28 Dicembre 2012
- Santi Innocenti -
fr. Giovanni-Battista
FMJ
Il vecchio Simeone,
quando Maria e Giuseppe si recheranno al tempio di Gerusalemme per
offrire al Signore il loro figlio primogenito, profetizzerà: “Egli è
qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele e come segno
di contraddizione, affinché siano svelati i pensieri di molti
cuori.” Tale profezia non ancora formulata era già evidente appena
qualche giorno dopo la nascita di Gesù. Il re Erode cercò infatti di
nascondere il turbamento e la paura che affiorarono dentro di lui
quando seppe che un re era nato in Israele, un re tale da suscitare
da molto lontano l’adorazione dei magi. Egli mostrò una compiacenza
ipocrita e fece le dovute indagini per sapere in quale luogo avrebbe
dovuto nascere il Cristo. Ma tale strategia diplomatica nascondeva
invece la paura di un rivale, il terrore di perdere il proprio
potere. A ciò si aggiunse poi la sensazione di essere stato preso in
giro dai magi che, seguendo le indicazioni dell’angelo apparso loro
in sogno, non riferirono nulla ad Erode sul bambino Gesù: di fronte
a Dio avevano, giustamente, relativizzato l’autorità terrena.
La reazione violenta di
Erode ci fa riflettere: essa è traduzione in azioni del suo
desiderio di togliere di mezzo Dio, egli aveva paura di Dio! Se
magari ai nostri giorni tale paura non sempre genera una reazione
così violenta, rimane tuttavia viva la domanda. Perché Dio fa così
paura all’uomo? Anche oggi Dio può essere considerato un nemico,
anche oggi può risuonare nei pensieri più intimi di noi e dei nostri
contemporanei la demoniaca affermazione: “Basta! Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?” (Lc 4,34). Colui che si
incarna per intrattenersi con noi e chiamarci all’amicizia con Dio,
cioè alla vita divina, trova spesso un terreno ostile, cuori
induriti e superbi che rifiutano la via della salvezza e
preferiscono abitare nell’ombra di morte pur di non perdere il
proprio piccolo potere. E da una paura infondata nasce la violenza,
violenza contro Dio, ma che nel contempo, come nel caso dei bambini
di Betlemme, si accompagna alla violenza contro l’uomo. Le due cose
sono collegate, come mette in luce anche la prima lettura
dell’apostolo Giovanni: “Se camminiamo nella luce, come Dio è nella
luce, siamo in comunione gli uni con gli altri”.
Chi non si rende conto
del male che è in sé lo vede o lo scarica sugli altri, come Erode
che riversa la sua rabbia sui bambini di Betlemme. Forse per questo
Dio ci fa paura: perché viene a svelare la verità che abbiamo nel
cuore, chi siamo veramente. Egli viene a distruggere l’apparenza che
ci siamo costruiti o che gli altri ci attribuiscono. Di fronte a
tale luce che illumina i cuori la reazione può essere talvolta
aggressiva, un po’ come quella di Erode: Gesù, un suo suddito, viene
considerato a lui superiore, uno degno di adorazione e lui questo
non lo tollera. Dio fa paura perché la verità fa paura.
Erode tenta di togliere
Dio dall’orizzonte del mondo, dall’orizzonte umano come lo aveva
allontanato dal proprio cuore e così genera ingiustizia, malvagità e
morte. Il rifiuto di Dio genera il rifiuto dell’uomo. Erode è nelle
tenebre e cerca di estendere le tenebre sugli altri. Ma veniva nel
mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo, e le tenebre non
l’hanno vinta! Per quanto l’impero delle tenebre si ribelli e
dispieghi tutta la sue armi contro la lieta notizia che in Israele è
nato un Salvatore, buona novella che non solo dei poveri pastori
avevano accolto, ma ora anche dei Magi che provenivano da lontano,
l’avanzata nel mondo del piano di Dio nel mondo continua, il suo
piano di pace e di salvezza non viene interrotto: “Alzati Giuseppe,
prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là
finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per
ucciderlo.”
La lotta tra Bene e Male
non è una lotta tra due potenze uguali ed equivalenti; tra Luce e
Tenebre sussiste infatti la stessa abissale distanza che c’è tra il
Creatore e la creatura, una distanza incolmabile se non per
iniziativa divina: il male non può salire fino a Dio, ma Dio può
scendere sulla terra, nel male, e vincere il male. La storia e il
mondo sono nelle mani di Dio, davvero è nato per noi un re! Il
sangue di questi bambini che prefigura quel sangue grazie al quale
loro stessi saranno salvati, ci ricorda, in un tempo liturgico in
cui potremmo dimenticarlo, che siamo stati redenti a caro prezzo (Cfr
1 Cor 6,20) e che con questo sangue è stata scritta una promessa che
accende la nostra speranza nonostante il peccato che segna
profondamente la storia umana: il mondo non resta chiuso in se
stesso, ma è aperto al Regno di Dio. (Cfr. Compendio di Dottrina
sociale della Chiesa § 578).
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26 Dicembre 2012
- S.Stefano -
fr.Giovanni Battista FMJ
All'indomani
della celebrazione della nascita del nostro Salvatore e ancora
illuminati dalla luce di quel Bambino che è rivelazione della gloria
del Padre, la nostra attenzione è invitata oggi a meditare sulla
figura di Santo Stefano, primo tra i diaconi, primo tra i martiri.
Egli è il primo nominato, infatti, tra i sette prescelti per questo
nuovo ministero, in cui la Chiesa ha visto l’istituzione del
ministero diaconale, ed è soprattutto il primo a versare il sangue a
causa del Vangelo dopo il Signore Gesù e alla sua sequela. Prima la
chiesa di Gerusalemme aveva subito solo qualche persecuzione ma
nessuno ancora era morto; Stefano dunque non poteva appoggiarsi
sulla testimonianza totale e sulla morte di nessun altro se non del
suo Maestro e Signore. Egli è stato la prima realizzazione radicale
di quel “come hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi”.
Stefano inaugura così la stagione, mai conclusasi, dei testimoni
fino al sangue, di coloro cioè che non solo annunziano, gridano il
Vangelo con la propria vita, ma anche, e soprattutto con la propria
morte.
Ma che senso ha
celebrare questa festa, gioiosa ma dai tratti anche dolorosi, perché
narra di una vicenda di sangue che umanamente non può non colpirci
per gli aspetti di ferocia e di aggressività con cui è descritta,
quando ancora siamo illuminati e rallegrati dalla luce dl Natale?
Sembrerebbe quasi un venire ad interrompere la festa. In realtà la
scelta liturgica non è priva di senso. Oggi la Chiesa, nella festa
di Santo Stefano ci pone davanti agli occhi la realizzazione, il
contenuto, la testimonianza visibile non solo di cosa significhi che
il divino sia entrato nell'umano e dunque sia con noi, ma che il
Figlio di Dio fatto uomo continui ad essere con noi, nella Chiesa e
non solo, tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Stefano è
presentato dagli Atti degli apostoli come un uomo imbevuto della
presenza di Dio; viene descritto infatti come “uomo pieno di fede e
di Spirito Santo”, “pieno di grazia e di potenza” e operatore di
“grandi prodigi e segni tra il popolo”. Egli era un altro Cristo,
una sorta di incarnazione della sua presenza che vivendo come Lui ha
saputo morire come Lui: le accuse rivolte pochi anni prima contro
Gesù di Nazareth sono infatti le stesse che ora portano Stefano al
martirio; come Cristo Stefano affida il suo spirito al Padre; come
Cristo invoca misericordia su coloro che gli gettavano addosso
pesanti pietre. Puro di cuore vide il Figlio di Dio: “Ecco,
contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra
di Dio” e lo rese visibile: “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio,
fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un
angelo” (At 6,15).
In questo modo
la liturgia che nell’Ottava di Natale oggi guarda a Stefano, non
semplicemente si lascia illuminare dalla luce di Cristo che dalla
mangiatoia attrae la nostra adorazione, ma vuole farci scorgere la
presenza del medesimo Verbo incarnato anche nella vita della Chiesa,
e soprattutto nella vita di quei testimoni che, come Stefano, nella
Chiesa, sono stati colmati di Spirito Santo e sono così passati
attraverso una nuova nascita, un nuovo Natale: quello di Cristo in
loro.
Non solo, con il
martirio di Stefano si pone una pietra miliare anche nella nascita e
nella maturazione dell’identità stessa della Chiesa: infatti se fino
ad allora gli apostoli speravano di convincere la sinagoga tentando
di mostrarle il compimento delle promesse messianiche in Gesù di
Nazareth, dal martirio di Stefano in poi i cristiani cominciano a
fuggire a causa della persecuzione, evangelizzando nuove terre e
distaccandosi sempre più dalla sinagoga. La Chiesa nata dal costato
trafitto di Cristo, continua a nascere in altre terre sempre a
prezzo del sangue di Cristo versato da chi ne è diventato imitatore
e presenza. La Chiesa ci esorta in questo modo a non cercare il
Salvatore che è nato, solo nella stalla di Betlemme ma anche nella
vita, nella parola e nella sofferenza della Chiesa e di tutti coloro
sono perseguitati per la giustizia. E a questo sguardo presenziale
ed ecclesiale ci richiamano anche Maria, madre e figura della Chiesa
e Giuseppe, patrono della Chiesa universale.
