'autenticità. E' coraggio apostolico essere autentici,
una vita tutta in sintonia con il Vangelo.
Come forse sapete ieri ed oggi il Santo
Padre Francesco nel contesto dell'anno della fede incontra i
seminaristi, i novizi, i candidati alla vita sacerdotale o
consacrata. Ieri sera, come sempre ha avuto parole chiare e forti:”
"... E a tutti voi vi fa schifo,
quando trovate preti che non sono autentici o suore che non sono
autentiche!"
Nella vita di un consacrato c’è
prima di tutto la testimonianza del Vangelo e poi – come evidenziava
san Francesco d’Assisi – anche le parole. Prima però la
testimonianza poi le parole. Se questa autenticità è necessaria per
i preti e per le suore tutti i battezzati non ne sono assolutamente
dispensati. Per l'annuncio.
Il coraggio apostolico allora è forse il coraggio di fare entrare
dappertutto, sempre più il Vangelo nella propria vita. Ognuno sa
bene se è onesto quanto coraggio questo atto richieda, ma per essere
apostoli è la condizione imprescindibile.
L'elemento che dice poi la libertà evangelica che sempre all'inizio
della liturgia abbiamo chiesto è la sobrietà. La sobrietà esteriore,
la sobrietà materiale dice sempre qualcosa di più profondo: la
libertà interiore appunto. Questa sobrietà che dice libertà
interiore è essenziale per il cristiano che vuole anche essere
apostolo. Non si può annunciare il Vangelo con uno stile diverso da
quello indicato da Gesù, ma neppure lo si può vivere il Vangelo in
modo diverso. Questo vale per i preti, le suore, ma per tutti i
discepoli di Gesù divenuti tali in forza del Battesimo.
Infine c'è la gioia. Ancora il Papa parlano ai novizi, novizi e
seminaristi ieri sera ha detto due cose, che certo sono validi
particolarmente per chi è chiamato alla vita consacrata, ma che non
si fa fatica ad applicare a tutti i cristiani.
“ ... La gioia dunque nasce
non
dal possedere l’ultimo smartphone, lo scooter più in veloce, l’auto
all’ultima moda, ma da qualcosa di diverso di queste realtà “con cui
– sottolinea Papa Francesco – vi trovate in contatto e che non
potete ignorare”:
"E’ il sentirsi dire: “Tu sei importante per me”, non
necessariamente a parole. Ed è proprio questo che Dio ci fa capire.
Nel chiamarvi Dio vi dice: “Tu sei importante per me, ti voglio
bene, conto su di te”. Capire e sentire questo è il segreto della
nostra gioia. Sentirsi amati da Dio, sentire che per Lui noi non
siamo numeri, ma persone; e sentire che è Lui che ci chiama.
Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una
scelta nostra, ma la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di
amore".
Per dirla con Gesù nel Vangelo di oggi la gioia nasce dall'essere
stati scelti come credenti dall'amore del Padre, dal sapere che i
nostri nomi sono scritti nel cielo.
Senza questa consapevolezza, senza questa esperienza non c'è la
gioia vera, ma la tristezza, e nella tristezza non esiste la
fecondità apostolica del cristiano.
Sempre il Papa ha detto ai chiamati alla vita consacrata ieri – ma
c'è della intensa luce per tutti :”
"
Voi,
seminaristi, suore, consacrate il vostro amore a Gesù, un amore
grande; il cuore è per Gesù e questo ci porta a fare il voto di
castità, il voto di celibato. Ma il voto di castità e il voto di
celibato non finisce nel momento del voto, va avanti…Un prete che
non è padre della sua comunità, una suora che non è madre di tutti
quelli con i quali lavora, diventa triste. Quello è il problema.
Perché io vi dico questo: la radice proprio della tristezza nella
vita pastorale è nella mancanza di paternità e maternità che viene
dal vivere male la consacrazione, che deve portare alla fecondità.
Non si può pensare un prete o una suora che non siano fecondi:
questo non è cattolico! Questo non è cattolico! Questa è la bellezza
della consacrazione: è la gioia, la gioia…"
Se questa parola è forte per i consacrati lo è non meno per i
battezzati. La tristezza, la mancanza di gioia dice che viviamo male
la vita cristiana, così non si può essere fecondi nella chiesa, nel
mondo, e si esercita quello che sempre il Papa ha definito lo sport
del lamento e l'abitudine della critica.
Autenticità. Sobrietà. Gioia.
Chiediamo al
Signore in questa Eucarestia che ci faccia riscoprire quanto siamo
importanti per Lui, quanto è potente il Suo amore per noi, e
possiamo riscoprire così che Lui è la vera ricchezza che rende
liberi, un amore che rende autentici, un mistero di tenerezza che
rende gioiosi. Amen
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sabato 06 luglio
2013
-
XIII Settimana T. Ordinario –
fr. Massimo-Maria FMJ
“ Vino nuovo in otri nuovi”.
Oggi dobbiamo chiedere al Signore la grazia di accogliere nella
nostra vita la forza e la grazia di questa Parola. Gesù nel testo
evangelico nel pronunciare questa Parola fa riferimento alla novità
della sua Persona, alla novità del Vangelo e della vita cristiana.
Questo è il vino nuovo che richiede otri nuovi. Richiede otri nuovi
appunto, stà qui la sfida, il cuore del discorso.
Proprio per questo la Parola del Signore ha tutto un peso, un
valore, una forza, una esigenza di conversione anche per noi che
siamo già nella novità della fede cristiana rispetto al mondo
giudaico, che conosciamo la novità del Vangelo rispetto all'antica
legge, che abbiamo incontrato Gesù rispetto a chi ancora non lo
conosce.
Da una parte la novità già c'è e in un certo senso la
conosciamo, ma nello stesso tempo questa novità ci colloca nel
dinamismo dello Spirito che non cessa di fare nuove tutte le cose ed
essere disarmante e consolante novità. A noi è chiesto di essere
otri nuovi, gente cioè disponibile alla novità dello Spirito, docile
alla sua azione di continuo e salutare rinnovamento. Non è certo la
novità per la novità né la novità per smania di singolarità o
perpetuo cambiamento, ma la novità dello Spirito che conduce alla
pienezza della verità e della vita.
Il Papa ha detto : “
Essere cristiano alla fine non
significa fare cose, ma lasciarsi rinnovare dallo Spirito Santo o,
per usare le parole di Gesù, diventare vino nuovo”.
La sfida della vita cristiana è tutta qui.
Ecco che allora la grazia da chiedere è - come ha detto ancora il
Papa – di non avere paura della novità che porta lo Spirito e
insieme chiedere una grande libertà interiore.
Spesso noi impediamo di fruttificare o addirittura facciamo
spegnere i doni di Dio perchè anziché esporli non certo alla novità
mondana, ma alla forza dello Spirito che rinnova, alla novità dello
Spirito siamo chiusi a mantenere a tutti i costi le cose come
stanno, magari perchè vogliamo in modo sbagliato custodire i doni e
i carismi. Quante volte la frase o l'atteggiamento :“ Si è sempre
fatto così, questo non si tocca, etc.......” è in realtà paura del
cambiamento e della novità. E spesso tutto questo si cela dietro
discorsi che farebbero pensare il contrario, discorsi di apertura e
di dialogo.
Un grande esempio mi pare ci è ripresentato sotto gli occhi
dalla notizia della prossima canonizzazione di Papa Giovanni. Papa
Giovanni era un uomo profondamente legato alla tradizione,
all'antico, in un intervista il segretario disse:” Oggi lo
definiremmo persino tradizionalista per certi versi. “ Eppure a
differenza di tanti suoi contemporanei a parole paladini di novità,
di apertura, di dialogo ha ascoltato lo Spirito e non ha avuto paura
della novità, addirittura ha condotto la Chiesa nel cammino della
novità. Qual'è stato il suo segreto? Certo non temere la novità e
l'interiore e grande libertà. Non era un uomo aperto come oggi si
direbbe, ma piuttosto un uomo libero della libertà dello Spirito. Di
gente definita aperta che poi in realtà è chiusa perchè non libera
anche la chiesa talvolta ne soffre ancora oggi. E il nostro Papa
oggi l'ha ricordato affermando che:”....Il Vangelo ci insegna la
libertà per trovare sempre la novità del Vangelo in noi, nella
nostra vita e nelle strutture”. Il Papa ha quindi ribadito
l’importanza della “libertà per scegliere otri nuovi per questa
novità”. Ed ha soggiunto che il cristiano è un uomo libero “con
quella libertà” che ci dà Gesù, “non è schiavo di abitudini, di
strutture…lo porta avanti lo Spirito Santo”.
Chiediamo allora al Signore di non avere paura della novità
dello Spirito e il dono di una grande libertà interiore che fa
avanzare la nostra vita e la chiesa tutta nel cammino della santità.
Amen
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giovedì
4 Luglio 2013
– XIII Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni-Battista FMJ
La pagina evangelica che abbiamo ascoltato è
carica di riferimenti dal grande valore teologico. Anzitutto peccato
e malattia, due realtà che sia nell’antico testamento che nella
mentalità comune sono talvolta accostati come conseguenza punitiva
l’una dell’altro per cui la malattia di una persona sarebbe
punizione di un peccato commesso dalla persona stessa o anche della
sua famiglia perché il Signore puniva fino alla terza e alla quarta
generazione. Quante volte abbiamo sentito e forse pronunciato anche
noi frasi come queste: Ma che male ho fatto per meritarmi questo? E
anche i discepoli di Gesù alla vista di un cieco nato, come ci
racconta Giovanni, chiesero: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9,1).
Gesù, nel guarire il paralitico di oggi subito
dopo l’avergli rimesso i peccati, non vuole tanto ribadire tale
legame tra il suo peccato personale e la sua malattie, quanto
illuminare lo sguardo dei presenti su due aspetti. Il primo riguarda
il paralitico, il secondo riguarda Gesù stesso.
Per quanto riguarda il paralitico, questi era
aiutato, e forse anche compatito, da tutti per la sua situazione di
infermità. Da quanto apprendiamo dal testo non sembra che ci fossero
preoccupazioni particolari riguardo alla salute spirituale,
interiore dell’infermo, l’importante era che venisse risollevato
dalla sua paralisi. Tale modo di pensare è certo umanamente
legittimo, buono e caritatevole e probabilmente anche noi avremmo
fatto e faremmo lo stesso. Gesù però, prima di guarirlo fisicamente,
l’abbiamo ascoltato, gli perdona i peccati. Un gesto che, se agli
scribi puzzava di blasfemia, negli altri meno coinvolti nelle
questioni teologico – religiose e più preoccupati alla salute
dell’uomo, avrebbe potuto comunque lasciare con l’amaro in bocca. Ma
con questo gesto Gesù richiama l’attenzione di tutti sulla vera
malattia di questo paralitico che è il suo peccato, quel male
interiore che gli impediva di avere accesso a Dio. E se Gesù attira
l’attenzione su questo punto in quei tempi, quanto di più ce n’è
bisogno ai nostri giorni dove il senso del peccato come infermità e
malattia interiore che ferisce l’uomo, lo menoma, lo rende meno
uomo, lo rende paralitico, cioè incapace di muoversi verso Dio e
verso gli altri, talvolta non è neppure preso in considerazione.
L’importante è stare bene fuori, essere belli fuori, avere una bella
immagine e una buona fama. Anzi, talvolta il peccato e la
trasgressione diventano addirittura oggetto di vanto: ci si vanta,
come diceva san Paolo, di ciò di cui invece bisognerebbe
vergognarsi. Per cui Gesù, nel momento stesso in cui guarisce il
paralitico, tra le perplessità degli scribi e la delusione dei
portantini, in realtà offre la vera salvezza a quest’uomo infermo,
di cui poi la guarigione esteriore vorrà essere solo un segno
visibile che davvero l’agire di Gesù era efficace.
Guardando a Gesù, dopo aver guardato al
paralitico, potremmo chiederci: come Gesù salva? Per rispondere a
tale domanda potremmo partire da punti diversi. Una pista
interessante è chiedersi: perché gli scribi lo accusano di
bestemmia? Perché, lo sappiamo, è Dio solo che può perdonare i
peccati ed essi non avevano capito che era Dio colui che avevano di
fronte. Ma come Dio concedeva il suo perdono? Normalmente attraverso
un sacrificio di espiazione come sta scritto nel libro del Levitico,
cioè il peccato non voleva essere semplicemente perdonato ma
espiato, eliminato. Ora, tale logica sacrificale non viene annullata
da Gesù ma viene assunta. Gesù salva prendendo su di sé ed espiando
il male dell’uomo, di quel paralitico, un male che avrebbe
definitivamente eliminato nel sacrificio della Croce: “egli si è
caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”
scriveva Isaia (53,4). Chi incontra Gesù e si lascia toccare dalla
sua salvezza vive allora con Cristo uno scambio profondissimo ed
impensabile ad una solidarietà umana: egli prende il nostro male e
ci dona il suo bene, la beatitudine che gli è propria in quanto Dio.
E questo è un miracolo ben superiore alla, seppur grandiosa,
guarigione di una paralisi.
I presenti non potevano capire tutto questo. Ma a
noi che godiamo della luce che si irradia dal mistero pasquale, è
data quell’intelligenza necessaria per scorgere in questo testo,
come anche nella nostra vita, l’energia vitale e trasformante della
Pasqua di Cristo. Gesù perdona e guarisce prendendo su di sé. In
Cristo non abbiamo solo il Dio fatto uomo, ma, come diceva il beato
Giovanni Paolo II, l’incarnazione e la personificazione della
misericordia: “Egli stesso è, in un certo senso la misericordia” (Dives
in misericordia § 2). Si impone dunque in noi l’esigenza di una
conversione alla misericordia, ossia accettare di abbandonare il
nostro peccato per ricevere da Cristo una vita nuova, la vita sua.
Ciò che Gesù dice al paralitico lo dice allora oggi anche a tutti
noi: “alzati e cammina”! Alzati dalla paralisi del tuo peccato,
cammina alla sua sequela.
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mercoledì
3
Luglio 2013
– Festa di San Tommaso
-
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi sembra dividere l’umanità in
due categorie, secondo l’espressione rivolta da Gesù a Tommaso:
“Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno
visto e hanno creduto”. Dunque, la categoria di coloro che credono
perché hanno incontrato visibilmente il Signore Risorto, e la
categoria, veramente beata, di coloro che credono in lui senza
vederlo.
Tale distinzione ha una sua verità, anche se non
bisogna dimenticare che Gesù stesso aveva proclamato beati gli occhi
e gli orecchi degli apostoli proprio perché vedevano ed ascoltavano
ciò che altri, prima di loro, non avevano potuto vedere ed
ascoltare: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi
perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti
hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e
ascoltare ciò che voi ascoltato, ma non lo ascoltarono” (Mt
13,16-17). Dunque non è che il vedere Cristo risorto da parte degli
apostoli tolga qualcosa alla loro beatitudine e il non vederlo
aggiunga qualcosa alla nostra perché anche loro erano detti beati. E
del resto se l’Apostolo, secondo il criterio fornito da Pietro negli
atti degli apostoli, doveva essere testimone della risurrezione di
Cristo, come poteva Tommaso non partecipare a tale visione?
Dove sta allora il nocciolo per comprendere la
vicenda di Tommaso? La questione forse non sta tanto nel vedere o
nel non vedere, nell’essere beati o nel non esserlo, ma nel tipo di
fede che Tommaso cercava di coltivare, ossia una fede che pone delle
condizioni: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, se non
metto il mio dito nel segno dei chiodi, se non metto la mia mano nel
suo fianco, io non credo”. Queste tre condizioni che Tommaso pone
per prendere parte alla fede degli apostoli sono tre condizioni che
a lui forse sembravano tre vie per essere veramente sicuro, per
fondare sulla roccia dei propri sensi e della propria esperienza
fenomenica il suo sì, tre garanzie di fronte alle quali non avrebbe
più potuto dubitare dopo la delusione e lo sconcerto del venerdì
santo. In realtà, e forse lui di questo non se ne era reso conto,
quelle che volevano tre prove evidenti della risurrezione per
rendere più grande e sicura la sua fede, in realtà la stavano
rimpicciolendo e chiudendo negli spazi limitati della propria
esperienza personale e dei suoi sensi. Cioè, in altre parole, è vero
solo ciò che verifico io, che sperimento io, è vero solo ciò che
convince il mio io. Ciò che è oggettivamente vero, in questo caso la
risurrezione di Cristo, è vero solo se lo è anche soggettivamente.
Ci avviciniamo, con Tommaso, quasi ad un problema moderno, in cui le
cose si sono addirittura spinte fino al limite, talvolta assurdo, di
un soggettivismo che non ha più nemmeno la pretesa di una
oggettività, per cui ognuno ha la sua verità che è assolutamente
vera anche se non ha alcun riscontro con la realtà dei fatti e delle
cose. Con Tommaso non siamo ancora a questi livelli perché comunque
lui era un uomo conquistato da Cristo che già godeva della
beatitudine di coloro che l’hanno visto ed ascoltato. Ma la cosa è
interessante per noi che viviamo nella fede e non nella visione, e
che tuttavia siamo spesso tentati, come Tommaso, di porre condizioni
per credere: se questa vicenda mi va bene allora vuol dire che Dio
c’è e mi ama; se c’è il male nel mondo allora vuol dire che Dio non
esiste. Questi “se” che sembrano delle conquiste della nostra
intelligenza, in realtà la mortificano perché le fissano dei limiti
alla sua possibilità di conoscere e di credere oltre i quali le
impediamo di accedere. Come se le dicessimo: oltre questo “se” tu
non passi.
La nuova beatitudine che Gesù annuncia per coloro
che non vedono, non è un elogio al rimbambimento dei sensi e
dell’intelligenza ma è un panorama nuovo che si apre non prima
dell’atto di fede ma dopo l’atto di fede: cioè dopo l’atto di fede
io scopro orizzonti inesplorati che prima non avrei potuto
conoscere. La lettera agli Ebrei esprime questo concetto dicendo che
“la fede è fondamento (cioè qualcosa che viene prima) di ciò che si
spera e prova (ossia conferma, qualcosa che viene dopo) di ciò che
non si vede” (Eb 11,1).
Il benevolo rimprovero di Gesù a Tommaso possiamo
allora ritenerlo valida parola di quotidiana conversione anche per
noi: non essere incredulo ma credente! Prima credi e poi vedrai,
prima fidati e poi potrai capire e non viceversa. Questa è la
beatitudine di chi non fonda sulla carne e sul sangue la propria
fede ma su quanto il Padre nel Figlio ha voluto rivelarci e,
attraverso la testimonianza della Chiesa, annunziarci.
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martedì
2 Luglio 2013
– XIII Settimana T. Ordinario –
fr.Giovanni-Battista FMJ
All’interno del vangelo di Matteo, il racconto di
oggi è il primo caso in cui i discepoli di Gesù si trovano in
pericolo di vita. Essi hanno incontrato il Maestro, l’hanno seguito,
l’hanno ascoltato, l’hanno visto in azione sugli altri quando sanava
i lebbrosi e guariva gli infermi, ma in fondo, la comunità di Gesù
era ancora un gruppo tranquillo che viveva la sua sequela senza
troppi problemi. Oggi le cose cambiano, oggi i discepoli si sentono
davvero venire meno la terra sotto i piedi. L’aver seguito Gesù
sulla barca per passare all’altra riva costerà loro molta angoscia.
E tale angoscia improvvisa provocherà certamente un passo in avanti
nel loro cammino di fede, e nella loro conoscenza del Signore Gesù.
Nel mare avviene un grande sconvolgimento; per
quanto fossero esperti di navigazione i discepoli sono davvero in
pericolo, da soli non ce la fanno. Si trovano davanti a qualcosa di
superiore alle loro forze. Ora, in tale contesto avverso, lontano
dalla terra ferma e nel quale non c’è ingegno umano che possa essere
di aiuto, quando l’uomo di per sé non può nulla, ecco che emerge un
grido: “Salvaci, Signore, siamo perduti!” In questo grido è
racchiuso un germe di speranza, l’apertura ad una salvezza che non
viene da noi ma che è un Altro che per amore ci offre. Coloro che
sono chiamati a divenire pescatori di uomini, in certo senso fanno
oggi l’esperienza di essere loro i primi ad essere pescati, ad
essere salvati, strappati all’abisso.
Da questo capiamo allora una cosa importante:
quanto è importante saper gridare al Signore! Quanto è importante
fare l’esperienza di essere salvati dal Signore. Solo allora ci
rendiamo conto che quanto il Signore ci da non è semplicemente una
bella morale, una filosofia di vita, una pace interiore, ma la
liberazione dalla morte e dalle molte morti, interiori ed esteriori,
che minacciano la condizione umana. Al Signore dobbiamo la vita! Per
questo è il nostro Salvatore. Aprirsi alla potenza salvatrice di Dio
è forse un miracolo maggiore delle guarigioni fisiche e dei segni
spettacolari. La salvezza per l’uomo vede dunque due attori, due
protagonisti: il Signore che salva e l’uomo che si lascia salvare.
Inoltre, quando facciamo esperienza dell’essere
salvati dal Signore, impariamo anche a non aver più paura delle
situazioni instabili, delle situazioni cioè che possono
potenzialmente mettere a nudo la nostra incapacità, la nostra
impreparazione. Gesù, una volta svegliato dai discepoli, chiede
loro: “Perché avete paura, gente di poca fede?” Paura e fede sono i
due sentimenti entro cui si gioca la nostra sequela di Gesù: la
prima è un sentimento naturale, istintivo di fronte ad un pericolo
che ci minaccia; la fede invece non è un’attitudine istintiva, non è
immediato avere fede. È invece una virtù soprannaturale, teologale
perché viene da Dio, che ci offre uno sguardo nuovo, un’esperienza
diversa della realtà perché include in essa qualcosa che umanamente
non prenderemmo in considerazione: la presenza salvatrice di Dio. E
tale sguardo non ci è mai dato una volta per tutte, ma va coltivato,
nutrito, esercitato, a prezzo di rinnovati atti di fede nelle cose
piccole e grandi delle nostre giornate mediante i quali ci
alleniamo, sostenuti dalla grazia, a passare dalla paura alla fede,
dalla paura al timore di Dio. La fede è un dono di Dio ma non si
edifica da solo in noi, non cresce indipendentemente da noi, ma
cresce nella misura in cui la utilizziamo come strumento attivo di
vita, di pensiero, di azione, di preghiera. Attraverso tale
esercizio della fede si allungherà anche il “curriculum” dei
miracoli che il Signore avrà compiuto nella nostra vita, miracoli
che come ci insegna il vangelo erano sempre subordinati alla fede
dell’uomo. Tale esperienza di Dio che avremo fatto nel passato sarà
per noi come un tesoro prezioso racchiuso nella nostra memoria, il
coraggio per guardare avanti senza rimanere bloccati dalla paura del
domani e dei problemi che porterà con sé, e di guardare indietro
senza rimanerne pietrificati come la moglie di Lot. Così sapremo
proseguire con entusiasmo la corsa della nostra fede.
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venerdì
28
Giugno 2013
– Santi Pietro e Paolo – Messa vespertina nella vigilia
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Celebrare la solennità dei santi apostoli Pietro
e Paolo non significa solamente ricordare e venerare la vita santa
di due grandi testimoni del Signore risorto. Nella loro chiamata e
nella loro storia noi ammiriamo non unicamente quanto il Signore ha
fatto per loro, ma soprattutto quanto il Signore ha fatto in loro
per noi.
Fin dall’origine della vocazione di questi due
apostoli è presente una dimensione di ecclesialità, un sì detto al
Signore che si inserisce, certo in maniera a loro stessi
sconosciuta, in un’opera grande di Dio, un’opera che li precede, li
include, li supera, per giungere fino a noi oggi. E quest’opera, se
vede certo Dio come protagonista supremo, è debitrice anche a loro,
al loro sì, un sì detto a Dio, ma un sì detto anche a noi che
viviamo non di una fede qualsiasi, ma di una fede apostolica, la
fede degli apostoli.
Da ciò possiamo capire e ritenere una prima cosa:
la chiamata di Dio se è certo una chiamata rivolta ad una singola
persona e che va certamente coltivata e custodita come bene prezioso
del singolo, ha un riverbero e una responsabilità più ampia,
ecclesiale. Dicendo sì o no alla propria chiamata il cristiano non
fa i conti solo con Dio, ma anche con il Corpo di Cristo che è la
Chiesa. Il cristiano che risponde sì o no a Dio, afferma o nega la
sua disponibilità anche agli altri e alla Chiesa di cui è chiamato a
divenire, ciascuno al suo posto, membro responsabile di dare il
proprio contributo a quest’opera divino - umana che è appunto la
Santa Chiesa, la famiglia di Gesù. Se siamo pietre vive lo siamo non
di un edificio di nostra proprietà, ma dell’edificio della santa
Chiesa che attende che ci collochiamo laddove il Signore vuole e il
bene degli uomini ha bisogno.
Un secondo aspetto su cui concentrarci di questi
nostri grandi padri e fratelli che oggi vogliamo ricordare con
venerazione è la modalità della loro risposta alla chiamata di Gesù.
Entrambi hanno visto il Signore risorto, chi sulle rive del lago di
Tiberiade, chi sulla via verso Damasco. Essi, tuttavia, se è vero
che hanno seguito il Signore così com’erano, hanno però dovuto
acconsentire ad un’opera di trasformazione di loro stessi. Così
com’erano infatti essi non erano adatti, non servivano il Signore ma
o lo rinnegavano, vedi Pietro, o lo perseguitavano, vedi Paolo (Saulo,
Saulo, perché mi perseguiti). L’adesione al Signore ha dovuto
necessariamente passare per le lacrime, nel caso di Pietro, e per il
buio della cecità, nel caso di Paolo. Insomma l’uomo, per divenire
apostolo e padre, ha dovuto rinunciare a com’era prima, per
rivestire l’uomo nuovo creato ad immagine somiglianza di Dio; ha
dovuto attraversare il crogiuolo della sofferenza. Scrive di Pietro
san Massimo di Torino: “Vedete quanto a Pietro abbia giovato il
pianto! (…) Divenne infatti più fedele dopo che ebbe pianto la sua
infedeltà, e perciò recuperò una grazia maggiore di quella perduta.
Infatti, come a buon pastore, gli fu affidato il gregge, e così
quegli che dianzi era stato incapace di sostenere se stesso diveniva
il sostenitore di tutti; e chi, intimidito da una domanda, aveva
vacillato, diveniva stabile fondamento degli altri.” (Sermone LXXVII).
E anche Paolo non sfuggì a quella buona sofferenza che lo rese
malleabile strumento per il Signore affinché portasse il nome di Dio
alle nazioni; “e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio
nome” (At 9,16).
Pietro e Paolo hanno accettato di entrare in
questo fuoco che purifica e rinnova, hanno accettato di rinunciare a
loro stessi per divenirlo in maniera ancora più autentica. Essi sono
grandi perché hanno saputo farsi piccoli per il Signore che non ha
bisogno di super-eroi ma di persone umili e buone. “Non è il potere
che redime – diceva papa Benedetto XVI – ma l’amore.” Solo così si
può essere padri e madri per gli altri. E da gente che in sé aveva
ben poco, Pietro e Paolo sono diventati uomini di Dio che
possedevano tutto e davano tutto: “Non possiedo né argento né oro,
ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno,
alzati e cammina”.
Celebrare questa solennità può essere allora per
noi preziosa occasione per scoprire o riscoprire questo sguardo di
Gesù su di noi che ci interroga e ci chiama: mi ami più di tutto e
di tutti? Nutri le mie pecore! Ti affido ciò che è mio.
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mercoledì 26
Giugno 2013
– XII Settimana T. Ordinario –
fr. Giovanni Battista FMJ
Il libro del Deuteronomio offriva all’israelita
un criterio chiarissimo per distinguere un vero profeta da uno che
aveva la presunzione di dire in nome di Dio una cosa che Egli non
aveva comandato: “Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la
cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta
il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione.” (Dt 18,22). Gesù
invece, nel Vangelo di oggi, parlando dei falsi profeti, non chiede
tanto di guardare alla realizzazione esterna della parola del
profeta, ma alla realizzazione interna, nella vita del profeta
stesso, di questa parola. Cioè quanto il profeta si faccia discepolo
di quella volontà divina di cui dice di essere interprete. Tanto che
l’azione esterna del profeta, la sua bontà o la sua malvagità, non
sarà altro che l’espressione visibile di ciò che il profeta è in se
stesso: “un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un
albero cattivo produrre frutti buoni. (…) Dai loro frutti dunque li
riconoscerete.”
Nei confronti di coloro che dicevano di parlare
in nome di Dio Gesù dunque invitava alla cautela, al discernimento,
a non fidarsi subito, una presa di distanza ancora più netta di
quella che chiedeva nei confronti degli scribi e dei farisei che
insegnavano al popolo: “Praticate e osservate tutto ciò che vi
dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non
fanno.” (Mt 23,3) Ascolto, dunque, ma non sequela ed emulazione.
Come mai, potremmo chiederci, una tale diffidenza
verso i falsi profeti? Forse perché, nei falsi profeti, abbiamo non
soltanto incoerenza tra la parola detta e il vissuto personale, un
dislivello certo non facilmente colmabile in questa vita, ma abbiamo
subdola doppiezza, un prendersi ciò che non mi appartiene e
mascherarlo, chiamare il bene male ed il male bene, mentre, come
insegnava Giovanni il Battista: “Nessuno può prendersi qualcosa se
non gli è stata data dal cielo.” (Gv 3,27) Un antico predicatore
diceva in proposito: “Niente distrugge il bene come il falso bene.
Infatti un male evidente, in quanto male, viene fuggito ed evitato;
invece il male che si nasconde sotto le sembianze di bene non è
evitato finché non si conosce, ma piuttosto è accolto come bene e
perciò, confondendosi col bene, lo distrugge.” E al giorno d’oggi,
nel nostro mondo, abbiamo purtroppo sotto i nostri occhi diversi
esempi di male chiamati bene.
La falsità ambigua è davvero qualcosa che il
Signore non sopporta perché è come una sorta di evoluta forma di
male, sottile ingegno del padre della menzogna, che riesce a
serpeggiare indenne travestita di bene. Gesù stesso, come affermava
Simeone, venne “perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc
2,35).
Tuttavia Gesù non ci chiede di dichiarare guerra
ai falsi profeti, ma di saperli riconoscere per non prendere esempio
da loro e non ascoltarli. Se secondo il libro del Deuteronomio il
falso profeta doveva essere messo a morte, Gesù, il nuovo Mosè che
parla da un nuovo monte, non chiede di metterlo a morte ma di
metterlo alla prova. Ci invita ad aprire gli occhi, a non essere
ingenui e sprovveduti. Il cristiano deve avere ben chiaro quali
siano i riferimenti con cui confrontarsi per formare ed illuminare
la propria coscienza, in primo luogo la Parola di Dio interpretata
dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa. Il cristiano non deve
solo avere fede, ma deve anche vigilare e custodire questa fede come
un tesoro in un vaso di creta che molti, al giorno d’oggi, cercano
di distruggere.
Lo Spirito Santo ci illumini, ci custodisca, e
renda efficace nella nostra vita la parola di Gesù: “Le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro
la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le
strapperà dalla mia mano.” (Gv 10,28)
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Domenica
23
Giugno 2013
– XII
settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Chi è Gesù e chi siamo noi. Questi sono gli
interrogativi a cui la parola di Dio di questa domenica sembra
rispondere.
E tale indagine è Gesù stesso, come abbiamo
sentito nel vangelo, che la provoca nei suoi discepoli: “Le folle,
chi dicono che io sia?”, cosa pensa l’opinione pubblica di me, cosa
si dice in giro. Lo sguardo della gente su Gesù è uno sguardo che
non va oltre le categorie e le esperienze religiose già viste in
passato: Gesù non è più di un profeta, anzi non è nemmeno un profeta
nuovo ma è solo la riproposizione di profeti già conosciuti:
Giovanni Battista, Elia o uno degli antichi profeti che è risorto. È
lo sguardo del mondo su Gesù, lo sguardo del sentito dire, della
chiacchiera che rassicura, perché la dicono in molti, perché crea
consenso e forse, allora come oggi, il consenso valeva più della
verità. Eppure la risposta autentica su chi sia Gesù non viene dalle
folle, che pure avevano incontrato Gesù e molti, come si legge nei
capitoli precedenti a questo, erano anche stati guariti dalle loro
malattie e liberati da spiriti impuri. La risposta autentica su chi
è Gesù viene dalla Chiesa: Ma voi, miei discepoli, miei apostoli,
chi dite che io sia? “Pietro rispose: Il Cristo di Dio”. La comunità
di coloro che vivono con Gesù, che lo seguono, che lo frequentano e
che non solo hanno sentito parlare di lui, ma gli vivono accanto
facendo della sua vita la propria vita, riconosce in lui il Cristo
di Dio.
Non si può conoscere Gesù guardandolo da lontano,
dalla propria posizione di neutralità e di distanza, come faceva
Zaccheo dall’alto del suo sicomoro. Potremo certo fare anche noi
come lui, ma rimarremo sempre ad un livello superficiale, generico,
poco pregnante per la nostra vita. Alla domanda “Chi è Gesù?” forse
non risponderemo con le categorie delle folle israelite, l’opinione
pubblica di allora, ma con quelle in voga oggi: Gesù è un capo
religioso, come Maometto, Buddha. Insomma, uno tra gli altri, nulla
di più che gli altri, in fin dei conti, nulla di più che un uomo,
importante, famoso ed esemplare, ma pur sempre un uomo. L’aria che
si respira nel nostro mondo è un po’ questa.
Gesù,
di fronte alla risposta di Pietro, prosegue il dialogo andando
ancora più in profondità: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto,
essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, venire
ucciso e risorgere il terzo giorno.” Se anche l’essere Cristo poteva
essere travisato, frainteso, annacquato nelle aspettative di cui si
caricava questo personaggio atteso, Gesù invita i suoi discepoli a
ragionare in modo diverso, e a cogliere l’inedito nella sua persona.
Io salverò sì il mondo, ma non lo salverò uccidendo tutti i miei
nemici e facendo lo spaccone, ma seguendo la via dell’umiltà, della
mitezza e della Croce, passando per il rifiuto e venendo ucciso io
stesso. La gloria di Gesù brilla nella sua Croce, in essa
l’espressione del vero regnare, della vera grandezza, del servire
offrendo la propria vita. E da Cristo in poi ormai la Croce non sarà
solo il trono di Gesù, ma il trono destinato a tutti coloro che
vogliono regnare insieme a Lui e la firma che rende autentico il
nostro cammino e la nostra testimonianza cristiana. “Se qualcuno
vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce
ogni giorno e mi segua.” “Pertanto - commenta lo scrittore
ecclesiastico Origene – se si predica Gesù Cristo, è necessario
annunciarlo crocifisso. Incompleto è l’annuncio che non parla
della sua croce! Non così incompleto, mi pare, dire che Gesù è il
Cristo tralasciando qualcuno dei suoi prodigi, come invece il
tralasciare la sua crocifissione!”. Insomma i miracoli e i prodigi
stupefacenti che Gesù fece, e che nutrivano l’idea che le folle
avevano di lui, non bastano per conoscerlo in verità, se non lo si
riconosce e non lo si segue come Messia crocifisso. I miracoli
trascinavano folle intere; la salita al monte Calvario invece
allontanò tutti, eppure è in quest’ultima che si rivela pienamente
il volto di Dio. Il cristiano deve avere il coraggio di guardare al
Cristo crocifisso e in questo sguardo trovare il senso della propria
vita e della propria missione nel mondo. Il cristiano, come abbiamo
ascoltato da san Paolo, è un rivestito di Cristo. Dalla scoperta di
chi è Gesù, scopre chi è se stesso e sa guardare tutto e tutti in
modo nuovo: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non
c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”,
appartenete a Cristo.
“La
Chiesa – scriveva il beato Giovanni Paolo II - non ha altra vita
all'infuori di quella che le dona il suo Sposo e Signore” (Redemptor
hominis 18). Di questa vita anche noi possiamo vivere se vogliamo
perdere la nostra nel seguire Cristo Crocifisso, prendendo la nostra
croce ogni giorno.
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mercoledì
21
Giugno 2013
– XI
Settimana T. Ordinario –
fr.Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi ci propone due detti di Gesù
che sembrerebbero parlare di cose diverse. Il primo tratta del
rapporto dell’uomo evangelico nei confronti della ricchezza, o
meglio, quale ricchezza deve anzitutto ricercare il cristiano e come
deve relazionarsi con i beni materiali. La seconda parte, facendo
ricorso in modo simbolico all’uso della vista, ci aiuta a capire
come l’uomo guarda e conosce la realtà, uno sguardo non neutro ma
che può subire l’influenza, luminosa od ottenebrante dell’occhio
umano, del modo dell’uomo di guardare le cose. Gesù, in questo
brano, compie un movimento di approfondimento: dalla superficie
dell’argomento trattato penetra in profondità e a partire da tale
profondità rende ragione del resto, trova le cause dei comportamenti
e dei giudizi umani. Tale discesa nel profondo viene espressa prima
con il riferimento al “cuore” dell’uomo, “dov’è il tuo tesoro, là
sarà anche il tuo cuore”, e poi con il riferimento all’ “occhio”
dell’uomo, come quell’organo che svolge un ruolo di lampada per il
corpo, cioè rende la realtà visbile, percepibile all’uomo. Gesù
dunque, nel vangelo di oggi, si presenta a noi come colui che sa
leggere in verità l’anima dell’uomo e cogliere in essa le radici del
suo comportamento esterno. Se gli antichi padri apologeti non
esitavano a definire Gesù il vero filosofo di fronte a tutte le
filosofie del tempo, oggi forse noi potremmo definirlo il vero
psicologo.
Di fronte a tale sguardo profondo di Gesù, che,
come dice san Giovanni nel suo Vangelo, “conosceva tutti e non aveva
bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti
conosceva quello che c’è nell’uomo” (Gv 2,25), possiamo ritenere,
tra le molte possibili, alcune considerazioni.
La prima potrebbe essere un’estensione, uno
sviluppo del bellissimo inciso del primo libro di Samuele (1 Sam
16,7): “l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”. E
cioè: la fede cristiana è qualcosa che deve penetrare fin nel punto
più profondo dell’uomo, ossia nel suo cuore. Quanto dice il nostro
Libro di Vita ai monaci: “o sarai monaco nel profondo del cuore o
non lo sarai mai” possiamo applicarlo alla vita cristiana intera: o
saremo cristiani nel profondo del cuore o non lo saremo mai. La vita
cristiana ha certo un riverbero visibile all’esterno, è una fede che
si sviluppa nel solco tracciato dall’Incarnazione del Verbo di Dio,
evento che impedisce ogni riduzione intimistica del fatto cristiano,
ma l’autenticità della nostra sequela di Cristo si misurerà sempre
su questa coerenza tra ciò che crediamo dentro di noi e ciò che
viviamo fuori di noi. E questo anche per quanto riguarda l’uso della
ricchezza. “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”; in
altre parole: userai bene la ricchezza di questo mondo se saprai
però che il tuo vero tesoro non è quello e, come dice il salmo, non
vi attaccherai il cuore.
Un’altra cosa che possiamo capire è che se il
Signore non chiede all’uomo qualcosa ma chiede niente di meno che il
suo cuore, è perché Cristo sa davvero andare al cuore dell’uomo, sa
portare la salvezza e la redenzione fin in quel baratro mai del
tutto comprensibile ed esplorabile dall’uomo che è il suo cuore.
Gesù rinnova tutto l’uomo, redime tutto l’uomo, guarisce e salva
tutto l’uomo.
Tale buona novella diventa allora per noi impegno
di conversione per non sottrarre nulla a questa forza benefica che
ci ricrea e ci trasforma. Non esiste un cristianesimo a metà. Nel
battesimo siamo stati consacrati interamente, a partire dalle
profondità più intime del nostro essere, perché questa consacrazione
giunga pian piano dal centro fin nelle periferie del nostro agire,
guardare, ragionare.
San Luigi Gonzaga, che oggi ricordiamo, a dieci
anni aveva già capito questa dimensione di totalità della vita
cristiana, intuizione che suggellò con il voto di castità, offrendo
il proprio cuore indiviso al vero tesoro della sua vita.
Alla sua intercessione affidiamo il nostro
desiderio di santità perché il Signore ci aiuti a mantenerlo vivo e
a prendere gli strumenti giusti e compiere le scelte adatte per
portarlo a compimento.
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mercoledì
19
Giugno 2013
– XI Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista
Quando fai l’elemosina, non sappia la tua
sinistra ciò che fa la tua destra; quando preghi chiudi la porta
della tua camera; quando digiuni la gente non veda che tu digiuni.
Le coordinate che il vangelo di oggi ci offre sembrano contraddire
quanto abbiamo ascoltato pochi giorni fa, sempre nel medesimo
discorso della montagna: “risplenda la vostra luce davanti agli
uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al
Padre vostro che è nei cieli.” (Mt 5,16). Come si spiega questa
contraddizione? O meglio, si tratta di una vera contraddizione
oppure lo è solo in apparenza? Le nostre opere buone devono essere
visibili o nascoste?
Un aiuto per comprendere la questione ce lo offre
il versetto di apertura del vangelo di oggi “State attenti a non
praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro
ammirati.” Emerge qui chiaramente qual è la finalità di questo tipo
di esercizio della giustizia: non tanto l’amore di Dio e nemmeno
l’amore per gli altri. Semplicemente la ricerca di se stessi, il
culto del proprio io: l’essere ammirati. Finalità molto diversa dal
perché “rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” della
testimonianza vera a cui il Signore Gesù ci invita. Da qui possiamo
subito trarre un insegnamento, e cioè: non basta fare delle cose
buone. Bisogna anche vigilare con quale spirito le facciamo. La
santità non coincide sempre con l’apparenza. Per usare le parole
simpatiche di Papa Francesco: la santità non è “avere una faccia da
immaginetta” ma “accogliere la grazia che il Padre ci dà in Gesù
Cristo”.