Se la gioia
semplice delle festività natalizie rischia di essere ridotta ad un
arcobaleno sdolcinato di pii sentimenti, tanto belli quanto
aleatori, tanto variopinti quanto effimeri, di fronte al sangue
capiamo il vero valore dell’Incarnazione. Il Figlio di Dio continua
a prendere carne, ad incarnarsi, in chi è disposto ad accogliere,
come Maria e come Stefano, l’ombra dello Spirito Santo.
Guardiamo dunque
al presente, al presente della Chiesa, al presente del mondo e al
presente della nostra vita.
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25 dicembre 2012
- S. Messa dell’Aurora – Natale 2012 -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
La
solennità di oggi ci pone davanti non semplicemente al mistero di
Dio inteso in senso generico, ma alla persona stessa di Gesù. Non
abbiamo alcun messaggio da parte sua, nessuna parola uscita dalla
sua bocca da meditare, nessun comandamento oggi ci viene ingiunto.
Abbiamo davanti ai nostri occhi nient’altro che un bambino, un
neonato, che conosciamo solo per quanto è stato profetizzato di lui
e per quanto l’angelo Gabriele a Maria, l’angelo del Signore a
Giuseppe e l’angelo ai pastori hanno annunziato. Il Verbo di Dio non
parla ancora, eppure in Lui il Padre ha detto tutto! “Dal momento –
scrive San Giovanni della Croce – in cui ci ha donato il Figlio suo,
che è la sua unica e definitiva Parola, Dio ci ha detto tutto in una
sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire. Infatti
quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, ce l’ha detto
tutto nel suo Figlio, donandoci questo tutto che è il suo Figlio”.
Per
questa ragione l’angelo dice di annunziare ai pastori una buona
novella, letteralmente, “evangelizzo a voi una gioia grande”. Il
Vangelo, prima che essere un messaggio con un contenuto e una morale
è rivelazione di Dio stesso, del Verbo incarnato per la nostra
salvezza.
In
questa Messa dell’aurora al confine di una notte non ancora
dissipata e di una nuova luce che già si intravede all’orizzonte,
mentre viene a visitarci dall’alto un sole che sorge, un giorno
nuovo per tutta l’umanità, non possiamo fare altro che adorare in
silenzio il grande mistero del Dio fatto uomo, nutrendo in noi quel
sentimento di stupore, di meraviglia e soprattutto di gioia che
sempre deve ardere nel segreto del nostro cuore. Di fronte al
Bambino Gesù silente anche noi vogliamo tacere per cogliere
l’inesprimibile che Egli ci comunica, che Maria custodisce e medita
nel suo cuore, che Giuseppe protegge e accompagna, che la gente
umile, come i pastori, contempla insieme a noi.
Immersi
in questa luce possiamo allora chiederci: ma qual è quella forza che
consente al Dio onnipotente e creatore di tutto di farsi bambino?
Come il Dio tre volte Santo, separato da tutto ciò che è profano, il
Totalmente Altro, può assumere la natura umana? Non semplicemente
per la sua onnipotenza, non per la sua capacità di agire sul nulla
ponendo in essere ciò che prima non era, non per la sua capacità di
scrutare i segreti più nascosti e le coscienze più cupe. Ma per la
forza dell’amore, la forza dell’amore può tutto! Nulla è impossibile
a Dio perché Dio è amore. Se fosse stato solo onnipotente e non
amante, o creatore e non amante, o giudice supremo ed universale e
non amante, non tutto gli sarebbe stato possibile perché la sua
grandezza e la sua potenza sarebbero stati per lui un limite
invalicabile. Dio non sarebbe riuscito ad andare al di là di se
stesso. Ma Dio sa andare al di là di se stesso, Dio sa trascendersi
divenendo uomo pur rimanendo Dio, perché Dio è amore. Ecco di cosa è
capace la forza dell’amore.
Questo
bambino che oggi abbiamo di fronte e che possiamo adorare,
contemplare, stringere e baciare è il modo di Dio per dire a
ciascuno: Io ti voglio bene e ti do la mia vita, la metto nelle tue
mani! Voglio che tu sia con me e comincio con l’essere io con te.
Voglio che tu sia come me e comincio con l’essere io come te.
L’attesa trepidante che abbiamo vissuto durante questo tempo
d’Avvento e che è diventata per noi non solo consapevolezza
dell’abisso che ci separa da Dio, ma soprattutto scoperta che questo
spazio contiene un desiderio insaziabile e dunque potenzialmente
frustrato, ora è saziata, l’abisso colmato, il vuoto abitato: Gesù è
l’Emmanuele, il Dio con noi!
Di
fronte a questa rivelazione sublime perché divina, perché
espressione unica di quel “i miei pensieri non sono i vostri
pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8) la veglia
solitaria nella notte delle nostre inquietudini e dei nostri
interrogativi, da errare senza mèta e ricerca “a tentoni” (At 17,27)
nella nebbia della nostra non conoscenza e del nostro peccato,
diventa corsa verso un volto, quello di un bambino: “Andiamo fino a
Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto
conoscere”. Forse sarà scandalo per i Giudei e stoltezza per i
pagani; ma per coloro che sono chiamati è potenza di Dio e sapienza
di Dio. (Cfr. 1 Cor 1, 23-24)
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25 dicembre 2012 -
messa di mezzanotte di Natale - fr.
Massimo-Maria FMJ
Fratelli e sorelle anche quest'anno è giunto il Natale. Durante
tutto il tempo di Avvento abbiamo cantato “ Vieni Signore “. Lo
abbiamo invocato; lo abbiamo desiderato, pregato e supplicato: “
Vieni Signore Gesù “. Ora Egli è venuto. Una luce intensa splende in
questa notte, una grande luce brilla nelle tenebre del mondo, è
apparsa la grazia di Dio. Gesù è nato!
Carissimi fratelli e sorelle, ora misteriosamente nella liturgia
della sua Chiesa Gesù è venuto, è giunto, Egli è qua.
In questa liturgia Gesù ci guarda, ci ascolta; di più,
attraverso questa liturgia Lui ci parla.
Sì! Gesù in questa notte ha qualcosa da dire a ciascuno di noi, ha
una parola da pronunciare nel profondo del nostro cuore, per la
nostra vita.
Egli che ci conosce, sa bene che siamo venuti qua, questa
stanotte, forse con le motivazioni più diverse; sa bene cosa abbiamo
nel cuore: conosce le paure che ci opprimono, i pesi che portiamo,
le angosce che ci schiacciano, ma anche i desideri, le speranza, le
gioie, le conquiste e i fallimenti, i progetti e le preoccupazioni.
Lui che conosce tutto ciò ha qualcosa da dirci!
Che cosa dunque ci dice il Signore? Gesù ci dice una cosa, che
già conosciamo, che diremmo, semplice, ma che costituisce il segreto
della vita umana ed il cuore della fede cristiana.
Il Signore, in questa notte, ci dichiara ancora una volta
l'infinito, immenso e incondizionato umile amore di Dio.
Gesù Bambino prima che commuoverci, prima che voler creare – come
si dice - la magia del Natale, prima che provocare riflessioni
profonde o pensieri spirituali vuole dirci, confessarci,
convincerci dell'amore infinito ed umile con il quale Dio ama
l’uomo, ogni uomo.
Ce lo dice non con un ragionamento, non con uno scritto, ma in un
modo per noi sconvolgente e disarmante: ce lo dice esponendosi a noi
in una grande povertà, mostrandosi in una immensa fragilità,
consegnandosi a noi nella debolezza di un Bambino, sul cui volto
brilla potentemente l’umile amore di Dio. Amore umile perché vero.
Sì! La Parola di Dio per noi questa notte è proprio un Bambino, e
proprio attraverso questo Bambino, nella liturgia, al nostro cuore è
sussurrato: “ Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio.”
Poiché tutto questo costituisce l'incredibile verità dell'umanità
non fa meraviglia che per questo Bambino gli angeli del cielo
abbiano cantato, i pastori siano stati attirati in una grotta, le
tenebre si siano diradate, la pace del cielo non disdegni ora
abitare la terra.
Fratelli e sorelle questa è la Parola che il Signore stanotte
vuole dirci “ Dio ci ama, e ci ama di un umile amore”.
Certamente il Signore vuol dirci questo perché è il cuore della
fede cristiana – lo dicevamo prima -, ma soprattutto perché -
dobbiamo dircelo senza paura e con verità – il dramma, il vero
problema, la reale tragedia è che noi, in fondo, a questo amore non
ci crediamo, o almeno non ci crediamo abbastanza.
Chiediamoci perché abbiamo ridotto la pratica della fede al
precetto della Messa domenicale – o annuale? Perché il Vangelo ci
pare troppo esigente? Perché anche se ci diciamo cristiani spesso
poi affermiamo in più occasioni: Gesù sì la Chiesa no? Perché ci
fanno paura gli impegni per tutta la vita? Perché viviamo con mille
paure, da tutto ci sentiamo angosciati e da tutti minacciati? Perché
la gioia vera quella profonda nel nostro mondo pare aver ceduto il
passo alla tristezza e la speranza alla disperazione? Perché
rischiamo di vivere l’adesione alla fede più come una ideologia che
una gioiosa e pacificante appartenenza a Qualcuno?
Il cuore dell'uomo ha un unico profondo e radicale desiderio:
essere amato. E il Natale è Dio che dice : “ Io ti amo profondamente
dall'eternità e per sempre.”Qui sta il cuore di tutto. Solo questo
rende il cuore dell’uomo umano e giustifica una vita credente.