Per vivere questo, il vangelo di oggi ci richiama
ad una dimensione importante della vita cristiana e della nostra
relazione con Dio: il segreto. Non tanto in senso esoterico:
sappiamo che il Cristianesimo non è questo. E non semplicemente per
ragioni di gratuità, cosa ben pregevole e necessaria nella vita
cristiana. Ma certo c’è una dimensione di segreto nel nostro
rapporto con Dio che se non siamo in grado di abitare, coltivare e
custodire correremo sempre il rischio di vivere, come dice Paolo, in
servizio agli occhi degli altri per la ricerca di se stessi, felici
finché saremo sostenuti dal compiacimento degli altri. Porre le
nostre radici in questa relazione viva e nascosta con Dio è via
feconda non semplicemente per fare delle opere di giustizia,
considerate esteriormente, che potrebbero essere, come abbiamo
visto, anche solo simulazione, ma per portare un frutto di vita
evangelica che davvero sia per la gloria del Padre e sia autentica
testimonianza di qualcosa che desideriamo e viviamo nel profondo di
noi stessi e non solo in superficie. E il nostro tempo ha bisogno di
profondità, ha bisogno di purificarsi da quella cultura
dell’immagine, della carriera e dell’appariscenza a causa della
quale stiamo ormai disimparando a porci in solitudine e in verità di
fronte a noi stessi, prima ancora che di fronte a Dio e agli altri.
Il prezzo di questo sforzo potrebbe essere una certa incomprensione
o frustrazione, nonché la fatica della solitudine. Il premio, la
vera libertà dei figli di Dio, coloro che colgono lo sguardo del
Padre su di loro e sanno rallegrarsene.
L’intercessione di san Romualdo, padre e maestro
di monaci e di eremiti, ci accompagni in questo cammino di
autenticità e ci educhi a non accontentarci della piccola ricompensa
che viene dall’essere visti dagli uomini, per trovare stabilità in
Dio solo.
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sabato
15
Giugno 2013
– X Settimana T. Ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Nella quarta antitesi del discorso della montagna che stiamo
leggendo in questi giorni, Gesù continua a far emergere il senso
pieno della Legge che egli viene a compiere, e oggi tocca la
questione del giuramento.
Il giuramento era una prassi diffusa tra i popoli
antichi che, chiamando il loro Dio a testimonianza di determinate
parole o azioni, volevano dichiararne la veracità o affermare
qualcosa con particolare vigore. Tale prassi non era assente neanche
dal popolo d’Israele, anche se, nell’Antico Testamento non troviamo
tanto, alla lettera, l’esortazione a non giurare il falso, quanto
l’invito a non abusare del nome di Dio, usandolo appunto invano,
cioè per motivi non seri o ricorrendo ad esso per avvalorare
rapporti di non sincerità con gli altri.
Gesù, come in altri casi, va al nocciolo della
questione, al cuore della Legge: non si tratta solo di non giurare
il falso, ma di non giurare affatto. Dietro a questa proibizione non
c’è unicamente un invito a non usare superficialmente il nome di Dio
o tutto quanto è in relazione a Dio (cielo, terra, Gerusalemme o la
propria vita), e nemmeno Gesù si limita a consegnarci una forma di
linguaggio più corretta. C’è uno stile di vita nuovo, una modalità
rinnovata di relazionarsi con gli altri: la lealtà nel parlare e
nell’ascoltare: “Sia il vostro parlare “Sì, sì”; “No, no”; il di più
viene dal Maligno”. È una regola semplice che ci guida ad essere
semplici cioè, come lo dice la parola stessa, sine-plica,
senza pieghe, senza i lati oscuri e ambigui di chi non tanto
nasconde per ragioni di riservatezza o di carità, ma camuffa,
altera, agendo proprio come il padre della menzogna. “La fede –
afferma sant’Ilario di Poitiers – stabilisce nella verità le
attività della nostra vita e, facendoci rigettare l’inclinazione a
mentire, prescrive la lealtà nel parlare e nell’ascoltare di modo
che ciò che è sia e ciò che non è non sia. Infatti tra è e non è c’è
spazio per la menzogna e il di più viene dal maligno.” Ed egli
aggiunge: “Così coloro che vivono nella semplicità della fede non
hanno bisogno del legame del giuramento. Con essi ciò che è, è
sempre, ciò che non è, non è, per cui tutte le loro azioni e tutte
le loro parole sono nella verità.” (Commentario a Matteo 4,23)
Tali indicazioni riguardano non solo chi parla ma
anche chi ascolta perché ogni relazione tra gli uomini è costruita
da entrambe le parti. E lo stile di lealtà che deve contrassegnare
il parlare tocca anche l’ascolto. Il giuramento può nascere infatti
dalla diffidenza nei confronti dell’altro, dal sospetto che, se non
giura per qualcuno che eventualmente, in caso di falso, lo punisca,
non si può concedere fiducia. Diceva un antico scrittore anonimo
(Opera incompleta su Matteo, omelia 12): “Se il tuo avversario
pensasse che tu giuri rettamente, non ti spingerebbe mai al
giuramento, ma poiché crede che tu spergiuri, ti spinge a giurare.”
Il parlare con lealtà è allora legato all’ascoltare con fiducia, non
certo per essere dei creduloni facilmente raggirabili, ma come
tentativo di voler davvero comprendere l’altro, capire l’altro,
accogliere l’altro come persona degna di fiducia, soprattutto i
fratelli e le persone che più frequentiamo e con cui condividiamo la
nostra vita. E allora non solo noi stessi diverremo semplici, cioè
senza pieghe, ma anche le nostre relazioni vicendevoli, talvolta, se
non spesso, ancora troppo intorbidite da cose dette e non dette o
magari fatte capire senza dirle, di mezzi sì e di mezzi no. Un
comunicare che invece che avvicinare allontana, invece che nutrire
la fiducia, alimenta il sospetto. E come dice il nostro Libro di
vita: “Niente rattrista più della discordia, del sospetto, delle
mormorazioni, delle gelosie.”
Alla sequela di Gesù, che senza doppiezza ci ha
rivelato il Padre, che non fu “sì e no” ma in cui tutte le promesse,
i giuramenti di Dio, sono divenuti sì, possiamo davvero rinnovare il
nostro modo di pensare, parlare ed ascoltare per camminare sempre
nello splendore della verità.
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mercoledì 12 Giugno 2013
– X Settimana T.O. -
fr.Giovanni-Battista FMJ
La lettura continua del vangelo di Matteo che
abbiamo iniziato lunedì, si è aperta con il discorso della montagna
in cui Gesù, da un nuovo monte, come nuovo Mosè, proclama la legge
nuova. In tale discorso, che ancora stiamo leggendo in questi
giorni, Gesù rileggerà alcuni comandamenti della legge antica dei
quali, con autorità, farà emergere il significato pieno e, a partire
dai quali, annuncerà il nuovo statuto dei discepoli del Regno. Si
tratta delle cosiddette antitesi: “Avete inteso che fu detto agli
antichi … ma io vi dico.”
A queste antitesi fa da introduzione il vangelo
di oggi, un brano estremamente importante non solo per collocare
bene Gesù, il Mosè del nuovo Israele, in rapporto all’antico Mosè,
ma anche per farci comprendere una logica intrinseca della storia
della salvezza, ossia di quel lungo cammino e dialogo che Dio ha
intrattenuto con gli uomini per educarli ad una vita buona e
condurli verso la terra promessa della vita eterna. Questa logica
intrinseca è rintracciabile nel vangelo di oggi ma anche in altre
pagine della storia d’Israele o della storia della Chiesa, ed è la
legge della continuità e del compimento: “Non sono venuto ad
abolire, ma a dare pieno compimento”. La storia della salvezza è una
storia che va avanti, che conduce ad una conoscenza e ad un rapporto
sempre più intimo e profondo di Dio con l’uomo. Dio non torna
indietro, non distrugge la sua opera, anche qualora fosse l’uomo
stesso a tradirla, ad abbandonarla. La promessa e l’opera di Dio
rimarranno stabili per sempre perché Dio è un Dio fedele e, come
dirà Paolo, “se noi siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non
può rinnegare se stesso” (2 Tm 2, 13). Del resto anche Gesù prima di
morire aveva annunciato la venuta dello Spirito Santo, quel
Paraclito che non ci avrebbe condotto per strade diverse da quelle
che Gesù stesso ci aveva indicato, ma ci avrebbe guidato più in là
nella medesima via della verità, facendoci penetrare più
profondamente l’insegnamento di Gesù: “prenderà del mio e ve lo
annuncerà”. Un procedimento simile lo fa Gesù nei confronti della
Legge antica: non la abolisce ma la compie, non distrugge ma
continua ad edificare. Gesù non fu sì e no ma in Cristo tutte le
promesse di Dio, la Legge e i Profeti, sono divenute sì (Cfr 2Cor
2,19-20). Ciò significa che il popolo di Gesù non è un popolo senza
Legge, ma è un popolo che è chiamato, perché ne ha ormai tutti gli
strumenti, a vivere in maniera piena, profonda, e dunque più
esigente, la Legge, che come sappiamo, trova il suo compimento
nell’amore.
Se talvolta si proclama con entusiasmo e un po’
con fare liberatorio l’abbandono dei famosi 613 precetti che i
rabbini avevano elencato, come se, al “supermercato delle
religioni”, ne avessimo trovata finalmente una meno stringente, con
più vantaggi e meno oneri, non bisogna però dimenticare che la legge
dell’amore può essere anche più vincolante ed esigente di questi 613
precetti, ed è per questo che Gesù, come sentiremo nel vangelo di
domani, ci sprona ad una giustizia superiore a quella degli scribi e
dei farisei. L’amore che compie la Legge non ci autorizza al
libertinaggio, ma ci chiama ad una perfezione più alta, ad una vita
più esigente e dai vincoli più forti di quelli della Legge antica,
perché è una vita amante. Cristo non ci chiama a un di meno ma ad un
di più! “Voi infatti, fratelli, - leggiamo nella lettera ai Galati
(5, 13-14) – siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non
divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece
a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua
pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te
stesso.” Una volta capito questo potremo capire e vivere anche
il celebre anche “Ama e fa’ quel che vuoi” di sant'Agostino, senza
rischio di scambiare per amore evangelico il nostro habitus mondano.
Se la Legge con cui Dio opera nella storia non è
quella della distruzione e dell’abolizione ma quella della
continuità e del portare a compimento tutto ciò che di buono e di
santo c’è in noi, allora possiamo davvero aprirci con fiducia a
questo Dio tre volte santo, con quell’abbandono con cui papa
Benedetto anni fa spronava i giovani: “Non abbiate paura di Cristo!
Egli non toglie niente e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il
centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la
vera vita.”(24.04.2005)
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martedì
11
Giugno 2013
– X Settimana tempo ordinario – San Barnaba
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
La
prima lettura che la liturgia ci propone per commemorare la figura
di san Barnaba ci fa menzione di un momento importantissimo nella
vita dell’apostolo, del fondamento, l’origine, il momento nascente
della sua chiamata. All’origine della missione di San Barnaba c’è
una chiamata del Signore, il realizzarsi concreto nella vita di un
uomo della parola di Gesù: “non voi avete scelto me ma io ho scelto
voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro
frutto rimanga.”
Da quanto apprendiamo dalla prima lettura, tale
chiamata ha anzitutto degli specialissimi tratti di ecclesialità: è
la Chiesa di Gerusalemme che invia Barnaba ad Antiochia. Il Signore
rivela il Suo desiderio di chiamare Barnaba e Saulo ad una comunità
raccolta in preghiera e in digiuno, alla Chiesa che celebrava il
culto. Inoltre Barnaba non è chiamato da solo ma insieme a Saulo:
due fratelli scelti insieme, inviati insieme, insieme riceveranno il
titolo privilegiato di apostoli pur non appartenendo al gruppo dei
Dodici. Si tratta di una chiamata che nasce ecclesiale ed è
orientata ad un’opera sempre ecclesiale cioè portare l’annuncio
della salvezza ai pagani; rendere Chiesa ciò che Chiesa non è,
rendere partecipi dell’adozione a figli coloro che non erano popolo
di Dio. Infine è la Chiesa che consacra ed invia i due apostoli che
dunque agiranno non in nome proprio ma in nome di Dio e della
Chiesa.
Un
altro particolare interessante della chiamata di San Barnaba è
espresso nei termini di un riservare per il Signore:
“Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho
chiamati”. In questa chiamata troviamo tutto il senso e lo sviluppo
concreto della vita dell’apostolo. L’apostolo è anzitutto un
chiamato, un riservato, un separato per il Signore. Ormai non si
appartiene più, è proprietà particolare del Signore come lo era il
popolo santo di Dio, Israele, a cui il Signore diceva: Voi sarete la
mia segullah, il mio tesoro prezioso, la mia proprietà particolare
tra tutti i popoli. Il Signore quando sceglie separa, perché
consacra, rende partecipe della sua santità che è separazione dallo
spirito del mondo e dal male. Paolo stesso, nella lettera ai Romani,
si riterrà tale, un separato, scelto, segregato per annunciare il
Vangelo. Il verbo è qui sempre lo stesso aphorizo, separare per
destinare ad un’opera. Barnaba allora non intraprende una missione
ma riceve una missione. Se nell’anima dell’apostolo cessasse questa
consapevolezza di essere un inviato cesserebbe anche il suo essere
apostolo che non si misura anzitutto sulla quantità delle opere di
pubblicità del Vangelo, ma sulla radicalità della donazione di sé a
Dio e alla Sua opera. Per quanto possa essere attivo e brillante il
lavoro dell’apostolo diverrebbe altrimenti un cembalo che tintinna,
non più uno strumento del Signore. La Chiesa non ha bisogno di gente
super attiva e nemmeno di manager, ma di uomini di Dio, chiamati a
vivere anzitutto per il Signore e, come tali, essere poi inviati,
ciascuno secondo la propria vocazione, a nutrire e servire il Corpo
di Cristo. Lo ha ricordato pochi giorni fa il cardinal Piacenza,
prefetto della Congregazione per il Clero, parlando ai preti e dei
preti, coloro che nella Chiesa sono chiamati a collaborare
strettamente al ministero apostolico, con parole che possono però
essere di giovamento per tutti: “se la Chiesa, come molte volte ci
ha ricordato papa Francesco, non è un’organizzazione non
governativa, allora non si tratta di formare dei top manager, dalle
strabilianti capacità organizzative, o dalla particolare – e spesso
troppo soggettiva – creatività. (…) Si tratta – ha insistito – di
formare uomini uniti a Cristo, alla Chiesa e al Papa, che guardino
con amore al Cuore di Gesù, come fonte vitale della propria
esistenza e, perciò, del proprio ministero.”
La fecondità dell’apostolo, del prete, come di
ogni cristiano del resto, si baserà dunque anzitutto su questa
fedeltà alla roccia da cui siamo stati tagliati e alla comunità
ecclesiale che ci ha generati alla fede. Come il sale del Vangelo di
oggi: potrà fare qualcosa di utile, nel concreto esaltare il gusto
dei cibi, se sarà fedele a ciò che è, ossia se sarà salato come il
sale deve essere. Altrimenti, se perdesse il sapore, non servirà più
a nulla, non potrà svolgere più alcun servizio per gli uomini.
Partire, andare, annunziare sono dunque movimenti che devono essere
sempre nutriti da un ritornare in se stessi e a Dio, un rimanere nel
cuore a cuore con Gesù, un ascolto orante della sua Parola per la
propria conversione. Insomma, essere a servizio della conversione
degli altri implica lavorare anzitutto su se stessi, “perché non
succeda, come temeva Paolo, che dopo aver predicato agli altri io
stesso venga squalificato.” (1 Cor 9,27)
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Domenica
9
Giugno 2013
– X
settimana tempo ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di Luca che ci accompagnerà nelle
domeniche di quest’anno è chiamato anche il vangelo della
misericordia perché Luca riporta dei brani, unici rispetto agli
altri evangelisti, che rivelano un volto particolare del Signore: la
sua profonda compassione per la sofferenza dell’uomo, fisica e
spirituale. Pensiamo per esempio alla parabola del buon samaritano o
a quella del Padre misericordioso. Anche oggi ci troviamo di fronte
a uno di questi testi che appartengono alla collezione di Luca e che
rivelano qualcosa non solo dell’opera di Gesù tra la gente, ma anche
dei sentimenti che vive Gesù stesso, ciò che alberga nel suo cuore.
La compassione di Gesù è il cuore del vangelo di
oggi perché da questo movimento interiore dell’animo di Cristo si
sprigiona una forza capace di trasformare la morte in vita e il
lutto in gioia e timore di Dio. La cosa particolare e che potrebbe
anche apparire strana è che l’attenzione principale di Gesù non è
tanto rivolta al giovane defunto, quanto piuttosto alla tristezza
della donna. Il testo dice che Gesù vede la donna, fu preso da
grande compassione per lei e parlò con lei. Gesù è attirato e
commosso dal pianto della donna più che dal morto in sé, e la cosa
non è priva di significato. Come dice un salmo: il Signore è vicino
a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti.
La disperazione della donna è inoltre aggravata
dalla sua condizione di vedovanza. Suo figlio era tutto per lei, il
bene più grande della sua esistenza, il ricordo vivente della
comunione nuziale con il suo sposo di cui questo figlio defunto era
come uno specchio, ne perpetuava il nome e la discendenza. Nel
figlio lei ritrovava il volto e il ricordo del suo felice passato
con il suo sposo, il frutto vivente del loro amore. Davvero ora
tutto è finito, passato, presente e futuro. La morte che aveva
inghiottito suo marito ora tirava nel baratro non solo il matrimonio
della donna ma anche il loro comune tesoro, il figlio unigenito, il
futuro della famiglia, la possibilità di vedere nuova vita
all’orizzonte.
Di fronte a questa situazione di totale non
speranza, una non speranza umanamente ben fondata, cioè con
validissimi e ragionevolissimi motivi per non sperare, l’abbiamo
ascoltato, Gesù compie il suo miracolo. Ma prima di questo, cioè
quando ancora nulla era cambiato in questa situazione di lutto, Gesù
dice alla donna: “Non piangere!”. Non è che prima salva il figlio e
poi le dice così; no, abbiamo esattamente l’opposto! La donna è
invitata a interrompere il pianto quando ancora non sa cosa Gesù
stia per fare e forse neanche sa chi sia Gesù. Questa inversione si
tratta forse di un errore letterario dell’evangelista Luca? No! In
essa è visibile la nostra situazione di uomini in cammino tra la
risurrezione di Gesù e la risurrezione nostra e dei nostri cari: non
abbiamo visto né l’una né l’altra risurrezione eppure una parola di
salvezza ci raggiunge, una buona novella di speranza rende il buio
meno temibile: “Non piangere!”. Il fotogramma di questa scena
potrebbe avere l’ampiezza e la durata di tutti i lunghissimi secoli
che separano la risurrezione di Cristo dalla risurrezione universale
alla fine dei tempi. In questa scena siamo presenti tutti noi, tutti
coloro che ci hanno preceduto e che ci seguiranno. Non abbiamo altro
che una parola, un messaggio di speranza, accompagnato dalla
testimonianza di coloro che hanno visto Gesù vivo e ce l’hanno
trasmesso.
E anche un contatto, Gesù che tocca la bara, un
contatto immagine dei sacramenti, il contatto del Vivente con le
morti che sperimentiamo nel nostro tempo, e soprattutto con
quell’interrogativo scandaloso ed inquietante che vuole uccidere del
tutto la speranza: che senso ha vivere in un mondo fatto così? Che
senso ha vivere una vita che non ha senso, e dove neanche il morire
ha senso, dove si muore per un nulla e dove sembra non esserci
giustizia?
Gesù risponde a questo con la Sua compassione, il
Suo soffrire con noi. Accanto a questo invito a non piangere c’è la
presenza compassionevole di Gesù che ci è vicino. La Sua non è una
parola vuota; non è una promessa utopica quella che ci rivolge, ma è
invito ad aprire gli occhi del cuore e vederlo in mezzo a noi,
operante nella nostra vita. “Quando si dice che Cristo con la sua
missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente
– affermò il beato Giovanni Paolo II – non solo il male e la
sofferenza definitiva, escatologica, ma anche – almeno
indirettamente – il male e la sofferenza nella loro dimensione
temporale e storica.” (Salvifici Doloris 15).
La compassione di Gesù infatti non è semplice
parola e presenza di conforto ma è vera compartecipazione. Quanto
umanamente non avrebbe senso acquista valore non in sé ma perché
l’ha vissuto Gesù che non salva semplicemente con la parola ma salva
e guarisce prendendo su di sé, facendo suo quanto uccide la vita.
Quanto Gesù vivrà sulla Croce in modo cruento non è altro che il
compimento visibile di quella compassione e compartecipazione che
già viveva nel Suo cuore e nelle Sue azioni. La Croce altro non è
che l’apice, l’esperienza più piena di questa compassione che, a
questo punto, non è più solo salvezza per un defunto, come il morto
del vangelo di oggi, ma diventa redenzione e guarigione di tutto il
genere umano.
La nostra speranza allora non è una speranza
campata per aria, ma ben ancorata alla terra, a quel sacrificio
violento che Cristo ha subito per noi nella carne, e grazie al quale
sappiamo che la tomba sarà non il luogo della nostra fine e della
fine di tutto, madel nuovo inizio, l’ingresso nella vita piena e
definitiva di cui già fin d’ora possiamo essere partecipi e
testimoni.
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sabato
8
Giugno 2013
– Cuore immacolato di Maria
-
fr.
Giovanni-Battista FMJ
All’indomani della solennità del sacratissimo
cuore di Gesù la liturgia presenta alla nostra preghiera e alla
nostra meditazione la Beata Vergine Maria.
La figura di Maria, lo sappiamo, può essere
contemplata sotto diversi aspetti e, sia il dogma sia la pietà
mariana hanno evidenziato quanto singolare ed altissima sia la
figura di Maria, sia in se stessa, sia in relazione al Figlio Suo,
sia in relazione alla Chiesa, il popolo di Dio in cammino con Maria.
Il vangelo e la memoria di oggi si concentrano più specialmente sul
cuore immacolato di Maria, un cuore che, secondo il brano evangelico
che abbiamo ascoltato, custodiva ogni parola ed ogni evento relativo
a Gesù. Il cuore di Maria è dunque un cuore che custodisce.
Di fronte a tale verbo custodire, che traduce
quanto per Maria era esperienza quotidiana e concreta, prima di
farne una lettura puramente spirituale o morale dobbiamo chiederci:
qual è l’origine di tale atteggiamento, di tale habitus custodente
di Maria? Davanti a tale interrogativo non possiamo non pensare alla
speciale gravidanza che Maria ha vissuto in cui ha dato vita, ha
portato, ha fisicamente custodito il suo Figlio Gesù. Questi nove
mesi ricchi di mistero non sono certo stati unicamente un momento
transitorio, seppur grandioso e pieno di trepidante attesa della
nascita del Figlio di Dio. Maria, in questi mesi impara dalla sua
vita, dal suo corpo, dal suo essere Madre, l’arte del custodire!
Tale contatto fisico e materno di fecondità e di custodia che Maria
vive nei confronti della Parola eterna, marcherà indelebilmente
tutto il futuro di questa giovane donna. Sarà per lei un
insegnamento che segnerà tutta la sua vita, un’esperienza che
diverrà vocazione e sequela del Suo Figlio a beneficio ed esempio di
noi tutti credenti che con grande affetto poniamo sulle nostre
labbra lo stesso appellativo di mamma con cui la chiamava Gesù. E la
mamma sa, più di chiunque altro, custodire con amore i suoi figli.
Maria lo farà dal giorno dell’annunciazione al
Golgota stando ai piedi della Croce. E da lì ancora, perseverante in
preghiera nel cenacolo con gli apostoli, l’embrione della Chiesa:
laddove nasce qualcosa che proviene da Dio Maria è presente con il
suo affetto, con la sua custodia, con il suo amore di Madre che non
toglie niente al primato del Figlio ma che ci orienta, ci precede
all’incontro con Gesù.
In Maria la densità di questo verbo custodire non
è dunque unicamente di tipo spirituale. Anzi prima che evento della
coscienza, del cuore e dei pensieri è evento della sua vita e del
suo corpo. Se il fulcro della solennità di ieri era l’Incarnazione
del Figlio di Dio, la memoria di oggi si fonda ancora sul medesimo
mistero. Maria dentro di sé ha sentito battere quel sacratissimo
cuore di Gesù che ieri abbiamo adorato e tale ritmo d’amore non solo
l’ha accompagnata nel suo cammino di madre e sposa ma l’ha plasmata
e la guidata nella fedeltà discepolare al suo Figlio e suo Dio. Per
Maria, ormai, custodire la Parola nel suo cuore e custodire la
Parola fatta carne era la stessa cosa. Le vicende della sua vita
quotidiana la rimandavano a quell’esperienza fisica ed interiore.
Maria sapeva ormai considerarle nel loro spessore trascendente,
nella loro densità parlante, nel loro valore paradigmatico e
normativo per la vita sua e di noi credenti che ci mettiamo alla
scuola e alla sequela di Gesù per diventare altri Cristi nel nostro
mondo di oggi.
Tale movimento dalla distrazione delle “cose da
fare” al raccoglimento in Cristo, dalla dispersione all’unità è un
cammino che anche Maria ha percorso divenendo per noi Madre e
Maestra di fecondità e di custodia, vocazione che anche noi possiamo
coltivare nella misura in cui vogliamo stare a contatto, come Maria,
con Gesù. Senza tale contatto vivo, prolungato e anche fisico, in
senso liturgico e sacramentale, non sapremo passare dal quotidiano
all’eterno, dall’apparenza delle cose e delle relazioni al loro
nucleo più profondo e più vero, dall’incontro con un fratello al
riconoscere in Lui la presenza di Gesù; e nemmeno, di conseguenza,
dal cuore della città al cuore di Dio. Maria, porta del cielo, ci
insegna ad andare oltre, a trascendere noi stessi, a immergerci in
un mistero tanto al di là di noi quanto dentro di noi, quel segreto
del re che è la vita e l’opera di Cristo in noi.
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giovedì
6
Giugno 2013
– Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù –
fr.
Giovanni Battista FMJ
La solennità del sacratissimo cuore di Gesù è una
festa molto cara alla tradizione cattolica, non semplicemente per
delle ragioni di pietà e di devozione, ma soprattutto per le
profonde radici che stabiliscono questo culto nel mistero
dell’incarnazione del Verbo divino, dell’opera da lui compiuta per
la nostra redenzione e del suo immenso amore per noi.
Il cuore di Gesù è più che un segno dell’amore di
Dio, non ha per noi solo un valore simbolico dell’amore di Dio.
L’adorazione del cuore di Gesù nasce dalla testimonianza che Dio in
Cristo, in quanto vero Dio e vero uomo, non ci ha amati solo
spiritualmente, in modo soprannaturale e trascendente, ma
soprattutto in modo squisitamente umano, con tutto l’affetto, la
tenerezza e anche la sofferenza di cui è capace un cuore veramente
umano. Anzi, addirittura potremmo dire che il cuore di Gesù traduce
in battiti ed in vibrazioni umane, esprime al ritmo delle emozioni e
dei sentimenti umani, l’amore stesso della Trinità. Volendo renderci
partecipi della sua vita, farci conoscere davvero il dono di Dio, il
Dio inaccessibile non solo parla la nostra lingua, si rivela in
gesti e parole, assume la nostra natura, ma anche ama come noi, ci
raggiunge con una benevolenza comprensibile per l’uomo. Non solo in
Cristo l’abisso che separava l’uomo da Dio è stato colmato quanto
alla natura, ma anche quanto all’amore e della santità. In Cristo
Dio e l’uomo trovano riconciliazione e il suo cuore è il luogo
intimo di questa riconciliazione da cui da un lato si sprigiona
l’amore di Dio per l’uomo e dall’altro sgorga la lode perfetta, il
culto e il sacrificio davvero graditi al Padre.
Talvolta pensiamo all’amore di Dio come qualcosa
di intangibile, impalpabile, tutta estasi e spirito. La festa del
sacro Cuore di Gesù ci ricorda invece quanto è umano, perfettamente
umano, il modo di amare di Dio. E quanto allora dev’essere umano e
ricco di affetto e sentimento anche il nostro modo di amare. Gesù,
per convincerci che Dio ci ha amati ce l’ha manifestato, ce l’ha
fatto vedere, non si è limitato a parlare per mezzo dei profeti, ma
ha voluto venire lui stesso a dircelo e provarcelo. Addirittura san
Paolo nella seconda lettura dice che “Dio dimostra il suo amore per
noi”, facendo un'operazione quasi scientifica per strappare
all’opinabile ciò che è una certezza, una verità di cui non si può
più dubitare. E la prova di questo amore è la morte di Cristo, ossia
il tentativo dell’uomo di soffocare quest’amore, di arrestare il
battito del cuore del nostro Salvatore uccidendolo sulla Croce e
trafiggendolo con la lancia. Siamo stati in grado di fermare il
battito del cuore di Dio! Ma forte come la morte e più della morte è
l’amore e quel cuore ha ripreso vita e continua a battere tuttora ed
in eterno.
La logica dell’incarnazione, della visibilità in
carne umana del mistero di Dio e di tutto ciò che Dio in Cristo ha
fatto per noi, rimane il criterio fondamentale dell’amore cristiano,
un amore che passa necessariamente attraverso la nostra umanità e
attraverso di essa deve esprimersi ed irradiarsi. Per questo
qualcuno ha detto che ciò che è autenticamente umano è già anche
cristiano. E similmente san Giovanni ci esorta: fratelli, non amiamo
a parole o con la lingua, ma nei fatti (cioè in modo concreto,
visibile e umano) e nella verità (cioè come ci ha amati Cristo).
Ciascuno di noi in fondo sa che crede all’amore di una persona solo
quando lo vede realmente in atto, altrimenti non si convincerà mai e
ne resterà sempre dubbioso. Il nostro amore, se c’è, si deve vedere,
come si è reso visibile quello di Gesù per noi e per il Padre.
Finché quest’amore, che è stato riversato sacramentalmente nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, non plasmerà le nostre
azioni, non diverrà carne e sangue nella nostra vita, saremo forse
dei maestri, ma non dei testimoni dell’amore divino e umano di Gesù.
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Domenica
2 Giugno 2013
– Solennità del Corpus Domini – Chiesa Trinità dei Monti – Roma
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo che ci è proposto per la celebrazione
di questa solennità del Corpus Domini ci fa entrare nella
meditazione ed adorazione del Santissimo Corpo e Sangue del Signore
Gesù da una prospettiva che valorizza e mette in luce il rapporto
dell’Eucaristia con ciò che la Chiesa è e ciò che la Chiesa fa. Cioè
il rapporto che c’è tra la vita di Gesù e la vita della Chiesa, che
è il Suo corpo.
Sappiamo che tra Eucaristia e Chiesa esiste un
legame vitale e fortissimo, così vitale che è stato affermato che
l’Eucaristia è fonte e culmine della vita della Chiesa, cioè ciò da
cui la Chiesa nasce e ciò in cui la Chiesa manifesta nel suo più
alto grado ciò che è. Tanto che possiamo affermare che la vita della
Chiesa è una vita eucaristica cioè nasce da Cristo e si compie in
Cristo. Addirittura il beato Giovanni Paolo II affermò che la Chiesa
“vive dell’Eucaristia”, precisando che “questa verità non esprime
soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi
il nucleo del mistero della Chiesa” (Ecclesia de Eucharìstia § 1).
Cosa significa questo nel concreto? Cerchiamo di capirlo a partire
dal Vangelo di oggi dal quale si sprigionano alcuni spiragli di luce
che rivelano un pochino come la vita di Cristo penetri nella vita
della Chiesa.
Gesù è in mezzo alle folle, con esse parla del
regno di Dio e compie guarigioni per quanti avevano bisogno di cure.
Ora, Gesù non fa tutto da solo, ma è circondato da dei discepoli da
lui stesso chiamati perché stiano con lui e anche per mandarli, cioè
per essere una sorta di vaso comunicante tra Lui e tutti i
destinatari della sua opera. Per cui si tratta di un’opera di Cristo
che diviene opera comunitaria, un’opera che potremo già chiamare
ecclesiale, della Chiesa, che ha come pilastro e come centro il
Signore stesso che giunge alla folla attraverso la collaborazione e
il servizio dei discepoli. Gesù dunque giunge alle folle non
semplicemente in modo diretto ma anche attraverso l’opera dei
Dodici; chi vedeva loro poteva affermare di vedere Gesù perché da
loro riceveva ciò che Gesù aveva donato.
Un secondo ed importante aspetto che emerge dal
vangelo di oggi è che Gesù, nel cuore di queste folle bisognose di
aiuto, non svolge semplicemente un servizio, non si limita a
compiere una prestazione, ma si fa interamente carico di tutti i
problemi di questa gente e di tutte le loro persone. E se i Dodici
ragionano ancora nell’ottica della prestazione – abbiamo fatto ciò
dovevamo fare, ora Signore rimandali a casa loro, vadano da sé a
cercarsi vitto ed alloggio – Gesù rende partecipi del suo amore e
della sua cura totale delle folle i Dodici: “Voi stessi date loro da
mangiare!” In altre parole: voi siete responsabili, insieme a me,
della vita di questa gente.
Approfondendo ulteriormente l’opera che Gesù
svolge per le folle insieme ai suoi discepoli giungiamo al cuore
stesso della solennità di oggi. Gesù dona pane e pesce, ma questi
doni nel brano di oggi, rimandano a un dono ben superiore, il dono
che Gesù farà di se stesso nel sacrificio della Croce, quel dono che
rimarrà sempre vivo ed attuale nella Chiesa nel sacramento
dell’Eucaristia. Gesù allora non dona qualcosa, Gesù dona se stesso!
E in tale dono di sé, ancora una volta, coinvolge i Dodici,
l’embrione della Chiesa, perché consegnino il poco che sono e il
poco che hanno, cinque pani e due pesci, perché venga moltiplicato
da Gesù. O meglio, non moltiplicato, perché non si tratta di una
moltiplicazione. Ma perché venga spezzato e condiviso da Gesù per
tutti. I cinque pani e i due pesci rimarranno sempre cinque pani e
due pesci, ma sufficienti e abbondanti per tutti.
Da questi tre passaggi: Gesù che non giunge da
solo alle folle ma coinvolge nella sua opera i Dodici; Gesù che non
offre un semplicemente un servizio ma si prende carico interamente
della vita della gente, e fa entrare gli apostoli stessi in questa
sua responsabilità totale; e infine Gesù che non dona semplicemente
qualcosa ma dona se stesso e unisce a questo dono di se stessi anche
i discepoli; in questi tre passaggi che ci ricordano quanto Papa
Francesco ha sottolineato giovedì sera (sequela, comunione,
comunione) vediamo come la vita della Chiesa sia una vita
Eucaristica, cioè non sia una vita a se stante ma lo scorrere in
essa della vita di Cristo che si dona. Una vita che può essere
nutrimento per tutti, può saziare, se è una vita donata, come
l’Eucaristia che non è una presenza qualsiasi di Cristo ma è Cristo
in uno stato di sacrificio, di immolazione, di dono di sé.
Celebrare la solennità del Corpus Domini più che
festeggiare un sacramento, quello dell’Eucaristia, come se fosse un
trofeo da osannare o una coccarda da mettere in mostra, significa
lasciarsi inondare, plasmare e convertire dalla vita di Cristo che
diviene la nostra vita. E ciò comporta, di conseguenza, il prendere
parte al sacrificio di Gesù mediante l’offerta della nostra vita a
Dio per gli altri. Solo una vita spezzata diventa nutrimento, come
lo furono i pochi pani e pesci per una folla intera, come ci esorta
anche il nostro Libro di Vita: “C’è l’amore che riceve, l’amore che
condivide, l’amore che dona, l’amore che si dona e infine l’amore
che si immola. Monaco e monaca, Dio ti aspetta a questa meta” (Libro
di Vita § 5)
Sia questo il nostro modo di celebrare e adorare
in verità, oggi e sempre, il Santissimo Sacramento del Corpo e
Sangue di Cristo.
Dans l’Evangile d’aujourd’hui Jésus nourrit la
foule: Il lui donne le pain de la parole, lui offre la guérison, la
supporte d’une nourriture offerte par les disciples mais qui, en
même temps, a une origine miraculeuse. Jésus est capable de
percevoir notre faim de vie, notre soif de bonheur et de sens, notre
désir de vivre en plénitude. Le lieu désert et le jour qui va vers
sa fin sont symbole de notre solitude et des ténèbres du pêché qui
cherche à nous vaincre. Les disciples proposent à Jésus de renvoyer
la foule: qu’ils aillent ailleurs, qu’ils se débrouille eux-mêmes.
Jésus change la perspective en exhortant les Douze : qu’ils se
chargent eux-mêmes, qu’ils se sentent responsables de ces gens :
Vous-mêmes, donnez leur à manger ! Avec moi vous pouvez nourrir ceux
qui ont faim !
Mais il y a une faim plus radicale, il y a un
vide plus difficile à combler que celui notre ventre. C’est le
désert de l’âme que seul Jésus peut irriguer et transformer en oasis.
Combien de fois nous aussi comme les apôtres, face à ce vide qui est
en nous, nous ne savons pas quoi faire ou nous ne nous adressons pas
a Jésus mais nous nous occupons d’autres choses ou bien nous allons
vers d’autres personnes pour combler notre vide. Et ce faisant on
charge ces derniers d’une responsabilité excessive : combler cette
soif qui est en nous, nous donner une plénitude qu’ils ne peuvent
pas nous donner!
En cette fête du Corps et Sang du Christ nous
voulons reconnaitre que seul Jésus peut rassasier en abondance notre
faim de bonheur et de vie, et il ne le fait pas en nous donnant
quelque chose mais en se donnant lui-même.
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sabato
1°
Giugno 2013
– VIII Settimana tempo ordinario – San Giustino
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Gesù entra a Gerusalemme acclamato da tutti e
compie due segni. Il primo, visto solo dai suoi discepoli, è la
maledizione del fico dalle molte foglie ma privo di frutti, un segno
che rivela, ancora una volta, l’efficacia della parola di Gesù, una
Parola che realizza ciò che esprime o comanda. E poi il famoso e
pubblico segno messianico nel tempio, con l’allontanamento da esso
dei cambiamonete e dei commercianti che trasformavano la casa di
preghiera in una spelonca di ladri.
Di fronte a tale gesto i capi dei sacerdoti e gli
scribi, ossia le più alte autorità religiose di Gerusalemme,
decidono di fare morire Gesù e con ostilità lo interrogano: “Con
quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di
farle?”. Si tratta dunque di un problema di autorità. Essi, che
erano i capi della religione, non avevano concesso alcuna
autorizzazione a Gesù che, agendo così, metteva in discussione la
loro autorità. Perché egli si comporta così? E soprattutto chi è
Gesù?
Ma Gesù si rende conto che, da parte dei suoi
interlocutori non c’è un vero desiderio di conoscere e svela tale
loro attitudine ambigua, attaccata più al loro potere che alla
verità delle cose, dall’ipocrisia della loro risposta alla sua
domanda sull’origine del battesimo di Giovanni: “Non lo sappiamo”.
Di fronte a tale doppiezza, di fronte a tale rifiuto di prendere
posizione, Gesù non risponde. Pur di non rinunciare a qualcosa di se
stessi costoro rinunciano alla verità. Pensando che fosse il loro
potere a renderli liberi, rinunciano alla libertà che viene dal
vero.
Si tratta proprio dell’atteggiamento opposto a
quello che vivrà San Giustino, di cui oggi facciamo memoria, che
subirà la decapitazione nel secondo secolo proprio per la sua
libertà nel proclamare il Vero. Egli non si nascose dietro un comodo
“non sappiamo” ma onesto con se stesso, prima che con gli altri, si
fece annunziatore del Vangelo a Roma dove fondò una scuola nella
quale iniziava gratuitamente gli allievi alla religione cristiana.
Il suo cammino di conversione e di scoperta del
Vangelo è estremamente affascinante. Egli aveva attraversato varie
scuole di pensiero, varie filosofie della tradizione greca, e
capendo che l’uomo era incapace, con le sole sue forze, di
soddisfare l’aspirazione al divino che porta nel cuore, approdò alla
fede cristiana. Di fronte alla Verità fatta carne, Gesù di Nazareth,
il Cristo, Giustino si rese conto di aver scoperto la vera
filosofia.
Tuttavia egli non spense la sua sete di verità,
il suo onesto desiderio di conoscere; anzi, prosegui la sua opera di
ricerca. In lui la fede cristiana era una fede aperta, inclusiva,
disponibile a riconoscere il vero ovunque si trovasse e a chiunque
appartenesse. Infatti tale onestà della sua ricerca, che già l’aveva
condotto ad incontrare Gesù, gli diede anche uno sguardo positivo e
capace di valorizzare tutto quanto di vero e di buono c’era nella
fede ebraica e anche nelle filosofie greche che aveva conosciuto.
Con questa metodologia, che più che una tecnica di conoscenza era
una passione per Cristo, Giustino riconobbe che “se l’Antico
Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà
significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al
Vangelo…e diceva che queste due realtà, l’Antico testamento e la
filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al
Logos”. (Catechesi del papa del 21 Marzo 2007)
Così Giustino abbracciò la fede cristiana senza
fare di essa un bastione, un ostacolo all’incontro col pensiero
degli altri, pur evitando le ambiguità a cui potrebbe portare una
falsa apertura.
La testimonianza di San Giustino e la contro
testimonianza di capi dei sacerdoti, scribi e anziani del vangelo di
oggi ci rivelano non solo due modalità opposte di conoscenza, ma
anche i due frutti opposti che nascono da esse: il dare la vita per
la Verità, e il togliere la vita contro la Verità. Il discepolo di
Cristo, come Giustino, sceglie la prima via, che coincide del resto
con la via dell’amore, accettando di venire allo scoperto e anche di
essere contraddetto e corretto pur di essere nella luce.