Il
teologo medioevale Guglielmo di S. Thierry ha scritto: “ Dio – a
partire da Adamo – ha visto che la sua grandezza provocava nell’uomo
resistenza; che l’uomo si sente limitato nel suo essere se stesso e
minacciato nella sua libertà. Pertanto Dio ha scelto una via nuova.
È diventato un Bambino. Si è reso dipendente e debole, bisognoso del
nostro amore. Ora – ci dice quel Dio che si è fatto Bambino – non
potete più aver paura di me, ormai potete soltanto amarmi, lasciarvi
amare, perché io vi amo.”
“Sono apparse la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”: questa
frase di san Paolo deve per ciascuno di noi in questa Santissima
notte acquistare, assolutamente, una profondità tutta nuova. In
questo Natale dell'anno della fede, per evitare che la vita ci
schiacci o trascorra ancora del tempo senza gustare in pienezza la
bellezza dell'esistere e la gioia di essere credenti alla Vergine
Maria che ci porge il Bambino Gesù chiediamo che interceda,
affinché finalmente possiamo aprire il cuore a credere all'amore di
Dio, possiamo aprire la vita ad ascoltare la Parola piena di luce e
speranza della Notte di Natale: “ Dio ha tanto amato il mondo da
dare il Suo Unico Figlio.”
Senza questo passo fondamentale, senza l’accoglienza di questo dono
vitale, potremmo anche possedere il mondo, in realtà saremmo
terribilmente poveri; potremmo conoscere tutte le filosofie e
persino i segreti della scienza, disgraziatamente ci sfuggirebbe il
segreto del processo di umanizzazione della nostra vita; potremmo
porre tanti atti religiosi e moltiplicare tante pratiche di pietà,
ma senza credere all'Amore di Dio per noi, la nostra vita resterebbe
complicata e spesso piena di amarezza, rigida e mesta, appunto
perché l’umile amore di Dio non ci ha ancora profondamente colmato e
afferrato, trasformato.
Alla luce di questo umile amore del Signore tutto acquista un
colore diverso: nelle sofferenze siamo accompagnati, poiché è Lui
che le attraversa con noi,: molte cose che crediamo essenziali
divengono persino inutili; tanti nodi si sciolgono, tante barriere
cadono, tante paure si dissolvono, molte ansietà si dissipano e
molte preoccupazioni si ridimensionano.
Il gusto della vita rinasce e la gioia, l'immensa gioia di essere
cristiani ed appartenere alla Chiesa, diventa segreto di luce e
sorgente di pace. Anche per ciascuno di noi acquista una forza
incredibile la rase di Paolo: “ Se Dio è per noi chi sarà contro di
noi?
O Gesù splendore del Padre nato dalla Vergine Maria, Tu ci
guardi in questa notte con occhi di bimbo, ci conosci, ci ascolti e
ci parli. Protendendo le tue mani verso di noi ci chiedi di
accoglierti sul serio nella nostra vita; ci riveli che solo
arrendendoci a Te infatti la nostra vita è piena e solo credendo al
tuo umile amore il nostro cuore gusta la pace.
Amen
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Domenica 23 dicembre 2012
- IV Domenica d’Avvento – fr.
Patrick FMJ
L’avvenimento di per sé fu quasi
impercettibile; ci viene menzionato due volte nel Vangelo odierno.
Mentre Elisabetta stava per rispondere al saluto di Maria,
d’improvviso le fu tolta la parola per il sussultare del bambino nel
suo grembo.
Restò forse senza fiato per un
baleno, prima che uscisse dalla sua bocca tutto a un tratto, una
benedizione proclamata tutta d’un fiato, a gran voce.
Con quale soffio? Con quello dello
Spirito Santo.
Era strato annunciato dall’Angelo
Gabriele che il figlio di Zaccaria ed Elisabetta sarebbe “colmato di
Spirito Santo” fin dal seno di sua madre. E’ proprio ciò che avvenne
nel momento in cui Maria salutò Elisabetta.
Al sussultare di gioia del bambino
nascosto nel suo grembo, “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo” ed
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il
frutto del tuo grembo!”
Il passaggio dello Spirito Santo ha
mutato questa donna anziana che si “teneva nascosta da cinque mesi”,
dall’inizio della sua gravidanza, in una profetessa dalla voce
potente, in grado di discernere e proclamare il mistero nascosto
nella sua giovane cugina Maria: tu sei la “madre del mio Signore”,
beata che hai “creduto nell’adempimento di ciò che il Signore ti ha
detto”.
Riteniamo solamente questo per oggi,
per il breve tempo che manca fino alla celebrazione del Natale.
E’ l’irrompere dello Spirito Santo
nell’umanità che fa l’incarnazione. E’ sempre lo Spirito Santo che
rende presente il Signore nel mondo umano. E’ sceso su Maria per
realizzare il concepimento fisico di Gesù. Ha colmato Giovanni
Battista al sesto mese di gravidanza di sua madre Elisabetta, per
fare di lui il precursore del Salvatore.
E’ stato effuso dal cielo sulla
Chiesa nascente nel giorno di Pentecoste. Sarà lui ancora, fra pochi
minuti, a santificare i doni che stiamo per presentare a Dio per
farne il corpo e il sangue di Gesù Cristo, veramente presente fra di
noi, come uno che vi ha appena piantata la sua tenda.
E’ urgente, ora, nel nostro tempo in
cui la Chiesa sta promuovendo una nuova evangelizzazione, durante
quest’anno della Fede, aprirci nuovamente allo Spirito Santo,
scoprirlo sempre più, conoscerlo sempre meglio, vivere in lui, per
lui, in lui, senza timore né esitazione.
E’ lui il fine dell’Incarnazione e
del Natale; che lo Spirito Santo sia effuso nel mondo mediante la
passione e la risurrezione di Gesù, affinché tutti gli uomini siano
salvati e godano dell’adozione e figli, offerta gratuitamente da Dio
Padre.
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venerdì
21 Dicembre 2012
- III settimana Avvento -
fr. Giovanni Battista FMJ
“La
Parola del Signore corra e sia glorificata” è questa la speranza che
abita la preghiera di Paolo nella sua seconda lettera ai
tessalonicesi. Tale corsa della Parola può avvenire anche
fisicamente quando essa si impadronisce, o meglio, viene a dimorare
nell’intimo di chi la desidera, l’attende, se ne nutre. Questa è la
corsa di Maria che, dopo aver ricevuto il sublime annuncio
dall’angelo Gabriele, “si alzò – dice San Luca – e andò in fretta
verso la regione montuosa, in una città di Giuda.” Inizia una nuova
corsa della Parola nella storia dell’umanità: “Dio, che molte volte
e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo
dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per
mezzo del Figlio.” (Eb 1,1-2a).
Maria giunge da Elisabetta che porta in grembo colui che sarà la
voce della Parola, colui che, come mette in luce Sant’Agostino,
recherà il contenuto della Parola e poi svanirà, colui che annuncerà
a più riprese: Preparate la via al Signore. Ora, Maria nel suo
saluto ad Elisabetta ha una voce nuova, una voce diversa dalle altre
volte, è voce della Parola che porta in grembo: “Ecco, appena il tuo
saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia
nel mio grembo”. Colui che sarà la voce della Parola sussulta di
gioia alla voce di colei che porta la Parola nel suo grembo. Il
Precursore, colui che griderà: Preparate la via al Signore, incontra
colei che precorre il Signore perché è divenuta in se stessa via al
Signore tanto che essere visitati da Maria significava essere
visitati dal Signore stesso, che dimorava in lei; egli incontra
colei che prepara la via a lui e a sua madre Elisabetta, venendo
loro incontro.
Se l’annuncio e l’attesa di Giovanni Battista furono caratterizzati
dal mutismo del padre e dal nascondimento della madre, l’annuncio
dell’Incarnazione di colui che sarà chiamato “Figlio di Dio” è
corsa, accoglienza reciproca, conoscenza autentica, effusione di
Spirito Santo, irradiamento di gioia, canto di gratitudine: in poche
parole, è esperienza di Dio perché prolungamento di quel venirci
incontro di Dio che per noi uomini e per la nostra salvezza discese
dal cielo. Maria riproduce, rivive all’esterno quanto ha ricevuto e
vissuto all’interno. Corre con cuore e grembo dilatati da qualcosa o
meglio Qualcuno che è suo ma non le appartiene, è suo ma è di tutti,
trasformando la casa di Zaccaria in santuario epifanico delle
meraviglie di Dio, e un comune e privato legame parentale in
primizia di una famiglia nuova, la Chiesa.
Dopo l’evento decisivo dell’Annunciazione in cui Maria non si
attribuisce alcun titolo se non “serva del Signore”, ella non si
ripiega su se stessa, non ritiene tesoro geloso l’essere stata
scelta da Dio, ma corre da Elisabetta. La prima evangelizzata
diventa la prima evangelizzatrice. (Cfr. per queste ultime due frasi
“Catechismo degli adulti” pag. 383). Maria che ha incontrato il
Signore in se stessa diventa promotrice di questo incontro del
Signore con gli altri, vive da serva del Signore perché a servizio
del rapporto di Dio con l’uomo.