Chiediamo a san Giustino, questo amico che oggi
ricordiamo e preghiamo, di aiutarci con la sua intercessione a
rinunciare a noi stessi per essere discepoli della Verità anche e
soprattutto quando questo ci costa o ci fa fare brutta figura con
gli altri.
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mercoledì
29
Maggio 2013
– VIII Settimana tempo ordinario –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il gruppo di discepoli che segue Gesù che li
precede verso Gerusalemme è attraversato da sentimenti di
inquietudine e di sgomento. Essi iniziano a rendersi conto che
questa salita a Gerusalemme non sarebbe stata all'insegna del
trionfo. Il loro Maestro e Signore cammina con decisione davanti a
loro e, con le sue parole e il suo esempio, sta plasmando in loro un
modo tutto nuovo di guardare a lui, alla sua persona e, soprattutto,
alla sua missione come Messia, colui che doveva liberare il popolo
di Israele.
Gesù, da parte sua, di fronte al timore che sorge
nel cuore di chi lo segue non cerca di presentare in modo più roseo,
più appetibile, il futuro che l’attende. No, Gesù non costruisce su
un’apparenza fasulla, non riveste di un immagine brillante di luce
umana, la volontà del Padre, quel calice che lui dovrà bere fino in
fondo, pur pregando a Getsemani che gli venisse risparmiato. Gesù
non inganna nessuno, anzi, mette in guardia per bene i suoi
discepoli su quanto sarebbe accaduto di lì a poco: condanna a morte,
consegna prima alle autorità giudaiche e poi ai pagani, derisione,
flagellazione, uccisione e risurrezione.
Di fronte a tale prospettiva, di futuro incerto,
di garanzie umanamente poco sostenibili, anche perché l’unico
barlume di speranza che Gesù mostrava nel suo discorso era la sua
risurrezione, cosa ben più difficile da credere e da attendere delle
persecuzioni, due apostoli non resistono a tale insicurezza futura.
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, avevano lasciato il lago di
Tiberiade, la famiglia e l’attività di pescatori che svolgevano con
il loro padre per venire dietro a Gesù, accogliendo la sua chiamata.
Pensavano forse di sistemarsi, o meglio, di fare un salto di qualità
rispetto alla vita che facevano prima. E tale speranza era
certamente sostenuta e favorita dai miracoli e dalle opere
prodigiose che Gesù faceva, e con passo entusiasta avevano seguito
il loro Maestro. Ora, dai discorsi di Gesù, le certezze di
assicurarsi un futuro iniziano a incrinarsi e i due fratelli
vogliono parlare chiaro con Gesù. Hanno un ideale e lo manifestano a
Gesù: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e
uno alla tua sinistra.” Gesù non si sdegna con i due per questa
richiesta, a differenza degli altri dieci apostoli, pur avendo più
diritto degli altri a farlo, ma da una risposta che cerca di
convertire l’ideale dei figli di Zebedeo in risposta ad una
chiamata, da costruzione di un proprio progetto ad adesione al
progetto di un Altro: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e
nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati.
Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me
concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato.”
Gesù invita i due fratelli alla sequela punto e
basta, come offerta di sé, come partecipazione al calice e al
battesimo di Cristo stesso. Che grazia immensa è già per loro poter
imitare il loro Maestro! Ma Gesù evita di concludere con loro un
contratto di dare e avere: voi fate questo per me e io vi assicuro
un posto alla mia destra o sinistra. Essi, che già camminano al
fianco di Gesù e già fanno parte di quei Dodici intimi discepoli
costituiti perché stessero con Lui, non si rendono conto che è nel
dare la vita che Cristo compirà sulla Croce che si manifesterà la
vera gloria prima che nel regnare. Se non riusciranno ad entrare in
questa logica di servizio, di dono di sé non potranno nemmeno
accedere ai troni del nuovo regno atteso. Gesù non rifiuta la
ricompensa a Giacomo e a Giovanni, ma vuole aprire i loro occhi
perché vedano che la ricompensa è già in mezzo a loro, è Gesù
stesso, e la grazia di essere chiamati a seguirlo, a vivere insieme
a Lui e come Lui.
Se non si riesce a cogliere l’Eterno che già è
presente nella nostra vita, la guida e la riempie già fin d’ora di
quel senso e di quella pienezza a cui aneliamo, saremo sempre
insoddisfatti, con un occhio nostalgico rivolto al passato, alle
cipolle e alle rape che mangiavamo nell’Egitto che abbiamo
abbandonato, e l’altro ambizioso in continua ricerca di ciò che
nemmeno noi sappiamo bene. Nostalgia e ambizione ci allontaneranno
allora dalla vera gloria del servo, del discepolo, quella che già ci
è consegnata se vogliamo: l’onore e la gioia di poter offrire le
nostre povere vite al servizio di Dio e dei fratelli.
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martedì
28
Maggio 2013
– VIII Settimana tempo ordinario
-
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Nel Vangelo di ieri l’uomo ricco praticava tutti
i comandamenti del Decalogo fin dalla giovinezza. Maestro, tutte
queste cose le ho praticate fin dalla mia infanzia, cosa mi manca
ancora, cosa devo aggiungere all’elenco delle mie osservanze per
ereditare la vita eterna, la vita piena? L’uomo ricco, pieno di
tanti beni, concepiva nell’ottica dell’accumulo anche la religione:
il criterio con cui gestiva la propria ricchezza lo applicava anche
alla fede. Gesù non rispose aggiungendo un altro comandamento alla
lista, ma prima, dice il testo, lo amò, cioè rivolse a lui uno
sguardo unico che lo valorizzava non per quanto aveva né per quanto
faceva ma per quanto era agli occhi di Dio. E poi tradusse in parole
tale sguardo d’amore: va', vendi tutto e seguimi, cioè spezza la
logica dell’accumulo e cessa di metterti al centro della tua vita
temporale e spirituale e inizia ad incamminarti ed ad entrare in una
relazione d’amore, inizia ad essere discepolo. L’uomo ricco non
accettò e si fece triste. Ricchezza e tristezza, un binomio
purtroppo molto frequente ai nostri giorni. Tutto quanto possedeva e
faceva l’aveva reso grande, più grande di un cammello che vuole
passare per la cruna di un ago. Egli pensava che bastasse fare una
serie di cose per essere perfetti, Gesù invece gli suggerisce
l’ingresso in una relazione d’amore, in una sequela di discepolo.
L’argomento è quanto mai attuale oggi, tempo che
nel supermercato delle religioni e delle filosofie di vita, non
pochi scelgono la pratica spirituale che più soddisfa il loro
benessere psico-fisico, che più li fa star bene e li perfeziona. In
quest’ottica è eliminata ogni possibilità di discepolato e di
sequela perché non sono più io a seguire e servire il Signore ma è
Lui o qualcun'altro che deve sostenere me
e lasciarsi guidare nelle vie della mia vita a beneficio del mio
“star bene”. Per cui accanto alla palestra per curare il fisico,
alla medico per curare il corpo e la mente, allo studio per farsi
una cultura e prepararsi ad un lavoro, c’è anche lo spazio lasciato
alla cura del proprio spirito. Tutto ruota intorno a se stessi, Dio
incluso.
Gesù, nel Vangelo di oggi, inverte la
prospettiva. Prima del ricevere egli propone il lasciare tutto.
Lasciare tutto è un movimento che non a tutti può
essere richiesto allo stesso modo: una cosa è nel fedele laico,
un’altra è nel religioso, differente ancora nel prete diocesano. Una
cosa però è comune per tutti: lasciare tutto è orientato ad un
ingresso: entrare nell’appartenenza a Dio, il solo ad avere uno
sguardo autentico su noi stessi. Tale relazione con Gesù, che è
relazione d’amore, tale incontro non può certo essere considerato
uno dei tanti incontri della nostra vita; non può limitarsi ad
essere, come dicevamo prima, l’ennesima attività a beneficio del
nostro benessere, come non può limitarsi neppure ad un’esperienza
culturale da aggiungere al nostro curriculum. L’incontro con Gesù è
quell’incontro che cambia la nostra vita, è quella relazione
cardine, suprema, prioritaria a cui tutto il resto deve
subordinarsi, noi stessi inclusi.
Se il nostro cuore non accetta questo passaggio,
questa intronizzazione di Dio al Suo interno e la conseguente
relativizzazione del resto a Lui solo, il nostro cuore sarà sempre
un cuore diviso, incapace di dire un sì totale al Signore. E il
nostro volto scuro, come quello dell’uomo ricco di ieri.
Certo, una risposta radicale e totale al Signore
non si improvvisa dall’oggi al domani, ci vuole tempo e pazienza
verso se stessi; ma è importante mantenerne sempre vivo il desiderio
e l’intenzione. Più che chiedersi: cosa posso fare per avere la vita
eterna, la vita piena? forse la domanda più appropriata è: che cosa
può fare Dio di me per farmi vivere pienamente? Perché è Dio che ci
dona la vita in pienezza, se prima gliela doniamo, anche
restituendoci cento volte tanto ciò che abbiamo lasciato, non più
però come nostra conquista ma come eredità, come dono. Lo sentiremo
allora, come il padre misericordioso della parabola, dirci: figlio,
ciò che è mio è tuo! E tale condivisione totale e vitale con il
nostro Signore ripagherà la fatica di ogni sacrificio.
Davvero, come dice il Siracide, il Signore è uno
che ripaga, ne fanno esperienza coloro che si fidano.
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Domenica
26
Maggio 2013
– Santissima Trinità –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il tempo liturgico ha una sua profonda saggezza
che intravediamo anche nel posizionare la solennità di oggi, quella
della Santissima Trinità, esattamente dopo il compimento del mistero
pasquale con la Pentecoste. La ragione di questa collocazione è
dovuta al fatto che solo vedendo come Dio ha agito con l’uomo
durante i secoli, e soprattutto nel vedere come la storia della
salvezza è giunta alla pienezza dei tempi nella Pasqua del Figlio di
Dio, è possibile dire qualcosa di Lui, è possibile conoscerlo in
verità, una verità che non finiremo mai di scoprire e fare nostra.
Nell’Antico Testamento Dio aveva cominciato un
dialogo appassionante con l’uomo, quel dialogo che chiamava l’uomo
ad un’alleanza con Dio, ad una vita d’amore, a scoprire che Dio gli
era vicino e gli prometteva una terra promessa dove scorrevano latte
e miele, profezia terrena a sua volta segno di un’eternità beata
sostanziata dalla presenza e dalla comunione piena con Dio.
Quest’eternità beata Dio la consegnò all’uomo in pegno, come
anticipazione dell’eredità piena e definitiva, con l’ingresso nel
mondo del Figlio di Dio fatto uomo. Il cielo toccava la terra,
l’eterno entrava nel tempo, e Dio si consegnava all’uomo per
rivelargli pienamente chi egli era. E da ciò che Dio fece per
l’uomo, l’uomo capì chi era Dio. Quel Dio che aveva già incontrato
secoli addietro e che aveva già parlato per bocca dei profeti, ora
poteva guardarlo in faccia, parlargli insieme, toccarlo, e vederlo
morire sulla Croce per amore. Nella Pasqua di Gesù l’uomo scopriva
il vero volto di Dio, e scopriva che Dio è Amore!
Dire: “Dio è amore” (1 Gv 4,8) non significa dire
unicamente che Dio ci ama. Non è un’affermazione pragmatica,
funzionale o indicante semplicemente il modo di Dio di relazionarsi
all’esterno di se stesso, qualora in Dio si possa parlare di un
dentro e di un fuori. Ma dire Dio è Amore significa anzitutto
rivelarne l’identità profonda, la vita intrinseca. E siccome Dio non
è ambiguo, ma è semplice, pur essendo trino, ciò che Lui fa rivela
ciò che Lui è. Per usare un linguaggio rahneriano, l’economia di Dio
nella storia dischiude all’immanenza in Dio, pur non esaurendola.
Ciò che noi vediamo, sappiamo e conosciamo di Dio nella storia non è
altro che la promanazione fuori di Lui di quanto vive dentro di Lui.
E fuori di sé Dio si è rivelato come Amore.
Come Dio ama? È questa una domanda che ci può
fare andare oltre nella nostra riflessione di oggi.
Gesù, il Figlio di Dio, ci ha amati dando la sua
vita per noi, consegnando se stesso fino alla morte di Croce. Dunque
Gesù, la pura e vera immagine del Padre, ama consegnando se stesso,
un amore che abbraccia tutta l’umanità, che è capace di includere
tutti gli uomini; è un amore che può far entrare tutti in esso
perché è un amore che esce da se stesso, si consegna, è amore
estatico. Tutta la vicenda terrena di Gesù è costituita da un
succedersi di consegne: il Padre che lo ha consegnato per tutti noi,
il Figlio che consegna se stesso, come riconosceva san Paolo con
stupore: “mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Rm 8,32);
prima Giuda che consegna Gesù ai sommi sacerdoti e poi Pilato che lo
consegna perché fosse crocifisso. E perfino l’ultimo respiro di Gesù
è una consegna, come annota Giovanni “E chinato il capo consegnò lo
Spirito” (Gv 19,30b). L’uscita dal seno della Trinità del Figlio di
Dio, la sua kenosi, non si arresta fino all’uscita del Cristo da se
stesso con la morte.
Ma attenzione, Cristo in un passaggio del suo
ultimo discorso prima di morire dirà una frase di estrema
importanza: “Come il Padre ha amato me anche io ho amato voi.” “COME”!
In altre parole, ciò che io faccio per voi, ossia consegnarmi a voi,
darmi a voi, il Padre lo fa per me. Attraverso di me giunge a voi
l’amore del Padre, l’amore che io vivo eternamente nel seno della
Trinità: Chi vede me vede il Padre! E il Padre in me compie le sue
opere!
Che sublime rivelazione per i nostri cuori e le
nostre menti! L’amore estatico di Cristo rivela, irradia sulla terra
l’amore estatico che scorre nel Dio trinitario, “amore col quale il
Padre e il Figlio si uniscono nella persona dello Spirito Santo. [E]
nel Padre e nel Figlio questo amore è uscito da se stesso fino a
formare una nuova persona. È il dono più completo che possa
esistere, nel quale la persona che ama rinuncia al possesso del
proprio amore tanto vuol perdersi nell’altro. Estasi di amore, lo
Spirito Santo è l’espressione del «perdersi» reciproco nella persona
dell’amato”
(Jean Galot, Il mistero della sofferenza di Dio,
Cittadella Editore, Assisi, 1975, 160-161).
Nel Cristo crocifisso e risorto non solo siamo
salvati ma ci è aperta una finestra sul cuore di Dio. Ora capiamo un
po’ di più quello splendido passaggio della lettera agli Ebrei (1,3)
in cui si dice che Cristo “è irradiazione della gloria di Dio e
impronta della sua sostanza”. In Cristo si rivela a noi la gloria di
Dio, la kavod di Dio, il suo valore pesante, quel peso che da soli
non siamo in grado di portare senza la guida dello Spirito del Padre
e del Figlio.
Maria portò in lei quel peso, il peso del cielo
intero. Di lei poetò la Beata Elisabetta della Trinità:
“Il
suo cuore come un cristallo rifletteva il Divino,
l’Ospite che l’abitava, la Bellezza che non
tramonta.
Maria attira il cielo ed ecco il Padre a lei
consegnerà il suo Verbo per esserne la Madre
e della sua ombra la copre lo Spirito d’amore.
A lei vengono i Tre, è tutto il cielo che s’apre
e fino a lei s’abbassa.”
(Dagli scritti, composizione poetica 78)
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sabato
25 Maggio 2013
– VII Settimana tempo ordinario
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
La parola di Gesù ci stupisce perché Gesù spesso
non ci chiede cose difficili e complicate, ma cose estremamente
semplici, così semplici che sarebbe più facile per un bambino
compierle che per un adulto. La semplicità e la piccolezza spiazzano
le grandi capacità degli uomini. Anche oggi si presenta questa
situazione paradossale: per entrare nel regno di Dio bisogna
accoglierlo come un bambino. Chi non accoglie non entrerà.
Il tema dell’infanzia è un tema molto caro a
Gesù. Gesù predilige in modo speciale i bambini e rimprovera e si
indigna verso i suoi discepoli quando ragionano troppo da adulti,
pensando cioè che abbiano sempre qualcosa da insegnare ai bambini e
invece, quanto alle cose di Dio, sono spesso i bambini ad essere
maestri. I bambini sanno vivere con naturalezza, con spontaneità,
delle dinamiche spirituali ed interiori che a noi richiedono invece
costante esercizio. Una di queste è l’accoglienza: i bambini sono
maestri di accoglienza. L’accoglienza del bambino è vera ed
esemplare per noi perché i bambini accettano con serenità, anzi
senza nemmeno pensarci troppo, di stare in una situazione di
inferiorità, di debito, di dipendenza, ossia quella posizione che si
viene a creare quando si riceve qualcosa da qualcuno sapendo di non
essere in grado di restituire. L’adulto fatica a vivere in modo
sereno questa dimensione. Pensiamo, a titolo di esempio, a quando
qualcuno ci fa un regalo o ci rende un servizio. A meno che non si
tratti di persone con le quali siamo abituate ad essere noi stessi,
per esempio i nostri genitori o pochi amici fidati, persone con le
quali non ci vergogniamo ad essere così come siamo, come i bambini,
la nostra tendenza è talvolta, se non spesso, quella di voler subito
riequilibrare lo squilibrio che si è creato. Per cui alla prima
occasione propizia ci urge la necessità di rendere il favore, di
fare a nostra volta un regalo, insomma di ristabilire l’equità
perduta con il contraccambio. Talvolta risulta più difficile dire un
grazie sincero che rendere il favore o un regalo ricevuto per non
sentirsi in debito con nessuno. Umanamente, cioè da punto di vista
di giustizia puramente umana, la cosa ci risulta pregevole e, in
determinate situazioni, è effettivamente doveroso. Il problema è che
insieme al debito che eliminiamo col nostro saldo, rischiamo di
eliminare anche la gratitudine, per cui per non sentirsi in debito
con nessuno rischiamo pure di non essere grati verso nessuno. Così
ci sentiamo a posto con tutti. E forse anche verso Dio.
Ma nei confronti di Dio le cose potrebbero essere
per noi più agevoli perché di fronte a Dio ci troviamo in un
rapporto ontologico e morale perennemente ed insuperabilmente
squilibrato, tanto che se non fosse stato Lui a venire a noi di Lui
sapremmo pochissimo. Di fronte a Dio l’attitudine di accoglienza
come un bambino non solo è la più appropriata ma è l’unica
possibile! Di fronte alla grandezza di Dio e all’abisso che ci
separa da Lui siamo piccoli e peccatori. Per quanto ricco fosse
infatti il conto corrente dei nostri meriti e delle nostre buone
azioni, non saremo mai in grado di rimborsarlo del tutto che ci ha
donato, quel Tutto che è Lui stesso.
Una cosa però possiamo fare: accoglierLo come un
bambino, e concedergli quel sorriso grato che egli attende da noi,
per far sì che un po’ della gioia che egli ci dona ritorni a
rallegrare il Suo cuore, felice di averci fatto felici.
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giovedì
23 Maggio 2013
– VII Settimana tempo ordinario
-
fr. Giovanni-Battista FMJ
Gesù, nel vangelo di oggi, si rivolge a noi con
parole estremamente dure che certo non ci lasciano indifferenti,
anzi attirano fortemente la nostra attenzione.
Il tema affrontato da Gesù è quello dello
scandalo, parola che oggi giorno, purtroppo, ha perso nel nostro
linguaggio il suo significato originario e biblico. Oggi infatti lo
scandalo va di pari passo con il pettegolezzo, con la chiacchiera e
forse talvolta con quel sottile e nascosto piacere che tende ad
insidiare il cuore dell’uomo quando vede gli altri cadere. Pensiamo
per esempio a quando i mass media divulgano uno scandalo nella
Chiesa: qualche volta, tra la gente, più che il dispiacere, la
compassione e lo spirito di preghiera e di penitenza come
riparazione del male avvenuto, albergano sentimenti differenti: di
critica, di inimicizia, e magari anche, non di compiacimento, ma di
velata e segreta soddisfazione per essere riusciti a trovare un
nuovo alibi per non confrontarsi con la fede ed il Magistero della
Chiesa e non mettersi in discussione.
Di fronte a queste deviazioni di significato e di
reazione agli eventi di scandalo, è importante chiedersi: qual è il
significato autentico della parola scandalo o del verbo
scandalizzare nel vangelo di oggi?
Il sostantivo skàndalon, la cui radice significa
scattare, (come di una molla) indicava originariamente il paletto
della trappola per animali. Tale significato nella Bibbia acquisterà
poi un’impronta propria e un significato traslato per esprimere
un’occasione di perdizione oppure di peccato, un impedimento, un
ostacolo e anche un motivo di infelicità. Ora, il brano di oggi
menziona due direzioni dello scandalo, dell’essere occasione di
perdizione: verso gli altri (chi scandalizzerà uno solo di questi
piccoli che credono in me…) e verso se stessi (letteralmente: “Se la
tua mano scandalizza te…se il tuo piede scandalizza te…ecc). Perciò
il nostro atteggiamento può essere un occasione di peccato o di
infelicità non solo per gli altri ma anche per noi stessi. E Gesù si
sofferma più lungamente a discorrere su quest’ultima possibilità
proponendo una soluzione certamente molto radicale e molto cruda che
chiaramente va intesa in senso metaforico: tagliare e gettare via
ciò che in noi causa lo scandalo, la caduta nostra.
Il linguaggio così duro di Gesù, anche se abbiamo
capito che si tratta di una metafora, si spiega solo se si capisce
il valore reale della posta in gioco che rischiamo di perdere:
l’ingresso nella vita, ossia nella comunione con Dio. Questo è
l’obbiettivo, il valore sommo che Gesù ci vuole procurare e
custodire per noi. Una prospettiva così alta, così piena di senso e
totalizzante per l’uomo che sarebbe perfino preferibile, sempre
metaforicamente parlando, perdere una parte importante di noi stessi
piuttosto che perdere questo bene supremo che il Signore ci
promette. In noi ci può essere infatti qualcosa che impedisce questa
comunione piena con Dio, qualcosa che potrebbe essere in sé anche
buona, utile è importante come lo sono mano, piede e occhio che sono
creati per noi dal Signore, e sono dunque doni che riceviamo da Dio
vivere una vita piena, per essere strumenti di salvezza. Ma se noi
trasformiamo questi doni in scandali, cioè in trappole, in ostacoli
all’accesso a questa vita piena, tali doni diventano anti-doni a
rovina nostra e degli altri. Per evitare questo, e per leggere fuor
di metafora l’immagine dell’amputazione che Gesù ci propone, è
necessario lasciare che i doni che il Signore ci fa conservino
quell’orientamento verso la salvezza, verso l’ingresso nella vita
che avevano in origine quando il Signore ce li ha consegnati. Un
taglio ci sarà da fare dunque, ma non fisico, bensì spirituale e
morale, ossia la rinuncia a trasformare questi doni di Dio e tutta
la nostra vita in qualcosa che ci appartiene, in una nostra
proprietà per lasciarli nella custodia del Signore. Al rischio di
scandalo ci esponiamo quando di ciò che siamo e di ciò che abbiamo
facciamo un uso da proprietari, per nostro piacere e vantaggio, non
per il vantaggio degli altri e del Signore. Un po’ come Pietro che
ragionando secondo gli uomini e non secondo Dio diventava di
scandalo per Gesù.
Se la vita piena che ci è promessa è anche una
vita donata, una vita a cui siamo generati da una forza altra da
noi, dalla potenza dello Spirito Santo, possiamo e dobbiamo già fin
d’ora cominciare a vivere così, ossia accogliendo la nostra vita
come un dono da cui continuamente spossessarci, come la metafora del
taglio vuole esprimere, perché non domini più il peccato sul nostro
corpo mortale ma lo Spirito Santo, che farà delle nostre membra
offerte a Dio strumenti di giustizia. (cfr Rm 6,12-13).
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martedì
21 Maggio 2013
– VII settimana tempo ordinario -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il
vangelo di oggi ci presenta il gruppo dei Dodici che cammina con
Gesù sulle strade della Galilea. Essi sono con il loro Maestro,
camminano dietro di lui, ascoltano la sua parola, eppure qualcosa
non va. Per due volte il Signore rivolge loro la parola, li esorta,
l’interroga, ed essi tacciono e hanno paura di interrogarlo.
Qualcosa tra di loro non va e hanno paura di presentare questo loro
disagio al Signore, si vergognano di venire allo scoperto, di essere
visti da Lui: “Essi tacevano – dice il testo – Per la strada infatti
avevano discusso tra loro chi fosse più grande”.
L’attenzione dei Dodici non era più rivolta al Signore, loro maestro
e modello, e di conseguenza il loro aggregarsi, il loro fare gruppo,
stava assumendo le caratteristiche di un qualsiasi gruppo umano in
cui si apprezzano dei valori che non sono quelli del Vangelo. I
Dodici ragionavano ancora più secondo la natura che secondo la
grazia, più secondo il mondo che secondo Dio.
Il loro
cammino dietro al Signore da cammino di sequela, da un “venire
dietro” stava diventando una gara, una competizione, una corsa a chi
arriva primo. San Paolo diceva che una gara sì ci dev’essere tra i
discepoli di Cristo ma è una gara diversa: quella del gareggiare
nello stimarsi a vicenda, del sottomettersi gli uni gli altri non
avendo altro debito con nessuno se non quello di una carità sincera.
Inoltre
i discorsi che i discepoli fanno non solo nuocciono alle loro
vicendevoli relazioni fraterne, ma anche li rendono sordi e incapaci
di comprendere cosa il Signore stava loro rivelando di se stesso.
“Essi non capivano le parole di Gesù e avevano paura di
interrogarlo.” D'altronde come si può pensare di comprendere le cose
di Dio se si ragiona con una mentalità o in uno stile di vita i cui
valori stanno esattamente agli antipodi di quelli del Vangelo?
Gesù
capisce tutto questo ed esorta loro ad avere il coraggio della
piccolezza: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e
il servitore di tutti”. In queste parole Gesù ribalta il loro punto
di vista e capovolge la struttura che essi volevano dare alla loro
comunità, ponendo anche in mezzo a loro il segno di un bambino,
ossia qualcuno che tra gli adulti non vale niente. Ecco, proprio
colui che non vale niente nelle precedenze umane, diventa immagine
di Gesù tanto che chi accoglie questo bambino accoglie Lui stesso e
perfino il Padre.
Per
vivere tale piccolezza a cui Gesù ci richiama è necessaria una
trasformazione interiore che comporta un cambio di mentalità, il
coraggio di rompere con lo stile che ci portiamo dentro e che vige
spesso attorno a noi. Un cambio di mentalità che accetti che lo
sguardo di Dio penetri e plasmi il nostro modo di pensare e di
vivere. Se capiremo che lo sguardo di Dio su di me e sugli altri è
l’unico sguardo che ha realmente valore e che da realmente valore
alle cose allora non ci interesserà più quello che pensano gli altri
e neanche soffriremo se non abbiamo conquistato quel gradimento agli
occhi della gente a cui spesso siamo tanto attaccati.
Dobbiamo rinnovare in noi ogni giorno la consapevolezza che quanto è
grande importante e glorioso agli occhi del mondo di fronte a Dio
non conta nulla. E viceversa ciò che il mondo minimizza, e che
talvolta anche nasconde per vergogna, come per esempio la debolezza,
la semplicità e perfino la dipendenza ed il servizio, di fronte a
Dio è oggetto di stima da parte sua. Accettare questo significa
anche accettare la lotta interiore che vive il servo del Signore,
una specie di conflitto tra sacro e profano, tra l’essere davanti a
Dio e l’essere per conto nostro, come ci premonisce il Siracide:
“Figlio se ti presenti per servire il Signore ( ossia per essere il
l’ultimo di tutti ed il servitore di tutti), preparati alla
tentazione.”
Il
bivio che ci è posto dinanzi è sempre Paolo che ce lo esplicita: “Se
volessi piacere agli uomini non sarei più servitore di Cristo”. A
noi ancora una volta è lasciata la possibilità di scegliere di quale
dio vogliamo essere discepoli e, di conseguenza, che significato
dare e come vivere le nostre relazioni con gli altri.
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Domenica 19 Maggio 2013
– Pentecoste – fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il tempo pasquale si conclude, o meglio, giunge al suo compimento
con la solennità della Pentecoste, come canta la liturgia nel
prefazio di oggi: “Oggi hai portato a compimento il mistero
pasquale”.
Cosa mancava al mistero pasquale
di Cristo perché fino ad ora fosse ancora incompiuto? Non si compiva
totalmente la salvezza del genere umano nella sola passione, morte e
risurrezione di Cristo? La risposta è chiara: sì, è grazie al sangue
di Cristo che siamo stati salvati e per cinquanta giorni abbiamo
celebrato la Sua vittoria sulla morte. Ma bisogna affermare una cosa
importante, ed è questo che la Chiesa oggi festeggia: è grazie allo
Spirito Santo di cui oggi celebriamo la discesa sulla sua Chiesa,
che la Pasqua di Cristo diventa anche la nostra Pasqua; è grazie
allo Spirito Santo che le meraviglie compiute da Dio per noi
diventano meraviglie compiute da Dio in noi; è grazie allo Spirito
Santo che diventiamo figli di Dio perché entriamo con tutto il
nostro essere nel mistero che ci rende figli nel Figlio. È per
questo che Gesù, parlando dello Spirito che avrebbe mandato come
Consolatore, diceva: “prenderà ciò che è mio e ve lo annunzierà”, e
ancora nel vangelo di oggi: “vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà
tutto ciò che io vi ho detto” e potremmo aggiungere, “ciò che io vi
ho fatto” nella mia Pasqua.
Insomma la venuta dello Spirito
Santo è quell’evento che ci fa ereditare tutti i doni che Cristo ci
ha procurato, in fin dei conti il dono della salvezza.
Ma per evitare che tale parola
“salvezza” rimanga per noi qualcosa di astratto, oppure qualcosa che
appartiene all’aldilà, alla vita dopo la morte, dunque ad un mondo
che, potremmo dire, non ci appartiene ancora, tentiamo di capire
cosa significhi che siamo salvati già fin d’ora. E possiamo
esprimere questo dono che Cristo ci fa e che lo Spirito Santo ci
consegna, lo fa entrare nella nostra vita, nei termini di una
apertura: lo Spirito Santo ci apre a qualcosa a cui prima non
avevamo pieno accesso. Tale apertura si compie su tre dimensioni, a
tre livelli.
Anzitutto lo Spirito ci apre a
Dio: se lo schiavo è qualcuno che non è libero ma che è prigioniero,
che sta dunque al chiuso e che non sa quello che fa il suo padrone,
lo Spirito Santo, come abbiamo ascoltato dalla bocca dell’apostolo
Paolo, non è uno spirito da schiavi, ma è uno Spirito che ci apre
alla relazione con Dio, ci permette di parlare con Dio, di
rivolgergli la parola. Attenzione, non si parla qui di un dio in
senso generico, il dio dei filosofi, una qualsiasi entità
trascendente, un divino imprecisato, un totalmente altro di cui non
si può dire nulla, ma un Dio che conosciamo e da cui siamo
conosciuti a tal punto da poterci rivolgere a Lui come si rivolgeva
Gesù: Abbà! Padre! Lo Spirito ci rende famigliari di Dio.
L’apostolo prosegue dicendo: “Lo
Spirito stesso insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di
Dio.” È la seconda apertura che lo Spirito compie in noi: se ci
rende famigliari di Dio, partecipi del mistero pasquale, di
conseguenza lo Spirito ci apre a noi stessi, alla nostra vera
identità, quella di figli di Dio. E tale nuova identità non è una
semplice etichetta che ci viene appiccicata all’esterno ma è
un’unanime affermazione che lo Spirito di Cristo compie insieme al
nostro stesso spirito. Cioè lo Spirito raggiunge e trasforma il
nostro spirito umano rendendolo capace di riconoscerci per quello
che siamo davvero, ossia figli di Dio. Lo Spirito ci rivela la
nostra autentica identità che ci consente di guardarci con occhi
nuovi: non semplici e anonime creature ma figli di Dio. “E se siamo
figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se
davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche
alla sua gloria”. In altre parole, se lasciamo che la Pasqua di
Cristo diventi anche la nostra Pasqua.
Infine, terza apertura con cui lo
Spirito realizza in noi la salvezza di Cristo è quanto è più
visibile nel miracolo della Pentecoste: una fiamma sola, si divide
su persone diverse e “tutti furono colmati di Spirito Santo e
cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito
dava loro il potere di esprimersi.” Lo Spirito Santo ci apre agli
altri, ci rende capaci di relazionarci con l’altro, di parlare e
conoscere l’altro; di più, di accogliere l’altro per quello che è:
mio fratello, mio famigliare, qualcuno che sento parlare nella mia
lingua nativa, come accadeva per chi sentiva parlare gli apostoli,
ossia nella lingua con cui parla con me mia madre. Dunque tale
apertura agli altri non è solo riconoscimento della diversità
dell’altro, ma è farci scoprire che nell’altro c’è qualcosa che è
anche in me e che ci accomuna, ci rende fratelli, ci rende simili
pur essendo diversi. Ci rende uno pur essendo due, tre, quattro ecc.
Questo qualcosa è lo Spirito che realizza la vera unità, che ci
consente di passare da Babele a Pentecoste, perché costruisce un
unità non più centrata sulla carne, su noi stessi, su categorie e
punti vista terreni o soggettivi, ma è unità che ha come centro non
l’uomo ma Dio. “Passare da Babele a Pentecoste significa, per usare
un espressione di Tehillard de Chardin, «decentrarci da noi stessi e
ricentrarci su Dio».” (Raniero Cantalamessa, Il mistero di
Pentecoste, Ancora, Milano, 1998, 24)
Se queste tre aperture, a Dio, a
noi stessi e agli altri, sono il dono di Cristo che si attua in noi
per mezzo dello Spirito, invochiamo con tutto il nostro cuore lo
Spirito Santo perche davvero nella nostra vita si compia oggi il
mistero pasquale, si compia la Pasqua cioè il passaggio da Babele a
Pentecoste, dall'uomo vecchio all'uomo nuovo.
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venerdi 17 Maggio 2013
– VII settimana di Pasqua -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il Vangelo di oggi vede protagonisti Gesù risorto e Pietro che, dopo
aver mangiato insieme agli altri apostoli sul mare di Tiberiade, si
ritirano in disparte per un dialogo più intimo e personale. I
vangeli non ci dicono niente a questo riguardo ma forse si trattava
per Pietro della prima volta in cui si trovava di fronte, da solo,
al Signore Gesù, la prima volta in cui poteva rivolgergli la parola
dopo il suo triplice rinnegamento.
Gesù non rimprovera Pietro, non gli dice: “Sei un traditore! Parlavi
tanto di dare la vita per me e invece sei stato tra i primi ad
abbondarmi.” Noi forse avremmo pensato: comunque un bel rimprovero o
una parola forte se lo sarebbe meritato! Ma niente di tutto questo!
Gesù non è nemmeno arrabbiato con Pietro. Anzi, gli offre Lui
stesso, di Sua iniziativa, la possibilità di ridirgli il suo
affetto, il suo amore, insomma la volontà di essere ancora un suo
apostolo nonostante tutto: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più
di costoro?”
A Gesù non interessa punire Pietro, non gli interessa fargli
ripagare il male compiuto. A Gesù interessa l’amore di Pietro, la
risposta di Pietro alla sua chiamata. Ed è in tale risposta di amore
all’Amore che lo chiama che si risanerà la frattura intercorsa tra
il discepolo e il suo Maestro.
Gesù dunque chiama Pietro, lo invita a seguirlo, gli affida una
missione importante, non gli da l’etichetta del fallito perché non è
stato capace di resistere allo scandalo di un Messia Crocifisso.
Pietro è pienamente reintegrato nell’amicizia con Gesù grazie
unicamente al suo sì all’amore di Gesù.
In tutto questo però Pietro impara una lezione, ed è questa. Pietro
scopre che la sua vocazione, la sua chiamata a seguire Gesù, quella
chiamata che sempre sulle rive del mare di Tiberiade aveva preso
inizio tre anni prima, non cesserà mai di essere una chiamata, ossia
non cesserà mai di avere come principio permanente, come forza
trainante, la voce del Signore che lo chiama e che lo invia. Chi è
chiamato dal Signore non è chiamato solo all’inizio ma è chiamato in
modo permanente e il suo cammino è quello di rispondere ogni giorno
a questa iniziativa di Dio che non cessa di avere il primato, di
venire prima ad ogni presa di posizione dell’uomo. Potremmo dire che
la chiamata di Dio è eternamente primordiale rispetto ad ogni
risposta dell’uomo.
Pietro, capendo questo capisce che non è tanto lui, come persona, ad
essere un fallito, ma che erano fallimentari i modi con cui lui
aveva deciso di essere discepolo o apostolo del Signore. Ossia quei
modi che invertivano i ruoli anteponendo la volontà e
l’intraprendenza di Pietro alla chiamata e alla volontà del Signore.
Pensiamo a quando Pietro verrà allontanato e rimproverato come un
diavolo da Gesù e verrà esortato a porsi dietro di lui e non prima
perché proponeva, di sua iniziativa, al Signore una via che non era
quella di Dio. Oppure quando cercherà di far desistere Gesù dal
lavargli i piedi, forse pensando che avrebbe dovuto essere lui a
lavarglieli. Pensiamo ancora a quando, per quanto ammirabile potesse
sembrare, Pietro dirà a Gesù alla vigilia della sua Passione: “Darò
la mia vita per te!”(Gv 13,37), promessa che si rivelerà incapace di
mantenere. È questo il Pietro che fallisce, il Pietro che prende in
mano la sua vita e perfino la sua vocazione e dimentica che questa
dev’essere permanentemente una risposta all’iniziativa e alla
volontà del Signore e non viceversa.
Pietro riuscirà a capire questo e infatti all’orizzonte della sua
vita Cristo Risorto gli indicherà con quale morte egli avrebbe
glorificato Dio, una morte non tanto da eroe, cioè una morte che
loda se stessa, ma da discepolo, da colui che viene portato dove
vorrà qualcun altro.
Forse capita o è capitato anche a noi di prendere iniziative, di
imboccare sentieri, di organizzare attività che, per quanto buone
possono essere non sono ciò che il Signore ci chiede, portando
magari anche dei pesi che nessuno, all’infuori di noi stessi, ci
chiede di portare e trascurando magari il nostro vero dovere
vocazionale. In questi momenti chiediamoci davvero: “Ma chi ce lo fa
fare!?” e ricordiamoci che quanto facciamo non dev’essere altro che
la traduzione in opere di una risposta d’amore al Signore che ci
chiede, come a Pietro, “mi ami?”. Il nostro sì sarà allora un sì non
alla nostra intraprendenza, non alla nostra creatività, per quanto
buone e nemmeno all’idea di Dio che ci siamo fatti e a cui di
conseguenza ci conformiamo, ma un sì alla volontà e per la gloria
del Dio vivo e vero. Sarà solo allora che saremo davvero discepoli a
servizio del Signore.
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mercoledì 15
Maggio 2013 –
Festa della Madonna di Montenero -
fr. Giovanni Battista
FMJ
Le letture di
questo giorno in cui in tutta la Toscana si festeggia Maria, Madre
delle Grazie, ci presentano due situazioni di attesa di una
manifestazione divina che sono quanto mai indicate ai giorni
liturgici che stiamo vivendo compresi tra l’ascesa di Gesù al cielo
e la discesa dello Spirito Santo.
Anzitutto nella prima
lettura viene descritto nei tratti essenziali come la nascente
comunità cristiana colmava il “vuoto” se di vuoto si può parlare,
tra la partenza di Gesù e la venuta dello Spirito: in modo
perseverante e concorde nella preghiera. Al cuore di questa piccola
Chiesa vigilante c’è Maria, volta insieme agli altri verso Dio, in
attesa dello Spirito.
Nel Vangelo, pur non
essendo ancora giunta, di per sé, l’ora per Gesù di manifestare chi
realmente egli fosse, Maria Sua Madre, a partire dalla necessità del
momento, da un bisogno di una comunità riunita per le nozze,
intercede presso il Suo Figlio che non solo trasforma l’acqua in
vino, ma da così inizio ai segni rivelativi della Sua gloria, ossia
rivelativi chi Egli era davvero.
In questi contesti, in
queste due comunità, Maria ha un duplice sguardo: uno sguardo verso
Dio, nella prima scena tra l’Ascensione e la Pentecoste e uno
sguardo sugli uomini, sulle loro necessità a Cana, uno sguardo che
Lei non esita a unire al Suo stesso sguardo verso il Suo Figlio:
“Qualsiasi cosa vi dica fatela”.
Maria non si ferma a se
stessa, non dice nulla di sé, ma orienta all’amicizia con Cristo.
Memore dello sguardo di Dio su di Lei che l’ha scelta, che ha
guardato alla Sua umiltà, che l’ha resa la sua amica tutta pura,
vuole che a nostra volta anche noi ci rendiamo conto di questo
sguardo amico del Signore su di noi e sulla nostra vita. E perché
noi ci rendiamo conto di questo sguardo, Maria intercede, Maria
chiede per noi ogni grazia che possa sì esserci di aiuto, ma
soprattutto che possa farci scoprire ed entrare nell’amicizia con
Gesù.