È così, cioè seguendo le stesse “leggi”, che il Vangelo continua
anche oggi la sua corsa i cui sentieri sono i cuori degli uomini, e
il cui traguardo è la salvezza di tutti. Chi è abitato dal “peso
della Presenza di Dio” – come dice il nostro Libro di Vita” – è in
grado di trasmetterlo invisibilmente a chi gli sta accanto. Ma,
attenzione! Prima di correre a portare la Parola agli altri è
necessaria averla accolta, gustata e, almeno con lo sforzo e
l’intenzione, sorretti dalla grazia di Dio, vissuta. Anche per noi
arriva il momento di annunciare dai tetti la Verità che ci ha
cambiato la vita. Ma questo sarà possibile ed efficace se non avremo
disdegnato l’ora dell’incontro personale ed intimo col Signore che
entra nella storia e, soprattutto, nella nostra storia.
“Alzati,
amica mia, mia bella, e vieni, presto! Mostrami il tuo viso, fammi
sentire la tua voce”
Ora è questo momento di incontro intimo, personale ed insostituibile
con il Signore, ora è il momento della Rivelazione del Figlio di
Dio. Non disattendiamo tale incontro, non siamo altrove col nostro
essere e il nostro desiderio, ma prepariamo il nostro cuore a
quest’ora solenne perché il Signore non ci trovi assenti o
distratti.
Così faremo il nostro bene e anche quello degli altri.
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16
Dicembre 2012
– III
Domenica Avvento C -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Camminare verso la luce del Natale non è solo un cammino di attesa,
un tenersi desti, con le lampade accese per la venuta dello Sposo; è
anche un cammino di preparazione alla gioia. La preparazione
esteriore e materiale di questo evento trova molto spazio nelle
nostre città: le strade vengono ornate di luci, si addobbano gli
alberi di Natale, ci si affretta ad acquistare i regali da fare alle
persone più care, si prenota un tavolo al ristorante. Ma se andiamo
al di là di questa organizzazione esteriore, che è bella ed
importante e non va disprezzata, vediamo che non tutti gustano il
senso profondo della festa, non tutti sanno perché, o meglio, per
chi si sta festeggiando. Anzi, tale effervescenza esteriore potrebbe
mettere in luce ancora di più la tristezza e la solitudine che
albergano nel cuore di molti. Si tratta dunque di risvegliare, in
noi e in coloro che ci circondano, la consapevolezza, le vera
ragione della festa. In questo ci da una mano la liturgia di questa
III domenica di Avvento, interamente pervasa dal tema della gioia.
Se
leggiamo con attenzione i testi scelti per oggi notiamo che il
motivo della gioia è ben esplicitato. Si conoscono bene le ragioni
del perché rallegrarsi, del perché lasciarsi andare ad un canto di
esultanza che risuoni in tutta la terra: “Il Signore tuo Dio in
mezzo a te è un salvatore potente”. È questo l’annuncio centrale di
questa domenica Gaudete. Al centro dell’attenzione degli autori
sacri non v’è la gioia in se stessa, quanto la presenza del Signore
e la sua opera di salvezza. Se c’è un canto di esultanza questo è
espressione, è risposta dell’uomo all’opera salvifica di Dio. È una
gioia teocentrica, una gioia che apre, spinge e dilata l’anima
dell’uomo ad andare con fiducia verso il Signore.
Potremmo chiederci: come mai vedere agire il Signore nella storia
dell’uomo e nella nostra storia è per noi fonte di gioia? La
risposta è semplice ma non banale. Perché in quel momento in cui ci
scopriamo oggetto, destinatari privilegiati di questa salvezza che
il Signore ci offre, ci scopriamo anche profondamente amati da lui.
È gioia è canto di esultanza, interiore, prima che esteriore, di un
cuore raggiunto e rinnovato dall’amore di Dio: “Il Signore, tuo Dio,
gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore”. È per questa ragione
che la gioia non rappresenta per noi semplicemente un momento di
svago dai problemi che assillano le nostre giornate, una fuga felice
da quella quotidianità che talvolta sembra essere così in contrasto
con i nostri desideri e i nostri sogni più intimi. No! La gioia è
forza di consolazione che ci fortifica, ci da sicurezza, sostiene la
nostra perseveranza e la nostra fede e corrobora il nostro impegno
nell’andare incontro al Signore che già ci ha raggiunto. Se siamo
cristiani è per essere felici perché raggiunti da quella gioia che
in fondo è la gioia di Dio stesso: “Il Signore tuo Dio gioirà per
te, esulterà per te con grida di gioia.”
Per
raggiungere questa meta di una gioia sempre più teocentrica, cioè
che si fonda sulla presenza e sull’azione di Dio nella nostra vita,
e di una gioia interiore prima che esteriore, che non lasci cioè,
dietro un sorriso pre-confezionato, un cuore triste se non irritato,
è necessario un cammino di educazione alla gioia, che in fondo,
coincide con una cammino di continua evangelizzazione e conversione
di se stessi. Il papa Paolo VI scriveva in proposito: “Chi non
ricorda la parola di Sant’Agostino: «Tu ci hai creati per te,
Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te»?
Perciò, è col diventare maggiormente presente a Dio e con lo
staccarsi dal peccato che l’uomo può veramente entrare nella gioia
spirituale. Senza dubbio, «la carne e il sangue» ne sono incapaci”
(Paolo VI, Esortazione “La gioia cristiana”).
Tale
sete di gioia e di presenza a Dio risuona anche in quel triplice
“Che cosa dobbiamo fare?” delle folle convenute per farsi battezzare
da Giovanni Battista. E il grande Precursore propone un cammino di
conversione che parte da cose molto concrete: la giustizia, la
carità verso gli indigenti, il rispetto dell’altro, lo stimolo a
trovare una gioia diversa dall’accumulo per sé e dalla tutela
unicamente dei propri interessi. È una gioia sinonimo di apertura al
prossimo quella che il Battista propone a folle, pubblicani e
soldati; egli prepara la gioia messianica facendo assaporare la
gioia del dare, del condividere, la gioia di accontentarsi di quanto
si possiede per riuscire a rallegrarsi “semplicemente delle
molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino.
(…) Il cristiano – afferma sempre Paolo VI (Op cit) – potrà
purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle: La gioia
cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali.” Giovanni
Battista educa alla gioia perché prima ha educato se stesso
scoprendo in quel “lui deve crescere io invece diminuire” il cammino
della gioia piena. E tale dinamica di decentramento di sé per
prepararsi ad accogliere Colui che viene emerge anche tra le righe
del vangelo di oggi: “viene colui che è più forte di me, a cui non
sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in
Spirito Santo e fuoco”. Il Battista, pur potendo, vista la sua
notorietà religiosa e la confusione della folla su chi era il
Cristo, prendere per sé un titolo che in realtà non gli spettava ha
saputo essere vero con se stesso vero con gli altri e vero con il
Signore, ha saputo lasciare il dovuto spazio alla Luce vera che
veniva nel mondo, alla Parola di cui non era altro che voce di uno
che grida nel deserto, e in questo modo ha saputo trovare la sua
gioia nel fare la volontà di Colui che precedeva. Tutta la sua vita
era relativa al Signore, in altre parole, al centro di tutto c’era
per lui il Signore. Facendo spazio al Signore ha saputo fare spazio
anche agli altri che accorrevano a lui e così ha sperimentato, come
già un tempo nel seno di sua madre, quella beata esultanza che è
anticipazione di quanto vivremo nelle dimore eterne.
Entrando nei giorni forti della novena di Natale ci accompagni
Giovanni il Battista, precursore del Signore, precursore della
nostra gioia. Il Signore è vicino, non angustiatevi per nulla!
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13 Dicembre 2012 –
giovedì II settimana Avvento – Memoria di Santa Lucia, vergine e
martire - fr. Giovanni-Battista FMJ
Come fratel Patrick metteva in luce nella sua omelia di ieri sera,
un paradosso emergeva dalle due immagini che di Dio venivano date
dalle letture della Messa: un Dio eccelso e onnipotente nella prima
lettura, un Dio mite e umile di cuore nel vangelo. Il contrasto
trovava soluzione in un terzo attributo unificante i precedenti:
l’innocenza. Ma il Vangelo di oggi riaccende la nostra perplessità
di fronte a una parola come quella che abbiamo ascoltato: “Dai
giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli
subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”. I nostri
interrogativi riprendono vigore: come conciliare un Dio che esorta
“Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” con un’espressione
che potrebbe sembrare un incitamento alla violenza e a una sorta di
guerra santa?
Su questo versetto i Padri della Chiesa, gli esegeti e gli autori
spirituali di ogni tempo hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro
nel tentativo di offrire una interpretazione plausibile di quello
che è, senza dubbio, uno dei passaggi più difficili della Scrittura.
Le posizioni variano da quelle più tradizionali e comuni, come
quella di San Girolamo che collega la violenza alla volontà
dell’uomo per cui noi, che veniamo dalla terra cerchiamo il regno
dei cieli “conquistandoci con la volontà ciò che non possediamo per
natura” (Girolamo). Tale interpretazione è recepita, in certa
misura, anche dal nostro Libro di Vita, che sottolinea: “Il regno di
Dio soffre violenza e solo i violenti se ne impadroniscono
anticipatamente, a prezzo delle più grandi rinunce” (§53). Il regno
di Dio è in mezzo a noi ma l’uomo deve essere pronto a lasciare
tutto per entrarvi, deve costringersi, deve farsi violenza in senso
positivo! È la stessa conclusione dell’Imitazione di Cristo:
“Progredirai nella misura in cui ti farai violenza”. Vi è poi chi,
come Origene, compara la conquista della terra promessa da parte di
Giosuè e del popolo di Israele mediante le armi, con la nostra
conquista del regno dei cieli, la terra promessa definitiva,
mediante le armi spirituali che lottano contro le potenze delle
tenebre, anch’esse spirituali. E cita San Paolo (Ef 6,12): “La
nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i
Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo
tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni
celesti.” Infine una certa esegesi moderna ha cambiato del tutto la
prospettiva di approccio a questo testo: la violenza in questione
non è più la violenza buona di chi cerca di entrare nel regno dei
cieli, ma la violenza cattiva di chi ne rallenta l’instaurarsi
definitivo su questa terra.
Ora, di fronte a questo crocevia di interpretazioni che, più che
essere sinonimo di confusione, dimostra quanto sia ricca la Parola
di Dio, potremmo non sapere che strada imboccare, quale via seguire
per incarnare tale parola nella nostra vita. Il versetto di un Salmo
ci viene in aiuto: “Odiate il male voi che amate il Signore, lui che
custodisce la vita dei suoi fedeli”. Se ci dev’essere un odio, una
violenza, certo questa non dev’essere rivolta verso alcun uomo,
verso nessuno. Ma se odio diventa sinonimo, come altrove nel
Vangelo, (per esempio quando Gesù esorta “chi ama il padre e la
madre più di me non è degno di me”) di distacco radicale e completo,
se tale distacco senza compromessi lo applichiamo al male ci
troviamo a descrivere esattamente l’altra faccia dell’amore, quella
che si distacca “con forza”, con violenza, potremmo dire, dal non
amore. Non si tratta di opporsi al malvagio, cosa che Gesù non ha
fatto e ci proibisce di fare, ma di scegliere sempre positivamente
nella nostra coscienza il bene e l’amore verso tutti e, di
conseguenza, di rigettare il male, in ogni cosa e ad ogni costo. È
quanto ha fatto Gesù di fronte ai suoi crocifissori, è quanto ha
fatto Santa Lucia, di cui oggi celebriamo la memoria, di fronte ai
suoi carnefici, dopo aver solennemente dichiarato: “Ora sacrificherò
al Dio vivo me stessa come ostia viva.”
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11 Dicembre 2012
– martedì II settimana Avvento -
fr.
Giovanni-Battista FMJ
Il vangelo di oggi con la splendida e commovente parabola della
pecora smarrita ci svela il senso profondo del tempo d’Avvento. Il
tempo di Avvento infatti ci prepara alla celebrazione della prima
venuta del Signore e attende il suo ritorno futuro quando il Cristo
verrà a cercare e salvare definitivamente ciò che era perduto.
“Tutti ci siamo allontanati da te” recita una preghiera eucaristica,
e questo nostro allontanamento dall’ovile, dalla casa del Padre, si
consuma ogni volta che con le nostre scelte e le nostre azioni
tradiamo l’amore e la fiducia che il Padre ripone in noi. È il
desiderio compassionevole che nessuno vada perduto che muove il
figlio di Dio a venire alla nostra ricerca, fino ad attraversare i
cieli ed assumere la nostra natura umana per aprirci la via per una
comunione indissolubile, eterna.
Leggendo con attenzione il testo, balzano ai nostri occhi alcuni
particolari. Anzitutto notiamo che è il pastore il primo interessato
a ritrovare la pecora smarrita, è lui il protagonista della ricerca:
ogni possibilità di ritorno in seno al gregge si basa, prima di
tutto, sull’iniziativa del pastore; l’eventuale ritorno si fonda su
un essere ritrovati.
In secondo luogo notiamo come nonostante, fuor di metafora, sia Dio
il protagonista di questa ricerca dell’uomo smarrito lontano dalla
comunione con lui, il successo non è garantito, infatti il testo
precisa: “se riesce a trovarla”. Non è detto che il Padre
riesca a trovarci nel nostro errare per le vie del peccato. Non è
detto che la nostra vita diventi veramente fonte di gioia per il
Signore, felice di poterci riaccogliere nel suo abbraccio. Potrebbe
essere invece un continuo allontanarsi da Dio o anche un continuo
nascondersi, più o meno consapevole, ai suoi occhi, rifiutando le
molte occasioni che egli ci offre per venirci incontro. La gioia
divina sperata dal Padre lascerebbe così il posto all’inquietante
interrogativo “Adamo, dove sei?”.
Inoltre la pecora smarrita allontanandosi dal pastore, si allontana
anche dalle altre pecore del gregge, immagine, questa, della
inimicizia che sorge tra uomo e uomo quando, abbandonato Dio, ognuno
cammina per la propria strada, per il proprio deserto.
Infine, se consideriamo anche che Dio, come afferma il nostro Libro
di Vita, è più intimo a noi di noi stessi, dobbiamo riconoscere che
lontananza da Lui significa in fondo lontananza da noi stessi,
abbandono di quella bellezza originaria in cui il Padre vuole
ricrearci.
Tutti questi spunti di riflessione che il vangelo ci offre mutano, o
meglio, arricchiscono l’immagine abituale che abbiamo del tempo di
avvento: non semplicemente tempo di attesa del Signore che viene, ma
anche, potremmo dire, tempo di attesa di noi stessi, lontani da Dio,
lontani dai nostri fratelli, lontani dal nostro essere più
autentico! Non possiamo vivere come pecore perennemente in fuga: il
Signore continuerebbe certo a cercarci, i fratelli ad attenderci, la
nostra coscienza a stimolarci al ritorno, ma l’ingresso in quella
piena comunione con Dio e, di conseguenza, con gli altri uomini, che
caratterizza la ragione più alta della dignità dell’uomo, come
afferma il Concilio, dipende anche dalla nostra disponibilità a
lasciarci trovare. “Nel deserto preparate la via al Signore. Allora
si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini, insieme, la
vedranno…” (Is 40)
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mercoledì 5 Dicembre 2012
- I settimana Avvento -
fr. Giovanni-Battista FMJ
La prima lettura e il vangelo di oggi si trovano in un rapporto tra
di loro, potremmo dire, di profezia-compimento, seppur non ancora
definitivo ed universale. Il profeta Isaia descrive con l’immagine
di un ricco e raffinato banchetto preparato dal Signore stesso la
sorte futura dei salvati, dei redenti, di coloro che sono stati
raggiunti e trasformati dalla potenza del Signore che è potenza
salvatrice. Al cuore di questo messaggio di speranza e di pace si
trova una promessa che fa vibrare i nostri cuori di desiderio e
commozione se accolta con fede: il Signore “eliminerà la morte per
sempre”! E’ questo un annuncio davvero in grado di cambiare la
nostra vita e la storia intera, la vera novità e la certa speranza
che ripaga e sostiene la fatica di una fede che deve avanzare nel
buio di un’esistenza ancora segnata dalla caducità e, peggio ancora,
del peccato che provoca la vera morte dell’uomo. Il peccato infatti,
il male che l’uomo commette, è quanto ostacola, rallenta o, nel
peggiore dei casi, impedisce che la salvezza di Dio ci raggiunga con
frutto.
Ci troviamo dunque in un tempo di incertezza, di instabilità, di
provvisorietà in cui non possiamo ancora lasciarci andare alla gioia
piena e definitiva della salvezza di Dio realizzata definitivamente.
La salita verso questo monte della salvezza non è ancora compiuta,
ci troviamo ancora a camminare nel deserto, come affermava anche
sant’Agostino: “Cantiamo qui l’alleluia, mentre siamo ancora privi
di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri.
Perché qui siamo nell’ansia e nell’incertezza. (…) Lassù
risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però
nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da
morituri, lassù da immortali. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella
patria.” (Dai “Discorsi”, disc. 256, 1)
Ma, dicevamo, le due letture di oggi si trovano in un rapporto di
promessa e compimento, seppur non definitivo. Anche nel vangelo
infatti troviamo un monte che, per l’evangelista Matteo, ha sempre
un valore simbolico di luogo rivelativo, di incontro con Dio. Su
questo monte Gesù si ferma, specifica il testo, come se anche il
tempo stesso con la sua carica di incertezza, di angoscia ed
incompiutezza si fermasse per aprirsi ad uno spiraglio di eternità e
di quella salvezza consolatrice grazie alla quale un giorno le
lacrime di ciascuno dei redenti saranno asciugate. Qui Gesù accoglie
e guarisce zoppi, storpi, ciechi, sordi, e mosso a compassione per
questa gente che per tre giorni lo segue nel deserto, dona pane,
dona pesce, dona vita, perché “non vengano meno lungo il cammino”.
Il deserto non è distrutto, non è trasformato, come con realismo
constatano i discepoli: “come possiamo trovare in un deserto tanti
pani da sfamare una folla così grande?”. Ma l’incontro con il
Signore, se non trasforma il deserto circostante è in grado di
trasformare noi stessi, il deserto che ci abita, i “deserti
dell’anima” come canta la liturgia (Inno vespri lunedì tempo
ordinario) “coi fiumi d’acqua viva che sgorgano dal Cristo”. Se le
cose stanno così allora anche noi, già fin d’ora, in pieno deserto,
possiamo fiduciosi esclamare con il profeta Isaia: “Ecco il nostro
Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore
in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua
salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte.”
La parola di Dio di questo giorno allora dilata la nostra attesa del
Signore in questo tempo di avvento, ma ciò deve compiersi per noi
non solo quantitativamente, se così si può dire, rendendola più
intensa e più viva, ma anche qualitativamente cioè purificandola e
orientandola a lui solo. Sappiamo bene quante volte il Signore abbia
preso le distanza da forme di discepolato interessate più dei suoi
doni che di crescere sempre più in una relazione di reciproca
amicizia con lui e di conoscenza profonda. Certo, i doni di Dio non
vanno disprezzati, anzi è segno di maturità spirituale saperli
riconoscere e saper renderne grazie, ma non dimentichiamo che, per
quanto grandi siano questi doni, non sono Dio stesso, ma sono
splendidi regali che il Signore ci fa per consolarci e sostenerci
nel cammino verso la salvezza.