Maria non si ferma a se
stessa, dunque. Ma non solo! Insegna anche a noi a non fermarci a
noi stessi e ai doni che riceviamo da Dio ma a renderci conto che
questi doni sono l’espressione, la chiamata di Dio ad essere Suoi
amici. Gesù dirà infatti: “Voi sarete miei amici se farete ciò che
vi comando”; e ancora: “Se mi amate, osserverete i miei
comandamenti” (Gv 14,15). Dunque il segno di questa amicizia è
l’obbedienza fiduciosa, la sottomissione amorosa di chi vive l’uno
per l’altro. E la cosa sorprendente è che è Gesù stesso il primo ad
obbedire a questo principio, ad essere il nostro primo amico
concedendoci quanto gli chiediamo e in un certo senso,
sottomettendosi a noi ogni volta che esaudisce qualche nostra
richiesta e ci largisce una grazia. Dunque come noi possiamo
diventare suoi amici facendo quanto ci chiede, così Lui ci mostra
che vuole essere nostro amico facendo quanto gli chiediamo noi.
Nascosta in questa
relazione di reciproca amicizia e fiducia c’è Maria che agisce
similmente al modo di agire dello Spirito Santo che Lei attendeva
con gli altri apostoli riuniti al piano superiore e che noi
attendiamo a pochi giorni dalla Pentecoste. Similmente allo Spirito
Santo e con lo Spirito Santo, di cui Gesù aveva detto: “vi ricorderà
tutto ciò che vi ho detto”, Maria ci indica Gesù, ci guida a Gesù e
ci esorta: “qualsiasi cosa vi dica fatela”.
Scriveva il beato
Giovanni Paolo II: “Cristo è il Maestro per eccellenza, il
rivelatore e la rivelazione. Non si tratta solo di imparare le cose
che Egli ha insegnato, ma di «imparare Lui». Ma quale maestra, in
questo, più esperta di Maria? Se sul versante divino è lo Spirito il
Maestro interiore che ci porta alla piena verità di Cristo, tra gli
esseri umani, nessuno meglio di Lei conosce Cristo, nessuno come la
Madre può introdurci a una conoscenza profonda del suo mistero.”(RVM
14)
All'intercessione di
Maria, madre delle grazie, vogliamo affidare la nostra attesa della
venuta dello Spirito perché sia un'attesa perseverante e concorde
nella preghiera.
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Domenica 12 Maggio 2013
– Ascensione del Signore –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Con
l’evento dell’Ascensione del Signore al cielo, quaranta giorni dopo
la Pasqua, si chiude per i discepoli che ebbero il privilegio di
vedere il Signore risorto, il tempo delle apparizioni di Cristo.
Come abbiamo ascoltato dalla lettura degli Atti degli Apostoli, Gesù
fu elevato in alto, nella gloria del Padre, e una nube lo sottrasse
ai loro occhi. Gesù non è più disponibile ai loro sguardi. Con
l’ascensione al cielo cessa questo farsi vedere di Gesù.
Ma
cessa forse anche la sua presenza? Umanamente parlando sì.
Umanamente parlando, cioè basandosi su quanto era umanamente
percepibile di Lui, Gesù lascia i Suoi discepoli da soli ed essi non
possono più contare su una relazione con Lui identica a quella
precedente. Ora essi, dal punto di vista umano, si trovano nella
stessa nostra situazione , ossia nella situazione di non poter
vedere con i propri occhi il volto radioso del Signore.
Eppure
Gesù, nella finale del Vangelo di Matteo, rassicura i Suoi: “Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)
e addirittura san Paolo nella lettera gli Efesini dirà che Cristo
“Ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose”
(Ef4,10). Dunque i sensi umani registrano questo tempo dopo
l’Ascensione come un tempo di assenza di Cristo dall’orizzonte
terreno. Solo un cuore credente ossia un cuore che sa pensare alle
cose di lassù gode di uno sguardo sul quaggiù più profondo che
riesce a cogliere la realtà in tutta la sua ampiezza, a leggervi la
presenza attiva ed operante di Gesù con e mediante i Suoi discepoli.
Da
quanto detto possiamo capire alcune cose importanti per il nostro
cammino. Una prima cosa è questa: il Risorto ora è più vicino a Dio
e anche se ciò sembrerebbe un abbandonarci, in realtà proprio per
questo è più vicino anche a noi; siede alla destra del Padre come
Signore e proprio per questo continua più che mai a camminare nelle
strade degli uomini. (Cf. Catechismo Adulti n°279)
Ebbene,
tale principio vale anche per noi! È proprio vero che mai gli uomini
sono più vicini e più in comunione gli uni con gli altri come quando
il mezzo di questa comunione è Dio e al di sopra di ogni altro mezzo
Dio. Più l’uomo si fa vicino a Dio e più si avvicina agli uomini.
Più l’uomo si allontana da Dio e più si allontana dagli uomini,
anche qualora vivesse in mezzo alla folla. Tornano in mente delle
parole del nostro Libro di Vita di Gerusalemme rivolte in
particolare a noi monaci: “Il mondo ha bisogno di monaci che lo
abbandonino per essere per lui ministri di inquietudine e segni
interrogativi. Più radicalmente, nel cuore di Dio che ha creato,
riscattato il mondo e l’ha tanto amato tu ritrovi tutto l’universo.
Non potresti dunque renderti più presente al mondo che vivendo
costantemente alla presenza del Creatore del mondo”. (§ 140)
Capire
e vivere questo significa poter poi capire e vivere anche un’altra
riflessione che possiamo fare partendo da quanto Gesù ci chiede
nelle letture di oggi: “riceverete la forza dallo Spirito Santo che
scenderà su di voi, e di me sarete testimoni”.
Noi
sappiamo che nell’incarnazione del Verbo di Dio ha avuto inizio quel
mirabile scambio tra la nostra natura umana e quella divina per cui
“diventando uomo, Cristo ci ha dato la possibilità di diventare a
nostra volta come Lui” (Udienza generale di papa Benedetto XVI del
22/8/2007) ossia partecipi della natura divina. Ora, a partire
dall’Ascensione del Signore al cielo questo scambio diventa ancora
più visibile! Cristo porta presso il Padre la nostra umanità e noi
siamo chiamati a portare la Sua divina presenza nel nostro mondo e
nel nostro tempo. Cristo va a preparare un posto a noi lassù nel
cielo, come aveva preannunziato poco prima di morire, e noi
prepariamo un posto a Lui quaggiù sulla terra come siamo esortati da
Lui stesso: “di me sarete testimoni”. Due dunque i movimenti che si
compiono in questo giorno: Gesù porta noi presso il Padre e noi
portiamo Lui presso gli uomini. In questo modo l’invisibilità di
Gesù trova di nuovo visibilità nella comunità dei Suoi discepoli,
nella Sua Chiesa, il Corpo di Cristo, la comunità di coloro che più
vicini a Dio possono essere davvero più vicini agli altri. Capiamo
allora che per essere testimoni non basta fare delle cose buone ma
bisogna essere gente conquistata da Cristo.
Spesso
ci diamo tanto da fare per gli altri, magari anche aiutandoli molto
dal punto di vista materiale, ma forse, talvolta, non nutrendo tale
gesto pratico e concreto con l’amore, con la preghiera, con la
presenza di Gesù che ci invia ad essere Suoi testimoni.
Esteriormente avremmo fatto sì qualcosa, e questo ci darebbe
soddisfazione, ma nel nostro cuore staremmo forse alimentando più il
nostro prestigio che altro. Pensiamo invece come cambierebbero le
cose se fossimo sempre consapevoli che il nostro parlare e agire può
diventare un parlare e agire di Cristo in noi e attraverso di noi. E
le nostre membra strumenti vivi per dare carne visibile a Cristo nel
mondo.
La potenza dello Spirito Santo, che attendiamo in questa novena di
Pentecoste, ravvivi in noi il dono di Dio e ci renda testimoni
credibili che Cristo asceso al cielo non ha abbandonato il nostro
mondo ma è con noi tutti i giorni.
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venerdì 10 Maggio 2013
– Festa santi Zanobi e Antonino – Commento ora media -
fr. Giovanni-Battista FMJ
La prima lettura di questo giorno di festa per la Chiesa fiorentina
che ricorda i Suoi principali patroni, i santi Zanobi e Antonino, ci
offre alcuni passaggi dell’ultimo discorso di Paolo agli anziani di
Efeso, discorso nel quale egli lascia loro come un testamento:
“Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo
Spirito Santo vi ha costituiti come vescovi per essere pastori della
Chiesa di Dio che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio”.
L’esortazione dell’apostolo parte da quanto gli anziani di Efeso
sono invitati a fare concretamente, vigilare e custodire se stessi e
la comunità, ma tale missione loro affidata è motivata risalendo a
quanto il Signore stesso ha fatto per la Sua Chiesa: ha costituito
loro perché fossero rappresentanza e prolungamento dell’opera del
Buon Pastore che è il vero proprietario e custode della Sua Chiesa
per la quale ha dato la vita. Il ministero di questi anziani si pone
dunque nel mezzo di due offerte: l’offerta totale della vita di
Cristo con cui Dio ha acquistato la Chiesa, e l’offerta della loro
vita come visibile prolungamento ed attualizzazione dell’amore
oblativo del Signore Gesù.
L’apostolo Paolo prosegue la sua esortazione agli anziani esponendo
loro uno dei pericoli, se non il pericolo più grosso, che incombe
sul gregge del Signore: quello di non essere più gregge, quello
della disgregazione in piccoli gruppetti e fazioni che non seguono
più il Buon Pastore e Custode delle anime ma che corrono dietro a
l’uno o all’altro che come lupi rapaci travestiti da pecore o come
mercenari travestiti da pastori, considerando il gregge cosa propria
e non proprietà del Signore, invece che condurlo ai verdi pascoli
della salvezza, lo guidano non dietro a Gesù ma dietro di sé. “Io so
che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non
risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a
parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé”.
Questa frattura dell’unità che queste forze centrifughe possono
provocare, forze centrifughe che anche oggi non mancano nel mondo e
anche nella Chiesa stessa, nuocerebbe non solo al cammino dei
cristiani verso la salvezza, esponendolo a dei lupi rapaci come dice
Paolo, ma anche oscurerebbe quell’immagine della comunione
trinitaria che la Chiesa di Cristo porta in sé. E sarebbe, in un
certo senso, una sorta di bestemmia contro lo Spirito Santo. Come
infatti nella Trinità è lo Spirito Santo che riunisce in una specie
di noi divino l’io del Padre e il tu del Figlio, così nella Chiesa
egli è colui che fa di una moltitudine di persone una sola «mistica
persona». (Cf. Raniero Cantalamessa, Il canto dello Spirito, Ed.
Ancora, Milano, 1997, 152)
All’inizio di questa novena di Pentecoste in cui invochiamo lo
Spirito Santo sulla Chiesa e sul mondo perché effonda i suoi frutti
divini, chiediamo allora il dono dell’amore che è dono di unità. E
siccome i frutti dello Spirito, a differenza dei carismi dello
Spirito, non sono doni che provengono esclusivamente dall’iniziativa
dello Spirito che li dà a chi vuole e quando vuole, ma sono il
risultato di una collaborazione tra la grazia e la libertà,
esercitiamo e prepariamo la nostra volontà perché desideri davvero
ciò che chiede, e sia anche pronta, se necessario, ma in genere è
necessario, a soffrire per produrre il frutto d’amore e di unità. (Cf.
Raniero Cantalamessa, Il canto dello Spirito, Ed. Ancora, Milano,
1997, 332).
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giovedì 9 Maggio 2013
– VI settimana di Pasqua -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Il
vangelo di oggi presenta alcune situazioni opposte tra di loro: una
situazione di visione, di presenza di Gesù e una di assenza; una
situazione di tristezza, di pianto e di gemito e una di gioia; la
gioia dei discepoli che è messa alla prova dall’afflizione e d’altro
canto l’allegria del mondo che sembra non conoscere flessioni. Cosa
c’è alla radice di queste antitesi?
Se
rileggiamo con attenzione il testo del vangelo ci rendiamo conto che
la gioia come la tristezza di cui Gesù parla ai suoi discepoli sono
strettamente legati alla sua presenza in mezzo a loro, o più
precisamente, al vedere Gesù: al non vedere Gesù corrisponde la
tristezza dei discepoli e l’allegria del mondo, mentre al rivedere
Gesù corrisponde la conversione della tristezza dei discepoli in
gioia.
A
partire da ciò possiamo fare una prima constatazione importante, ed
è questa: la vita del discepolo di Gesù è non solo legata ma
dipendente a quella del Suo Maestro e Signore. Il discepolo, dal
momento in cui accetta di essere tale, accetta anche di subordinare
tutto ciò che è, tutto ciò che fa e tutto ciò che vuole a tutto ciò
che è, tutto ciò che fa e tutto ciò che vuole il suo Maestro. È
questo un modo per esprimere il suo desiderio profondo di non voler
vivere diversamente da come vive il Suo Maestro. Gesù, di tale
realtà di unione e quasi di simbiosi tra Lui e i Suoi discepoli ne
aveva già parlato in altre circostanze, per esempio quando premoniva
i Suoi dicendo loro: “Se hanno ascoltato me ascolteranno anche voi;
se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi.” E ancora: “Se
uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio
servitore.” (Gv 12,26). È per questo che nella misura in cui
accettiamo di essere ciò che siamo, cioè figli di Dio in Cristo,
diventiamo anche Suoi imitatori, altri Cristi, partecipi di quella
stessa vita che Lui vive in noi.
Un
secondo aspetto che possiamo evidenziare nel vangelo di oggi è più
specificamente legato al tema della gioia. A quest’alternanza tra
vedere e non vedere Gesù da parte dei discepoli corrisponde, come
abbiamo visto, l’oscillare dei discepoli tra tristezza e gioia. Per
cui finché i discepoli vedono Gesù il loro cuore si rallegra, la Sua
assenza li affligge e il Suo ritorno, che fuor di metafora si tratta
della Sua risurrezione, ricostruisce la gioia perduta.
Da ciò
possiamo capire due cose: anzitutto che Gesù, quando parla di gioia,
la collega sì strettamente alla sua presenza ma anche alla capacità
dei discepoli di gioire di Lui, e tale consapevolezza è molto
importante per noi che vogliamo imparare qualcosa dal Vangelo perché
ci offre un criterio per valutare di che cosa gioiamo nella nostra
vita. Non dobbiamo temere di porci questa domanda a cui poi ciascuno
darà privatamente la Sua risposta: so rallegrarmi della presenza di
Gesù, sono sensibile alle semplici gioie che Lui offre al mio
cammino o lascio che le cose negative della mia vita, della mia
famiglia, del mio lavoro, della mia comunità e degli altri prendano
tutto lo spazio nella mia testa e nel mio cuore?
E la
seconda nota che merita la nostra attenzione è quella del vedere
Gesù, perché è a tale visione che è connesso il passaggio alla
gioia. Nel testo del vangelo di oggi si tratta di un vedere fisico,
un vedere sensibile: il non vedere Gesù corrisponde infatti alla Sua
morte, il vederlo alla risurrezione, ma certo non possiamo negare, e
sicuramente molti di noi ne hanno già fatto l’esperienza, che esiste
ed è reale anche un altro tipo di visione di Gesù, quella che si
compie con l’occhio interiore, con uno sguardo rinnovato. Ebbene,
talvolta il segreto della gioia si nasconde in questa capacità del
nostro cuore di riuscire a vedere, a percepire Gesù nella nostra
vita, anche in eventi che forse non ci gratificano e che dunque, di
per sé, potremmo interpretare come esperienze non di presenza ma di
lontananza di Gesù da noi. Tale sguardo nuovo sulla nostra realtà,
uno sguardo che ci consente di percepirvi Gesù attivo e operante
nella nostra vita, può essere quella chiave di volta che ci aiuta a
permanere nella gioia, o quanto meno nella pace, perché ci aiuta a
renderci conto che Gesù non è assente dalle nostre vite e da quelle
degli altri, ed è capace di trasformare il male in bene, la morte in
vita, il peccato in felice colpa. Non c’è nulla nella nostra vita
che sia impenetrabile dalla potenza di Dio, basta che lo vogliamo, e
se ciò non solo lo sapremo ma anche riuscissimo a vederlo, a
rendercene conto, anche la nostra tristezza si cambierebbe in gioia.
Viviamo infatti diversamente una situazione difficoltosa ed
impegnativa se percepiamo che non siamo soli ad attraversarla ma il
Signore cammina con noi.
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Domenica 5 maggio 2013
– VI Domenica di Pasqua - parrocchia S.Giacinto - Brescia -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Al
centro delle letture di oggi, il libro dell’Apocalisse ci presenta
una città, la città per eccellenza, la Gerusalemme celeste preparata
da Dio, pronta, bella come una sposa adorna per il suo sposo. Il suo
splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, grandi ed
alte mura la circondano con dodici porte sopra le quali stanno
dodici angeli. Insomma una città meravigliosa. Eppure la grande
bellezza, il grande tesoro di questa città non sta tanto nel suo
splendore, anzi questo splendore è piuttosto la conseguenza di un
tesoro più prezioso ancora. Qual è il vero tesoro della Gerusalemme
celeste? Ebbene, il tesoro vero è Dio stesso. Dio, che dimora in
essa, è la gloria di questa città e ne è perfino la luce stessa: la
città, l’abbiamo ascoltato, non ha bisogno della luce del sole ne
della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada
è l’Agnello.
Ora,
tale città non è una città immaginaria, ma sarà la nostra città in
cui per sempre abiteremo insieme al Signore alla fine dei tempi,
quando Cristo ricapitolerà tutto in sé. Se di fronte a noi vediamo
come prospettiva finale della nostra esistenza terrena solo la
sofferenza, il dolore e la morte, ricordiamo bene che la morte sarà
solo una tappa provvisoria di un cammino che ci condurrà alla città
di Dio, la dimora di Dio con gli uomini.
Tale
prospettiva può e deve affascinarci, lasciarci a bocca aperta, farci
sognare, ma in fondo potremmo dire: intanto io vivo quaggiù e non
posso starmene a sognare il giorno in cui vedrò Dio faccia a faccia.
Posso sognare ad occhi chiusi, ma appena li riapro ritrovo i miei
problemi, il peccato che affligge me e gli altri, le sofferenze mie
e di quelli che mi circondano, ossia un tempo presente che
contraddice amaramente questa visione futura.
Allora
la domanda per noi è: posso sognare solo ad occhi chiusi, cioè senza
guardare la realtà e facendo della fede un salto nell’assurdo e in
una dimensione inconciliabile col tempo presente, o posso tentare di
aprire gli occhi e di tenerli aperti senza rischiare che questo
sogno svanisca?
La
risposta ce la da il Vangelo che abbiamo ascoltato: disse Gesù ai
suoi discepoli: se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre
mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Prenderemo dimora presso di lui. Attenzione! Qui Gesù non parla
della vita dopo la morte, ma parla della nostra vita terrena di
adesso che può diventare davvero dimora, abitazione, perfino rifugio
in cui Dio si riposa. Pensiamo un po’ che bello: Dio trova in noi un
luogo di riposo!
Se
questo è vero come è vero allora scopriamo con stupore che la Città
celeste, la cui gloria e la cui luce sono la presenza di Dio in
essa, non è semplicemente qualcosa di futuro, non è solo qualcosa
che non ci resta che sperare ed attendere. Se noi ascoltiamo ed
osserviamo la parola di Gesù, ossia se viviamo secondo il Vangelo,
la nostra vita già diventa lo spazio in cui Dio vive e prende dimora
come nella Gerusalemme nuova.
Talvolta riduciamo il Vangelo ad un manuale di buone maniere, ad un
sacro galateo, non riconoscendo alla Parola di Dio tutta la potenza
che porta in sé, la capacità di penetrare in noi e di creare uno
spazio in cui Dio dimora, in cui vive insieme a noi, esperienza che
san Paolo esprimeva in questi termini: Non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me.
Se
almeno proveremo anche noi a vivere questa apertura alla parola di
Dio che Gesù oggi ci suggerisce, ci renderemo conto che la vera
gloria, il vero vanto, la vera pace e la vera luce che può
illuminare i nostri sguardi e quelli delle persone che ci stanno
accanto, anche le più sofferenti e perfino quelle più lontane da Dio
e dalla Chiesa, sarà questa compagnia di Dio nella nostra vita. E
tutto il resto sapremo allora rimetterlo al suo giusto posto,
sapremo assegnargli il suo giusto valore, potremo considerarlo
relativo perché, in certo senso, tutto è relativo di fronte
all’unico Assoluto che è Dio.
Proviamo ad immaginare quanta libertà interiore ed esteriore ci da
il sapere che la nostra vera patria è nel cielo, una patria in cui
non ci saranno più il peccato e la morte, e che noi oggi possiamo
già cominciare a vivere secondo la legge che regola questa patria
che è il comandamento dell’amore!
Pensiamo che bello guardare alle nostre vite e alla vita delle
persone che conosciamo con la consapevolezza che Dio vive in loro! È
davvero uno sguardo nuovo, uno sguardo superiore al semplice sguardo
naturale quello che la luce di Dio ci da, guidandoci ad una
conoscenza più profonda e più autentica delle cose.
Capiamo
allora che vivere di questa relazione con il Signore che dimora in
noi non ci strappa dal presente, non è una fuga irresponsabile dalla
realtà, ma è riconoscere la realtà in tutta la sua ampiezza, una
realtà che è attraversata e abitata dalla presenza di Dio.
Davvero
con Cristo il Cielo ha toccato la terra e può toccare anche la
nostra vita. A noi la decisione di come vogliamo vivere; a noi è
data la grande possibilità di vivere già oggi come uomini e donne
risorti, ossia come cittadini della Gerusalemme celeste.
Non
temiamo di alzare lo sguardo verso il Cielo e scopriremo che il
Cielo è già dentro di noi.
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venerdì
3 Maggio 2013
– Festa dei santi Filippo e Giacomo -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Celebrando la festa dei santi Filippo e Giacomo la nostra attenzione
si concentra sulla figura degli apostoli, cioè su coloro che sono
stati scelti e chiamati da Gesù perché stessero con lui e anche per
mandarli. Una vocazione del Signore dunque, prima che una missione.
Anzi, potremmo dire che la missione esiste perché c’è una vocazione
che la precede ossia una scelta del Signore: “Non voi avete scelto
me ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portate
frutto e il vostro frutto rimanga”.
Come la
prima lettura di oggi mette ben in luce, l’apostolo così come
qualsiasi altro cristiano che desidera farsi testimone di Cristo può
dare agli altri solo ciò che prima ha scoperto e vissuto lui stesso,
l’ha fatto proprio e ha lasciato che tale fede viva che annuncia
continui a plasmare la propria vita. L’apostolo è infatti inviato da
Gesù come discepolo e tale deve rimanere. Giova per questo risentire
le parole stesse di San Paolo: “A voi ho trasmesso, anzitutto,
quello che anch’io ho ricevuto”.
Quanto
è importante allora per gli apostoli di un tempo come per noi oggi
ritornare sempre alla roccia da cui siamo stati tagliati, alla vite
da cui il tralcio della nostra vita trae quella linfa che lo tiene
in vita e gli consente di portare frutto per gli altri. Se no
avrebbe solo foglie da mettere in mostra ma incapaci di nutrire. Se
l’ansia apostolica non nasce e non è governata da un costante cuore
a cuore con Gesù saremo sì apostoli, ma forse di noi stessi e delle
nostre idee più che del Vangelo di Cristo. Un Vangelo nel quale,
sempre san Paolo ci dice, dobbiamo restare saldi.
Il
cristiano sarà evangelizzatore ed apostolo per gli altri se lo sarà
anzitutto di se stesso, conversione e cura di sé che richiedono
spazio, tempo ed energie sempre rinnovate. Altrimenti le nostre
opere soddisferanno forse il nostro bisogno di azione ma non
nutriranno ne noi ne gli altri perché prive di quel cibo necessario
che è il contatto con Dio. (Cfr. Dom Chautard, L’anima di ogni
apostolato, pag 76)
Il
vangelo di oggi menziona due apostoli entrambi accomunabili da un
desiderio simile di vedere Dio: Tommaso, lo ricordiamo bene, solo
dopo aver visto Gesù risorto crederà, e Filippo, che oggi
festeggiamo, chiede a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gesù in
entrambi i casi accontenta questa sete aiutando a crescere e
maturare tutti e due: con Tommaso apparendogli risorto e invitandolo
a toccare le sue piaghe e con Filippo donandogli una comprensione
superiore della sua persona: “Non credi che io sono nel Padre e il
Padre è in me?”. In questa invocazione di Filippo a Gesù, “mostraci
il Padre e ci basta”, scorgiamo forse tutto il suo desiderio di
incontrare Dio, di vederlo, di vivere in comunione con Lui, sapendo
che questo basta e che tutto il resto verrà di conseguenza, per
sovrabbondanza, sgorgando da questo intimo cuore a cuore.
Non
solo, ma è proprio grazie a tale intraprendenza di Filippo nel
sondare il mistero di Dio che Gesù rivelerà qualcosa di importante
sulla sua persona a beneficio di tutti. “Credete a me: io sono nel
Padre e il Padre è in me.”
Anche
noi, se vogliamo essere annunziatori e apostoli del Vangelo,
qualunque sia la nostra condizione di vita, dobbiamo tenere presente
che la prima urgenza di ogni apostolato è quella di mantenere sempre
viva e ardente in noi la sete di Dio e il nostro cuore a cuore con
Gesù. Pazienza se talvolta il tempo che impieghiamo per questo
sembrerà, alla nostra cultura efficientista ed attivista in cui si
vale più per ciò che si fa che per ciò che si è, un tempo sprecato
ed inutile. “La vita di unione con Dio è per l’apostolato ciò che
l’anima è per il corpo. Senza vita d’unione con Dio, l’operaio
evangelico rischia di essere solo «un bronzo che risuona o un
cembalo che tintinna»” (Cfr. Dom Chautard, L’anima di ogni
apostolato, pag 77).
Saziati
dal peso della presenza di Dio in noi potremo allora, pian piano,
accogliere l’invito che il nostro libro di vita ci rivolge: “La tua
vita indichi senza paura e senza rumore il sentiero della Sorgente e
Dio stesso accoglierà e disseterà le anime affaticate. I santi non
hanno bisogno di essere ascoltati: la loro esistenza stessa è un
richiamo” (§49).
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giovedì 2 maggio 2013
– V Settimana di Pasqua – Sant’Atanasio -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Rimanete nel mio amore mediante i miei comandamenti perché la mia
gioia sia in voi. Sono queste le coordinate del nostro cammino
cristiano che Gesù ci offre nel vangelo di oggi. Un cammino che si
apre e dimora nell’amore, lascia che questo amore plasmi e orienti
la nostra vita e la renda partecipe della gioia di Gesù. E colpisce
scoprire che queste, del resto, sono le stesse coordinate del nostro
Libro di Vita che inizia con il capitolo amore, sviluppa nel
concreto cosa significhi per noi monaci vivere il comandamento dell’
amore, rimanere nell’amore di Gesù, e si chiude con il frutto
dell’amore che è la gioia della comunione.
Una
nota interessante di questo amore di cui Gesù ci parla è quella
della comunione e dell’esperienza di questo amore. Gesù non ci
trasmette un amore qualsiasi, qualora esistesse un amore qualsiasi,
ma esattamente l’amore che egli riceve e vive con il Padre. Come il
Padre ha amato me anche io ho amato voi. Un amore che è relazione e
dono totale di sé. Cercando di comprendere e soprattutto facendo
esperienza di quanto Gesù, per amore, ha fatto per l’uomo, noi
allora non solo capiamo qualcosa di lui ma ci troviamo a vivere
della stessa vita che unisce il Padre e il Figlio, ci troviamo nel
cuore della Trinità che è relazione di amore. E come se Gesù ci
dicesse: se vuoi capire cosa si vive a casa mia, nella dimora dove
vivo con il Padre mio e lo Spirito, vieni e fanne esperienza, prendi
parte anche tu a questa relazione.
Nella
storia ci fu chi volle negare questa realtà relazionale della
Trinità. In particolare oggi, celebrando la memoria di Sant’Atanasio
non possiamo non fare menzione dell’eretico Ario che, per voler far
quadrare la cultura greca del suo tempo con il Cristianesimo finì
per frantumare il cuore stesso della nostra fede, ossia, la
rivelazione delle tre Persone divine. Egli riconosceva a Gesù il
posto più alto tra le creature di Dio così alto che poteva
esercitare un ruolo di modello e maestro per noi uomini, ma restando
pur sempre creatura. Così Ario incastrava Dio in una solitudine
monoteistica razionalmente più gratificante o meglio più
tranquillizzante. Sarà Atanasio che lottando per tutta la vita non
semplicemente per dei concetti o dei dogmi ma per la realtà viva e
vera a cui essi ci orientano, riaffermò con forza che Gesù era
realmente Dio e proprio per questo poteva salvarci perché davvero
aveva preso su di sé la nostra umanità ferita.
Possiamo imparare molto da Atanasio e a lui siamo certo
particolarmente debitori. Ma possiamo imparare anche dall’errore di
Ario: quando cerchiamo di far quadrare il pensiero di Dio con il
nostro pensiero, ossia quando cerchiamo di modellare Dio e le cose
di Dio a partire dal nostro modo di pensare forse saremo più
popolari nel mondo, forse saremo alla moda e saremo applauditi e
seguiti da molti, come accadeva per Ario la cui dottrina spopolava e
il mondo sembrava divenuto irrimediabilmente ariano, ma dovremo
certo dire addio alla verità per accontentarci di noi stessi e del
vitello d’oro che ci siamo costruiti, tanto bello e luccicante
quanto fasullo e inutile. Per questo dobbiamo sempre avere il
coraggio e l’umiltà di ammettere che tutto quanto in noi è
espressione della nostra personalità, della nostra cultura, del
nostro modo di pensare, del nostro paese o luogo di origine o della
nostra tradizione, non per questo è automaticamente vero e
autentico. Non è che una mia opinione o un mio punto di vista sono
veri semplicemente perché sono miei. Possono esserlo in parte sì e
in parte no. Fa parte del cammino discepolare la disponibilità a
cambiare.
Lasciamo che il pensiero di Dio ci sorprenda, ci evangelizzi, ci
converta. Permettiamo a Dio che le Sue vie non siano le nostre vie e
troveremo qualcosa di migliore di ciò che abbiamo lasciato.
Scopriremo che Dio è più “divino” di quanto credevamo.
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mardi
30 Avril 2013
–
V semaine de Pâque
-
Eglise St Gilles – Bruxelles
-
fr. Giovanni-Battista
Dans l’Evangile que nous venons d’entendre, Jésus
nous fait une confidence toute spéciale : il nous transmet un de ses
désirs intimes, une aspiration secrète qu’il porte en son cœur. « il
faut que le monde sache que j’aime mon Père ». Les confidences
de Jésus ne sont pas nombreuses dans les évangiles. Le plus souvent
le Seigneur parle du Royaume, un peu moins de lui-même, moins encore
dit-il quelque chose de sa relation avec son Père. Mais aujourd’hui
cette relation avec son Père, il veut l’annoncer au monde entier, il
veut que tout le monde en soit témoin.
Dans cette révélation que Jésus nous fait, nous
découvrons toute la confiance qu’il place dans les siens et en nous
aussi, qui aujourd’hui écoutons sa parole. C’est là une façon
concrète pour nous démontrer qu’il ne nous considère pas simplement
comme ses serviteurs, mais comme ses amis et frères qu’il rend
témoins des intentions qui habitent son cœur. Et à l’intérieur de ce
rapport confiant et amical, dans lequel Jésus nous entraîne, nous
réussissons aussi à déterminer ce qui se cache, de façon implicite,
derrière cette confidence qu’il nous fait : silencieusement et très
distinctement Jésus s’adresse à chacun d’entre nous : aide-moi à
dire au monde combien j’aime le Père.
Cette demande de Jésus ne peut que nous
surprendre. On aurait pu s’attendre à une phrase du genre : il
faut que vous aimiez le père, ou bien il faut que le monde
aime le Père, ou quelque chose de semblable.
Mais il n’en est pas ainsi. Avant de nous
enseigner ce que nous devons faire, comment nous devons entrer en
relation avec Dieu, Jésus met devant nos yeux son témoignage d’amour
au Père. L’amour que Jésus vit est un amour qui évangélise, car
c’est un amour contagieux, qui attire, qui appelle : l’amour appelle
l’amour. Et l’amour s’enseigne seulement en le vivant. C’est
pourquoi, c’est à partir de la connaissance et surtout de l’expérience
de cet amour de Dieu, que peut naître une parole ultérieure sur Dieu.
Une telle vérité, saint Jean la redira ailleurs en affirmant : « Celui
qui n’aime pas n’a pas connu Dieu, car Dieu est Amour » (1 Jn
4,8). Et du reste, qui ne connaît Dieu, ne peut en être témoin, car
il rendrait témoignage à quelqu’un qu’il ne connaît pas.
En regardant avec attention le contenu de la
première lecture, nous trouvons, en la personne de l’apôtre Paul, un
exemple vivant de ce que nous venons d’énoncer: en lui en effet, une
telle demande de Jésus est accueillie, incarnée et mise en œuvre.
Pour l’apôtre, l’annonce de la foi est au prix
fort de la lapidation reçue de la part des juifs. Le texte dit même
qu’on le traina hors de la ville en pensant qu’il était mort……Nous
pouvons bien imaginer quelle valeur pouvait avoir aux yeux des
habitants de la ville de Derbé, l’annonce de la Bonne Nouvelle faite
par un homme blessé et vivant par miracle. Les meurtrissures et les
cicatrices de Paul étaient plus éloquentes que ses propres mots. Sur
son corps et son visage resplendissaient les signes témoins de la
foi en Celui qu’il annonçait, signes compréhensibles pour tout homme
et culture, qu’il croyait vraiment en celui qu’il annonçait.
Paul, comme Jésus, annonce l’amour en aimant ;
comme Jésus, il annonce une vie nouvelle en offrant la sienne au
Père, pour les hommes. A la suite de son Maître, le grand apôtre des
Nations, nous confie aujourd’hui : « il faut que le monde sache
que j’aime mon Père » et son témoignage nous convainc car
quand l’amour a l’empreinte de la douleur, et en ce cas particulier,
du sang, personne ne peut plus en douter : cet amour est vrai.
Les lectures d’aujourd’hui nous aident ainsi à
accueillir cette parole de vérité pour avancer sur notre chemin de
chrétiens : nous pouvons donner et annoncer seulement ce que nous
vivons personnellement, nous pouvons témoigner la foi seulement si
nous vivons de la foi, et nous pouvons édifier la communauté
seulement si nous laissons que notre vie soit comme le grain de blé
qui, jeté en terre, meure et porte du fruit.
La porte de la foi s’ouvrira encore pour de
nombreux hommes de notre temps s’ils trouvent ouverte en nous la
porte de notre amour pour notre Père. Comme écrivait le pape Paul VI :
« Qui a été évangélisé, à son tour évangélise » (Evangelii
Nuntiandi 24), même si personne ne le voit,
même s’il reste dans la clôture d’un monastère, car séparé de tous
et caché avec Christ en Dieu, il demeure uni à tous.
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Domenica 28
aprile 2013 - V Domenica di
Pasqua - fr. Massimo-Maria FMJ
La fede la speranza e la carità.
Tre luminose gemme che
splendono nel cammino della vita cristiana e che brillano
particolarmente oggi nella Parola di Dio di questa quinta domenica
di Pasqua.
La prima di queste
gemme, contemplata da una prospettiva particolare, ci è presentata
nel testo degli Atti degli Apostoli.
Paolo e Barnaba
rivolgono un invito pressante ai cristiani di Listra Iconio e
Antiochia a:”... restare saldi nella fede”. Questo invito, così come
l'insieme del brano di Atti, sottolineano una componente tipica
della fede: la drammaticità.
La fede sappiamo bene è
una radicale e totale appartenenza a Gesù. Vivere il suo messaggio è
sconcertante, provoca i luoghi comuni e mina gli equilibri
artificiosi. Chi, ponendo nella sua vita un profondo atto di fede in
Gesù, chi accoglie davvero il dono della fede in Lui, percorre
inevitabilmente la sua stessa via, quella della passione e della
croce. Si capisce così l'esortazione di Paolo e Barnaba che “...
esortano a restare saldi nella fede "perché - dicevano
- dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni".
E' necessario, e buono
per noi, raccogliere questo invito a lasciarci illuminare dalla
gemma della fede, ma è altrettanto prezioso aver chiaro quanto la
Parola oggi per bocca di Paolo e Barnaba ci ricorda, e cioè che,
nel momento in cui si inizia a vivere di questo dono in profondità,
ci si imbatte in questa componente di drammaticità di cui abbiamo
parlato.
Deciderci davvero per Gesù
non è mai una decisione che lascia indenni.
Papa Francesco in una
delle sue omelie delle liturgie mattutine in Santa Marta dove vive
in Vaticano si chiedeva proprio qualche giorno fa: “ Quando nel
testimoniare la fede arrivano le difficoltà siamo coraggiosi o
tiepidi? E continuava il Papa - commentando un passo di Atti in cui
San Pietro con coraggio testimonia il suo appartenere a Gesù –
Pietro non ha taciuto la fede, non è sceso a compromessi, perché la
fede non si negozia. Sempre – ha continuato il Papa – c'è stata
nella storia del popolo di Dio la tentazione di tagliare un pezzo
della fede, la tentazione di essere un po' “ come fan tutti “ la
tentazione di “ non essere tanto, tanto rigidi”. “ Ma – ha concluso
il Papa, quando cominciamo a tagliare la fede, a negoziare la fede,
un po' a venderla al migliore offerente, incominciamo la strada
dell'apostasia, della non fedeltà al Signore.”
Queste parole che
evidenziano la drammaticità della fede vissuta e che ce ne ricordano
l'altissima esigenza, non devono tuttavia sgomentarci o
spaventarci, piuttosto devono aiutarci a prendere sempre più
coscienza del dono ricevuto custodendo nel cuore lo spazio per la
seconda gemma che troviamo nella seconda lettura: la speranza.
Nel testo di Apocalisse
l'occhio si posa su una città paragonata ad una sposa pronta per le
nozze. Il cuore di questa città, in cui sono espulse le cose amare
di prima e la pace regna sovrana, il cuore di questa città è Dio
stesso. Questa città incarna il progetto di Dio per l'uomo e per
l'umanità. La speranza nasce proprio dalla certezza che Dio è
all'opera per realizzare questa città. L'uomo di speranza così è
quello che alacremente, nonostante ostacoli e derisioni, collabora
con Dio in questa opera.
L'uomo di speranza
collabora e non indietreggia perché è sicuro che Dio per primo non
si sgomenta, né si stanca mai di rinnovare tutto incessantemente.
Nulla mai è compromesso definitivamente, nessuno mai in questa vita,
in questo mondo è rinchiuso in una situazione in cui Dio non possa
intervenire e “ fare una cosa nuova.” Ecco la forza della seconda
gemma, la potenza della speranza.
Quanto è opportuno e
necessario in noi ed attorno a noi credere che sempre, anche quando
tutto farebbe credere il contrario, Dio fa nuove tutte le cose.
Dice il testo
dell'Apocalisse:” Colui che sedeva sul trono disse: “ Ecco io faccio
nuove tutte le cose.”
Questa Parola deve
accompagnare il nostro cammino, sostenere le nostre vite
comunitarie, i nostri percorsi ecclesiali. Crediamolo per noi e
crediamolo per chi, nel nostro mondo, non ha più la forza di
crederlo. Di questa speranza - non facciamo fatica a convincercene -
il nostro mondo ha un infinito bisogno.
I credenti devono rendere
questo servizio all'umanità di oggi.
Dobbiamo crederlo per
noi – dicevamo – e per chi non riesce più a crederlo. Ma anche –
essendo fedeli alla Parola di Gesù – possiamo mostrare l'autenticità
di una tale speranza con la vita.
Ed ecco comparire la
terza gemma che lucente illumina il cammino e la Parola di oggi: la
carità.
Nel testo di Giovanni
appena uscito Giuda Gesù annuncia di restare ancora per poco con i
suoi amici. Ora, nel momento in cui lui sta per “ scomparire” fa un
dono, il comandamento nuovo: “ Amatevi come io vi ho amato.”
Gesù consegna la legge
nuova, scambiarsi reciprocamente l'amore con il quale lui ha amato i
suoi, in questo momento in cui annuncia la sua prossima visibile
assenza.
Perché? Che cosa
realizza l'osservanza di questa nuova legge? Realizza una cosa
determinante per la fede cristiana: rende visibile l'invisibile,
rende visibile Gesù. Lui si prepara a tornare al Padre, ma resta
visibile, incontrabile, è possibile farne l'esperienza, nell'amore
reciproco dei suoi discepoli.
In un mondo pieno di
divisioni, di chiusure, diciamo pure di odi, ostilità e rivalità,
l'amore reciproco dei discepoli di Gesù mostra che Dio è all'opera
per fare tutte le cose nuove, mostra Dio.
Il libro di vita delle
nostre fraternità – con espressione felice ed audace – parlando
dell'amore fraterno ed invitando ad aprirsi al suo mistero conclude:
“ In questo modo – con il vivere l'amore fraterno – dai corpo a
Dio.”
Quante volte fr. Pierre
Marie ha ricordato a noi fratelli e sorelle, con la parola e
l'esempio, che è qua il nostro irraggiamento evangelico nel cuore
delle città. Per tutti noi discepoli di Gesù che formiamo la chiesa
per trasmettere il Vangelo è certo importante la bellezza della
liturgia, è utile la competenza degli insegnamenti, è necessaria la
parola chiara e audace, ma una comunità cristiana unita, che si vuol
bene, che nella verità si sforza di scambiarsi l'amore con il quale
Dio ama per primo, grida il Vangelo senza fraintendimenti, dice la
novità di Dio senza possibilità di indulgere a ideologie di sorta.
L'amore che ha la sorgente in Dio non si può infatti simulare,
truccare, inventare, fingere.
La fede, la speranza e
la carità. La Parola questa domenica ci riconsegna questa tre gemme
con la loro lucentezza possono illuminare e far brillare tutta la
nostra vita. Chiediamo al Signore: “ Donami di credere profondamente
legando a Te tutta la mia vita senza nulla negoziare, senza nulla
anteporre al tuo amore; donami di sperare che la tua novità non
cesserà di raggiungermi, sorprendermi e stupirmi; donami di non
stancarmi mai di amare per dire al mondo la verità del tuo amore, la
bellezza del Vangelo, la gioia di camminare alla tua sequela. Amen
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venerdì 26 Aprile 2013
– Venerdì IV settimana di Pasqua -
fr.