In questa esigenza di discernimento ci illumina Sant’Ignazio di
Loyola che scrive: “L’uomo è stato creato per lodare, riverire e
servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la propria
anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per
l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è
stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene, tanto quanto
lo aiutino a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve
liberarsene quanto glielo impediscano” (Esercizi spirituali –
Principio e fondamento § 23abc)
Se separati dal loro autore e dal loro fine, che in fondo
coincidono, i doni di Dio possono trasformarsi per noi in tentazioni
fuorvianti che invece che rinsaldare la nostra amicizia con Lui pian
piano la deformano conducendola perfino all’idolatria, cioè ad una
visione errata e falsa di Dio e della realtà! È questa una deriva a
cui tutti siamo potenzialmente esposti, quella di una vita cristiana
che si allontana da Dio o di una vita monastica che trascura la
ricerca di Dio perché più interessata ai suoi doni (che non sono mai
cose negative in sé) che non a Lui. “Hanno adorato e servito le
creature anziché il Creatore” come diceva San Paolo.
Il tempo d’avvento sia allora per noi questo tempo in cui ci
disponiamo ad un’attesa sempre più teocentrica e cristocentrica. Non
è forse questo il modo migliore per andare incontro al Signore che
viene?
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venerdì 30 Novembre 2012
- Festa di Sant’Andrea Apostolo - XXXIV settimana T.O.
- fr. Giovanni Battista FMJ
Chiunque crede in lui non sarà deluso. La parola della
Scrittura, come scrive San Paolo nella lettera a Timoteo, è utile
per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia (Cfr
2 Tm 3,16). Ma la parola dell’Apostolo che ci viene proposta per
l’odierna festa di Sant’Andrea va oltre, spingendosi fino a
provocare e quasi sfidare noi e il cristiano di ogni tempo, ma anche
ogni uomo: chiunque crede in lui non sarà deluso.
Oggi siamo forse un po’ troppo abituati alle promesse da marinaio,
alla demagogia di chi dice e poi non fa, alle grandi aspettative che
lasciano spazio ad ancor più grandi delusioni. E anche noi forse,
talvolta, non siamo rimasti fedeli alla parola data. Ci troviamo
quindi in un contesto, dentro e fuori di noi, che ci stimola più o
meno frequentemente alla diffidenza e al prendere le distanze, al
farci i fatti nostri.
Se le cose stanno così, potremmo allora chiederci, c’è ancora posto
per la fede? E se la fede sorge dopo un annuncio, dopo la
proclamazione della Buona Novella, c’è ancora posto per l’attività
missionaria e apostolica della Chiesa laddove vige la legge del
fidarsi è bene non fidarsi è meglio? Proviamo a interrogare noi
stessi, cristiani praticanti, lasciamoci provocare e sfidare da
questa parola: Chiunque crede in lui non sarà deluso.
Possiamo confermare con la nostra esperienza personale questa
affermazione dell’Apostolo? In fondo è su questo che si gioca la
fedeltà della nostra sequela di Cristo nella Chiesa: essere convinti
che in lui nessuno sarà deluso, che in lui ogni nostra aspettativa
più profonda trova pienezza e che dall’opera di Dio nelle nostre
vite non può uscire che del bene. Nessuno ci obbliga ad essere
cristiani e ad aver fede, nemmeno il fatto che siamo stati
battezzati da bambini nella fede dei genitori senza che nulla ci sia
stato chiesto e nemmeno il timore della condanna eterna perché tutte
queste cose non avrebbero valore per noi se non avessimo fede.
Se siamo cristiani è perché riconosciamo che esiste ancora una
parola degna di fede su cui scommettere tutta la nostra vita, che
c’è un Dio che ci ama e che vediamo ancora oggi in azione e che lo
stupore di coloro che udirono, videro, contemplarono e toccarono con
le loro mani il Verbo della vita ci raggiunge e si manifesta anche
nella nostra vita, diventando il nostro stupore. È la lucida
constatazione che davvero chiunque crede in lui non sarà deluso a
stimolarci dall’interno, giorno dopo giorno, a proseguire il nostro
cammino con entusiasmo, ad andare avanti e a giocare tutto su una
parola e uno sguardo che non tradiscono. E infine, è su questo
incontro tra la fede degli apostoli che ci raggiunge nella Chiesa e
la nostra esperienza personale di fede che possiamo affermare a
tutti con piena coscienza e senza scrupoli di menzogna o inganno: è
tutto vero!
Ebbene, anche noi allora quando sperimentiamo e viviamo tutto questo
ricordiamoci che stiamo facendo la stessa esperienza del pescatore
Andrea, fratello di Simone chiamato Pietro: “Venite dietro a me, vi
farò pescatori di uomini”. Da questa chiamata primordiale è
germinata una famiglia, la stirpe di coloro che non vivono più per
se stessi ma per Colui che è morto e risorto per loro, e così
facendo diventano abitanti di un nuovo regno e testimoni di
un’umanità nuova. Siamo ormai abitati e trascinati da quella forza
motrice che Cristo ha rivelato e attivato nel mondo e che non si
ferma più perché scaturisce dal seno stesso della Trinità come
incessante spinta all’amore.
È tale spinta a manifestarsi in noi, quasi prendendo il sopravvento
sui nostri timori e reticenze quando, come Andrea il primo chiamato,
ci affrettiamo a proclamare a chi ignora che esiste una vita in
pienezza, una vita eterna: Abbiamo trovato il Messia! Tanta gente,
anche se non lo sa, aspetta un tale annunzio, vive una sorta di
inconsapevole e continuo tempo di avvento di Colui che è l’immagine
del Dio invisibile e il primogenito di tutta la creazione (Col
1,15). “Non possiamo dimenticare – scrive il papa – che nel nostro
contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono
della fede, sono comunque in una sincera ricerca del senso ultimo e
della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo. Questa
esistenza è un autentico «preambolo» alla fede, perché muove le
persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. (…) Tale
esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente
nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non
cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro” (Porta Fidei 10).
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mercoledì 21
Novembre 2012 - XXXIII
settimana T.O. - fr.
Giovanni Battista FMJ
Celebrando
la memoria della presentazione di Maria Santissima al Tempio, la
Chiesa celebra contestualmente anche la cosiddetta Giornata
pro
Orantibus in cui ricorda la presenza e il valore di quei
fratelli e
sorelle che, nella Chiesa, donano la loro vita al Signore nel
nascondimento della Clausura.
Accostandoci
da questo punto di vista, con questa lente, al vangelo ora
proclamato, potremmo porci una domanda: a quale dei servi a cui
l’uomo di nobile famiglia consegna dieci monete d’oro, collegheremmo
istintivamente i monaci e le monache di clausura? Forse, secondo la
mentalità comune nel mondo, al terzo servo, quello che ha paura,
quello che si nasconde e non mostra particolare intraprendenza
quanto piuttosto indifferenza e chiusura su se stesso.
Così le
claustrali e i claustrali, perché ci sono anche gli uomini, si
rinchiudono dietro un muro, si imprigionano al di là di una grata
privando di capacità, esperienze, energie utili a fare del bene un
mondo tanto bisognoso di testimonianza evangelica, di irradiamento,
come amiamo chiamarlo noi. “Ma cosa vai a fare in monastero con il
bisogno che c’è nel mondo?” è forse l’interrogativo che anche noi
saremmo portati a rivolgere a queste vocazioni nascoste ed
apparentemente inutili, domanda che probabilmente anche a noi,
monaci e monache di Gerusalemme è stata rivolta pur non essendo
claustrali in senso stretto.
C’è chi
allora inizia a risalire all’infanzia per cercare di capire quale
sia il trauma remoto che ha causato poi, in età adulta, una tale
conseguenza; oppure si pensa a delusioni affettive o a problemi
famigliari; qualcuno più profondo potrebbe pensare ad un egoismo
spirituale che pensa solo alla cura della propria anima; infine poi
ci sono quelli che dicono di conoscere il Vaticano II che decretano:
sono cose d'altri tempi! Insomma, spesso si prende in considerazione
ogni possibile ragione eccetto una: l’ha voluto il Signore.
Dobbiamo
riconoscere che ancora oggi la parola clausura ci sorprende e forse
ci spaventa e, per spegnere questa sana inquietudine che sorge nel
nostro cuore, siamo tentati di cercare ogni buona ragione per
spiegare ciò che solo la fede, l’amore e la grazia di Dio possono
farci comprendere. Provando dunque con occhi di fede a guardare a
questo dono che ancora oggi il Signore rinnova alla sua Chiesa
troviamo molte ragioni per dire grazie a questi nostri fratelli e
sorelle nascosti ma vicini.
Una in
particolare vorrei sottolineare. Ci ricordano anzitutto il primato
della preghiera e dell’essere sull’azione e l’apparire. I primi due
servi della parabola sono lodati dal re non principalmente per
l’utile che gli procurano, quanto piuttosto perché sono “buoni e
fedeli nel poco”, come li descrive il re stesso: “Bene, servo buono!
Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci
città”. Quel poco, in fondo, non è difficile da individuare anche
nella nostra vita: è quell’Essenziale, quell’unica cosa di cui c’è
bisogno che così spesso il Signore ci esorta nel suo vangelo ad
anteporre a tutto il resto.
E’ questo il
primo dono da custodire e far fruttare. E’ questa la nostra prima
missione di cristiani e di consacrati! Dimenticare questo significa,
in fin dei conti, dimenticarsi di Dio, l’Essenziale della nostra
vita, esponendosi così, o al rischio dell’indifferenza, della paura,
dell’egoismo e della chiusura su di sé come il terzo servo, per cui
si inizia a rincorrere una sorta di autoredenzione che ha solo in sé
stessi il proprio inizio e la propria fine. Oppure ad una delle più
grandi tentazioni del nostro tempo, anche per i religiosi:
l’attivismo, forse anche giustificato con motivazioni di carità,
altruismo ed evangelizzazione, rischio a cui andiamo incontro
quando, decentrato Colui che dev’essere il centro del nostro vivere
e del nostro agire, sorge nel nostro cuore la recondita convinzione:
dobbiamo fare tutto noi, dobbiamo fare tante cose, tutto dipende da
noi!
Certo il
Signore non ci chiama all’inerzia, e questo ce lo conferma anche la
parabola di oggi, ma ci ricorda, anche mediante l’orante vicinanza
dei e delle claustrali, che solo se saremo pieni di lui la nostra
vita sarà un Vangelo vivente e un bene tangibile per gli altri. Ce
lo testimonia con parole splendide la beata Elisabetta della
Trinità, monaca carmelitana, e dunque di strettissima clausura, che
scrisse nel 1904 ad un sacerdote: “Dal fondo della mia solitudine
del Carmelo, voglio essere apostolo insieme con lei, voglio lavorare
per la gloria di Dio e per questo occorre che sia tutta piena di
lui. Allora sarò onnipotente.”
(Lettera al Reverendo Sacerdote
Beaubis del 22/06/1904)
Il Signore
ci faccia comprendere quale fiume di grazia sgorga dal cuore di
coloro che gli appartengono in modo indiviso.
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venerdì 16 Novembre 2012 ,
XXXII settimana T.O. -
fr. Giovanni-Battista FMJ
Ascoltando il vangelo di oggi siamo colpiti dalla rapidità ed
inequivocabilità che caratterizzeranno la venuta del Signore nel suo
giorno. Se l’attesa del Signore da parte della sua Chiesa ha
raggiunto ormai tempi plurisecolari, cosa che potrebbe disporci ad
una certa rilassatezza nell’impegno di conversione e nella vita di
fede, se non ad una più o meno esplicita incredulità nella promessa
del ritorno di Gesù risorto, le parole che abbiamo ascoltato
riaccendono decisamente in noi, forse anche con un po’ di timore, la
consapevolezza che la storia potrebbe giungere al suo definitivo
compimento da un momento all’altro. Non si tratta certo di lasciarsi
esaltare o deprimere da coloro che dicono di sapere tempi, momenti e
date della fine del mondo.
Lo stesso Signore ci scoraggia dal correre dietro a tali
inutili curiosità, presenti anche ai suoi tempi: “Non spetta a voi
conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere.”
(At 1,7). Ma di vivere nella consapevolezza che se da un lato
l’attesa è lunga e potrebbe apparire, ad uno sguardo immediato, non
portare da nessuna parte, d’altro canto la parola del Signore ci
avverte: il mio ritorno sarà improvviso.
Forse non saremo noi ad assistere al giorno ultimo della storia del
mondo, sicuramente però passeremo per il giorno ultimo della nostra
storia personale in cui il Signore verrà a prenderci così come siamo
e dove siamo. L’abbiamo ascoltato, nel giorno del Figlio dell’uomo
ma anche nell’ultimo giorno della nostra vita non ci sarà tempo per
niente, ognuno sarà sorpreso dove si trova e come si trova: chi si
trova sulla terrazza non potrà rientrare in casa a prendere le sue
cose, chi si troverà nel campo non potrà tornare indietro; uno verrà
portato via, l’altro lasciato. La cosa può forse spaventarci,
sentimento legittimo e naturale, ma lo scopo delle parole di Gesù è
un altro: sollecitare la nostra attesa, stimolare la nostra
vigilanza, nutrire la nostra speranza.
Ritornano alla mente alcune sue esortazioni: siate pronti, vigilate,
non sapete né il giorno né l’ora. Tale lavoro interiore che ci
prepara all’incontro col Signore non può essere certo improvvisato,
tutt’altro! La nostra vita può diventare una scuola di preparazione
a tale incontro. Di incontro in incontro ci prepariamo all’incontro
definitivo.
Quante volte il Signore visita le nostre giornate e viene ad abitare
nelle nostre case, nei nostri luoghi di lavoro, nelle nostre strade!
Ogni giorno ci viene incontro nei Sacramenti, ci parla mediante la
Scrittura e la voce della Chiesa, ci guida mediante le circostanze
della storia e delle nostre esistenze. Si tratta per noi di
riconoscerlo. Ma come potremo riconoscerlo se prima non l’avremo
conosciuto? Conoscere il Signore non è solo conoscenza
intellettuale, ce lo insegnano bene i discepoli di Emmaus, che pur
sapendo tutto di Gesù e della sua vicenda non sapevano riconoscere
lo sconosciuto che camminava e parlava con loro. Anche per noi oggi,
anche se veniamo in Chiesa, anche se siamo cristiani, Cristo può
rimanere un grande sconosciuto e il suo giorno può piombarci addosso
come un laccio proprio come ai tempi di Noè e di Lot, mentre molti
mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito. “State
attenti a voi stessi – dice il Signore – che i vostri cuori non si
appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e
che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso.” (Lc 21,34).
Conoscere il Signore significa fare esperienza di lui, è qualcosa
che riguarda tutto il nostro essere, significa, come dice la prima
lettura, camminare nella verità, camminare secondo i suoi
comandamenti, camminare nell’amore. Solo mantenendoci allenati in
tale esperienza sapremo riconoscerlo vivente e veniente nella nostre
giornate, solo con sguardo e cuori rinnovati dalla frequente
compagnia del Signore potremo attendere la sua venuta definitiva
nella nostra vita e nella storia non con quell’angoscia che si
nasconde dietro l’attuale tabù della morte ma con la trepidazione di
chi attende l’Amico che già conosce, che già ama, e a cui già ha
donato la propria vita.
“Cari Fratelli, - disse il papa ai Vescovi italiani alcuni mesi fa -
il nostro primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la
vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile,
necessario e ultimo. Gli uomini vivono di Dio, di Colui che spesso
inconsapevolmente o solo a tentoni ricercano per dare pieno
significato all’esistenza: noi abbiamo il compito di annunciarlo, di
mostrarlo, di guidare all’incontro con Lui.” Lasciamoci allora
raggiungere da tale annuncio della Chiesa di sempre, annuncio che
nasconde una chiamata e consegna una promessa, quella promessa che
ci fa camminare saldi nella fede, come vedendo l’invisibile.
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mercoledì 7 Novembre 2012
- XXXI settimana T.O. -
fr. Giovanni Battista
FMJ
Quando si parla
dell'amicizia con Gesù o di Gesù non dobbiamo intenderla come un
rapporto identico all'amicizia umana che conosciamo, ma presenta,
rispetto ad essa, tratti di somiglianza e di diversità. Infatti Gesù
non è un amico tra altri che posso frequentare quando mi capita e in
modo più o meno costante. Gesù deve diventare per noi l'Amico, e
come si è amici suoi non lo si deve essere di nessun altro.
Il testo
evangelico di oggi parla di “una folla numerosa che andava con lui”,
alla quale Gesù offre un criterio, potremmo dire, di discernimento
vocazionale, cioè cerca di capire chi, tra questi che lo seguono,
vuole essere davvero suo amico: “Se uno viene a me e non mi ama più
di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli,
le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Nel Vangelo di
Giovanni un linguaggio simile era costato molto caro a Gesù dato
che, riporta l'evangelista, “da quel momento molti dei suoi
discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”
(Gv 6,66). Solo i Dodici
perseverano riconoscendo in Gesù qualcosa di diverso da tutti gli
altri, qualcosa che lo rendeva un amico speciale ed unico: “Signore
da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e
conosciuto che tu sei il santo di Dio”
(Gv 6, 68-69).
Nell'antico
testamento si parla talvolta dell'amore geloso di Dio, la gelosia
divina che si accendeva contro le “scappatelle idolatriche” del
popolo eletto che si prostituiva, religiosamente parlando, aderendo
a culti stranieri: “Non seguirete altri dèi, divinità dei popoli che
vi staranno attorno, perché il Signore, tuo Dio, che sta in mezzo
te, è un Dio geloso”
(6,14-15a).