Giovanni Battista FMJ
La lettura continua del vangelo di Giovanni ci conduce oggi a
meditare uno dei passi più profondi e rivelativi non solo
dell’identità di Gesù in se stesso, ma soprattutto di chi sia Gesù
per noi: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al
Padre se non per mezzo di me”.
La
Chiesa attraverso tale affermazione rivelativa di Gesù riconosce il
primato e la superiorità della rivelazione di Dio in Cristo al mondo
rispetto ad ogni altra forma di conoscenza di Dio e ad ogni altra
religione. Di fronte al mistero del Figlio di Dio fatto uomo non è
infatti l’uomo a dire qualcosa su Dio ma è Dio stesso, nella sua
onnipotente umiltà, a darsi alla conoscenza dell’uomo. Il fine di
tale uscita di Dio da sé altro non è se non la volontà amante di Dio
di lasciar traboccare tutto il Suo amore sull’unica creatura,
l’uomo, che Egli ha voluto per sé: “per noi uomini e per la nostra
salvezza discese dal cielo” recita il Credo.
Ciò
evidentemente elimina dall’orizzonte cristiano ogni sorta di
sincretismo, cioè ogni sorta di livellamento omologante delle varie
religioni, come se si trattassero di alternative equiparabili ed
interscambiabili. Le religioni non sono tutte uguali. Non è vero che
una religione vale l’altra. La parola di Gesù, in questo senso, è
categorica: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al
Padre se non per mezzo di me”. “La Chiesa dunque rispetta tutto ciò
che di vero e di buono si trova nelle altre religioni; è attenta e
promuove la libertà di religione come diritto dell’uomo. Tuttavia
essa sa che Gesù Cristo è l’unico redentore di tutti gli uomini.
Egli solo è «la via, la verità e la vita».” (YouCat 136)
Tale
consapevolezza, invece che chiuderci nella nostra fede personale,
offre alle nostre menti e ai nostri cuori un’intelligenza nuova
dell’esperienza umana affinché possiamo scoprire e valorizzare con
il dovuto rispetto tutto quanto di vero e santo esiste in essa come
riflesso, raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini
(Cfr. Nostra Aetate 2).
Ma
un’altra riflessione si propone a partire da questa affermazione
importante di Gesù: se il Figlio di Dio si è fatto via dell’uomo
alla verità e alla vita è perché egli sa che l’uomo è capace di
percorrere questa strada e giungere alla comunione con il Padre,
laddove il Figlio stesso dimora eternamente. Siamo capaci di Dio e
Dio in Cristo si è fatto alla nostra portata!
Sapere
e vivere questo può letteralmente rivoluzionare il nostro modo di
stare al mondo e offrirci quello sguardo luminoso, perché verità
significa anzitutto luce, che illumina la nostra di vita affinché
possiamo sempre riconoscere in essa, anche nelle situazioni più
critiche e più dure da accettare, la sua potenziale disponibilità ad
entrare nel mistero di Dio. Se Cristo è via ciò significa per noi
che non c’è nulla di quanto viviamo che possa rimanere estraneo alla
Sua azione salvifica, che è azione risanante e redentrice proprio
perché conduce l’uomo alla verità e alla vita. Non c’è nulla di
quanto costituisce la nostra esistenza, sia nei suoi momenti più
solenni ed importanti che nelle pieghe più feriali e trascurabili,
che non possa divenire luogo di incontro con il Signore Risorto, e
di conseguenza luogo di comunione con Lui: “perché dove sono io
siate anche voi”.
Aprirsi
a questo mistero di Gesù via verità e vita significa allora per noi
riconoscere anzitutto che la nostra vita di per sé non è una vita
incompatibile e impermeabile al mistero di Dio, che l’abisso che
separa cielo e terra è stato attraversato e colmato da Gesù. Ora la
nostra vita può essere una vita abitabile dal mistero di Dio, cioè
può divenire luogo, tenda di incontro con il sacro, o meglio con il
Santo che è Cristo, porta d’ingresso al Dio Trino tutto intero,
tabernacolo della presenza di Dio per la nostra gioia e per portarlo
nelle nostre città assetate di felicità e di pace.
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martedì 23 Aprile 2013
– IV settimana di Pasqua -
fr.
Giovanni Battista FMJ
Ancora
una volta vediamo, nel vangelo di oggi, Gesù alle prese con i Giudei
che indagano con sospetto sulla sua persona. Essi dicono di essere
nel dubbio e attribuiscono la responsabilità di questo stato di non
conoscenza, di incredulità, a Gesù stesso: “Fino a quando ci terrai
nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente.” Gesù
da loro una risposta interessante: “Voi non credete perché non fate
parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le
conoscono ed esse mi seguono.” Delle pecore non è detto che
ascoltano le parole di Gesù, forse perché questo non basta ancora
per essere delle pecore che credono e che seguono il loro pastore.
Pensiamo per esempio a quanta gente conosce i fatti principali della
vita di Gesù, del suo messaggio, della Bibbia e magari anche della
storia e delle vicende della Chiesa però stenta ad intraprendere un
cammino cristiano che le coinvolga in prima persona. Gesù finché
rimane un “contenuto” da conoscere resta uno sconosciuto.
“Le
mie pecore ascoltano la mia voce.” La prospettiva è qui ben
diversa: le pecore del gregge del buon pastore non sanno
semplicemente delle cose su di lui, ma ascoltano una voce, la Sua,
cioè riconoscono una chiamata. Non ascoltano delle parole ma la
Parola rivolta a loro. Seguono una persona, quella di Gesù, non
perché hanno conosciuto e valutato tutto di Lui e poi hanno preso la
loro decisione, ma piuttosto perché è Lui a conoscere tutto di loro
ed esse, fidandosi di questa conoscenza che Gesù ha di loro, lo
seguono. C’è un Dio vivente che entra in relazione con loro ed esse
imparano a riconoscere la sua voce, il suono della sua voce prima
ancora che le parole stesse. Le parole, anche quelle divine infatti,
come vediamo per esempio nel brano di Gesù tentato nel deserto,
potrebbero essere utilizzate del diavolo, il padre della menzogna,
per strapparci dalla mano del Padre. È per questo, per esempio, che
la Chiesa insegna a fare una lettura ecclesiale, ossia nel medesimo
Spirito in cui è stato scritto, del testo sacro. Ed è sempre per
questo che “Origene, uno dei maestri della lettura della Bibbia,
sostiene che l’intelligenza delle Scritture richieda, più ancora che
lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto,
infatti, che la via privilegiata per conoscere Dio sia l’amore, e
che non si dia un’autentica scientia Christi senza innamorarsi di
Lui”, in altre parole, senza entrare in una relazione profonda e
confidenziale di conoscenza reciproca.
Inoltre
chi conosce la voce del buon Pastore non si spaventa delle sorprese
di Dio, delle novità della sua opera tra gli uomini, e dunque non
teme di seguirlo verso orizzonti inesplorati. Grazie a questa
conoscenza della voce del Pastore i fratelli dispersi a causa della
persecuzione scoppiata a motivo di Stefano possono annunziare la
salvezza a categorie di genti sempre nuove. Il testo della prima
lettura sottolinea infatti che questa loro iniziativa era
accompagnata o addirittura veniva dopo l’intervento di Dio stesso
che loro hanno saputo vedere, riconoscere e seguire. Passaggi come:
“la mano del Signore era con loro”, come “Barnaba giunse e vide la
grazia di Dio”, e ancora nella lettura di ieri le parole stupite di
Pietro dopo aver visto discendere lo Spirito Santo sui pagani senza
che nessuno l’avesse invocato: “Se Dio ha dato a loro lo stesso dono
che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero
io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17), questi passaggi,
dunque, degli Atti degli Apostoli mostrano quanto non fossero loro i
protagonisti dell’opera di evangelizzazione. Seppur pastori del
gregge loro affidato erano anzitutto pecore in ascolto della voce di
quel Buon Pastore di cui loro dovevano essere anzitutto discepoli e
poi imitatori e rappresentanti. E se noi oggi siamo qui è grazie
anche a loro e a molti altri amici di Gesù che hanno riconosciuto e
ascoltato nell’obbedienza la Sua parola.
Non
temiamo dunque di porci in ascolto di questa voce soave che dice a
ciascuno cose uniche, personali, ad hoc e nel contempo capaci di
edificare la comunità e costruire la comunione. E facendo nostra
un’esortazione del beato Giovanni Paolo II, siamo più docili alla
voce dello Spirito, lasciamo risuonare nel profondo del cuore le
grandi attese della chiesa e dell’umanità, non temiamo di aprire il
nostro spirito alla chiamata di Cristo Signore, sentiamo su di noi
lo sguardo d’amore di Gesù e rispondiamo con entusiasmo alla
proposta di una sequela radicale. (Pastores dabo vobis 82)
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venerdì 19 Aprile 2013
– III settimana di Pasqua -
fr. Giovanni-Battista FMJ
L’obiezione che i Giudei muovono alle parole di Gesù: “Come può
costui darci la sua carne da mangiare?”, superata l’evidenza che il
cibarsi del corpo e sangue di Cristo non si tratti di un atto di
cannibalismo, come del resto fraintendevano i più antichi avversari
del Cristianesimo, non è un’obiezione priva di senso. Anzi essa ne
racchiude un'altra più profonda e radicale: come è possibile vivere
della vita di qualcun altro? È questo il quesito che oggi si pone
alla nostra meditazione del testo sacro: vivere della vita di
Qualcun altro.
Anzitutto dobbiamo riconoscere che la parola “vita” usata in questo
contesto dev’essere intesa nel senso più forte possibile. Il figlio
che nasce dalla madre riceve sì la vita dalla madre ma non vive
della vita della madre se non durante la gravidanza quando è in una
sorta di simbiosi con lei. Il cristiano che si nutre del corpo e
sangue di Cristo invece può affermare davvero di ricevere e vivere
della vita di Gesù. Per usare le parole stesse di Gesù nel Vangelo
di oggi: colui che mangia di me vivrà per me, cioè grazie a me e per
mezzo di me.
Ma come
è possibile questo? Per comprendere questa realtà della vita divina
in noi dobbiamo cercare di penetrare un pochino il mistero
eucaristico che anche ora stiamo celebrando. Sentendo infatti
parlare di mangiare la carne del Figlio dell’uomo e bere il Suo
sangue non possiamo non pensare all’Eucaristia consacrata
all’interno della Santa Messa.
Le
specie eucaristiche che diventano per noi pane vivo e sangue vivo ci
nutrono della vita stessa del Signore Gesù. Esse, lo sappiamo, non
sono più né pane né vino, se non negli accidenti percepibili ai
sensi umani, ma sono realmente il corpo, il sangue, l’anima e la
divinità del Figlio di Dio fatto uomo. Basterebbe sapere questo per
rendere ragione di come tale vita divina passi in noi attraverso la
comunione, il cibarsi dell’Eucaristia.
Ma
possiamo spingerci oltre. L’Eucaristia infatti, come insegna la
dottrina cattolica, non è solo presenza reale del Cristo tutto
intero, ma anche memoriale della Sua Pasqua, ossia del Suo
Sacrificio redentore sulla Croce ratificato mediante la Risurrezione
e riattualizzato in ogni celebrazione della Messa. Nel Suo
sacrificio Cristo da, offre la Sua vita al Padre per noi. Questo è
il mio corpo che dato per voi, questo è il mio sangue versato per
voi. Nutrirsi di Gesù significa dunque non solo nutrirsi della sua
Persona divina, miracolo già straordinario e quotidianamente
rinnovato, ma ricevere interamente il beneficio salvifico del Suo
sacrificio per noi, ricevere la sua vita offerta per noi.
“Nell’Eucaristia sacrificio e sacramento sono (infatti)
inseparabili; la presenza reale di Cristo nell’Ostia è (sì) la
conseguenza necessaria e immediata della transustanziazione. Ma lo
scopo di quest’ultima è prima di tutto quello di rendere presente
Cristo sull’altare in uno stato di sacrificio o di immolazione,
nella consacrazione separata delle due specie del pane e del vino”.
(Thomas Merton, Il pane vivo, Ed. Massimo, 1983, 51-52) Ecco
perché colui che mangia Gesù vivrà di Gesù!
Non è
un Gesù inerte quello che riceviamo nell’Eucaristia, ma è Gesù
nell’atto supremo del suo amore per il Padre e per gli uomini, è
Gesù che continuamente si dona a noi. Comunione eucaristica
significa allora comunione al sacrificio eucaristico, è il mistero
pasquale che entra nella nostra vita, o meglio è la nostra vita che
viene assorbita nel mistero pasquale perché, come pregheremo
nell’orazione sulle offerte, sia trasformata in offerta perenne in
unione alla vittima spirituale, Gesù servo del Padre, unico
sacrificio gradito.
Come è
possibile vivere allo stesso modo dopo essere stati nutriti di Gesù
stesso crocifisso e risorto? Come opporre resistenza a questa
divinizzazione in atto nelle nostre vite che ci rende sempre più
simili a Gesù. Se i discepoli di Emmaus lo riconobbero nello
spezzare il pane, ossia nel gesto a cui Cristo legò il memoriale
della sua Pasqua, possano ancora molti uomini riconoscerLo nel Suo
offrire se stesso attraverso le nostre povere vite inabitate dalla
Sua presenza incessantemente amante.
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giovedì 18 Aprile 2013
– III settimana di Pasqua -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Nel vangelo di oggi si incontrano, non senza un certo contrasto, due
modi diversi di avvicinarsi alla persona di Gesù. Il primo modo è
quello che emerge nei passaggi immediatamente precedenti a quelli
ascoltati: i Giudei mormorano perché pensano di conoscere Gesù: ne
conoscono il padre e la madre, è il figlio del falegname, come può
dire di se stesso di essere disceso dal cielo? Essi non riescono ad
armonizzare in modo ragionevole le conoscenze che hanno sull’uomo
Gesù e quello che lui dice di se stesso. Il loro orizzonte
conoscitivo si esaurisce in quello che loro sanno, che loro possono
testimoniare di Lui. Non ammettono qualcos’altro, non ammettono che
qualcosa possa loro sfuggire, non c’è spazio per alcun’altra
interpretazione del pezzettino di realtà che loro conoscono, neppure
la testimonianza di Gesù stesso e le opere miracolose che egli
compie.
Questo tipo di conoscenza di Gesù è quella che San Paolo definirà,
riferendosi al suo passato di persecutore di Gesù e della Chiesa,
conoscere Cristo “secondo la carne”, o, più precisamente, con la
nuova traduzione, “alla maniera umana”, ed è certamente una modalità
di conoscere il Signore che si ripresenterà anche più in là nella
storia e che anche oggi non è assente.
In questo contesto possiamo dunque collocare meglio il secondo modo
di avvicinarsi alla persona di Gesù, quello che Gesù stesso indica:
“nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che lo ha
mandato”. Anzitutto è interessante notare che emerge qui il ruolo
attrattivo del Padre per indicare che non basta lo sguardo umano per
volgersi a Gesù, non bastano lo sforzo, l’iniziativa, la buona
volontà, ma c’è un essere attratti che ha alla base il Padre, Dio
stesso. Possiamo dire che c’è una spinta teologica, cioè che viene
da Dio stesso, che muove il nostro volgersi a Cristo.
In secondo luogo notiamo che Gesù, di fronte alla gente che mormora
di Lui dubitando di quanto dice di se stesso, non ribatte parlando
di conoscenza più o meno vera o falsa, ma di fede. È questo infatti
il significato del “venire a me”, che è dunque sinonimo di “credere
in me”. Tali constatazioni hanno per noi delle conseguenza non
indifferenti.
Non c’è conoscenza autentica di chi sia Gesù senza la fede, senza
venire a lui. Conoscere Gesù è credere in Lui, entrare in relazione
con Lui, in fondo, capire chi sia Gesù per me. Finché si rimane a
parlare di Gesù in terza persona, di un lui sconosciuto e magari
lontano, perché è un personaggio del passato il cui studio è
delegato eventualmente alla ricerca storica, perché è un Dio e
dunque incomprensibile perché al di là di questo mondo, rimarremo
sempre al livello di una conoscenza alla maniera umana. Potremmo
essere anche i più grandi studiosi della Bibbia o i più eruditi
storici del Cristianesimo ma certo non per questo avremmo
automaticamente il diritto di considerarci degli autentici
conoscitori e amici di Gesù. La conoscenza autentica di Gesù è
quella che viene dalla fede viva, cioè dal lasciarsi attirare in una
relazione sempre più quotidiana, feriale, profonda col Figlio di Dio
fatto uomo. È quella che dice sì alla parola di Dio, trasformando
quanto letto, studiato o meditato in cammino di sequela, è quella
che guarda a Gesù come il Dio vivente, è quella che accetta di
nutrirsi di Lui, facendo della Sua vita la propria vita. Le
conoscenze varie, storiche, bibliche o teologiche certo
interessanti, e sicuramente utili, non vanno disprezzate ma, bisogna
dirlo, conservano un posto strumentale in ordine alla vera e propria
accoglienza della rivelazione del Figlio di Dio fatto uomo che
accade nell’incontro personale ed ecclesiale con Colui che da la
vita la mondo. Di questa salvezza annunciata e accolta è testimone
l’eunuco etiope della prima lettura di oggi che si lascia guidare
dallo Spirito attraverso la mediazione della Chiesa rappresentata da
Filippo, dalla lettura del testo sacro, alla comprensione del suo
vero significato rivelativo di Gesù Cristo, all’accoglienza di tale
rivelazione nella richiesta di essere battezzato.
Come ha pregato il Santo Padre Francesco in un suo recente discorso,
la Vergine Maria, modello di docilità e obbedienza alla Parola di
Dio, ci insegni ad accogliere pienamente la ricchezza inesauribile
della Sacra Scrittura non soltanto attraverso la ricerca
intellettuale, ma nella preghiera e in tutta la nostra vita di
credenti.
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Domenica 14 Aprile 2013
– III settimana di Pasqua –
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Sette
discepoli di Gesù, l’abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi, vanno a
pescare sul mare di Tiberiade. Sono a conoscenza che Gesù è vivo, è
il Risorto, l’hanno incontrato e Tommaso aveva perfino messo alla
prova le parole dei suoi confratelli finché Gesù in persona non si
sarebbe manifestato di nuovo, eppure, nonostante questi incontri
assolutamente unici, tutto sembra come prima: un normalissimo
ritorno alla vita ordinaria, all’attività di pescatori che aveva
caratterizzato diversi di loro prima di essere chiamati a camminare
alla sequela di Gesù.
Ma
questi tre anni di frequentazione del Signore sulle vie della
Galilea e della Giudea erano forse solo una parentesi nella vita di
queste persone? Cristo era Risorto, i discepoli lo sapevano e
l’avevano visto, ma forse non avevano ancora capito davvero che
questa risurrezione non era soltanto un evento di Cristo, qualcosa
che riguardava solo Lui, ma che anche loro erano chiamati a
risorgere, e non solo nella risurrezione finale dell’ultimo giorno.
E che loro non smettevano di essere i Suoi amici, i Suoi Dodici,
quelli chiamati a stare con Lui e ad essere mandati, la primizia
della Chiesa nascente.
Gli
apostoli sanno perciò che Gesù è vivo ma non sanno ancora, nel
concreto della loro vita, cosa significhi questa vitalità del
Signore nella storia degli uomini.
Essi
dunque vanno a pescare ma la loro attività di pescatori si rivela
fallimentare. Forse dopo tre anni in giro con Gesù avevano perso un
po’ la mano, non avevano più quella maestria di un tempo. In realtà
il problema è un altro: non era ancora venuta l’alba, non era ancora
sorto in loro il vero sole che illumina l’uomo in ogni ambito della
sua vita. L’iniziativa, il primo passo è ancora di Gesù: “Quando già
era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano
accorti che era Gesù.”
Gesù,
spettatore attento dell’attività e della malinconia dei Suoi amici
che non riescono a pescare nulla, rimane ai loro occhi uno
sconosciuto. Egli è così vicino a loro, eppure loro non se ne
accorgono. Quante situazioni simili a questa viviamo anche noi nella
nostra vita. Quante volte abbiamo il sospetto di essere soli con i
nostri problemi, la nostra quotidianità che talvolta sembra essere
così lontana dalle cose di Dio, dall’esperienza di Lui. Quante volte
ripensiamo con nostalgia al passato rimpiangendo momenti di vita
autentica, di intimità col Signore, di felicità. E quante volte,
invece, il Signore risorto ci guarda, ci osserva, è lì vicino, ci
rivolge una parola, insomma è il Dio con noi, ma noi non siamo con
Lui! Si tratta solo di un problema di nostra poca fede? È possibile,
però dal Vangelo di oggi capiamo che forse non è tanto un problema
di fede, non si tratta forse di cercare di avere una fede più
grande, ma di cercare di usare davvero questa fede, anche qualora
fosse grande solo come un granellino di senape, che, come gli
apostoli che vanno a pescare, anche noi abbiamo.
E usare
la fede significa fidarsi: sia abbandonarsi sia attivarsi. “Gettate
la rete dalla parte destra della barca e troverete”. È questa una
parola di Gesù umanamente facilmente confutabile e criticabile dopo
una notte di pesca andata a vuoto. Tra l’altro i discepoli non sanno
che quell’uomo sulla spiaggia è Gesù, obbediscono a uno sconosciuto,
a un passante, forse ad una persona che sembra loro un po’
importuna. Magari si chiedono: “Ma questo qui vuole venire a
insegnare a noi che siamo pescatori?” Nonostante tutto si fidano di
questa parola strana e solo dopo questa fiducia nel concreto i loro
occhi si aprono come ad una nuova rivelazione del loro Maestro,
presente e attivo nella loro vita come un tempo. “Allora quel
discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». La loro
fede si nutre di questo loro atto di fiducia nella Parola di Gesù,
la fede funziona davvero!
Il
Signore dunque è intraprendente, è Lui a fare, ancora una volta, il
primo passo, ma una cosa è certa: non può rispondere Lui al nostro
posto! Se Lui ha il primato della chiamata, a noi spetta il primato
della risposta. E se vogliamo essere dei cristiani che non solo
sanno che Dio c’è, ma che lo conoscono e riconoscono davvero nella
loro vita quotidiana, dobbiamo avere il coraggio anche noi, come
questi sette apostoli, di fare un passo nel buio, di osare usando
quella fede che abbiamo ma che talvolta ci fa un po’ paura. Usiamo
la nostra fede, ascoltiamo, dalle acque tumultuose di questa vita
instabile, la parola strana di quello Sconosciuto che dalla terra
ferma dell’eternità ci chiama, ci custodisce e ci guida. Allora
vedremo l’Invisibile, riconosceremo che anche nella nostra vita c’è
Gesù Risorto che ci invita alla comunione con sé. “«Venite a
mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?»,
perché sapevano bene che era il Signore.”
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giovedì 11 Aprile 2013
– II settimana di Pasqua (S.Stanislao)
– fr. Giovanni-Battista FMJ
Obbedienza a Dio, obbedienza agli uomini; venire dall’alto, venire
dalla terra. Nelle letture di oggi risalta con particolare evidenza
l’irriducibile opposizione tra le due appartenenze, le due scelte di
vita che sono poste di fronte all’uomo di ogni tempo: l’appartenenza
a Dio e l’appartenenza al mondo. Si tratta dell’opposizione di
sempre, quell’opposizione che come abbiamo celebrato pochi giorni fa
ha toccato il suo grado massimo nella lacerazione del Figlio di Dio
sulla Croce. Anche gli apostoli, come abbiamo ascoltato nella prima
lettura, si trovano a combattere contro il medesimo spirito che
condusse Gesù al patibolo, quasi come una necessaria conseguenza, un
destino inevitabile per coloro che scelgono di vivere come il loro
Maestro. Non si possono infatti servire due padroni: o si odierà
l’uno e si amerà l’altro, o si amerà l’uno e si odierà l’altro.
Questa separazione tra lo spirito di Dio e lo spirito del mondo deve
essere ben chiara nella coscienza del cristiano e dunque nelle
nostre menti. Il cristiano vive nel mondo come cittadino di un’altra
patria e di un altro regno, suddito di un altro re, sottomesso ad
un’altra legge.
Tale
opposizione tra spirito di Dio e spirito del mondo, porta, come dice
sant’Agostino, addirittura alla costruzione di due città diverse: la
città di Dio edificata dall’amore per Dio portato fino al disprezzo
di sé, e la città degli uomini, costruita sull’amore per sé portato
fino al disprezzo di Dio. E la risurrezione di Cristo che celebriamo
in questo tempo pasquale ci dice che la città di Dio non è una città
senza abitanti, ma è addirittura la dimora del Dio vivente e del
Cristo Risorto.
Per noi
che viviamo ancora nel tempo non è facile vivere l’ambiguità di
questo mondo, di una realtà che appare duplice, ne buona ne cattiva,
ma in parte buona e in parte cattiva. Non è facile perché questa
doppiezza, che pure ci portiamo dentro, richiede necessariamente un
continuo discernimento, un’instancabile vigilanza per scegliere la
strada giusta. E nel contempo, richiede il coraggio di andare
controcorrente, perché scegliere il bene e rigettare il male
significa andare controcorrente, talvolta fino al rinnegamento di se
stessi e all’effusione del sangue.
È
quanto sperimentò sulla sua pelle anche il vescovo e martire san
Stanislao che oggi la Chiesa ricorda. Nato nel 1030 in un paesino
alla periferia di Cracovia, visse proprio nel periodo della riforma
gregoriana ossia in quell’epoca storica in cui la Chiesa tentò di
rinnovare i suoi rapporti con il mondo rendendoli più liberi, più
autonomi, più evangelici, meno frammisti agli interessi mondani dei
potenti della terra. Stanislao, una volta divenuto vescovo a 42
anni, si attivò per attuare la riforma gregoriana in alcune regioni
della Polonia e la serietà del suo proposito si spinse fino a
rimproverare i costumi del re Boleslao che commetteva soprusi contro
i poveri, si era innamorato di una donna sposata e conduceva una
vita immorale con grave scandalo dei sudditi. Il re si vendicò con
le armi del mondo, la violenza, l’arma di chi sa che non può contare
sulla forza della verità: prima uccise e poi fece a pezzi Stanislao,
che, come abbiamo pregato nell’orazione colletta, concluse con il
martirio il suo servizio pastorale.
La
testimonianza di trionfo della carità nella verità che san Stanislao
ci offre in continuità con la parresia degli apostoli che non
temevano di ribattere che “bisogna obbedire a Dio invece che agli
uomini” sono perpetua rivelazione nella vita degli uomini di quanto
l’esistenza umana possa essere trasformata dalla forza della
risurrezione di Cristo e rappresentano per noi una decisa chiamata a
non cedere mai alla mediocrità, a non vivere nel NI ma a scegliere
la via di Dio ogni giorno e in ogni ambito della nostra vita. La via
di Dio è in fondo la via autentica dell’uomo, la strada sicura per
l’edificazione di una comunità e di una città che siano profezia ed
anticipazione della Gerusalemme celeste, a cui tutti aspiriamo.
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mercoledì
10 Aprile 2013
– II settimana di Pasqua - fr.
Giovanni-Battista FMJ
La liturgia della Parola di questo giorno del tempo di Pasqua è una
testimonianza quanto mai convincente di come la forza della
risurrezione di Cristo sia viva e attiva nella storia degli uomini e
in particolare nella storia di coloro che la accolgono
consapevolmente, ossia nella storia dei cristiani e della Chiesa.
Dalle guardie che vegliavano la tomba di Gesù per paura che i suoi
discepoli trafugassero il cadavere inventandone poi la risurrezione,
si passa oggi, nella prima lettura, alla prigione in cui gli
apostoli sono rinchiusi, scrupolosamente sbarrata e sorvegliata
dalle guardie. Dalla proclamazione, pochi giorni fa, di un sepolcro
vuoto, alla constatazione attonita di una prigione vuota: “quando
abbiamo aperto – dicono gli inservienti del carcere – non vi abbiamo
trovato nessuno.”
La luce della risurrezione di Cristo non può essere vinta dalle
tenebre dell’incredulità. La luce cerca la luce: “Andate e
proclamate al popolo, nel tempio, tutte queste parole di vita”. Gli
apostoli, gli amici di Gesù che avevano vissuto con Lui, rivivono
nelle loro fatiche per l’annunzio del Vangelo lo stesso passaggio
dalla forza costrittiva ed avversa di chi vuole ostacolare
l’avanzata del piano di Dio, alla salvezza operata da Dio che
l’antico popolo in fuga dal faraone aveva sperimentato nella sua
Pasqua, e che Gesù, primizia del Nuovo Israele, aveva elevato ad una
dimensione di salvezza eterna. Il buio dei sadducei, che negando che
ci fosse risurrezione dei morti erano sostenitori di una morte
irrevocabile e si ponevano dunque a priori come nemici dell’annunzio
del Cristo Risorto, non riesce ad arrestare il coraggio degli
apostoli che, pur consapevoli di essere fuori legge, vanno nel punto
più pericoloso per loro, ossia nel tempio, e qui insegnano al
popolo. I pescatori che poco tempo prima erano rinchiusi per paura
dei Giudei, ora non temono più nulla.
Cosa c’è alla base di questo coraggio? Forse un eroicità puramente
umana, esibizionista? Forse il tentativo politico di una nuova
comunità nascente, come era la Chiesa in quei giorni, di rendersi
superiore alle antiche istituzioni religiose giudee? In molti hanno
tentato di contenere in comode teorie non verificabili l’evento
della risurrezione di Cristo e tutto quanto eccedeva all’umanamente
comprensibile nel testo del Vangeli. E anche oggi non manca chi si
sforza di rendere ragione del trascendente nella storia degli uomini
riconducendolo allo psichico, all’interiore, insomma al puramente
soggettivo e dunque qualcosa che in fondo sei tu che ci credi ma in
realtà non è così. Eppure, nonostante tutto, la corsa del Vangelo
non cessa.
Gli apostoli avevano fatto esperienza nella loro vita di quanto
erano amati dal Signore e corroborati dalla forza dello Spirito
Santo, non vogliono più vivere se non per questo amore che li ha
conquistati, catturati, consacrati. È questa la forza della
risurrezione del Signore che quando penetra nella mente e nel cuore
di chi crede da il coraggio di uscire da se stessi per gettarsi in
una vita nuova, la vita del Cristo Risorto in noi. L’amore non teme
di andare, non teme di uscire, non teme di camminare in una valle
oscura, come dice il Salmo. È l’annunzio del Vangelo di Giovanni:
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché
chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.”
Questo tempo di Pasqua è allora per noi chiamata, prima ancora che
ad andare ad annunziare l’amore del Signore, a scoprirlo o
riscoprirlo nella nostra vita per poter portare in noi stessi, come
ha detto il Papa, “un raggio del suo amore a quanti incontriamo.”
(Udienza generale del 27 marzo 2013)
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martedì 9 aprile 2013 -
II settimana di Pasqua - Gv. 3, 7-15 -
fr. Nicolas-Marie FMJ
Siamo a Gerusalemme nella festa di Pasqua (cfr. 2,23), Gesù ha
purificato il tempio, molti credono in Lui.
Tutto è pronto per la festa, nella quale Gesù rinnova l’alleanza e
ci dona il cuore nuovo e lo spirito nuovo.
Siamo di notte, nell’ora del desiderio, dell’anelito profondo.
Nicodemo viene da Gesù, un maestro d’Israele cerca la luce, e con
lui il popolo, tutto il creato, geme, sospira, desidera il sole, la
vita nuova!
“non meravigliarti se ti ho detto: bisogna che voi siate generati
dall’alto”
Spesso pensiamo che dobbiamo noi darci da fare per scalare e
conquistare non soltanto il cielo, ma la felicità in questa vita, e
un posto in questo nostro mondo, e magari anche nella Chiesa, nella
famiglia, nella comunità, nell’ambiente dove viviamo.
Vogliamo essere padrone e maestro della propria vita.
Siamo figli di Adamo che ha messo mano sul frutto bello, ha voluto
impadronirsi del dono dimenticando il Donatore!
Essere generato dall’alto è riconoscere questo dono immenso, così
grande che non può essere imprigionato tra le nostre mani, quello di
essere figli di Dio, figli prediletti, beneamati.
Siamo chiamati a camminare sulla via della vita, non, per così dire,
rannicchiati su di noi e sul piccolo orizzonte di questa terra, ma
ad alzare gli occhi, tutto il nostro essere, verso l’alto, verso il
Signore, fonte della vita.
“Sursum corda!”
“In alto i nostri cuori!” canta la liturgia.
“Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è
Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose
di lassù,
non a quelle della terra.”(Col. 3,1-2)
Questa accoglienza della vita nuova, della vita dall’alto, è fondata
su un atteggiamento di abbandono: abbandono dell’uomo vecchio
e
delle sue abitudini di morte fino all’abbandono di se stesso nelle
mani del Padre.
Si tratta di lasciare le proprie sicurezze che non sono che paura,
per entrare in questa umana insicurezza che diviene divina fiducia,
e
che è la maggiore sicurezza: quella di essere nel Padre, tra le sue
mani, Lui, il nostro Creatore.
Lo sappiamo, e questa è la nostra forza, unica!
“Niente e nessuno ci potrà mai separare dall’amore del Padre, che è
Cristo Gesù, nostro Signore” (cfr. Rm 8,38)
E’ lo Spirito di Dio che ci stabilisce in quella dinamica di vita
fondata su quest’abbandono fiducioso e amorevole.
Non si tratta di essere come fanciulli in balie delle onde,
trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ma sotto la
guida dello Spirito, quel vento di vita, soffio divino, che ci dona
di crescere in ogni cosa tendendo a Cristo, (cfr. Ef. 4,14-15)
avendo lo sguardo fisso su Gesù, origine e capo, compimento della
nostra fede. (cfr. Eb. 12,2)
Non è che ignoriamo lo scopo della nostra vita, o che siamo in balia
dell’esitazione!
Ci affidiamo, ci abbandoniamo per sempre alla misericordia del
Signore (Sal 51,10)
Vogliamo che sia Lui e Lui solo a guidare i nostri passi; sulla scia
di Pietro che scopre, nella luce della Risurrezione, che la vera
maturità, è nel tendere, nell’aprire le mani come Gesù, e nel
lasciarsi guidare da Lui, portare da Lui! (cfr. 21,18)
Tutta la nostra vita è fondata su una sola parola: “Tu seguimi”
Per te, apro la porta del cielo! Lasciati portare da me! Vivi con me
l’esodo, la Pasqua, da questo mondo, dalla terra, al Padre.
Ti sollevo come su ali di aquila, nel soffio dello Spirito, e ti
faccio venire fino a me! (cfr. Es 19.3) Vieni ed entra nella mia
alleanza!
Conoscerai il tuo Dio!(cfr. Os 2, 21-22) (Ti farò mia sposa per
sempre, nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella
benevolenza,
nella fedeltà!)
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lunedì 8
aprile 2013 - solennità
dell'Annunciazione - Prima S.Messa fr. Giovanni Battista -
Omelia fr. Massimo-Maria FMJ
La
Solennità dell'Annunciazione del Signore che stiamo celebrando in
questo giorno è stata definita anche la festa del “Sì”.
Accostandoci a questa
liturgia ed alla Parola che in essa è stata proclamata non è
difficile scoprire come due “ si “ misteriosamente e
provvidenzialmente si incrociano: l'” Eccomi “ della Madre e “
l'eccomi “ del Figlio.
I due “ eccomi “ si incrociano perché il mistero di Maria è da
sempre profondamente inserito , nel “ Si “ del Figlio Gesù, ma il “
sì “ del Figlio misteriosamente nasce passando attraverso l'” eccomi
“ del cuore amante e docile della Madre.
“
Ecco la serva del Signore: avvenga per
me secondo la tua parola.” Come, abbiamo ascoltato, così risponde
Maria Santissima alla chiamata dell'angelo.
Un “ Sì “ capace di far trasalire di gioia profonda il cuore di ogni
credente tutte le volte che esso risuona.
Un
“ Sì “ che evoca tutto il mistero di Maria: mistero di umiltà e di
silenzio, di libertà e di tenerezza materna, mistero di donazione e
appartenenza radicale al mistero di Dio.
E' vero che il momento più intenso dell'Eccomi di Maria fu
l'annunciazione, ma poi certamente ogni istante della sua vita si è
sincronizzato con quel “ Sì “ generoso e totale,un “ sì “ infatti
che ha significato da subito “ per tutto “ e “ per sempre “.
Che cosa ha realizzato questo “ Eccomi “? O meglio : “Che cosa ha
permesso nella storia questo “sì” generoso e a tutto campo di Maria?
“
Certo il mistero dell'Incarnazione,! Ma possiamo dire, ha ancor
prima, ha aperto il varco all'irruzione dello Spirito nella sua
vita, nell'esistenza di Maria, una irruzione così potente che
appunto “ ….Il Verbo si è fatto carne. Dio si è fatto uomo. Il
Figlio di Dio è divenuto figlio dell'uomo.”
L'angelo glielo aveva annunciato:” Lo Spirito Santo scenderà su di
te...ti coprirà con la sua ombra...Colui che nascerà sarà il Figlio
di Dio.”
Il “ si “ di Maria, come sempre ogni “ si “a Dio è concreta
disponibilità a che l'azione dello Spirito sia libera, sovranamente
libera nel cuore di chi lo pronuncia; è disponibilità a che lo
Spirito possa compiere agilmente e liberamente l'opera di Dio.
Al “ Sì”
umile e dolcissimo di Maria, fa eco un altro “Sì”, altrettanto
libero e pieno: “ Un corpo mi hai preparato. Allora ho detto “ Ecco
io vengo per fare o Dio la tua volontà.”
Il “ Sì” di Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria. Anche questo “sì
“ è piena consegna allo Spirito , piena disponibilità a che Lui
compia l'opera di Dio: “ E Il Verbo si fa carne. “
Il si del Figlio passa misteriosamente attraverso l'eccomi della
Madre, ma il Si della Madre è da sempre tutto nel Sì del Figlio.
E tutto questo è vero per ogni altro “eccomi” pronunciato dai
discepoli di Gesù nella storia dell'umanità: quello della nostra
fede battesimale, quello della fedeltà coniugale di tanti di voi,
quello della vita consacrata di molti qua presenti e quello dei
sacerdoti come lo è da ieri sera fr. Giovanni Battista.
Il tuo “ si “ è tutto nel Si di Gesù, e come Lui anche tu attraverso
il tuo “ Si “ piccolo e povero ,ma totale e generoso hai permesso
allo Spirito attraverso il ministero del Vescovo di fare irruzione
nella tua vita e consacrarti per sempre sacerdote dell'Altissimo,
ministro di Gesù il Risorto e presbitero della Santa chiesa di Dio.
Il primo sentimento per questo, in te e in noi è certamente quello
del rendimento di grazie al Signore, perché ti ha chiamato, ti ha
amato e così lo Spirito ti ha unto.
Non certo per meriti particolari, ma per un mistero di puro e
gratuito amore.
Ma fratelli e sorelle cosa significa che per l'unzione dello Spirito
da ieri e per sempre fratel Giovanni Battista è divenuto– come
dicevo -sacerdote di Dio Altissimo, ministro di Gesù Cristo e
presbitero della Santa Chiesa ?
La sua vita è legata al mistero santo di Dio per il sacramento del
Battesimo, per la sua cresima, per la professione monastica, per il
diaconato ed ora, con una completezza crescente, per l'ordine sacro
del presbiterato.
Legato a Dio! Ecco il mistero del sacerdote. Giovanni Paolo II
parlando ai sacerdoti una volta riassunse tutto ciò con una
felicissima espressione : “ In un mondo immerso nel relativo siate
voci che parlano di Assoluto.” Il prete quindi un uomo legato a Dio!
E' la prima verità della sua vita.
Per questo, come già fa da monaco, ma ora ancor più, fr Giovanni
Battista ogni giorno dovrà offrire a Dio anzitutto il suo cuore e in
quest'offerta dovrà fare quanto ieri sera abbiamo fatto insieme
cantare che: “ Il suo amore è per sempre”. S. Agostino direbbe, con
la bocca, con il cuore e con la vita.
“ Il suo amore è per sempre. “
Cantare nel proprio cuore questa verità fondamentale della nostra
fede cristiana, cantarla offrendo per questo a Dio il proprio cuore,
cantarla con la bocca nel ministero della Parola, cantarla con il
ministero dei sacramenti, cantarla con lasciarsi configurare sempre
più all'offerta del Unico e sommo sacerdote Gesù il Signore è
riassunta qua l'identità del sacerdote di Dio, l'Altissimo.
Da
sempre carissimi fratelli e sorelle Dio ci ama, non c'è nulla di più
vero e niente di più reale, se così non fosse noi non esisteremmo,
ed il sacerdote è chiamato a cantare nel suo cuore questo eterno
amore di Dio, e ad aiutare i discepoli di Gesù, laddove la
Provvidenza lo pone, a fare lo stesso.
“
Il suo amore è per sempre “.
Farà forse fatica a cantare e a far cantare l'amore di Dio, a far
sentire che Dio ci ama da sempre, e che questo amore non può essere
scalfito da nulla, neppure dal nostro peccato. Ma caro Giovanni
Battista lo Spirito che ieri sera ti ha consacrato sarà la tua
consolazione per cantare questo amore, la tua forza per attrarre i
tuoi fratelli e sorelle nello stesso canto.
Legato a Dio!
Madeleine Delbrel, così cara alle nostre fraternità ha scritto con
eloquenza unica:” Che cosa desideriamo per un sacerdote? Desideriamo
per lui che si realizzi nella sua vita ciò che noi stessi vorremmo
trovare in lui. Desideriamo che prima di essere questo o quello egli
sia di Dio; che sia il vivente richiamo di ciò che nel più profondo
di ogni battezzato è di Dio; che sia “l'uomo di Dio”e tutto il resto
sia in lui come conseguenza della sua appartenenza a Dio a tal punto
che i non credenti inciampino in lui come una realtà evidente ed al
tempo stesso assurda, come nella prova di un Dio impossibile.”
Sacerdote di Dio Altissimo, ti ha consacrato lo Spirito, e ti ha
costituito ministro di Gesù Cristo.
San Tomaso d'Aquino con una immagine forte e diremmo consolante ha
scritto che, quando Gesù, dopo i giorni della sua Resurrezione,
sapeva che partiva, con destinazione il cielo, in attesa della sua
ultima venuta, non volendo lasciare gli uomini senza qualcuno che
ri-dicesse e che ri-facesse, quello che Lui aveva detto e fatto,
scelse per sé alcuni come ministri. Dunque per se!
Giovanni Battista è ministro di Gesù Cristo, questa verità seconda
solo nell'ordine, ma come la precedente – sacerdote di Dio –
primaria e fondamentale, fa di lui, come si dice con una espressione
audace ma eloquente se ben compresa, un altro Gesù Cristo.
E' per questo che celebrerà come ha cominciato ieri sera e come
presidente sta facendo ora, l'Eucarestia segno grande e bello
dell'amore infinito di Dio per ogni uomo. Per questo assolverà, non
certo nella sua forza e nel suo amore, ma nella forza dello Spirito
e nella forza di Gesù, il peccato degli uomini, esercitando quel
ministero della consolazione e della misericordia, di cui oggi il
mondo ha un bisogno urgente ed infinito.
Ministro della misericordia di Gesù Cristo, ministro del perdono di
Gesù Cristo, ministro della concordia e della pace del Vangelo di
Gesù Cristo, ministero dell'unione delle menti e dei cuori.
Ministro di Gesù Cristo. Possa viverlo con generosità e gioia
crescente nella tua vita.
E infine, presbitero della Chiesa.
Presbitero vuol dire colui che è diventato almeno un po' maturo
nella fede, certo nella speranza, generoso nella carità. Certo chi
di no può dire di esserlo? Tutti infatti in questo siamo sempre
novizi, tuttavia l'unzione dell'olio che nel ministero del Vescovo
abbiamo ieri sera ammirato ti ha reso nella chiesa di Dio:
presbitero.
Presbitero nella chiesa e della chiesa.
Guai a dimenticare questo. Nella chiesa e della chiesa. Tu non
amministri una cosa tua, tu non annunci una cosa tua, tu non celebri
mai una cosa tua, tu non decidi una cosa tua, tu non amministri una
cosa tua. Sei di Cristo e della Chiesa, non sei per te ma per gli
altri. La coscienza di essere della chiesa e per la chiesa è
garanzia sicura per custodire davanti alle cose sante che la chiesa
ti ha affidato, sempre e solo servo mai padrone.
Presbitero della chiesa. Per questo se per ogni credente, per ogni
consacrato è essenziale l'amore affettivo ed effetttivo alla chiesa
che si declina nell'accoglienza e nell'obbedienza al suo
insegnamento, al suo magistero ed alla sua disciplina, per un
presbitero della chiesa questa comunione con la chiesa non è mai
negoziabile.
Il tuo ministero lo vivrai inserito nella chiamata monastica che il
Signore ti ha rivolto con lo stesso gratuito amore. Un passaggio di
una omelia dell'allora cardinale Joseph Ratzinger per una
ordinazione di un monaco è davvero preziosa: ” Essere sacerdote
significa, a partire dalla comunione amichevole con Cristo, divenire
anche amico di tutti i fratelli e le sorelle. La manifestazione più
intima di tale amicizia verso gli uomini è portare nella preghiera
tutti loro, tutte le loro preoccupazioni, i loro dolori, le loro
sofferenze, le speranze e le gioie al cospetto del Dio vivente. Il
sacerdote deve, per così dire, raccogliere ciò che di irrisolto si
nasconde nelle attività quotidiane e ciò che negli eventi di questo
mondo angustia e minaccia gli uomini, e deve portarlo in alto,
affinché diventi una supplica al Dio vivente, colpisca il suo
occhio, il suo orecchio, il suo cuore.....Questa è quindi la prima e
più intima funzione del ministero sacerdotale: comprendere ed
accogliere le cose umane e trasformarle in preghiera, in modo che
ciò diventi un grido davanti al volto di Dio, un grido che, toccando
il suo cuore, sempre e di nuovo lo induca a discendere, a venire in
mezzo a noi per redimerci.”
Il nostro augurio allora per il tuo ministero è, com'è facile dire
felice, pieno del dono della grazia questo sì, pieno del desiderio
di servire questo sì, pieno della volontà di vivere ogni giorno non
per te, ma per Dio, per la chiesa per i fratelli questo sì. Il
Signore ti accompagni e la Vergine Maria ti custodisca.
Così sia.
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Domenica 7 aprile 2013
- II Domenica dopo Pasqua ( Gv 20, 19-31) -
fr. Nicolas-Marie FMJ
In mezzo a questa moltitudine di uomini e di donne che credono nel
Signore, in mezzo agli ammalati nelle piazze, ci siamo anche noi!
Pietro ci copre con la sua ombra.
Guidati dagli apostoli andiamo incontro a Gesù.
Guidati da Pietro, da Giovanni e da Tommaso, nostro fratello e
compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù (Ap
1,9).
Quest'ultimo viene chiamato Dìdimo, cioè gemello, Tommaso è gemello
di molti fratelli.
E' gemello di Giuda, perché come lui rischia di perdersi nella notte
dell'incredulità, della ribellione, del tradimento e della morte,
tagliandosi fuori dalla comunità,
al cui centro, come cuore pulsante, fonte zampillante di vita, sta
il Signore, il Crocifisso risorto.
Tommaso è gemello nostro, come noi, non ha ancora visto il Signore,
cammina zoppicante sulla via della fede.
Con noi viene chiamato a diventare gemello di Gesù, vivendo con lui.
Infatti se Pietro è disposto a "dare la vita" per Gesù (13, 37),
Tommaso vuole morire con Gesù (cf. 11,16).
Ama Gesù e vuole seguire l'Agnello ovunque vada ( Ap 14, 4), fino
alla morte.
Ma egli ignora ancora che la morte non ha l'ultima parola.
La morte di Gesù, e la nostra con Lui e in Lui, non finisce nel
nulla, ma è una Pasqua, un "passare da questo mondo al Padre" (13,
1).
Un passare che si vive nel consegnarsi assoluto, totale, di sé
stesso nelle mani del Padre della vita, dalle quali nulla, niente ci
può strappare (cf. 10, 28-29).
La morte di Gesù, quell'abbassamento quasi al di sotto della
condizione umana, come schiavo, "verme e non uomo, rifiuto..." (Sal
21, 7) per poter portare ogni uomo, e riportarlo alla casa del Padre
di ogni misericordia e tenerezza, che "ci ha scelti in Gesù prima
della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a
lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d'amore e della sua
volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha
gratificati nel Figlio amato" (Ef 1, 4-6).
Fratelli e sorelle, ecco il
progetto di Dio su di noi, il suo desiderio che supera ogni umana
attesa.
Con Tommaso scopriamo con stupore che il nostro orizzonte è troppo
stretto, imprigionati come siamo nel nostro ragionare.
Davvero il nostro Dio è grande, e ci guida su una terra ampia e
spaziosa, infinita, come le sue braccia allargate e spalancate.
Con Tommaso passiamo da un amore senza speranza, disperato, alla
pienezza di vita nella casa del Padre, dove c'è una dimora infinita,
un posto, non per tutti,
ma per ciascuno!
Agli Apostoli imprigionati, ammucchiati dalla paura della morte, a
Tommaso che fatica così tanto a credere, Gesù viene e dice: "Pace a
voi!" Pace a te!
Il Signore viene a visitarci, noi che siamo seduti nelle tenebre e
nell'ombra di morte.
Egli non si vergogna dei suoi fratelli (cf. Eb 2, 11) anche se noi
l'abbiamo abbandonato, rinnegato e tradito.
"Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare
a voi il Regno" (Lc 12, 32).
Gesù viene e la luce scende nei loro cuori, illumina i loro volti e
irradia il loro essere.
"Guardate a lui e sarete raggianti" (Sal 33, 6).
Gesù ci chiama ad alzare lo sguardo verso di Lui che noi abbiamo
trafitto (19, 37; cf. Zac 12, 10).
Gesù ci mostra le mani forate e il fianco trafitto, si manifesta a
noi come Colui che espone e depone la sua vita per noi!
Sono le sue ferite la sorgente della pace vera, profonda, duratura.
Sono le sue piaghe che ci guariscono (Is 53,5) dandoci di vivere, di
dimorare all'ombra dell'Altissimo.
Avviciniamoci a Lui!
"Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!
O mia colomba che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli
dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché
la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole" (Cant 2, 13b-14),
Con Tommaso, che finalmente si lascia prendere per mano dal Signore
e guidare da Lui, entriamo nella sua dimora e affascinati, incantati
rispondiamo: "Mio Signore e mio Dio!" Mio Dio e mio tutto!
Amico mio che hai dato , deposto la tua vita per me! (cf. Gv 15,13).
Mi ero rinchiuso nella pietra del mio cuore indurito (cf. Ez 11,
18), Ma da questo mio sepolcro tu fai togliere la pietra e mi chiami
alla luce: "Vieni fuori!" (Gv 11, 38.43).
Tu mi apri le porte della vita. Queste porte sono il tuo fianco
squarciato dal quale sgorga la sorgente zampillante di vita eterna
(4, 14).
Dalla tua carne, dal tuo fianco, dal tuo cuore trafitto mi viene
donato di nascere.
"Vieni ed entra nella gioia del tuo Maestro!"
Tu mi chiami a varcare queste porte delle tue ferite, ad essere
immerso nel torrente della tua misericordia.
Davvero sei quel profeta che Zaccaria vede venire. Un profeta che
non soltanto annuncia la sorgente zampillante che lava il peccato e
ogni impurità.
ma che è in sé stesso quella sorgente. A lui si chiede: "Perché
quelle piaghe in mezzo alle tue mani?" ed Egli risponde:"queste le
ho ricevute in casa dei miei amici" (Zac 13, 1...6)
Avvicinati e guarda, ha scritto il tuo nome sulle palme delle sue
mani.
Non verrà mai meno la sua alleanza di pace con te (cf. Libro di
Vita, n. 1).
Gesù è l'Agnello pasquale, immolato e vittorioso.
Egli è il Pastore innamorato che si è perso per te, il Pastore bello
in quanto è ferito d'amore per te.
Entrando, per così dire, nella ferita del suo cuore e facendovi la
nostra dimora ci viene donato di partecipare della sua vita divina.
E' ciò che sperimentiamo nei sacramenti gemelli, se si può dire
così, dell'Eucaristia e della Misericordia divina, affidati in modo
particolare ai sacerdoti, che agiscono nel nome del Signore, capo
del suo Corpo che è la Chiesa, "in persona Christi capitis".
Accogliamo la parola di Gesù come ultima preparazione
all'ordinazione che vivremo stasera.
Rendiamo grazie a Dio per il dono che Egli fa alla sua Chiesa e al
mondo intero.
Ci dona dei ministri, cioè dei servi, dei missionari della sua
misericordia e della sua tenerezza, servitori della sua Presenza
viva nel cuore del mondo.
Loro ci battezzano in questa fonte inesauribile di vita. Fanno di
noi uomini e donne nuovi che vivono con Gesù, che vivono di Lui.
La loro vita celebra quell'inno di silenzio, di gioia traboccante,
che canta col cuore semplice e trasparente dei piccoli e dei poveri;
tutta la loro vita proclama:
"per me vivere è Gesù" . Egli mi ama e dona se stesso per me!
Lode e gloria a Lui Tutti i giorni della mia vita!"
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giovedì 4 Aprile 2013
– Giovedì Ottava di Pasqua -
fr. Giovanni-Battista FMJ
“Pace
a voi”! È questo l’annunzio pasquale del Cristo risorto che porta a
compimento l’esultanza del Natale, quando gli angeli cantavano:
“Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e sulla terra agli uomini che
egli ama.” (Lc 2,14) “Pace a voi!”
La pace, lo constatiamo in questi giorni unici dell’anno liturgico,
è dono del Cristo risorto, è qualcosa che trascende le iniziative
umane, che non si limita al quieto vivere o all’assenza di guerra,
ma è qualcosa che ha dei contenuti ben più profondi, che anche nel
Vangelo di oggi sono messi in luce e che, rileggendoli, ci rendiamo
conto essere realtà assolutamente divine, assolutamente aldilà delle
possibilità dell’uomo, non quanto alla loro accoglienza ma quanto
alla loro instaurazione.
Il primo contenuto è questo: la morte è vinta! Per la prima volta
nella storia qualcuno ha superato la morte. Non soltanto è tornato
in vita, alla vita mortale, ma ha superato la morte vincendola, cioè
divenendone immune per sempre. E non soltanto la vinta dentro di sé,
psicologicamente, nel proprio cuore, nelle proprie intenzioni, nel
proprio modo di guardare il mondo, e nemmeno semplicemente nella
propria anima rendendola immortale. La vinta in tutta la sua
umanità: “Gesù in persona stette in mezzo a loro … guardate le mie
mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un
fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho.”
Cristo risorto continua ad evangelizzare i suoi discepoli, ad
annunziare loro la buona novella facendo di tutto perché si rendano
conto che Lui è davvero Lui, è sempre quello di prima, ornato di
ferite indelebili che se prima erano segno di infamia, ora sono
segno dell’amore, perché l’amore vero non teme di pagare anche il
prezzo dell’infamia, del disonore, della brutta figura.
Gesù perfino mangia di fronte a loro un pesce arrostito. Gli
apostoli sconvolti e delusi per la morte del loro maestro che
pensavano fosse il Cristo di Dio, sono aiutati a rendersi conto che
non si erano sbagliati, quello che pensavano è davvero così, ma non
secondo il loro punto di vista.
Amare, servire e regnare ha significato per il Cristo morire, e per
di più ingiustamente, prendendosi le colpe degli altri. Il santo si
è fatto passare per colpevole per salvare il colpevole. È questo lo
strano modo di Dio di “vendicarsi” del male dell’uomo! Il pensiero
di Dio, ancora una volta, trionfa sul pensiero dell’uomo.
Ma nel vangelo di oggi c’è un secondo contenuto della pace di
Cristo, anche questo, impossibile all’artificio umano, ed è questo:
Dio è fedele alle sue promesse. Non è un grande truffatore
dell’umanità che la abbindola facendole credere chissà che cosa,
facendola vivere di sogni utopici e di promesse ipocrite, ma è un
Dio fedele e concreto! “Bisogna che si compiano tutte le cose
scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi.” Dio
è fedele cioè Dio fa davvero quanto promette! È fedele nella vita di
Gesù, è fedele nella nostra se ci fidiamo. Fedeltà di Dio + fedeltà
dell’uomo = una speranza inattaccabile! Credere questo è il primo
passo indispensabile per vivere da Risorti, per entrare nella
risurrezione di Cristo a tal punto da plasmarci in essa, con la
grazia di Dio, una nuova mentalità che vince il mondo. Vince il
mondo perché, come sappiamo, il mondo, nella sua accezione negativa,
è il luogo della morte e dell’incredulità. Ma la pace del Cristo ci
annunzia che la morte è vinta e che chi si fida del Dio fedele ha la
vita eterna.
Questa è la pace che Cristo oggi inaugura sulla terra, come s’è
capito ben superiore alla pace delle bandiere arcobaleno.
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martedì 2 Aprile 2013
– Ottava di Pasqua -
fr. Giovanni-Battista FMJ
La festa di Pasqua che celebriamo in quest’unico giorno dell’Ottava
è una festa che per essere realmente tale deve coinvolgerci
profondamente. Con la risurrezione di Cristo ci è stato infatti
aperto il passaggio ad una vita nuova, alla vita eterna. Non solo
Uno è tornato dal mondo dei morti, ma tale suo ritorno è tale da
poter rendere anche noi partecipi di una vita nuova. Non si tratta
dunque di un evento che riguarda unicamente la sfera divina, ma ci
troviamo di fronte ad un nuovo inizio della storia umana, ad una
vera nuova creazione.
Le letture che abbiamo ascoltato, sia quella degli Atti degli
apostoli sia il vangelo, ci pongono davanti l’urgenza di entrare in
questo nuovo stato di cose che Cristo ha inaugurato sulla terra.
Senza questo nostro ingresso in una nuova vita anche se uno
risorgesse dai morti, come di fatto è accaduto, tutto per noi
potrebbe restare invariato. Vivere il giorno di Pasqua significa
perciò anzitutto lasciarsi raggiungere e cambiare dalla risurrezione
di Cristo e, di conseguenza, essere disposti a guardare a Gesù, al
rapporto con Lui e a coloro che ci vivono accanto in modo
assolutamente nuovo. Forse pensavamo che, una volta conclusasi la
Quaresima la festa sarebbe stata immediata, automatica. E invece ci
rendiamo conto che il cammino di conversione non si conclude e che
la festa di Pasqua non si celebra in verità se non provoca anche per
noi un passaggio ad una nuova vita.
Si tratta di un cammino di conversione che tocca anzitutto il nostro
rapporto con Gesù, ma non solo. L’abbiamo ascoltato, è in fondo lo
stesso cammino che ha dovuto percorrere anche Maria di Magdala:
dalla ricerca di un cadavere perduto all’essere lei stessa trovata
dal Signore vivente che la chiama per nome. Dal conoscere Pietro e
Giovanni come discepoli del Signore, al riconoscere che tali
discepoli ora sono chiamati da Gesù stesso “miei fratelli”, in un
certo senso dunque, al pari suo, degni di essere considerati
familiari di Gesù. Da una fede tutta basata su quanto il Signore
aveva fatto per lei in passato, ad una fede che guarda al futuro,
che diventa annunzio e dunque interesse e responsabilità per quanto
Dio può fare per gli altri: “non mi trattenere, ma va’ dai miei
fratelli e di’ loro”.
Lo stesso l’abbiamo ascoltato nel discorso di Pietro alla folla nel
giorno della Pentecoste. Pietro rende testimonianza al Signore
Risorto con la forza dello Spirito Santo che ha ricevuto e spiega
attraverso la nuova luce che ha ricevuto, il vero senso delle
Scritture: “sappia dunque con certezza la casa d’Israele che Dio ha
costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At
2,36). Ora una tale annunzio suscita nei presenti uno sconvolgimento
interiore: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e
dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare,
fratelli?» E la risposta è la stessa che dava Gesù all’inizi del Suo
ministero: “Convertitevi!”
Risurrezione di Cristo non significa allora per noi sicurezza e
lasciare tutte le cose come erano prima, ma significa annunzio che
trasforma, incontro che cambia, rapporto con un Signore che ci
chiede di non fermarci a Lui ma di andare dai suoi fratelli anche
quando preferiremmo che fossero piuttosto gli altri a venire da noi.
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sabato 31 marzo 2013 -
Veglia Pasquale 2013 - fr.Massimo-Maria
FMJ
Domenica scorsa, all'inizio della settimana santa celebrando
l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, proprio prima della processione,
è stato letto un brano del Vangelo di Luca in cui Gesù ha
pronunciato una Parola particolare.
Poiché molti dei
suoi discepoli lo osannavano con canti e acclamazioni, stendendo i
loro mantelli al suo passaggio – il testo dice che alcuni farisei
chiedono a Gesù di rimproverare i suoi discepoli. Gesù risponde: “
Io vi dico che, se essi taceranno, grideranno le pietre.”
La stessa
espressione, carissimi fratelli e sorelle, potremmo usare noi questa
notte.
La forza del
mistero della resurrezione di Gesù, l'intensità della vita che ha
sprigionato è così travolgente che se tacessero i canti dei
credenti, se tacessero le acclamazioni del popolo di Dio, se si
ammutolissero le liturgie della Chiesa, in questa santissima notte,
griderebbero le pietre, la natura sussulterebbe per esprimere la
gioia, il creato fremerebbe per manifestare lo stupore.
Perché,
fratelli e sorelle, tutto questo? Eh si! Perché la Resurrezione di
Gesù è storia vera, la vita sprigionatasi dal sepolcro del Signore è
reale, il Signore Gesù, il crocifisso è vivo e ormai più nessuno può
cercarlo tra i morti.
E' la nostra
fede! E' la fede della Chiesa! E' la buona notizia che accompagna
per sempre la storia dell'umanità.
Ieri sera a conclusione della Via
Crucis al Colosseo il Santo Padre Francesco ha detto: “
La
Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo.
A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in
silenzio. In realtà Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è
la Croce di Cristo...”
Questa
notte, parafrasando queste parole del Papa, con forza possiamo dire
:
” A volte possiamo pensare che Dio resti in silenzio
dinanzi al mistero della morte, ma in realtà Lui ha parlato, ha
detto una parola, ha risposto al mistero della morte che
attanagliava il cuore dell'uomo e lo teneva prostrato nell'angoscia
e nello sgomento. La sua risposta è la Resurrezione di Gesù; la sua
parola è l'aver risollevato il Figlio dal sepolcro come profezia,
caparra, promessa di quanto è riservato ad ogni uomo.
E' vero, confusi e umiliati dobbiamo confessarlo.
Queste parole, queste affermazioni, questi ragionamenti anche a noi
possono apparirci – come alle donne di cui ci parlava il Vangelo -
un vaneggiamento, e la tentazione di incredulità è grande. O magari
anche se noi per grazia, per fede lo crediamo, ne siamo
interiormente convinti, ci guardiamo bene dal dirlo ad altri, ci
guardiamo bene dall'annunciarlo ai nostri fratelli del mondo di
oggi, perché rischiamo la derisione, rischiamo di essere accusati di
vaneggiamento appunto. Così come le donne del testo Lucano anche noi
credenti avanziamo nella storia impauriti e con il volto chinato a
terra dando l'impressione di continuare a cercare un morto più che
di aver incontrato il Risorto.
Questa notte, fratelli e sorelle, la Resurrezione
di Gesù, deve, e vuole, ancora una volta evangelizzare la nostra
vita.
Questa liturgia con i suoi segni e i suoi canti;
la Chiesa con la sua maternità e con la sua proclamazione di fede;
la Parola di Gesù nella sua intensità; lo stupore di Pietro che
trova solo i veli nel sepolcro e non più il corpo morto del Maestro;
la storia di santità e di martirio di tanti nostri fratelli e
sorelle credenti; tante esistenze trasfigurate dall'incontro con
Cristo; ci proclamano Gesù è risorto, il Signore della vita ha
vinto, Cristo Signore è vivo per sempre.
Qualche volta con sarcasmo si sente dire : “
Dall'al di là non è mai tornato nessuno:” Stanotte noi stiamo
celebrando l'esatto contrario. Di là è ritornato il Figlio di Dio
fatto figlio dell'uomo. E' tornato sì, ed è tornato vittorioso, con
una promessa di vita senza fine per ogni creatura umana.
Dobbiamo rimettere al centro della nostra vita
la Resurrezione di Gesù. Dobbiamo ricollocare al centro della
nostra vita la fede.
Troppo spesso la Resurrezione di Gesù è
periferica nella nostra esistenza: non meravigliamoci allora se
siamo tristi, angosciati, inquieti e persino disperati.
Troppo spesso la fede non è la cifra del
nostro vivere: non è così anomalo allora se anche noi viviamo con
logiche più del mondo che di Dio, discerniamo tutto ciò che ci
accade o che accade attorno a noi con criteri emotivi, superficiali,
mondani, fermandosi magari soltanto al mi piace -non mi piace;
trasformando tutto in un reality, persino la vita della chiesa. La
chiesa non è un reality è una comunità di fede attorno al Risorto,
al Vivente, e la si comprende veramente solo a partire dalla
fede.
La nostra vita di credenti – è questo il senso
della Pasqua – deve avere come riferimento chiaro ed essenziale il
Signore risorto e come cifra di lettura di tutto, di discernimento
di tutto, di accostamento al tutto la visione che nasce dalla
profondità della fede in Gesù, non la superficialità delle emozioni
che passano.
La Pasqua oggi è un invito del Signore a
ricordarci che oggi il mondo, la storia, la chiesa, hanno bisogno di
uomini e donne di spessore, che hanno maturato cioè questa
profondità di fede; uomini e donne che hanno inscritto, hanno
inciso, nella loro vita l'intenso splendore della resurrezione di
Gesù; uomini e donne che per questo, solo per questo, trasudano
speranza.
Uomini e donne che ad ogni istante, in ogni
situazione, in ogni avvenimento piccolo o grande sanno ripetersi “
….comunque Gesù è risorto e questa è la vera e sconvolgente novità.”
No, non possiamo più, noi credenti, vivere come
se prescindessimo dalla fede, dalla Resurrezione di Gesù. Il rischio
di omologazione verso il basso, verso le logiche mondane diventa
troppo grande. Un esempio.
Noi viviamo in questi ultimi anni una stagione
difficile ma esaltante della storia della chiesa, della storia della
comunità di coloro che credono nel Risorto e nella Resurrezione.
Ora, la chiesa nella sua storia ha
avuto almeno una volta l'esperienza di due papi viventi, esperienza
che allora non fu per nulla facilissima.
Ha avuto poi le tristi esperienze di papi e
anti-papi.
Oggi noi abbiamo due papi uno emerito ed uno in
carica che ci hanno offerto e ci stanno offrendo esempio di
fraternità, di grande libertà e umiltà l'uno, di parresia e
mansuetudine l'altro. Come fratelli pregano insieme fino a
commuovere per la tenerezza e affetto che si manifestano.
E noi, anche credenti, anziché chiederci : “
Cosa Dio ci sta dicendo attraverso questo. Magari stiamo vivendo una
stagione drammatica ed esaltante della storia della chiesa. Noi ci
fermiamo a contrapporli, a dire mi piace e non mi piace, secondo le
nostre emozioni, sino a cambiare parere repentinamente. Così facendo
non raccogliamo la vera sfida: l'invito che il Signore ci sta
rivolgendo a riporre Cristo al centro della nostra vita
cristiana; a riconsiderare il posto che diamo agli altri -
soprattutto ai più poveri - nelle nostre comunità cristiane, nelle
nostre assemblee, nelle nostre città e nelle nostre chiese.
Se la resurrezione di Gesù non è centrale, se lo
sguardo di fede non è al cuore della nostra vita, vedete, anche in
eventi importanti rischiamo di passare accanto all'essenziale,
attardandoci sul superficiale, su quello che più mi aggrada e non
decidendoci invece per una vita che nasca tutta dalla fede in Gesù
Risorto.
Fratelli e sorelle,
questa sera siamo qua con nel cuore tanti desideri,
tante sofferenze, tante gioie e ante preoccupazioni e speranze,
certo tutte le presentiamo al Signore, ma soprattutto non usciamo di
qui senza chiedergli in tutta la sua forza e tutta la sua freschezza
lo stupore della Pasqua, che questo stupore invada la nostra
esistenza; che la buona notizia del Risorto infranga ogni durezza
del cuore; che la fede in Lui Signore della vita torni centrale
nella nostra esistenza e la trasfiguri, così che sempre più tutto
-pensare, agire, parlare e operare - sia solo a partire da questo.
Così per la nostra capacità di misericordia, di
pace, di tenerezza, per la nostra sincera ricerca e amore alla
verità, per il nostro desiderio di bontà e di profonda libertà
diremo agli altri con l'autenticità e lo stupore della nostra vita
più che con l'altezza dei nostri ragionamenti: Gesù è il Signore;
Lui, il Signore è Risorto; è vivo; è con noi per sempre.
Così sia.
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venerdì 29 Marzo 2013
– Venerdì santo - fr. Giovanni-Battista
FMJ
Ascoltando in questi giorni della settimana santa i discorsi di
addio di Gesù nel contesto dell’ultima cena, siamo stati testimoni
dell’ardore e dell’affetto di Pietro per il suo Maestro: “Signore,
perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (Gv 13,37).
È un affetto, quello di Pietro, che forse abita anche il nostro
cuore: anche noi probabilmente, almeno una volta nella nostra vita
abbiamo detto al Signore: Signore darò la mia vita per te! A Pietro
questo non fu consentito subito; egli dovrà attendere un altro tempo
e un altro luogo, come Gesù aveva profetizzato: “Tu per ora non puoi
seguirmi; mi seguirai più tardi” (Gv 13,36). Ma Pietro, soprattutto,
dovrà attendere l’ora in cui sarà Gesù a dare la vita per lui. Solo
superato questo momento, solo giunti all’ora fissata, a quel tempo
prestabilito, anche Pietro sarà abilitato, se così si può dire, a
dare la sua vita per Gesù, realizzando così quello che anche Paolo
aveva sperimentato sulla sua pelle: “Completo nella mia carne quello
che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24).
La Croce di Cristo, che oggi celebriamo nel presente liturgico della
Chiesa, inaugura un nuovo modo di soffrire e, soprattutto, un nuovo
modo di morire. Cristo muore come vittima dell’odio e del male
umano, nulla in Lui merita la morte. Egli consuma così quell’unico
sacrificio che ancora oggi ci riscatta, ossia che ancora oggi è in
grado di acquistare a caro prezzo (cfr 1 Cor 6,20) le nostre vite
con il loro carico di dolore, di sofferenza, di umiliazione e di
peccato, per strapparle all’inutilità e al non senso e renderle, a
loro volta, un sacrificio accetto a Dio.
In
adorazione di fronte alla Croce noi oggi facciamo la grandiosa
scoperta che la sofferenza non è più un vuoto di senso all’interno
della vita umana, perché c’è Qualcuno che questa sofferenza l’ha
penetrata fino alle sue profondità più amare e mortali, e l’ha unita
a sé indissolubilmente fino a lasciare sul suo corpo delle cicatrici
eterne, conferendo così al dolore umano un senso e un valore
salvifico che prima non aveva.
La
sofferenza rimane un mistero, i nostri ragionamenti vacillano nel
tentativo di penetrarlo e il nostro sentimento fatica a contenerlo.
Ma abbiamo la certezza che questo mistero è ormai abitato e,
soprattutto, consacrato da un Mistero più grande, quello della
passione e morte del nostro Redentore. “Nella Croce di Cristo non
solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la
stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo – senza nessuna
colpa propria – si è addossato «il male totale del peccato»”
(Salvifici Doloris 19) il cui salario è la sofferenza e la morte
(cfr. Rm 6,23). Cristo è così sceso alle radici del soffrire e del
morire, in quel nucleo più recondito e indisponibile all’uomo e lo
ha risanato già fin d’ora, in questa nostra vita terrena che attende
il pieno compimento di questa redenzione già cominciata.
Capiamo
allora perché non Pietro poteva dare la vita per Gesù, ma bisognava
che prima fosse Cristo a dare la vita per lui perché prima di sapere
cosa doveva fare lui per Dio facesse esperienza di cosa Dio aveva
fatto per Lui.
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Domenica 17 Marzo 2013
– V Domenica di Quaresima – fr.
Giovanni- Battista FMJ
“Signore,
se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” Questa era
la speranza che abitava il cuore di Marta e della sorella Maria. Ed
anche i Giudei che partecipavano al lutto della famiglia di Lazzaro
esclamano, forse anche con un po’ di sdegno: “Lui, che ha aperto gli
occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”.
Gesù era il Maestro e taumaturgo che aveva fatto molti segni e
prodigi, eppure tutti ragionano come se ormai, di fronte alla morte
dell’amico Lazzaro, non ci sia più niente da fare. L’unica attesa
che rimane è quella della risurrezione escatologica, quella
dell’ultimo giorno, in un futuro indefinito; il presente, invece, è
ormai stato inghiottito dalla morte. A dire il vero, però, in fondo
al dolore di Marta, una luce rimane accesa: Maestro “anche ora so
che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”.
Gesù, da parte sua, non risparmia a Lazzaro di morire, e anche
potendo raggiungerlo più celermente e guarirlo, lascia che le cose
vadano come devono andare per mostrare come nulla sfugga alla mano
di Dio, come il suo braccio non sia troppo corto da non poter
salvare, da non poter scendere negli inferi e strappare dalla morte
coloro che non avevano un redentore. Gesù si dice addirittura
contento di essere arrivato troppo tardi presso l’amico Lazzaro,
“affinché voi crediate”.
Ci troviamo di fronte allora ad una fede che ha bisogno di crescere,
ha bisogno di osare di più, di scoprire che davvero nulla è
impossibile a Dio, non solo guarire dalla malattia, ma anche
strappare dalla morte, e perfino salvare dal peccato, che è ancor
più nocivo della morte fisica in quanto, potremmo dire, è una morte
scelta consapevolmente, una morte interiore accolta con la propria
volontà e, di per sé, dalle conseguenze ancora più nefaste della
malattia e della morte fisica, come disse Gesù all’infermo della
piscina di Betzatà: “Non peccare più, perché non ti accada qualcosa
di peggio” (Gv 5,14) ossia la cosiddetta “seconda morte” di cui
parla il libro dell’Apocalisse.
Sappiamo infatti, come insegna la fede cattolica, che il nostro
corpo un giorno risorgerà, o per una risurrezione di vita e di
beatitudine o per una risurrezione di condanna, ma in un senso o
nell’altro risorgerà. Ciò significa che la morte fisica non è
eterna, mentre lo può essere la morte spirituale, quella prodotta
dalla scelta consapevole del male, perché può perpetuarsi e
“incarnarsi” nella futura risurrezione di condanna.
Ritornando al nostro brano, Gesù soffre insieme a Marta e Maria,
piange insieme a loro, non semplicemente rendendosi partecipe del
loro dolore, ma addolorandosi lui stesso per la morte dell’amico. Ma
Gesù non vuole semplicemente fare tutti contenti e risvegliare
Lazzaro per far cessare il lutto, Gesù non è semplicemente un super
eroe che sistema le cose perché tutti siano nella pace, Egli è il
Figlio di Dio e compie le opere di Dio. E qual è l’opera di Dio se
non che noi crediamo in colui che egli ha mandato? (Cf. Gv 6,29) Una
fede viva, una fede che entra nella vita e la cambia, fino al punto
da poter ritenere una malattia, via per le manifestazione della
gloria di Dio. L’abbiamo ascoltato “Questa malattia non porterà alla
morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il
Figlio di Dio venga glorificato”.
Il Signore ci vuole condurre verso una fede che sappia dare una
forma nuova, assolutamente inedita, al nostro modo di pensare, alla
nostra mentalità che si fida solo se prima possiede delle garanzie
non solo tangibili, ma anche umanamente affidabili e sicure,
garanzie che però non possono resistere di fronte all’ineludibilità
della morte. Ebbene, la nostra garanzia è Cristo: “Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”.
Cristo, facendo rialzare Lazzaro, non solo salva un amico, ma
prepara i cuori all’Evento che cambierà la sorte della terra e del
cielo, del tempo e della storia: la sua stessa Risurrezione,
avvenimento che si presenta alla storia con dei segni concreti pur
non essendo osservabile direttamente come i normali fatti storici,
in quanto le sue modalità rimangono ignote. Mistero che si manifesta
alla storia ma che trascende la nostra comprensione e la storia
stessa e può essere affermato solo per fede, seppur ragionevolmente,
a motivo dei segni, come la tomba vuota e le apparizioni del Risorto
(Cf. Catechismo degli adulti §§269-270). Credere nella potenza di
Cristo è più importante che vedere dei segni, perché è questa fede
che consente di dare ai segni il loro vero significato. Tornano in
mente le parole di Abramo rivolte al ricco epulone nella famosa
parabola riportata dall’evangelista Luca: “Se non ascoltano Mosè e i
Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc
16,21).
La nostra prima risurrezione sia allora una risurrezione dalla morte
dell’incredulità e del peccato alla vita della fede nella potenza di
Gesù, potente in se stesso, ma soprattutto potente e attivo nella
nostra vita, e allora saremo pronti a salire con Lui a Gerusalemme e
a seguirlo, sulla via della Croce, sulla via della gloria.
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venerdì 15 Marzo 2013
– IV settimana di Quaresima – Commento ora media -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Sap 2,1a. 12-22
Il brano che abbiamo ascoltato è tratto dal secondo capitolo del
libro della Sapienza, il più recente libro dell’antico testamento,
in cui si riflettono le non poche influenze filosofiche ellenistiche
presenti ad Alessandria d’Egitto, dove il testo venne composto, a
cavallo tra il primo secolo avanti Cristo e il primo secolo dopo
Cristo.
La maggior parte di questo capitolo è posta in bocca agli empi,
ossia ai non pii, a quei giudei apostati che hanno assorbito
acriticamente quanto di peggiore veicolavano le filosofie del tempo:
la vita non ha senso, siamo frutto del caso, non c’è rimedio quando
l’uomo muore perché non si conosce nessuno che liberi dal regno dei
morti. Le conseguenze di un tale modo di pensare sono facili a
trarsi: se l’uomo non ha a disposizione che l’orizzonte terreno, tra
l’altro così breve, triste ed assurdo, non resta altra saggezza che
quella dell’uomo definito da alcuni filosofi del Novecento “a una
sola dimensione”: godersi la vita immersi nei piaceri, costruirsi
una salvezza puramente temporale e materiale, ergere se stessi e la
propria forza come unico criterio etico, nell’attesa che quanto
nacque dal caso e per caso, al nulla privo di senso ritorni.
Un tale sguardo sulla realtà non si è ancora estinto, neppure ai
nostri giorni; anzi spesso, coloro che la pensano così sono
considerati quelli che sanno vivere veramente, che sanno gustarsi la
vita fino in fondo, che sanno gioire davvero del mondo presente.
Eppure, nel versetto finale del capitolo precedente a quello che
abbiamo letto, questi empi sono annoverati fra i seguaci della
morte, tra i militanti del suo partito: “gli empi invocano su di sé
la morte con le parole e con le opere; ritenendola amica si
struggono per lei e con essa stringono un patto, perché sono degni
di appartenerle” (Sap 1,16). Essi infatti “non conoscono i
misteriosi segreti di Dio, non sperano ricompensa per la rettitudine
né credono a un premio per una vita irreprensibile” (Sap 2,22).
Di fronte ad essi si pone il giusto che confida nel Signore, e tale
fiducia è per lui foriera di una conoscenza superiore, ossia la
conoscenza della presenza e vicinanza di Dio nella vita dei Suoi
amici. Forte di tale appartenenza vitale a Colui che libera dalla
morte donando l’incorruttibilità eterna, il giusto riesce a rimanere
se stesso anche di fronte alle insidie degli empi avversari che non
sopportano nemmeno di vederlo. Ministro di inquietudine verso chi
sceglie una vita inquieta, egli vive da figlio di Dio, senza
rispondere al male con il male.
In tale giusto la tradizione patristica vi leggerà un’immagine del
Cristo sofferente che non fugge le persecuzioni rifugiandosi nella
legge della forza ma abbraccia la Croce a vantaggio dei suoi stessi
crocifissori, che siamo noi, tracciando per noi la strada sicura
della salvezza, la norma suprema dell’amore fino alla Croce. Del
resto, come ha affermato ieri il Santo Padre Francesco nella sua
prima omelia da Sommo Pontefice: “Quando camminiamo senza la Croce,
quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo
senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo
Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore.”
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mercoledì 13 Marzo 2013
– IV settimana di Quaresima
- fr. Giovanni-Battista FMJ
Per ben due volte nel vangelo che abbiamo ascoltato ritorna una
frase di Gesù che ci sorprende: “il Figlio da se stesso non può far
nulla” e ancora: “Da me, io non posso far nulla”. E inoltre: “non
cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Gesù, il Figlio di Dio, nel rivelare ai Giudei che complottavano
contro di Lui la sua natura di Figlio del Padre, in un certo senso,
non teme di confessare la propria impotenza, o meglio, il suo essere
debitore nei confronti del Padre di tutto quanto è, di tutto quanto
fa. Egli scandalizza l’uditorio perché presenta una relazione con
Dio assolutamente nuova, eccessivamente confidenziale, che per la
mentalità giudaica è irrispettosamente familiare: “chiamava Dio suo
Padre, facendosi uguale a Dio”. Questa pagina del Vangelo diventa
così per noi una finestra che lascia intravedere qualcosa di quella,
altrimenti inaccessibile, vita trinitaria.
Gesù non rivendica nulla per sé. Pur essendo il Figlio di Dio non
nasconde da dove provenga tutto quanto ha ricevuto, nonostante gli
appartenga come proprio essendo Egli della stessa natura del Padre,
e tutto quanto dona agli uomini. Ed è grazie a tale trasparenza di
Gesù all’amore del Padre e alla volontà del Padre, volontà che
diventa per Cristo il cammino da seguire su questa terra per
compiere la missione che ha ricevuto e a cui liberamente si
consegna, che anche noi siamo resi partecipi dei segreti divini,
della salvezza divina, e della figliolanza divina che in modo unico
marca il rapporto vivo ed eterno del Figlio con il Padre. In Cristo
abbiamo la perfetta immagine del Padre e contemporaneamente la
perfetta immagine del discepolo credente in Dio. Cristo non è così
solo rivelazione del Padre ma anche rivelazione dell’uomo nuovo,
ossia l’uomo ricostituito nella sua autentica santità ed identità di
figlio di Dio.
Anche noi siamo allora chiamati a seguire il nostro capo e il nostro
modello e a fare del suo abbandono alla volontà del Padre la regola
suprema della nostra vita, e il cammino non solo di una vita santa
ma anche di una vita che sa inserirsi nel mondo con giustizia: “Il
mio giudizio è giusto – dice Gesù – perché non cerco la mia volontà
ma la volontà di colui che mi ha mandato.”
Se questo è vero per tutti è ancor più vero per i consacrati che
hanno fatto della loro vita un cammino di progressiva conformazione
a Gesù, come affermava il beato Giovanni Paolo II: “Attraverso la
professione dei consigli, il consacrato non solo fa di Cristo il
senso della propria vita, ma si preoccupa di riprodurre in sé, per
quanto possibile, «la forma di vita, che il Figlio di Dio prese
quando venne nel mondo»” (Vita Consecrata 16).
Questo cammino entusiasmante passa necessariamente, come lo fu per
Cristo, per il sacrificio di sé, in particolare per il sacrificio
della propria volontà, per far emergere in essa quella volontà di
amore universale e salvatore che mosse il Padre a donare il Suo
Figlio, e muove anche noi oggi noi a non considerarci proprietà
privata ma appartenenti per sempre a Cristo nella Chiesa. Le nostre
membra mortali e peccatrici potranno allora diventare strumenti vivi
per la salvezza nostra, di tutti coloro che ci vivono a fianco, e,
attraverso il mistero della comunione dei santi, anche di coloro che
ci sono sconosciuti, soprattutto di quelli che meno conoscono il
Signore e che dunque hanno ancor più bisogno di trovare in noi dei
credenti e dei testimoni degni di fede. Attraverso la nostra
conversione, esigenza particolarmente stringente in questo tempo
forte della quaresima, non si gioca infatti solo il nostro cammino
di santità ma anche quello degli altri.
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sabato 9 Marzo 2013
– III settimana di Quaresima -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il brano evangelico di oggi ci pone davanti non semplicemente due
maniere di pregare, ma più profondamente, due modi alquanto diversi
di relazionarsi con Dio e con gli altri, di cui poi, le due modalità
di orazione sono espressione.
Il fariseo loda Dio perché l’ha costituito diverso dagli altri
uomini. Il fariseo si sente baciato da una sorta di privilegio
divino che gli consente di digiunare, di pagare le decime e di non
essere ladro e adultero come gli altri. Ai suoi occhi è un vero
santo, un vero amico di Dio, eppure questa sua preghiera non
contribuisce in modo decisivo alla sua giustificazione, come si
legge nelle righe finale di questo testo.
Il pubblicano ha poco da offrire, si presenta al Signore a mani
vuote, o meglio, in totale nudità: riconoscendosi indegno di
accedere alla presenza di Dio non osa nemmeno alzare gli occhi al
cielo. Si limita piuttosto a lasciare che sia lo sguardo di Dio a
posarsi su di lui. Ebbene, questo peccatore tornerà a casa
giustificato.
Ora, dicevamo, non ci troviamo di fronte semplicemente a due modi
diversi di pregare, ma a due modalità opposte di relazionarsi con
Dio e con gli altri: la prima, quella del fariseo, sicura, decisa di
sé, loda Dio attraverso la lode di se stesso e il disprezzo degli
altri. Dev’essere sicuramente difficile per lui entrare in una
logica di comunione, da cristiani diremmo di ecclesialità o quanto
meno di solidarietà con gli altri uomini, rallegrandosi di quella
sua diversità che presenta al Signore come la prima qualità di cui
rendere grazie. Il pubblicano invece conserva il suo posto tra i
peccatori: non gareggia con nessuno per essere migliore, si
accontenta di chiedere scusa al Signore ed implorare il suo perdono,
addolorato della triste e peccaminosa realtà che macchia la sua
vita.
In questo tempo di quaresima questa parola indirizza al nostro
cammino di cristiani e di monaci un deciso avvertimento che ci dice:
fate attenzione a che relazione con Dio e con gli altri state
costruendo. Ci sono infatti anche oggi modi molto sottili e
raffinati di fare i farisei: di valutare se stessi in base a quello
che si fa di buono quasi rivendicando a Dio i propri atti meritori;
di fare delle proprie opere buone strumenti di allontanamento dagli
altri; di rimanere indifferenti, o quasi segretamente compiaciuti,
delle cadute degli altri soprattutto di quelli che ci stanno
antipatici o che, per qualche motivo, consideriamo più nostri
concorrenti che nostri fratelli; di cercare a tutti i costi, magari
in modo inconsapevole e ingenuo, una propria originale diversità
nell’essere cristiani e monaci, per apparire più uomo degli altri
uomini, più cristiano degli altri cristiani, più monaco degli altri
monaci.
Ebbene, come ci insegna il vangelo di oggi e come lo esprime bene il
nostro libro di vita: ogni virtù è vana senza l’umiltà. L’umiltà,
come condimento di tutte le vivande del festino e come anima della
vita monastica (LdV § 118) e cristiana, è quella disposizione
interiore che ci apre a Dio, ci apre agli altri e ci educa al giusto
amore di se stessi perché ci apre alla verità, e ogni cristiano deve
avere il coraggio, verso se stesso anzitutto, di amare la verità.
Alla vigilia di questa quarta domenica di quaresima, domenica del
cieco nato, chiediamo allora per intercessione di Maria, la serva
umile del Padre, un cuore umile, amante della luce e della verità.
Non temeremo allora il giudizio di Dio che, come abbiamo ascoltato
dal profeta Osea, sorgerà per tutti come la luce.
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inserito il 9 marzo 2013
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Messa funebre
per p.Pierre-Marie (27 febbraio 2013) - Notre-Dame de Paris - Omelia
del Cardinale André Vingt Trois, arcivescovo di Parigi
- traduzione di Raimonda (FEG
Immacolata)
"Gesù apparve ai
suoi discepoli nella Gloria della sua Trasfigurazione" (Mt 17, 1-9)
Fratelli e
sorelle,
malgrado tutte
le qualità che tutti noi conosciamo, la città di Parigi, non
diversamente da ogni altra città del mondo, non può essere
paragonabile alla Gerusalemme Celeste!
Senza grande
margine di errore, si può valutare che c'è ancora molto cammino da
fare perché essa risplenda della luce della Città di Dio!
Ci vorrebbe
senza dubbio la fede inestirpabile dei due figli dell'Aveyron,
voglio dire François Marty e Pierre-Marie Delfieux, per lanciarsi in
questa vita urbana senza debolezze e senza dubbi.
Perché è
veramente per la fede, nella fede che essi si sono lanciati
nell'avventura delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme, stimando,
senza dubbio, che se la città, questa grande città di Parigi, poteva
nascondere bene i suoi vizi, poteva ancora di più nascondere una
virtù che aveva bisogno di essere manifestata, di essere svegliata,
di essere sostenuta, di essere incoraggiata, e che per condurre
questa battaglia, i cristiani che cercano di testimoniare il Vangelo
nel cuore di questa città, avevano bisogno, come tutta la Chiesa,
che, da qualche parte, nel cuore del loro apparato (in francese :
dispositif - n.d.t.), degli uomini e delle donne pregassero,
cantassero il linguaggio di Dio, accettando di condividere il
sacrificio di Cristo nella loro carne, affinché la Buona Novella
possa essere annunciata a tutti gli uomini.
Evidentemente è
portare
alle estreme
conseguenze
l'idea originale del
progetto delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme, ma è almeno
dare una idea della sfida alla quale esse hanno risposto e alla
quale, spero, esse rispondono sempre, non più soltanto nel cuore
della città di Parigi, ma in molti altri cuori delle città in tutto
il mondo!
C’è in queste
masse umane che
costituiscono le città moderne,
una riserva di
energia e di forza
spirituale che può
rimanere completamente nascosta
ai nostri occhi.
E’ questa
capacità di avere fiducia in ciò che non si vede ancora, ma di cui
non si dubita, che Dio riversa nei cuori come una Grazia; è su
questa fiducia che si basa la sfida di sviluppare prima di tutto una
esperienza, poi una regola di vita nel cuore della vita cittadina.
Una esperienza e una regola di vita che si sono sviluppate e
strutturate nel tempo, e che il cardinale Marty continua, credo, a
sorvegliare con la coda del suo occhio malizioso (in francese:
malicieux, - n.d.t.), e forse anche ad incoraggiare ancora,
intercedendo presso Dio per i frutti di questa avventura di cui ha
condiviso la responsabilità con Pierre-Marie Delfieux.
Potrebbe
essere fastidioso anche
per i membri della
Confraternita monastica
di Gerusalemme, che
l'arcivescovo di Parigi
evochi i frutti della
loro vita e del loro
lavoro nella capitale.
Ma penso che questo non è
necessario perché tutti, o meglio
tutti coloro che sono
interessati a questioni di fede
nella città di Parigi,
sanno che cosa sta
accadendo a Saint-Gervais
e riconoscono i frutti
spirituali che ne
risultano non solo per i membri
della Fraternità
Monastica, non solo
per i loro amici, non
solo per coloro che regolarmente
o occasionalmente vengono
a partecipare alla loro
liturgia, ma per
tutta la diocesi di
Parigi. Si tratta di una
rara ricchezza
della nostra Diocesi, che non
è così prevedibile nelle
comunità contemplative. Lo vediamo
ogni anno al momento
della chiamata decisiva (Elezione) dei Catecumeni.
I
religiosi, che rappresentano queste comunità
contemplative, non sono
così numerosi. Queste comunità
tuttavia sono particolarmente utili
al cuore dell'Arcivescovo
che fa affidamento sul
loro impegno (in francesce: investissement - n.d.t.)
e sulla preghiera, non solo
per accompagnare i
Catecumeni, ma per sostenere la missione
di tutta la Chiesa a
Parigi. Tutti sanno
quello che è dovuto alle Fraternità
Monastiche di Gerusalemme,
tutti hanno visto i
frutti che ne derivano.
Evidentemente,
Pierre-Marie Delfieux
in questa avventura
insieme con il Cardinale Marty, ha
avuto un carattere deciso, non solo
attraverso il coinvolgimento
della propria vita e
della sua persona,
ma per il suo dinamismo personale,
le sue intuizioni,
la sua tenacia, la sua
resistenza, e forse non ci sarebbe bisogno
di ripeterlo, a volte per la
sua testardaggine! Perché
a volte alcuni difetti
possono contribuire alla
venuta del Regno. Abbiamo quindi
beneficiato di questa
forza potente che
Pierre-Marie Delfieux
aveva in lui.
Ho avuto il
privilegio,
come, penso, un certo numero di voi,
di scoprire questa
personalità, nello stesso tempo in cui ho
scoperto la Terra Santa,
perché la prima volta che
sono andato in pellegrinaggio
in Terra Santa, sono
stato in un gruppo
guidato da Pierre-Marie
Delfieux. Sono stato in
grado di scoprire
allo stesso tempo una ricchezza del Vangelo
che non sospettavo
attraverso i luoghi dove
Gesù ha vissuto e ha parlato,
e una ricchezza del
Vangelo che traspariva (brillava)
attraverso di lui che
era la nostra guida. E
'quindi consapevolmente
che posso parlare di
questa motivazione, di
questo potere, di questa
forza evangelica
che viveva nel cuore di
Pierre-Marie Delfieux.
Ma se le
città, come le persone, sono portatrici di ricchezze che non si
manifestano ancora e che bisogna stimolare e sostenere, questo
lavoro non si porta avanti da soli (in francese: ne se fait pas tout
seul - n.d.t.). Perché ciò che vogliamo far comparire, è
semplicemente la Presenza Divina sotto l'apparenza di una banalità
terribilmente ordinaria. E 'nostra convinzione che nelle nostre
immense città, Dio opera nel cuore degli uomini, che Egli persegue
instancabilmente il suo cammino di Misericordia per incontrare il
cuore umano, che Egli cerca misteriosamente e segretamente le
libertà degli uni e degli altri.
E’ quindi
rivolgere sulle nostre città uno sguardo da visionari
(contemplativi). Questo sguardo non può formarsi e non può essere
messo in opera se non nell’incontro con Cristo Risorto che si rivela
attraverso l'umanità di Gesù di Nazareth. I discepoli lo hanno
sperimentato durante la Trasfigurazione per impegnarsi nel cammino
che li avrebbe portati a seguire Gesù, non solo durante gli eventi
decisivi che avrebbero avuto luogo a Gerusalemme, ma anche nei fatti
della loro esistenza, in cui sarebbero stati chiamati a testimoniare
la potenza di Dio attraverso l’offerta della loro vita.
Ciascuno di noi,
all’interno del cammino della
vita spirituale, è
chiamato a fare esperienza di questa
Trasfigurazione, posta nel cuore
dei Vangeli come un
punto di svolta nella
comprensione e nella sequela di Cristo.
Ma per radicare questo progetto di
vita contemplativa
di cui ho parlato in precedenza,
Pierre-Marie Delfieux ha
voluto essere condotto
nel deserto, probabilmente per essere
tentato, ma
soprattutto per vivere la comunione totale con la presenza
del Risorto .
Per un anno ha vissuto
nel deserto a
Tamanrasset, prima di
intraprendere il progetto delle
Fraternità Monastiche e
prima di dare loro il volto
che hanno oggi.
Voglio dire
che la fede di cui ho parlato
all'inizio del mio
intervento, non è solo
il retaggio di una
civiltà perduta, è il crogiolo
in cui si sperimenta il
desiderio di seguire Cristo
e di manifestare la sua
presenza nel cuore
del mondo. Questo
è il motivo per una vita contemplativa
nel cuore della città,
non è solo un'esperienza
esotica rispetto ad altre forme
di vita monastica, è un
modo di aderire e
partecipare alla battaglia spirituale che
caratterizza tutta l'esperienza della
Chiesa.
Fratelli e
sorelle delle Fraternità Monastiche
sapete che per un certo
numero di anni –
che noi abbiamo la
decenza di non calcolare
- ho avuto il privilegio
di seguire da vicino lo
sviluppo della vostra famiglia,
di contribuire in piccola
parte al suo
consolidamento, al suo sviluppo, e voglio
dirvi oggi che condivido
sia il vostro dolore
che la vostra Speranza,
non solo per Pierre-Marie, ma
per la vostra Fraternità
e, attraverso di essa,
per la Chiesa di
Parigi. Amen.
+Cardinale André
Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi
|
inserito il 9 marzo 2013
l'ultima omelia di p. Pierre-Marie Delfieux - traduzione di Raimonda
(FEG Immacolata)
Fête de la Toussaint Festa di
Ognissanti 2012
- Saint-Gervais, Paris - Frère Pierre-Marie
Des béatitudes de
la terre à la Béatitude du ciel (Dalle beatitudini della terra alla
Beatitudine del cielo)
Oggi celebriamo una festa
solenne.
Una grande festa piena di
speranza e di gioia.
Una festa per tutti noi, in
quanto è di tutti coloro che ci hanno preceduto e che popolano già
il Regno di Dio, in cui siamo chiamati ad entrare un giorno.
Vivendo vicino a Dio, dove
intercedono per noi, insieme costituiscono la Chiesa celeste.
Questa Gerusalemme celeste,
aperta a tutti coloro che che hanno vissuto le beatitudini.
Le beatitudini proclamate da
Gesù (Mt 5,1-11) e che sono come il gioiello e la fonte di tutto il
Vangelo.
Con la sua rivelazione, il
veggente dell'Apocalisse dà a tutti noi un po 'di Cielo.
E 'per noi che il Signore gli
mostrò ciò che ci attende oltre il nostro tempo qui sulla terra.
Con quanta attenzione si devono
sentire queste parole!
Dopo questo vidi quattro
angeli che stavano ai quattro angoli della terra e che trattenevano
i quattro venti (vale a dire ogni sorta di male) (Ap 7,1).
Il primo cielo e la prima
terra, dove noi siamo, scompariranno per cedere il passo a un nuovo
cielo e una nuova terra.
Non ci sarà più la morte, né
lutto, né lamento, né affanno (Ap 21,1-4).
Modo poetico di dire le cose,
naturalmente; ma quale visione piena di speranza per il mondo a
venire!
E la visione continua con la
rivelazione del numero dei figli d'Israele, contrassegnati con il
sigillo della Salvezza.
Centoquarantaquattromila di
tutte le tribù (7.4).
Che è un modo per dire che
tutto il popolo biblico, una volta convertito alla parola di Cristo,
sarà chiamato alla Salvezza.
Perché Dio è fedele alle sue
promesse e non nega le sue alleanze.
Poi ecco che apparve davanti
ai nostri occhi una moltitudine immensa che nessuno poteva contare,
di ogni nazione, tribù e popolo e lingua, davanti al trono
dell'Agnello Redentore.
Questo è anche un ottimo modo
per ricordare la promessa della Salvezza universale.
Siamo confusi per l'ottimismo e
la gioia davanti a ciò che Dio destina ai suoi figli.
A condizione, naturalmente, che
essi restino o diventino finalmente fedeli alla sua parola.
E questo al di là di tutto lo
spazio e di tutta la durata nel tempo!
Ecco, fratelli e sorelle, ciò
che dobbiamo saper contemplare Quando, già su questa terra,
guardiamo verso il Regno dei cieli.
Non ci attende la semplice
quiete (pace) di una banale esistenza senza scopo, ma un avanzare di
gloria in gloria, nella Gloria infinita di Dio!
E canteremo con gli angeli e i
santi questa felicità di pienezza.
Questo è il lieto fine della
nostra vita così rivelata.
Fratelli e sorelle, la morte
non è che un passaggio e Cristo l’ha già vissuto per noi.
E sarà ancora presente in
quell’ora, vicino a ciascuno di noi.
E noi passeremo - è scritto, lo
sapete! - da tutta la nostra pienezza in tutta la Pienezza di Dio (Ef
3,19).
Il passaggio potrà essere un po
'duro, ma non c'è niente di cui essere tristi.
Ci sono migliaia e migliaia di
miriadi di persone che ci aspettano sull’altra riva: quella della
Luce e dell’ Amore.
E, in quel momento, la Grazia
di Dio, noi ci mancherà!
San Giovanni nella sua prima
lettera, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, completa questa
rivelazione.
Lo fa in termini di semplicità
estrema,ma di una elevazione e di una profondità inaudita.
Tutto comincia con una
proclamazione di fede piena di entusiasmo: Vedete quale grande
amore ci ha dato il Padre per essere
chiamati figli di Dio, e lo
siamo realmente! (1 Gv 3,1 a).
Con il cuore pieno di
traboccante tenerezza, Giovanni continua dicendo: Carissimi, noi
fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora
rivelato (1 Gv 3,2).
Noi siamo felici di comprendere
che ora siamo chiamati figli di Dio.
La Scrittura ce lo dice
chiaramente quando afferma: Lo Spirito stesso – per mezzo del
quale gridiamo: Abbà, Padre! - , insieme al nostro spirito attesta
che siamo figli di Dio.. Figli e perciò anche eredi (Rm 8:16).
Gesù stesso ce l’ ha detto
proclamando: uno solo è il Padre vostro, quello celeste (Mt
23,9).
E precisa: Padre mio e Padre
vostro, Dio mio e Dio vostro (Giovanni 20:17).
Comprendiamo ancora più
facilmente che ciò che saremo non è stato ancora rivelato (1
Gv 3,2 b).
Basta guardare la nostra
esistenza per constatarlo!
Ma poi le parole di Giovanni
sono così meravigliose come misteriose: Sappiamo però che, quando
Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo
così come Egli è (3.2 c).
Perché saremo come Lui, perché
Lo vedremo così come Egli è?
Semplicemente perché non
possiamo vedere Dio senza morire.
La sua immagine ci ha lasciato.
Ma abbiamo perso la sua somiglianza.
Riconquistarla è il lavoro di
una vita.
Dobbiamo morire per vivere.
Morire in tutto ciò che non è Dio.
È per questo che l'apostolo
Paolo dice: Ogni giorno, fratelli, io vado incontro alla morte
(1 Cor 15,31).
In questo mondo che passa e in
questo vecchio che cade in rovina.
Poi, a poco a poco,
ritroveremo, nella sequela di suo Figlio, la Sua somiglianza.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio! (Mt 5,8).
Bruciati nel fuoco di una vita
di santità, vale a dire di separazione dal peccato, possiamo già,
con la sua Grazia, diventare sempre più simili a Lui.
La nostra morte, inevitabile
per ogni uomo, ci laverà alla fine di tutte le opere morte, come
dice la Scrittura.
Esse non hanno nulla a che fare
con il suo Regno!
Contemplando il suo volto,
faccia a faccia (2 Cor 13,12), ci riconosciamo in Lui ed Egli in
noi.
Egli si riconoscerà in noi e
noi in Lui, e noi Lo vedremo così come Egli è. Vale a dire, come un
Dio d’amore, di misericordia, di santità, di luce e di bellezza.
Chiunque ha questa speranza
in Lui, purifica se stesso, come Egli è puro (1 Gv 3,4).
Non abbiamo finito di meditare
su questo versetto di San Giovanni.
Uno dei più belli e dei più
luminosi del Nuovo Testamento.
Tutto culmina nella
proclamazione delle beatitudini.
Siamo là al culmine e alla base
del Vangelo di Cristo.
Beati! Beati!
Quale Grazia che tutto cominci
con questa parola che ritorna nove volte nella Sua bocca!
Questa è la sua prima parola
rivolta alla folla nel Vangelo secondo San Matteo.
Non potrebbe esserci un modo
migliore per dire quanto, per Dio, la felicità ci è promessa!
Ma non a qualsiasi prezzo.
La Beatitudine si riceve e si
conquista, ma attraverso il cammino delle beatitudini.
Quindi comprendiamo bene quello
che ci dicono.
Sì, beati i poveri, la cui vita
è tutta abbandonata alla guida dello Spirito, perché accumulano
tesori in cielo (7,9).
Beati i miti e umili di cuore,
perché erediteranno una terra nuova, in cui abiterà la giustizia (2
Pietro 3:13).
Beati quelli che hanno fame e
sete della giustizia, perché questi giusti davanti agli uomini
saranno eternamente giustificati da Dio.
Beati coloro che, mossi dalla
misericordia e dal perdono, otterranno la remissione di tutti i loro
peccati dal Padre delle misericordie (2 Cor 1,3).
Beati coloro che, per la
purezza e la rettitudine di vita, hanno ottenuto quello sguardo
chiaro che permetterà loro un giorno di vedere Dio.
Beati i messaggeri, gli
operatori e i difensori di pace, perché saranno per sempre chiamati
figli di Dio da parte del Principe della Pace.
Beati quelli che sono
perseguitati perché vivono e promuovono la giustizia, perché fin
d’ora sono aperte loro le porte del Regno dei cieli.
Beati infine coloro che,
attraverso l'amore e la fede, si sono donati fino al martirio,
perché perdendo la loro vita per Cristo, l’hanno già salvata in Dio.
La caratteristica più bella di
questa proclamazione del Salvatore del mondo, è che essa non è
esclusivamente cristiana.
Anche se, nel complesso, essa
rappresenta l’immagine più perfetta del Signore Gesù: Lui, per
eccellenza, il povero, il mite, il pacifico, il puro di cuore.
Qualsiasi uomo dunque può
sentirsi chiamato e viverla.
Il Regno dei cieli gli sarà
aperto alla fine della sua strada!
Fratelli e sorelle, che gioia
sapere che un cielo ci attende, che ci sarà un giorno, per ciascuno
di noi e tutti insieme, una Beatitudine senza fine. Ecco il
cristianesimo!
È in vista di questa nuova ed
eterna Gerusalemme che è stata fondata la nostra prima Fraternità di
Gerusalemme sulla terra.
E’ stato 37 anni fa, nella
solennità di Tutti i Santi, proprio qui a Saint-Gervais a Parigi.
Benedetto sia Dio! Amen,
Alleluia!
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sabato 2 marzo 2013
– II settimana di Quaresima -
fr. Giovanni-Battista
FMJ
Nella parabola evangelica che abbiamo ascoltato possiamo cogliere
molti elementi importanti che ci aiutano a camminare con maggiore
profondità in questo tempo di quaresima. Uno particolarmente
importante è la libertà.
Il giovane che parte dalla casa paterna è in cerca di libertà: crede
di essere schiavo e limitato nella casa paterna, e decide di
costruirsi un nuovo futuro prendendo in mano la sua vita secondo i
propri desideri, assecondando le sue voglie e separandosi
definitivamente dalla casa paterna (Cf Lc 15,12). Essendo giovane e
anche ricco, perché aveva ricevuto in eredità una parte del
patrimonio di famiglia, ha tutto il necessario per vivere come
vuole. Ma la sua libertà si rivela piuttosto espressione della sua
immaturità: non è in grado di gestire la sua vita e i suoi beni, e
da figlio del padre si ritrova ad essere schiavo di uno sconosciuto.
In questa situazione di schiavitù e di indigenza, che diventa icona
dell’anima che si fida solo delle proprie forze, egli si rende conto
che è meglio essere semplici servi nella casa del padre piuttosto
che schiavi del mondo. La sua foga di essere libero l’aveva
ingannato, il suo desiderio di essere grande e indipendente l’aveva
portato non solo fuori dalla casa del padre ma anche fuori di sé.
La libertà e l’autonomia così intese che allora come oggi tanto
abitano l’ambizione degli uomini e forse talvolta anche dei
cristiani, l’essere come Dio senza Dio, si rivelano per quello che
sono: vie di rimpicciolimento e, se così si può dire, di
auto-schiavizzazione.
Il giovane scoprirà la vera libertà quando rientrando in se stesso,
come dice il testo, ricomincerà a mettere in relazione la sua vita
con quella del padre, a comprendersi, se non ancora come suo figlio,
almeno come suo salariato.
Alla luce di questa parabola comprendiamo allora che la Quaresima è
questo tempo di educazione e di crescita della libertà dalla sua
meschina immagine mondana, alla autentica libertà dei figli di Dio.
Ciò suppone necessariamente un cambio di mentalità prima che una
conversione morale: non si può vivere nella dimora paterna, nella
Chiesa, se non in uno stato di continua evangelizzazione del proprio
modo di pensare se stessi e la relazione con Dio e con gli altri.
Non fidiamoci di chi ci propone una libertà che non ha niente a che
fare con la vita cristiana e che è più debitrice alla gloria, o
meglio, alla vanagloria umana che alla povertà di spirito che il
Vangelo insegna. “Dai loro frutti li riconoscerete” ci avverte Gesù.
Libertà cristiana fa rima con rinnegare se stessi e camminare alla
sequela di Cristo nella consapevolezza che non si possono servire
due padroni.
È questo che ci testimonia il figlio prodigo, è questo che attende
da noi il Padre misericordioso. Non siamo noi a costruirci la nostra
grandezza se non nella misura in cui accogliamo il giogo soave di
coloro che si mettono con fiducia dietro a Gesù. Il cristiano deve
essere consapevole di questo e, come dice san Paolo (cf. Rm 12,2),
non conformarsi a questo mondo, ma lasciarsi trasformare rinnovando
il proprio modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio,
ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
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Domenica 24 Febbraio 2013 –
II Domenica di Quaresima –
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il nostro itinerario quaresimale cambia oggi ambientazione: si passa
dal deserto, luogo simbolo della quaresima che con i suoi 40 giorni
ripercorre il tempo di cammino del popolo d’Israele nel deserto
nonché i 40 giorni di Gesù tentato dal diavolo nel deserto, ad un
monte. Solo pochi discepoli, per iniziativa di Gesù, sono invitati a
seguirlo in questa salita, per essere spettatori di un evento che
resterà stampato per sempre nella loro memoria, come testimonierà lo
stesso Pietro nella sua seconda lettera: “Gesù Cristo ricevette
onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla
maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho
posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita
discendere dal cielo mentre eravamo con lui nel santo monte.” (2 Pt
1,17-18).
Gesù, come abbiamo ascoltato nel vangelo, si trasfigura, cioè cambia
aspetto; pur rimanendo se stesso, perché si tratta non di una
metamorfosi ma di una trasfigurazione, assume una forma diversa, fa’
risplendere visibilmente nella sua carne umana quella gloria divina
che possiede per natura. Non è difficile credere per chi è
spettatore di una tale teofania, accreditata, se così possiamo dire,
anche dalla presenza delle due colonne dell’antica alleanza, Mosé ed
Elia, la Legge e i Profeti che conversavano con Cristo di fronte a
coloro che saranno le colonne della Chiesa, Pietro, Giovanni e
Giacomo. Dall’alto il Padre conferma la verità della teofania
riconoscendo in Gesù il Figlio diletto: “Questi è il Figlio mio,
l’eletto, ascoltatelo!”.
Dicevamo che non è difficile credere di fronte ad una tale
manifestazione di gloria e di splendore che lascia letteralmente gli
apostoli senza parole, incapaci di reagire razionalmente di fronte
ad un fulgore simile e desiderosi unicamente che tale visione
beatifica si prolunghi all’infinito. Eppure tale gloria divina ora
visibile, non si estinguerà finita la visione, ma continuerà a
dimorare nella carne di Cristo e ad accompagnare tutta la sua
missione, anche e soprattutto nell’ora più tremenda e dolorosa della
Passione e della Croce. Anche questo momento di lotta pacifica
contro l’impero delle tenebre, di sofferenza e di morte per il
Figlio dell’uomo sarà definito l’ora della gloria (cf. Gv
12,16.23.28).
Forse, anzi sicuramente, non è facile per noi scorgere nell’ora
della Croce il momento della glorificazione di Cristo, e tale
difficoltà non è solo nostra ma è anche dello stesso Pietro che, se
sul monte Tabor estasiato aveva esclamato “Maestro, è bello per noi
essere qui”, si rifiuterà di salire il monte Golgota, il monte della
passione. Eppure davvero la Croce è il momento della grande
glorificazione del figlio dell’uomo, della manifestazione della
regalità di Colui che è inchiodato sul suo trono. Anche sulla Croce
il figlio dell’uomo vive una trasfigurazione come aveva profetizzato
Isaia: “Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato
per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella
dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca.” (Is 52,14).
Come si spiega questa apparente assurdità? Come non rimanere
disorientati di fronte a due esperienze così paradossali eppure così
simili tra loro? La risposta non la troviamo nel sensazionale ma
nella consapevolezza che la gloria divina appartiene al Cristo per
natura, egli è il Figlio di Dio e non deve dimostrare nulla a
nessuno. Tutto in lui è glorioso, dalla trasfigurazione, alla Croce,
ai germi di risurrezione di cui il suo insegnamento era ricolmo, ai
molti segni di guarigione e di salvezza che accompagnano il suo
ministero, e persino alla vita nascosta di Nazareth dove lavorava
come umile falegname. Tutta la vita di Cristo è una vita gloriosa. È
lo sguardo umano che distingue il momento della gloria dal momento
della sventura a seconda se siamo nel successo e nel plauso, oppure
se le cose ci vanno male. Ma per Cristo tutta la vita è una vita
gloriosa perché è una vita fedele alla volontà del Padre. La vera
gloria è il poter, per noi uomini, dire sì alla chiamata di Dio ed
abbandonarci alla sua volontà. Cristo per questo traccia per noi la
via della vera gloria, la via dell’obbedienza al Padre che traduce
in modo umano quella reciproca appartenenza che egli eternamente
vive con il Padre e con lo Sprirtonel seno della Trinità, perché non
c’è vera gloria per l’uomo lontano da Dio.
Se dunque l’estasi della visione di Gesù sfolgorante dura pochi
istanti, la Parola del Padre che segue questo evento rimane:
“Ascoltatelo!”. La teofania prosegue nell’ascolto di Colui che è
rivelazione del Padre, nella conformazione a Gesù che rimane al
nostro fianco, e ci accompagna nella via del deserto di questa
quaresima e di questa vita che è via di liberazione dalla schiavitù
del peccato e di ingresso nella terra promessa ai figli di Dio.
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venerdì 22 Febbraio 2013 -
Festa della Cattedra di S. Pietro -
fr. Giovanni Battista FMJ
La Cattedra di San Pietro che la festività liturgica di oggi propone
alla nostra riflessione richiama un aspetto molto importante della
vita e della natura della Chiesa: la sua realtà educatrice, in
particolare educatrice nella fede. Tale ministero che la Chiesa, fin
dai tempi di Cristo, è consapevole di aver ereditato dallo stesso
Signore conserva urgenza ed importanza sempre attuali. Se c’è una
Cattedra vuol dire che c’è anche chi insegna e governa; se c’è chi
insegna e governa c’è anche chi si lascia guidare. Per cui
festeggiare oggi la Cattedra di San Pietro significa anche
festeggiare il nostro essere allievi di questa Cattedra.
Tale cammino di educazione e di discepolato è solo per analogia
paragonabile all’apprendimento scolastico, infatti sappiamo che la
docenza, l’educazione che la Chiesa offre ai suoi figli per mandato
divino non si limita ad una trasmissione di contenuti o di
conoscenze ma si tratta di un’offerta di vita, la vita divina: per
questo la Chiesa non solo insegna la fede ma genera alla fede, fa
nascere nuovi figli di Dio, grazie all’azione dello Spirito Santo di
cui, come Maria, la Chiesa è tempio e dimora. Tale azione divina
dello Spirito Santo è certo un’azione liberamente sovrana: lo
sappiamo, lo Spirito soffia dove vuole e non sai da dove viene e
dove va, ma è anche azione rispettosa del ministero che ha affidato
alla Sua Chiesa per il bene di tutti gli uomini: Pietro “a te darò
le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra
sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà
sciolto nei cieli”. Si spiega dunque la famosa descrizione della
Chiesa come madre e maestra confermata anche dal Catechismo della
Chiesa cattolica quando dice: “Essendo nostra madre, la Chiesa è
anche l’educatrice della nostra fede”.
La
cosa forse potrebbe sorprenderci: il Dio onnipotente e tre volte
santo ha voluto affidare a uomini deboli, limitati e peccatori
un’opera così importante, quale la guida della sua opera più bella –
come afferma il nostro Libro di Vita – che è la Chiesa e il lavoro
per l’accoglienza da parte di tutte le genti della salvezza che
Cristo ci ha ottenuto sulla Croce. Anzi, addirittura, come abbiamo
sentito, Dio stesso, in qualche modo, obbedisce ratificando nei
cieli quanto Pietro lega o scioglie sulla terra. Davvero Gesù vuole
continuare a servire e guidare il suo popolo con le mani di altri,
mediazione umile ma efficace.
Eppure tale mediazione ci apre, misteriosamente, ad un rapporto
immediato con Dio: è quanto abbiamo ascoltato nel vangelo di oggi:
di fronte all’interrogativo di Gesù ai suoi discepoli circa la sua
identità, Pietro prende la parola a nome di tutti. È lui a parlare,
sì, eppure il Padre parla attraverso di lui: Pietro sei beato perché
né carne né sangue ti hanno rivelato chi sono, ma il Padre mio che è
nei cieli. Nel marasma delle opinioni mezze vere e mezze false della
gente che conosceva Gesù per sentito dire, dalla bocca di Pietro
ascoltiamo la parola vera, la retta interpretazione dell’identità di
Gesù che è rivelazione del Padre: “Tu sei il Cristo, il Figlio del
Dio vivente”. Molti avevano incontrato Gesù ed avevano ascoltato la
sua parola e assistito ai suoi grandi prodigi, eppure ciò non
bastava per conoscerlo in verità: non bastava la scienza della
carne, ma era necessaria la sapienza che viene dall’alto e che il
Padre dona a chi vuole lui.
Anche oggi le opinioni e le interpretazioni mezze vere e mezze false
su Cristo e sulla vita cristiana non mancano nel mondo e tra i
cristiani. Tra le loro molte sfaccettature e divergenze una cosa le
accomuna: l’autoreferenzialità, cioè il non conformarsi in modo
discepolare al magistero di quella Cattedra che oggi festeggiamo.
Il cammino quaresimale in cui si inserisce questa ricorrenza
liturgica ci esorta allora a conservarci ed eventualmente a
rimetterci alla scuola di Pietro e degli apostoli, quelli di ieri,
cioè quelli che incontrarono Gesù di Nazareth e per rivelazione del
Padre lo conobbero in verità, e quelli di oggi, attraverso i quali
non cessa di parlare Colui che ha promesso: “Andate e fate discepoli
tutti i popoli…Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla
fine del mondo” (Mt 28,19-20) perché come affermava San Cipriano:
«Non può avere Dio per Padre chi non abbia la Chiesa per madre».
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15
Febbraio 2013 - venerdì
dopo le Ceneri - fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il tema del digiuno è quanto ci viene proposto nelle letture
che abbiamo ascoltato, e si tratta di un tema tipicamente
quaresimale: ne parlava il vangelo che abbiamo ascoltato il
mercoledì delle Ceneri, giorno di apertura del tempo forte della
quaresima, ed è tradizionalmente annoverato tra le pratiche
penitenziali di questo cammino di purificazione e di preparazione
alla Santa Pasqua.
Il digiuno non
è di per sé una pratica di origine cristiana, e anche oggi, la
limitazione o la regolamentazione dell’alimentazione non sono prassi
vissute unicamente da cristiani, pensiamo per esempio al digiuno
come segno di protesta, di contestazione, come anche alla diffusione
di diete caratterizzate da scelte vegetariane e dunque di continua
astinenza dalle carni.
Anche dal
punto di vista religioso il digiuno trascende i confini del
Cristianesimo: già nell’antichità pagana il digiuno era considerato
un metodo per prepararsi all’incontro con la divinità o per aprirsi
all’influsso divino; era diffuso il digiuno come segno di lutto e
come pratica magica con funzione propiziatoria.
La prima lettura ed il vangelo di
oggi ci testimoniano una pratica del digiuno già consolidata ed
abituale all’interno del popolo d’Israele che digiunava per
predisporsi al rapporto con Dio, per vincere grandi preoccupazioni
personali e, a livello comunitario per allontanare flagelli come
quello della guerra o di altri disastri, e anche con funzione
espiatoria.
Il profeta Isaia,
l’abbiamo ascoltato, pur riconoscendo valida la pratica del digiuno
in se stessa, ne denuncia lo svuotamento del senso profondo che non
esprime più tanto, presso Israele, il desiderio di umiliarsi di
fronte a Dio, ma assume il valore di un’opera pia slegata dalla vita
quotidiana di chi la pratica e dalla sua esigenza di conversione
tanto che si accompagna ad uno stile di vita indifferente verso i
fratelli, soprattutto verso i più poveri che, nella Bibbia, sono
sempre i prediletti di Dio: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno
curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Il digiuno
che voglio non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che
vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora invocherai e il
Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà “Eccomi”!”
Insomma, il vero digiuno, secondo il profeta Isaia è quello che si
apre ad una relazione di vicinanza, di giustizia e di carità con il
prossimo; solo a queste condizioni esso sarà realmente accetto a Dio
e dunque capace di attirare la Sua risposta ed il Suo aiuto.
Nel vangelo la risposta che Gesù da ai discepoli di Giovanni
che sono sorpresi del fatto che Gesù non fa come loro, ci offre una
chiave di lettura del senso cristiano del digiuno e di conseguenza
una pista da seguire per il nostro cammino di conformazione a Gesù:
“Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo
è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e
allora digiuneranno.” In questa frase è racchiuso il senso profondo
di ogni pratica ascetica e di pietà del cristiano: la relatività a
Gesù. Gesù è il centro del pensare, dell’agire e del pregare del
credente e tutto dev’essere a lui relativo. Per il cristiano
“qualsiasi pratica di rinuncia trova il suo pieno valore, secondo il
pensiero e l’esperienza della Chiesa, solo se compiuta in comunione
viva con Cristo, e quindi se è animata dalla preghiera ed è
orientata alla crescita della libertà cristiana, mediante il dono di
sé nell’esercizio concreto della carità fraterna.” (Nota pastorale
della Cei sul digiuno e l’astinenza § 7). Il rischio infatti di una
pietà che si chiude nell’autocompiacimento, di una religiosità di
accumulo di diritti da rivendicare di fronte a Dio, della pretesa di
essere giusti in virtù delle opere che facciamo sentendoci magari
migliori degli altri e dunque autorizzati, vista la nostra superiore
santità, a guardarli dall’alto in basso, sono rischi che si
presentano soprattutto ai cristiani più impegnati. È per questo che,
come ci ricorda il nostro Libro di Vita, ogni nostro atteggiamento,
soprattutto quelli potenzialmente buoni, deve essere sempre
accompagnato dall’umiltà di chi sa che deve tutto al Signore il
quale detesta il povero superbo.
Da questo
capiamo allora che in fondo, come affermava san Leone Magno, il vero
digiuno quaresimale consiste “nell’astenersi non solo dai cibi, ma
anche soprattutto dai peccati”. Diffidiamo sempre da una religiosità
che veda noi stessi come eroici protagonisti della nostra crescita
spirituale, ed apriamoci invece umilmente alle mille occasioni di
conversione e di apertura a lui e agli altri, che il Signore non ci
farà certo mancare in questa incipiente Quaresima.
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martedì 11
Febbraio 2013
- V Settimana T.O. -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di
oggi è un esempio di come la Parola di Dio o un comandamento divino
possano essere recepiti, vissuti e trasmessi in modo non del tutto
autentico, fino al caso estremo dell’annullamento del comandamento
stesso, come abbiamo ascoltato dalla bocca di Gesù: “Così annullate
la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi”.
La posta in
gioco, il nocciolo della questione non è tanto Parola di Dio sì,
Tradizione no. Chi infatti secoli più tardi tenterà di opporre
questi due poli intendendoli come antitetici, vedrà nascere
spontaneamente, anche in seno alla propria comunità separata, una
tradizione propria.
Per capire meglio
come stanno le cose possiamo domandarci: che cos’è la Tradizione?
Senza entrare in considerazioni troppo teologiche, possiamo
considerare, in ambito religioso e più specificamente cristiano,
tradizione l’insieme di forme, contenuti ed istituzioni con cui la
comunità dei credenti, in modo comunitario, accoglie, vive e
risponde alla chiamata ricevuta da Dio alla salvezza sulla base di
quanto gli apostoli hanno ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo
con lui e guardandolo agire e dai suggerimenti dello Spirito Santo,
deposito affidato poi ai loro successori (Cfr DV 7).
Senza Tradizione
e senza le istituzioni che essa stessa include dovremmo rinunciare
ad alcuni aspetti intrinseci al Cristianesimo come l’aspetto
comunitario e la volontà di perpetuarsi lungo i secoli., oltre che
l’esigenza di custodirsi nella verità. Ognuno farebbe per conto suo,
crederebbe a modo suo e ciò che vuole e difficilmente il singolo
potrebbe percepirsi membro, anzi, pietra viva di un’assemblea di
credenti. E inoltre una fede ed una morale puramente soggettive ed
arbitrarie non avrebbero neanche lunga vita perché non avrebbero
nulla di oggettivo, e dunque di universalmente valido, da
trasmettere agli altri. Perciò non solo è legittimo che esista una
Tradizione ma è anche normale perché connaturale alla fede della
Chiesa che è appunto cattolica ed apostolica.
Venendo al
vangelo di oggi capiamo dunque che Gesù non vuole tanto condannare
queste tradizioni in se stesse, non critica il fatto che esse
esistano ma riconosce che non sono più espressione autentica del sì
degli uomini a Dio, non sono più vie di obbedienza alla Parola, ma
diventano piuttosto strumenti di allontanamento dal cuore stesso del
messaggio biblico. Invece che aiutare la Parola a penetrare nelle
trame più nascoste e quotidiane del vissuto degli uomini, rivestono
piuttosto di una purezza formale, esteriore, ipocrita, dice Gesù,
che non è in grado di convertire realmente il cuore dell’uomo
bisognoso di guarigione e di salvezza. La comunità credente in
questo caso non è più un’assemblea materna in grado di generare
nuovi figli, si pone anzi, forse inconsapevolmente, come antagonista
di Dio: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da
me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti
di uomini.”
Questo rischio
può divenire anche il nostro quando, nel nostro pensare e vivere da
cristiani, cerchiamo soluzioni facili, accomodanti, individualiste o
di quella falsa libertà che ci esorta a minimizzare il confronto
fiducioso e umile con il magistero di coloro che nella Chiesa, in
forza della successione episcopale – cito il Concilio (Cfr DV 7-8) –
hanno ricevuto un carisma sicuro di verità e il posto di maestri che
era degli apostoli stessi.
Per questo il
Santo Padre Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica Verbum
Domini, riprendendo quanto il Concilio aveva precisato circa il
rapporto tra Parola di Dio e Tradizione viva della Chiesa afferma:
“In definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci
comprendere in modo adeguato la Sacra Scrittura come Parola di Dio.”
(…) è “ importante che il Popolo di Dio sia educato e formato in
modo chiaro ad accostarsi alle sacre Scritture in relazione alla
viva Tradizione della Chiesa, riconoscendo in esse la Parola stessa
di Dio. Far crescere questo atteggiamento nei fedeli è molto
importante dal punto di vista della vita spirituale. (VD 17-18).”
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sabato 2 Febbraio 2013
– Commento Ora media – Festa della presentazione di Gesù al tempio -
fr. Giovanni Battista FMJ
La
lettura del profeta Malachìa, contestualizzata nel giorno liturgico
della festa della presentazione del Signore Gesù al tempio ci pone
nuovamente, anche se dal Natale sono passati 40 giorni, in una
situazione di attesa e di preparazione all’incontro con il Signore
che viene. E il tempio è il luogo in cui avviene questo incontro. Se
a Natale abbiamo contemplato l’incontro dei pastori con Gesù a
Betlemme, e all’Epifania quello dei Magi venuti dall’Oriente per
adorarlo, primizia della manifestazione del Signore ai popoli
pagani, oggi è Israele il destinatario della visita di Dio, un
Israele rappresentato da Simeone ed Anna. Gesù, attraverso i Suoi
genitori si sottomette alla legge di Mosè che imponeva l’offerta al
Signore del figlio primogenito come riconoscimento della sua
sacralità, cioè della sua appartenenza a Dio che in senso ebraico
significa anche separazione: il primo figlio viene messo da parte
per il Signore come sta scritto nel libro dell’Esodo: “Il Signore
disse a Mosè: Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno
materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali
appartiene a me.” (Es 13,1-2) Gesù entra dunque nel tempio e per Lui
viene offerto il sacrificio previsto.
Ma la
profezia di Malachìa ci aiuta a riconoscere qui qualcosa di diverso.
Rispetto alla presentazione al tempio degli altri bambini israeliti,
l’ingresso nel tempio di Gesù ha un valore superiore perché in Lui
c’è molto di più di un bambino: “Egli è come il fuoco del fonditore
e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare
l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e
argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo
giustizia”.
L’ingresso di
Gesù al tempio non è solo espressione dell’offerta della Sua vita al
Padre, offerta che si consumerà definitivamente nel sublime e
cruento atto d’amore della Croce, ma è quanto prepara Giuda e
Gerusalemme e soprattutto chi opera nel tempio, cioè i sacerdoti
figli di Levi che offrivano i sacrifici a nome del popolo, ad
“offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”. Dunque nella
presentazione di Gesù al tempio Egli non solo offre se stesso al
Padre ma da inizio al rinnovamento del culto e della relazione di
Israele con il Suo Dio al fine di restaurarne l’autenticità e la
purezza, per far sì che l’oro e l’argento tornino ad essere tali. E
Simeone ed Anna sono la primizie del sì di Gerusalemme a Gesù
riconosciuto Messia Salvatore e gloria del popolo d’Israele, un sì
che non sempre sarà costante, in Gerusalemme, e che anzi diverrà
anche rifiuto mortale nel grido “Crocifiggilo, crocifiggilo” del
venerdì santo.
Ma fedele
rimarrà invece il sì di Cristo, che in tutta la Sua vita donata al
Padre e agli uomini, porterà a compimento quella dinamica di
oblazione e di sacrificio che viene espressa ritualmente oggi in
questa sua consegna a Dio. Gesù rimarrà sempre fedele a tale
vocazione scritta nella Sua carne di figlio di Dio e vivrà sempre
come un uomo appartenente a Dio e dunque a Lui consegnato, da Lui
protetto ma soprattutto a Lui sottomesso, fino ad abbracciare
liberamente la morte in Croce. Il bambino Gesù, anche se piccolo è
già grande nel gesto che oggi, sotto la guida dei suoi santi
genitori, compie, e ci rivela l’essenza, il punto supremo di ogni
sacrificio autentico: l’offerta, il sacrificio di se stessi secondo
la volontà di Dio.
È questa la
vocazione dei consacrati, di coloro che vogliono vivere nel tempio
del Signore e fare della loro vita una continua attesa di Lui e
della sua opera purificatrice della loro oblazione. In questa
Giornata della vita consacrata riscopriamo allora la nostra vita
come vita non più appartenente a noi stessi, rallegriamoci per
esserci liberamente espropriati di un bene così grande che il
Signore ci ha dato per restituirglielo nella fiducia che solo Lui
potrà farne “un’offerta gradita” per la Sua gloria e per la salvezza
del mondo.
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giovedì 31 Gennaio 2013
- III Settimana T.O. -
fr. Giovanni-Battista
FMJ
La metafora della
lampada e dunque della luce che il vangelo ascoltato ci propone è
una delle immagini più belle e più comuni per esprimere la vocazione
cristiana. Oltre a trovarla sulle labbra di Gesù in più occasioni,
pensiamo per esempio anche alla parabola delle vergini sagge e delle
vergini stolte la cui saggezza o imprudenza si verifica proprio
nella capacità di attendere il Signore con le lampade accese, è
presente anche nell’epistolario paolino quando l’Apostolo ci esorta
a brillare come astri nel mondo in mezzo ad una generazione malvagia
e perversa (Fil 2,15). Inoltre san Giovanni nella sua prima lettera
accosta la luminosità di Dio con la luminosità che deve
caratterizzare l’agire cristiano: “Dio è luce e in lui non c’è
tenebra alcuna; se camminiamo nella luce come egli è nella luce,
siamo in comunione gli uni con gli altri” (1 Gv 1,5.7)
Ma se si parla di
luce dobbiamo necessariamente presupporre due cose: o che si tratti
di una luce riflessa, una luce che non appartiene all’oggetto
lucente ma di cui piuttosto questo ne e il primo beneficiario e di
conseguenza il portatore e il trasmettitore; oppure dobbiamo
postulare che, alla base di una fonte di luce ci sia una
combustione, un fuoco che rendendo l’oggetto incandescente lo rende
anche luminoso. Al cristiano si possono applicare entrambe le
modalità di provenienza della luce.
La prima, quella della
luce riflessa, è un’idea tipicamente patristica che veniva applicata
al rapporto tra Cristo e la Chiesa: se Cristo è il sole, la fonte
del calore e dunque della luce, la luna ne è il riflesso che, seppur
pallido, è importante e necessario perché illumina la notte del
tempo presente nell’attesa e nella speranza di trovarsi, un giorno,
faccia a faccia con il vero Sole. Questa idea affascinante è stata
recepita nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium quando in
apertura si esplicita qual è lo scopo del Concilio Vaticano II:
“illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende
sul volto della Chiesa” (LG 1).
Ma è vero anche
che, se i cristiani, come sono chiamati a fare, diventano degli
altri Cristi, progressivamente sempre più simili e conformi al Lui,
costoro non solo saranno dei riflettori della luce di Cristo, ma
saranno incendiati dal Suo stesso calore perché invasi dal suo amore
che è un amore totale e geloso. Afferma in proposito il nostro Libro
di Vita nel capitolo sulla castità: “Poiché il tuo Dio è un fuoco
che consuma, non puoi avvicinarti a lui senza essere consumato …
Benché niente sia impuro di per sé, nondimeno tutto in te non
ridiventa puro se non passa attraverso il fuoco” (LdV 81).
Comunque sia, in
entrambe le prospettive, quella della luce riflessa o quella del
fuoco dell’amore divino che infiamma e purifica, una cosa è chiara:
la luminosità del cristiano e della Chiesa si pone più nell’ordine
dell’essere che dell’apparire. Solo se si è totalmente illuminati o
totalmente infuocati da Cristo la nostra vita sarà una lampada per
gli altri, come lo fu quella di San Giovanni Battista che, pur non
essendo la luce vera, è paragonato appunto ad una lampada che arde e
risplende: dunque prima arde e poi risplende. Se non abbiamo chiaro
che tipo di luce dev’essere quella che illumina il mondo la nostra
visibilità nel mondo sarà forse molto luccicante ma poco luminosa se
non spenta del tutto come quelle lampadine che sono sì su bellissimi
lampadari ma sono guaste. E il nostro calore un fuoco di paglia,
tanto rapido ad accendersi e magari scoppiettante, quanto veloce a
spegnersi e incapace di scaldare a lungo.
Se questo è vero
dobbiamo allora ravvivare sempre il dono di Dio che è in noi, cioè
la nostra relazione con Dio, preparare l’olio in piccoli vasi che
consente di attendere a lungo lo sposo che viene nella notte, e
ricordare che se la visibilità del cristiano non è custodita nella
gratuità anche mediante il nascondimento soprattutto per il monaco,
rischia seriamente di degenerare in superficiale ed egocentrica
appariscenza.
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martedì 29 Gennaio 2013,
III Settimana T.O. -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Ci
troviamo oggi, grazie alle letture che abbiamo ascoltato, al cuore
della risposta dell’uomo a Dio che si rivela e che lo chiama:
l’ascolto credente della Sua Parola che diventa obbedienza operosa
della Sua volontà.
Le
parole del Signore Gesù che abbiamo ascoltato vogliono
esplicitamente caratterizzare in senso famigliare i rapporti in seno
alla comunità dei discepoli che gli vengono dietro. Egli non fonda
un partito politico, non istituisce un club di appassionati che
saltuariamente si riunisce per l’hobby preferito, ma chiama tutti a
seguirlo, senza interruzione e senza vacanze, sulle orme
dell’obbedienza al Padre, e così facendo, a diventare, in profondità
figli del Padre sempre più simili a Lui, il solo che lo è per natura
e non per grazia ed adozione come lo siamo noi.
Ma cosa
c’è, in fondo di originale, in questa logica di ascolto ed
obbedienza che Gesù ci propone per essere considerati Suoi fratelli?
L’affermazione di Gesù “chi fa la volontà di Dio, costui è per me
fratello, sorella e madre” potrebbe infatti non avere molto di
diverso dalle regole di convivenza di un qualsiasi gruppo umano. Del
resto il rispetto di una norma, di una volontà riconosciuta da tutti
come superiore ai desideri del singolo è la regola per poter
permanere in qualsiasi raggruppamento che desidera un minimo di
stabilità, di buon ordine. Anche il militante in un partito politico
potrebbe dire: miei fratelli sono coloro che obbediscono al partito,
che seguono il leader. Se interpretiamo così il vangelo di oggi
rischiamo però di impoverire non solo la parola di Gesù, ma la sua
stessa persona e la sua autorità, rendendola simile a quella di un
gurù, di un santone o di un qualsiasi capo di gruppo politico,
filosofico o religioso.
Il
brano della lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato nella prima
lettura ci offre una chiave di lettura del vangelo molto profonda.
Il testo cita il salmo 39 come espressione del Cristo sacerdote
stesso che entra nel mondo: “Tu non hai voluto né sacrificio né
offerta … Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”.
Entrando nel mondo mediante l’Incarnazione nel seno della Vergine
Maria la Seconda persona della Trinità rivela qual è l’atteggiamento
del Figlio nei confronti del Padre: l’adesione alla Sua volontà.
Gesù di Nazareth è la perfetta immagine umana, in quanto anche
divina, del movimento donativo ed eternamente amante che si vive da
sempre nel cuore della Trinità. È solo “in Cristo e mediante la sua
volontà umana che la volontà del Padre è stata compiuta
perfettamente ed una volta per tutte” (CCC 2824). Se il Figlio di
Dio fatto uomo per noi vive nell’obbedienza al Padre ecco che
allora, per noi fare la volontà di Dio non è semplicemente per una
regola di pacifica convivenza o la condizione per appartenere ad un
circolo o ad una famiglia spirituale ma è quanto ci rende pienamente
figli nel Figlio, fratelli e figli con Cristo e in Cristo, è il
nostro modo di dare concretezza e visibilità in noi stessi a
quell’amarsi e donarsi reciproco che il Padre e il Figlio nello
Spirito Santo vivono incessantemente. Ecco perché chi fa la volontà
di Dio è per Gesù fratello, sorella e madre, perché si comporta,
insieme a lui e grazie a lui, come figlio del Padre, confermando ed
assecondando con la vita il dono della figliolanza divina ricevuto
nel Battesimo.
E, del
resto è solo nell’adesione alla volontà del Padre che l’uomo trova
la pace, pace con Dio, pace dentro di sé, pace con gli altri uomini
che diventano così fratelli. Quante nostre inquietudini interiori ed
inimicizie esteriori nascono da un rifiuto più o meno esplicito e
consapevole di fare la volontà del Padre! Al contrario, quanto è
riposante per il nostro cuore deporre, o meglio, scomporre i nostri
perseveranti e complessi tentativi di giustificare di fronte a Dio o
agli altri, soprattutto di fronte a chi, nella Chiesa il Signore ha
posto per governare in Suo nome, per fare quello che vogliamo noi!
Essere
figli significa lasciare al Padre la Parola definitiva su noi
stessi.
Sia
questo per noi il vero cammino di santità e l’autentica via per
crescere nella comunione reciproca, ad immagine della Trinità. Sia
questa, nel nostro tempo e nel nostro mondo, la profezia della vita
cristiana e della vita monastica capace di stupire ed interrogare le
coscienze più lontane da Dio. “La tua gioia tranquilla, parlerà”
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venerdì
25 gennaio 2013 - Conversione
San Paolo - fr. Massimo-Maria
FMJ
Come ogni
anno la festa della conversione di San Paolo conclude l'ottavario di
preghiera per l'unità dei cristiani. Questa scelta diviene quasi un
invito, neanche troppo implicito, a tenere presente durante tutto
l'anno liturgico che, il continuo cammino di conversione della vita
è il miglior modo per lavorare a favore dell'ecumenismo.
Una domanda
però, a tale proposito, si impone: quale significato particolare
assume la parola conversione in tale contesto?
Certamente la
conversione nel senso di una vita che sia più evangelica; ad una
vita che appaia più credente; verrebbe da dire più di Dio, più
secondo Dio.
Guardando però
all'esperienza di Paolo che oggi celebriamo, ed alla parola che è
stata scelta per la liturgia di questo giorno, la parola
conversione assume un particolarissimo significato che diviene per
noi prezioso.
La prima lettura
ci ha dato di ascoltare il racconto della sua conversione da parte
dello stesso Paolo.
In viaggio verso
Damasco, con l'intenzione di perseguitare i cristiani, Saulo ha
vissuto l'esperienza determinante e fondante di tutto il resto della
sua esistenza: l'incontro con Gesù, il Nazareno.
Paolo si converte!
Non nel senso che
passa da una vita malvagia ad una vita buona; le opere che compiva
erano le opere sante di ogni pio israelita;
neppure nel senso
che passa da una vita senza Dio ad una vita piena di Lui; Paolo è
non solo pio israelita, ma fedele osservante e pieno di zelo per il
Dio d'Israele.
Paolo si converte
allora, nel senso che tutta la sua vita sulla strada di Damasco è –
come lui stesso afferma – afferrata da Gesù, presa da Gesù,
ri-orientata a Lui e da Lui, informata dal Signore Risorto. Paolo
sulla via di Damasco è come posto in una relazione nuova e
definitiva che diviene la relazione davvero determinante per tutto
il suo vivere e persino per il suo morire.
Cari fratelli e
sorelle in questo c'è dunque per noi una prima indicazione da fare
nostra, da fare assolutamente nostra: ricordarci che tutta la nostra
vita deve essere un continuo cammino di conversione, non significa
che tutta la nostra vita deve essere un continuo sforzo ad essere un
po' più buoni, un po' più pii, ma piuttosto che tutta la nostra vita
deve essere sempre più orientata, tesa, verso Gesù, il Signore.
Tutta la vita come per Paolo deve essere afferrata, presa dal
Signore Gesù.
Si può essere
buoni senza essere cristiani, si può essere onesti senza essere
credenti, si può essere ineccepibili, brava gente, senza essere
santi. La differenza sta proprio nella centralità o meno della
persona di Gesù, il Signore.
Tendere alla
conversione equivale allora a tendere instancabilmente a Gesù con
forza, con generosità, passione entusiasmo.
A questo punto
si coglie anche l'altra direzione della conversione: gli altri,
l'universo intero per portare non noi stessi, neppure una dottrina
ma una persona, la persona che ha preso la nostra vita e ne è il
senso profondo e la gioia segreta: Gesù il Figlio di Dio.
Il Signore Gesù
per la preghiera dell'apostolo Paolo ci conceda in questo giorno di
ri-orientarci decisamente e costantemente verso di lui, per portarlo
così ai nostri fratelli nella certezza che così con tutta la chiesa
collaboriamo a quell'unità che è il desiderio profondo del Signore
Gesù. Amen
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mercoledì 23
Gennaio 2013
– II
Settimana T.O.
-
fr. Giovanni-Battista
FMJ
Il brano
evangelico che abbiamo ascoltato chiude il ciclo dei racconti di
controversie iniziato al capitolo secondo del vangelo di Marco, un
ciclo che si era aperto con il paralitico a Cafarnao e che si
conclude oggi con la guarigione di un uomo dalla mano paralizzata,
sempre a Cafarnao, e con il drammatico epilogo: ” E i farisei
uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui
per farlo morire”.
In questi
racconti, il ministero di predicazione e di guarigione, spirituale e
fisica, di Gesù si compie sullo sfondo dello sguardo pesante e
critico dei farisei. Ad ogni parola o atteggiamento di Gesù fa
seguito lo scandalo degli osservanti della Legge, dei dotti
conoscitori delle cose di Dio, dei veri religiosi: chi può perdonare
i peccati, se non Dio solo? Perché costui mangia insieme ai
pubblicani e ai peccatori? Perché i discepoli di Giovanni digiunano
mentre i tuoi discepoli non digiunano? E ancora: Guarda! Perché
fanno in giorno di sabato quello che non è lecito? Anche oggi si
ripresenta lo stesso genere di sorpresa, la stessa perplessità,
questa volta, però, mascherata dietro un ambiguo silenzio, quasi un
rifiuto a prendere posizione pubblicamente e a venire alla luce.
Di fronte ad
un pubblico così ostile Gesù si rattrista per la durezza dei loro
cuori. Pur essendo conoscitori e scrupolosi osservanti della lettera
della Torah, hanno fatto dei comandamenti del Signore una sorta di
anestetico per la coscienza, una muraglia intorno al proprio cuore.
Un tale
atteggiamento era già stigmatizzato nell’Antico Testamento.
Ricordiamo bene le forti esortazioni del profeta Isaia: “Smettete di
presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i
noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare
delitto e solennità. (…) Cessate di fare il male, imparate a fare il
bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia
all’orfano, difendete la causa della vedova.” (Is 1,13.17) Ma
l’ambiguità di una religione che separi culto e amore a Dio
dall’amore per l’uomo risalta ancor di più da quando Dio, in Gesù ha
posto nell’uomo stesso la sua dimora rendendolo non più soltanto
“sua immagine e somiglianza” in senso generico, ma τύπος – figura
del Suo Figlio.
Da ciò
capiamo allora che se è tragicamente vero che quando l’uomo toglie
Dio dalla sua vita e dalla relazione con il prossimo rischia di
produrre danni seri e, talvolta irreparabili, a sé e agli altri, è
vero anche il contrario: quando l’uomo esclude l’uomo dalla propria
relazione con Dio va incontro allo stesso rischio: una religione
contro l’uomo, un culto spietato, un sacrificio degli altri e non di
sé. Cristo, sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek,
“sacerdote perché sacrificio”, come ci è stato spiegato nel commento
dell’ora media di oggi, ci introduce nel vero culto in Spirito e
Verità. Il Padre, del resto, cerca tali adoratori.
“Noi
pensiamo – scriveva il Venerabile Papa Paolo VI – che la carità
debba oggi assumere il posto che le compete, il primo, il sommo,
nella scala dei valori religiosi e morali, non solo nella teorica
estimazione, ma altresì nella pratica attuazione della vita
cristiana. Ciò sia detto della carità verso Dio, che la sua Carità
riversò sopra di noi, come della carità che di riflesso noi dobbiamo
effondere verso il nostro prossimo, vale a dire il genere umano.” (Ecclesiam
Suam § 58) Non c’è nulla di squisitamente puro e cristiano che non
sia anche perfettamente umano. Il Signore è per l’uomo e l’uomo è
per il Signore. È questo il cammino di unificazione che la sapienza
divina traccia per ognuno di noi. L’unità visibile della Chiesa
rimane un traguardo probabilmente ancora lontano, ma nulla ci
impedisce di amare e di colmare le nostre distanze, già fin d’ora,
seguendo la via della carità.
Se il Figlio
di Dio incarnandosi ha colmato l’abisso che separa Dio dall’uomo
corrotto dal peccato, anche noi potremo, insieme a Lui, attraversare
l’abisso (perché talvolta davvero di abisso si tratta, se pensiamo
per esempio al “l’inferno sono gli altri” di Jean Paul Sartre
“l’inferno sono gli altri”) che ci rende estranei, per non dire
nemici, a vicenda.
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venerdì 18 Gennaio 2013
– IA Settimana T.O. -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Le letture che abbiamo
ascoltato, anche se tratte da testi differenti, sono tra loro legate
da un tema che accogliamo con particolare interesse oggi, giorno
iniziale dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani.
Questo tema è l’unità nella fede.
La lettera agli Ebrei, meditando
sul salmo 94, lo collega giustamente al contesto storico a cui fa
riferimento: l’esodo nel deserto, l’uscita del popolo d’Israele
dall’Egitto. Il salmo riflette sulla fede degli israeliti, una fede
degenerata per alcuni in ribellione, distacco da Dio, non ascolto.
Un tale atteggiamento irritò il Santo d’Israele: “mi disgustai di
quella generazione e dissi: hanno sempre il cuore sviato, non hanno
conosciuto le mie vie … non entreranno nel mio riposo.” E l’autore
della lettera agli Ebrei aggiunge: “Noi vediamo che coloro che non
avevano creduto non poterono entrare nel riposo di Dio a causa della
loro mancanza di fede.”
Tale storia passata diventa
insegnamento per il presente, avvertimento per non cadere nello
stesso genere di disobbedienza, invito urgente ad accogliere con
cuore docile ed ascoltante la Parola del Vangelo. Ma l’ascolto non è
sufficiente. C’è bisogno di interrogarsi sul come ascoltare, sul
tipo di ascolto, un ascolto che dev’essere concorde, dev’essere
accoglienza comunitaria della parola nella e per la fede comune. Un
ascolto diverso potrebbe non solo non essere di giovamento per noi
stessi, ma potrebbe mortificare il frutto di grazia e di comunione
che la Parola porta in sé a tal punto da creare divisioni in seno ai
credenti: “Anche noi, come quelli, abbiamo ricevuto il Vangelo: ma a
loro la parola udita non giovò affatto, perché non sono rimasti
uniti a quelli che avevano ascoltato con fede.”
Venendo al Vangelo, anche qui il
tema dell’unità nella fede è molto presente, anzi si parla
addirittura di una fede visibile, tanto che l’evangelista Marco
scrive che Gesù, vede la fede delle quattro persone che gli recavano
un paralitico. Il testo non ci dice nulla riguardo alla fede di
quest’ultimo, ma è chiaro che Gesù, vedendo la fede dei quattro,
disse: Figlio ti sono perdonati i peccati. Per la fede di terzi il
paralitico sarà salvato. La fede di cui si parla è una fede unanime,
concorde, una fede che corroborata dall’amore e dalla compassione
per il fratello infermo rende queste quattro persone, forse
inconsapevolmente, armonico strumento della grazia per la guarigione
interiore ed esteriore di un povero sofferente.
Il fotogramma di questa scena
che il vangelo ci consegna diventa per noi, oggi, immagine del
nostro desiderio di cristiani di vivere e di esprimere in modo
indiviso, cioè in una comunione piena, la nostra vocazione cristiana
in un mondo e per un mondo sofferente che ha bisogno del sostegno
unito e compartecipe di tutti i cristiani per poter giungere a
Cristo e trovare salvezza. Ricordiamolo, non per la fede di uno solo
dei portantini il paralitico fu sanato, ma per la fede di tutti e
quattro. E non sta scritto che Gesù vede “le loro fedi” ma “la loro
fede”, un’unica fede che orientava, potremmo dire, governava il
movimento dei quattro orientandolo verso Cristo per la
santificazione dell’infermo. Tra le righe, e in modo un po’
allegorico, sembrano emergere qui quei tre vincoli di comunione,
nella professione di fede, nel governo e nei mezzi di santificazione
(ossia i sacramenti) che debbono sostenere la comunione della Chiesa
che si edifica sulla roccia di Cristo.
“Da Cristo Signore la Chiesa è
stata fondata una e unica, - afferma il decreto sull’Ecumenismo del
Concilio Vaticano II – eppure molte comunioni cristiane propongono
se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo. Tutti
invero asseriscono di essere discepoli del Signore, ma hanno
opinioni diverse e camminano per vie diverse, come se Cristo fosse
diviso. Tale divisione – si legge sempre nel decreto conciliare –
non solo si oppone apertamente alla volontà di Dio, ma è anche di
scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la
predicazione del Vangelo ad ogni creatura.”
Tali parole non possono
lasciarci indifferenti. Di fronte ad un tale stato di cose vogliamo
e dobbiamo sentirci anche noi interpellati nel nostro intimo e
sollecitati nel nostro agire a dare il nostro contributo per far sì
che quella barella su cui ancora oggi giace chi ignora la salvezza
di Cristo possa essere condotta nella casa di Gesù, laddove il
Maestro annuncia ai molti la Parola e guarisce i peccatori.
Il desiderio di Gesù che Egli ci
ha lasciato come preghiera e come una sorta di testamento nelle sue
ultime ore di vita terrena abiti in questi giorni le nostre
invocazioni: “Non prego solo per coloro che mi hai dato, ma anche
per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché
tutti siano una cosa sola … perché il mondo creda che tu mi hai
mandato” (Gv 17,20-21).
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venerdì
10 Gennaio 2013 -
2a settimana dopo Natale -
fr. Giovanni-Battista
FMJ
Colui che per
decenni era rimasto un qualsiasi con-paesano degli abitanti di
Nazareth, oggi, nella sinagoga inizia la sua missione di annuncio e
di salvezza. Tutti avevano lo sguardo fisso su di Lui, tutti avevano
percepito nel modo di Gesù di proclamare il passo del profeta Isaia,
qualcosa di diverso, di personale e di universale insieme, di remoto
e atteso da secoli e, nel contempo di incredibilmente contemporaneo.
“Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
Nessuno immaginava di trovarsi “nella pienezza dei tempi”. Sta in
mezzo a voi qualcuno che non conoscete, diceva Giovanni il Battista.
Ritorna in questo frangente lo stupore, la meraviglia che già a
Betlemme avevano lasciato a bocca aperta coloro che udivano la
testimonianza dei pastori: siamo di fronte ad una nuova Rivelazione!
Coloro che pensavano di conoscere Gesù perdono i loro riferimenti,
sono spiazzati e forse disorientati, un disorientamento che, come
sappiamo da un altro episodio avvenuto sempre a Nazareth, aveva
quasi condotto Gesù al linciaggio.
È interessante notare
come Gesù non si autoproclami Messia Salvatore, pur sapendo di
esserlo, ma lascia che sia la Parola di Dio ad illuminare, agli
occhi delle genti, la sua identità. Pur essendo Colui che, in quanto
vero Dio e vero uomo, “proferisce le parole di Dio”, non annunzia se
stesso ma lascia che la testimonianza autorevole della Scrittura, e
dunque dello Spirito che è sopra di lui, illumini il suo volto e lo
riveli agli astanti. La parola di Dio che ancora oggi e in diversi
modi risuona nel mondo e nella Chiesa ci dischiude l’insondabile
mistero, il volto di Cristo, ci fa conoscere Colui nel quale si
ricapitolano tutte le cose.
Ora, la Parola di Dio ha
questo potere, ma solo ad una condizione: che la si consideri come
Parola di Dio e non come parola umana, e di conseguenza, che la si
accolga con cuore credente, con fiducia. In quanto parola di Dio
continua ad essere efficace nell’intimo di chi l’ascolta, prima che
per dare degli orientamenti di vita da seguire, per preparare i
cuori all’accoglienza della rivelazione di Gesù. Di questo rendeva
grazie san Paolo: “noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché,
ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete
accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola
di Dio, che opera in voi credenti” (1 Ts 2,13). Dio continua a
venire a noi, il Verbo divino continua ad incarnarsi, e non avremo
mai finito, anche noi come gli abitanti di Nazareth in preghiera, di
conoscere qualcosa di Gesù e del suo vero volto. Se dunque ci
avviamo verso la fine di questo tempo di Natale in cui abbiamo
solennemente celebrato e accolto nuovamente nella nostra storia
l’incarnazione del Verbo di Dio, ecco che tale incarnazione rimane
nella Chiesa, perdura nell’ascolto della Parola di Dio, e, in essa,
ci raggiunge.
Il santo Padre Benedetto
XVI parlando in una sua esortazione della “Cristologia della Parola”
ricorda un aspetto molto affascinante messo in luce dalla tradizione
patristica e medievale con un’espressione suggestiva: “il Verbo si è
abbreviato”: “«I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca
dell’Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia, che
anche san Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero
già preannunciate nell’Antico Testamento. Lì si leggeva: “Dio ha
reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata” (Is 10,23; Rm 9,28)
… Il Figlio stesso è la Parola, è il Logos: la Parola eterna
si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è
fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile».
Adesso, la Parola non solo è udibile, non solo possiede una voce,
ora la Parola ha un volto, che dunque possiamo vedere: Gesù
di Nazareth.” (Verbum Domini § 12)
Anche a noi perciò si
addice lo stesso atteggiamento contemplativo dell’assemblea della
sinagoga di Nazareth dove gli occhi di tutti erano fissi su Gesù
perché davvero tra noi “è apparsa la grazia di Dio” (Tito).
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venerdì
4 Gennaio 2013 -
1a settimana di Natale -
fr. Giovanni Battista
FMJ
Il testo del vangelo di oggi è sicuramente una delle pagine più
belle degli scritti giovannei. Ci troviamo di fronte infatti alla
narrazione di un incontro particolare, unico, irripetibile, un
incontro che cambierà non solo la vita delle poche persone
direttamente coinvolte, ma il corso della storia e soprattutto il
corso della nostra storia personale: la nostra vita oggi non sarebbe
la stessa, sarebbe molto diversa, se non fossero realmente accaduti
eventi come questo. Ogni parola di questo testo sarebbe degna di
soffermarsi lungamente per penetrarne il contenuto e rimanerne
illuminati, abbagliati, per entrare anche noi nella vicenda narrata.
Ci possiamo accontentare
di qualche raggio di luce.
Anzitutto
notiamo l’utilizzo di un verbo molto diffuso nel vangelo di
Giovanni, il verbo meno, rimanere, dimorare, che è uno dei migliori
tentativi di tradurre in parole umane, per quanto sia possibile, la
dinamica di unità e distinzione che si vive eternamente in seno alla
Trinità. Questo termine è qui utilizzato per descrivere l’esperienza
dei due discepoli, Andrea e l’altro discepolo (che la tradizione ha
identificato con Giovanni) a casa di Gesù: Andarono, videro dove
egli dimorava e quel giorni rimasero con lui. Egli dimorava e
anch’essi diventano con-dimoranti insieme a Gesù. È interessante
notare che questo verbo non viene utilizzato per esprimere
l’aggregarsi degli stessi discepoli con Giovanni Battista, in questo
caso si utilizza infatti un verbo diverso, Istemi, stare: Giovanni –
si dice – stava ancora là con due dei suoi discepoli. Cosa è
cambiato tra le due situazioni, cosa c’è di diverso tra le due
comunità? Ebbene, ci troviamo davanti ad una relazione nuova, ad
un’esperienza nuova: non si dimora con Giovanni il Battista, ma solo
Gesù è il compagno con cui dimorare! Cosa c’è in mezzo tra questi
due momenti che, anche se molto ravvicinati temporalmente
all’interno della vicenda narrata nel testo di oggi, rimandano ad un
passaggio globale del mondo e della storia avvenuto nella pienezza
dei tempi? La risposta ce la da San Paolo: Dio mandò il suo Figlio
perché ricevessimo l’adozione a figli, in altre parole perché
divenissimo tutti fratelli, tutti abitanti della stessa casa,
dimoranti, rimanenti della stessa casa. Con l’incarnazione del
Figlio di Dio si inaugura il tempo della comunione. Ecco il senso
pieno del verbo meno. Se è vero che, al tempo di questa vicenda Gesù
già si era incarnato, tuttavia l’incarnazione per i protagonisti del
racconto si rivela in questo incontro: Abbiamo trovato il Messia!
Ora, se è Dio in Cristo il fondamento della comunione in quanto è
Lui che ci rende partecipi della sua natura facendoci figli nel
Figlio e fratelli in Cristo, tale rigenerazione, tale nuova identità
divina che ci viene offerta non si compie in modo impercettibile,
passandoci sopra come se niente fosse. Perché entrare e vivere in
comunione con Dio e con i fratelli significa rompere con il peccato,
purificarsi dal male. Lo stesso apostolo Giovanni nella prima
lettura ci esorta con parole molto chiare: “Figlioli, nessuno
v’inganni: chi commette il peccato viene dal diavolo…chiunque è
stato generato da Dio non commette peccato perché un germe divino
dimora in noi…per questo si manifestò il Figlio di Dio: per
distruggere le opere del diavolo”. Il nostro Salvatore è nato per
darci la vita, cioè per salvarci dalla morte il cui pegno, la
caparra è il peccato. Vivere la comunione con Dio significa morire
al peccato. Questo è un passaggio forse duro e doloroso, che ci
costa , ma è necessario. Se da un lato dobbiamo mettere in conto
che, finché siamo in questa vita dobbiamo tollerare la promiscuità
del bene col male, del grano buono con la zizzania, in noi e fuori
di noi, d’altro canto non dobbiamo mai rinunciare all’ideale della
santità. In questo “nessuno vi inganni” è contenuta un’esortazione
paterna a rimanere vigilanti e a non cedere all’illusione di un
cammino cristiano più facile, più comodo perché magari ha rinunciato
al desiderio della misura alta, di essere come Gesù. La grazia di
Dio non sia vana in noi! Vale molto agli occhi di Dio la sofferenza
provocata dalla fatica della conversione.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia – dice il Salmo.
Venite e vedrete! È questo l’invito che il Signore ci rivolge oggi.
Chi vuole risponda: ecco Signore, io vengo, per fare la tua volontà.
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martedì 1° Gennaio 2013
- 1 settimana di Natale - Maria SS.Madre di Dio -
fr. Giovanni-Battista
FMJ
L’Ottava di Natale si compie e il nuovo anno si apre guardando alla
figura di Maria nell’accezione più alta che una creatura potesse mai
ricevere nella storia dell’umanità: Madre di Dio. Per quanto,
durante i secoli, la pietà popolare, la teologia e la spiritualità
mariana ci abbiano regalato profondissime riflessioni e abbiano
esaltato Maria attribuendole le qualifiche più belle e descrivendola
nei modi più affettuosi ed espressivi, nulla può lodare maggiormente
la bellezza di Maria se non il titolo che la Chiesa le riserva da
secoli, quello di Madre di Dio. Se dunque, pochi giorni fa, abbiamo
visto avverarsi la parola del profeta Isaia (9,5): “un bambino è
nato per noi, ci è stato dato un figlio”, oggi vogliamo aprirci ad
una sorta di nuova rivelazione: la rivelazione di Maria come Madre.
Sì, perché il Natale del Signore è anche il Natale di Maria come
Madre, e dunque molto opportunamente questa solennità, un tempo
celebrata l’11 ottobre, a ricordo del Concilio di Efeso che proclamò
definitivamente il dogma della maternità divina di Maria, venne poi
contestualizzata nell’unico giorno liturgico dell’Ottava di Natale.
Parlare di Maria nei termini di Madre di Dio presuppone anzitutto il
riconoscere la realtà dell’incarnazione del Verbo di Dio, della
seconda Persona della Trinità. Maria non è Madre di Dio nel senso
che sia principio della divinità, ma è Madre di Dio perché
concepisce e partorisce Gesù Cristo, che è vero Dio e vero uomo,
Colui che era prima di tutti i secoli, prima ancora di Maria. Maria
da alla luce il Creatore di tutte le cose. Gesù, nato da donna, è
nel contempo il concepito per opera dello Spirito Santo. Maria offrì
la sua umanità al Figlio eterno, ella non fu semplicemente un
contenitore per il Dio bambino, ma Maria fu Colei che donò a Cristo
quella carne grazie alla quale tutta la natura umana è stata
assunta, redenta, glorificata, partecipe della natura divina. Da ciò
iniziamo a comprendere meglio anche il mistero e la profondità della
maternità di Maria, divina e umana. Ma per evitare che tale
comprensione ci lasci semplicemente a bocca aperta, regalandoci
sentimenti di stupore o meraviglia, in fin dei conti, poco incisivi
nella nostra vita di credenti, per evitare di lasciare Maria nella
sfera delle cose impossibili dobbiamo ricordarci che Maria è
anzitutto Madre grazie alla fede, dunque Madre nella fede. Già il
Vangelo mette in luce almeno due occasioni in cui Maria è
considerata beata perché crede: quando Gesù corresse la donna che
nella folla gridò: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che
ti ha allattato!” Ribattendo: “Beati piuttosto coloro che ascoltano
la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). E quando Gesù
rispose a coloro che gli avevano annunziato che sua madre e suoi
fratelli lo cercavano: “Mia madre e miei fratelli sono questi:
coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc
8,21).
Maria è madre e genera anzitutto perché ha fede! Ora, “la fede – ci
insegna la Chiesa – è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da
lui infusa. (…) è impossibile credere senza la grazia e gli aiuti
interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un
atto autenticamente umano” perché “nella fede, l’intelligenza e la
volontà umane cooperano con la grazia divina.” (CCC 153.154.155). E
Maria ha corrisposto alla grazia divina in modo squisitamente puro e
anche squisitamente umano e materno: con la sua umiltà! Maria,
libera da se stessa, ha provocato la libertà del suo Creatore. Per
Maria credere non è stato solamente, cosa già grande, accogliere con
fiducia e oblatività la Parola di Dio trasmessale dall’angelo. Prima
ancora di questa adesione personale al progetto di Dio Maria vive un
atteggiamento di straordinaria purezza: lascia che Dio si riveli per
quello che è! È questo atteggiamento antropologico e trascendente,
insieme esistenziale e spirituale, ad interloquire con il Tu che Dio
le rivolge. Tale disponibilità di Maria, che è apertura del cuore e
della mente è, in fondo, quell’atteggiamento che distingue lo
stupore, la meraviglia di coloro che udivano le cose dette dai
pastori, reazione non negativa ma ancora superficiale, incapace di
andare al di là dell’apparenza, dal “custodire meditando nel cuore”
di Maria, esperienza interiore che dice rispetto, accoglienza casta
delle parole e degli eventi, sguardo contemplativo del divino che
emerge nell’umano. Nel seno di una donna del genere Dio trova
riposo, trova dimora, prende carne.
Se l’essere Madre di Maria è anzitutto esserlo nella fede e per la
fede, capiamo allora che, se lei lo è in modo privilegiato e unico,
tuttavia anche per noi è possibile generare Cristo per mezzo della
fede. Generarlo in noi stessi lasciando che si riveli nella nostra
vita. E generarlo negli altri assecondando l’opera di Dio e, nel
contempo, lasciando che tale opera sia come la vuole Dio e non come
la vorremmo noi. Maria, donna che genera Cristo, diventa per noi
allora il modello non solo della credente, della donna di fede in
quanto tale, ma soprattutto di una fede che è apertura e
disponibilità al mistero non detentrice.
Maria, Madre di Dio e Madre nostra, pura trasparenza di Gesù, tu sei
l'umile serva che il Signore ha voluto fare partecipe dei suoi
segreti, rivelando se stesso in te, mostraci la via della vera
maternità e della vera fecondità. O Madre dei viventi, beata tu che
hai creduto!
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