Ma la gelosia divina indicava anche l'amore compassionevole di Dio
verso il suo popolo santo quando questi era osteggiato dai nemici;
“essa muove Jahvé ad intervenire a favore del suo popolo e a
combattere i nemici di Israele”
(AA.VV., Piccolo Dizionario biblico, Paoline, Cinisello Balsamo
(Mi), 1988, 137): “Il Signore si
mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo
popolo” (Gl 2,18)
L'amicizia di Gesù è
qualcosa di simile: eredita quella divina gelosia di cui il popolo
d'Israele ha fatto esperienza e continua con noi la duplice funzione
di strapparci all'idolatria, ancora oggi possibile, e di proteggerci
da ciò che opprime il nostro cammino. In quanto appartenenza
primaria e interesse centrale della nostra vita è quanto custodisce
la nostra vita dagli affetti disordinati o da coloro che vorrebbero
condizionarci, come i nemici d'Israele, e sviarci dal perseverare
nella volontà di Dio; in quanto amore assoluto rende ogni cosa ed
ogni relazione della nostra vita relativa a lui. E questo non per
soffocare la nostra capacità di amare, ma al contrario per renderla
più intensa e più vera. Non si tratta dunque per noi di disprezzare
o dimenticare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle, la
propria vita e tutte quelle persone che conosciamo e a cui la
Provvidenza ha voluto che fosse legata la nostra esistenza, ma
imparare ad amare tutti costoro come li ama Gesù e con Gesù, cioè
raccogliendoli all'interno della nostra relazione con Dio, nel
nostro cammino di discepoli e amici di Cristo, e, in ultima istanza,
dando la vita per loro. “Colui che non porta la propria croce e non
viene dietro a me, non può essere mio discepolo”
(Lc 14,27).
Si tratta dunque, con
il Signore, di un amicizia sì unica, irripetibile e diversa da tutte
le altre, ma non esclusiva, quanto piuttosto inclusiva, che sa
volgersi verso tutti, sa amarli davvero, fino in fondo, perché Egli
è il “Padre di ogni amore”, come ama definirlo il nostro Libro di
Vita. Saremo in grado davvero di amare tutti ad una sola condizione:
che nel nostro cuore il trono più bello, più alto e più luminoso sia
sempre libero e disponibile per Colui che sa farsi amare sopra ogni
cosa.
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Domenica 4 novembre, XXXI Settimana T.O.,
fr. Giovanni Battista
Festa della Dedicazione della Chiesa Cattedrale - Giornata
diocesana del Seminario
Le letture di oggi ci pongono al cuore della Bibbia e del messaggio
evangelico. Se infatti c'e qualcosa che attraversa ininterrottamente
tutta la storia della salvezza, questo e proprio il comandamento
dell'amore. L'argomento ha dunque radici antiche, molto antiche.
La prima lettura, tratta del libro del Deuteronomio, testimonia come
al cuore dell'essere giudeo ci sia il primato
assoluto dell'amore di Dio. Ma una prima questione che possiamo
porci e questa: e possibile comandare di amare qualcuno, in questo
caso Dio? La risposta non é
immediata, ma possiamo tentare di
capire qualcosa rileggendo con attenzione, la prima lettura, il
famoso Shema Israel che ogni ebreo adulto doveva ripetere tre
volte al giorno.
Il testo tratto dal libro del Deuteronomio non si apre con “ama il
signore”, ma con “temi il signore, tuo dio,
osservando per tutti i giorni della tua vita...tutte le sue leggi”;
prosegue poi con “ascolta, Israele: il Signore e il nostro Dio,
unico e il Signore”, e solo alla fine “tu amerai il signore, tuo dio,
con tutto il cuore ecc. ecc”. Dunque, ricapitolando: prima c'e un
fare (osservare le leggi e i comandi di dio), poi c'e un ascoltare,
e infine, espresso con
un
futuro e non con un presente come gli imperativi precedenti, amerai
il signore.
L'amore consapevole nei confronti di Dio e
dunque posto in fondo, quasi come una promessa
futura che si raggiunge dopo aver attraversato la via operosa della
fiducia in un Dio che non si ama ancora pienamente, ed aver fatto
esperienza delle sua vie. Da comandamento, l'amore diventa piuttosto
il frutto maturo della nostra relazione con Dio, un frutto destinato
a maturare sempre piu. Si ama il Signore solo dopo aver fatto
esperienza di lui e della sua volonta per noi, esperienza che, al 99
% e un'esperienza di umanizzazione e di amore, amore cosi bello e
coinvolgente che poi vogliamo farlo nostro e ridonarglielo in modo
sempre piu totale.
Con il Signore prima ci si fida e poi lo si conosce, prima si crede
e
poi si ama.
Nella prima lettura non si parla ancora di amore del prossimo
anche se sappiamo che gia era una delle
colonne portanti della morale vetero-testamentaria che il Vangelo
riprende citando appunto l'Antico
testamento al libro del Levitico.
Nel vangelo Gesu viene coinvolto in un
dibattito di carattere scritturistico frequente al suo tempo in cui,
tra le decine e centinaia di comandamenti a cui il giudeo doveva
conformare il proprio agire, emergeva una sete di sintesi e di unita:
“Qual e il primo di tutti i comandamenti?”. Ora, l'originalita della
risposta di Gesu non sta tanto
nell'attribuire la pole position al duplice comandamento dell'amore,
quanto nel correlare il secondo con il primo, come si vede meglio
nel vangelo secondo Matteo che riporta nel testo una parolina
importante ,
μοιος,
parola che “non
dice una somiglianza debole, bensi forte, di tipo uguale, affine,
insinuando cosi che l'amore del prossimo non e da intendere come
un'aggiunta secondaria, facoltativa, rispetto alla primaria
importanza dell'amore di Dio, ma piuttosto come la necessaria
esplicitazione e “verificazione” del primo” (Andrea Bellandi,
L'amore pienezza della fede, Paoline, Milano, 2004, 29).
I due
comandamenti quindi, seppur distinti, sono
simili: questa e la vera novita.
Generalmente quando noi pensiamo all'amore verso Dio ci
vengono in mente grandi ideali da raggiungere,
rinunce ed ascesi aspre e dolorose, preghiera intensissima o una
vita super contemplativa e quasi angelica. Parimenti l'amore del
prossimo ce lo aspettiamo come un totale annullamento di se per dare
tutto agli altri, una generosita instancabile e senza limiti pronta
a non trattenere nulla, un farsi tutto a tutti come dice san Paolo,
giudeo con i giudei, greco con i greci ecc. Queste considerazioni
non vanno svilite o banalizzate perche davvero il Signore ci chiama
alla perfezione dell'amore e potrebbe portarci sul serio a tutto
questo, come dice anche il nostro Libro di Vita: “non puoi prevedere
a quale grado di nascondimento e di spoliazione Dio voglia condurti
domani, sulle orme di chi, per noi, giunse fino all'annientamento”
(LdV § 95).
Ma non dimentichiamo che il
nostro cammino di santità deve partire anzitutto dall'accettazione
dell'imperfezione del nostro amare. Senza tale
consapevolezza non avrebbe nemmeno inizio, per noi, un cammino di
crescita nell'amore. Dalla coscienza dei nostri limiti, invece,
potra sbocciare in noi la disponibilita ad accogliere la forza
corroborante dello Spirito Santo nella nostra vita nonché il
coraggio di amare, seppur in modo povero, imperfetto, incapace di
esaurire l'ideale, ma che non si tira indietro e che, come puo, si
pone di fronte a Dio e agli altri. La chiamata all'amore e sempre
alla nostra portata, qualsiasi sia il nostro livello di santita.
Come diceva un Vescovo italiano: “Grandi
orizzonti, piccoli passi!”. Meglio un amore povero, imperfetto,
capace di piccole cose, che slanci di carita e generosita tanto
grandi quanto sporadici. Il Cristianesimo e una vocazione feriale,
quotidiana e anche nascosta perche cio che e visibile all'esterno e
autentico se si radica all'interno, nel segreto tra noi e Dio. Il
nostro cuore, dunque, e come se dovesse avere due occhi: uno rivolto
verso Gesu, modello di ogni amore al Padre e agli uomini, e uno
rivolto alla realta di noi stessi: il nostro cammino si pone tra
questi due orizzonti, l'uno trascendente l'altro immanente.
Infine, vorrei evidenziare un aspetto importante: la similitudine
che Gesu coglie tra amore di Dio e amore del
prossimo non annulla il primato del primo sul secondo, ricordiamolo
bene. Come sottolinea ottimamente il biblista Maggioni: “Si tratta
di riconoscere che Dio e uno solo e il nostro Signore. Nessuna
signoria viene prima, ne alcun altra appartenenza. “Dio soltanto”,
questo e il punto di partenza per ogni corretta impostazione dei
nostri rapporti con Dio e con gli uomini.”
(B.Maggioni,
L'amore del prossimo nel Nuovo Testamento, in
Aa.Vv., La carita e la chiesa. Virtu e
ministero, Glossa, Milano,
1993, 35).
Lo
spazio, la preminenza che l'amore di Dio assume
nella nostra vita deve percio diventare
normativa, cioe fonte ispiratrice e regola, del nostro amore verso
gli altri. Ciò nel concreto significa anche che qualora io, per
amare gli altri, fossi trascinato a tradire, abbandonare o
contraddire la mia appartenenza primaria al Signore, allora dovrei
seriamente chiedermi: ma e davvero amore del prossimo e carita
autentica cio che sto vivendo oppure si tratta di qualcos'altro? Il
fatto che il secondo comandamento sia simile al primo esclude
infatti che i due amori siano in conflitto, come se si annullassero
a vicenda.
Preghiamo con tutto il nostro cuore perche il Signore ci renda
fedeli, perseveranti e infiammati del Suo
amore, e nella nostra preghiera aggiungiamo anche un'intenzione
particolare per la nostra Chiesa diocesana che celebra oggi la
Dedicazione della sua Chiesa Cattedrale, segno, di visibile bellezza,
dell'amore di Dio per il suo popolo.
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martedì 30 ottobre
2012, XXIX Settimana T.O.,
fr. Giovanni Battista
Le due
parabole evangeliche che abbiamo ascoltato si pongono in continuità
col primo annuncio di Giovanni Battista e poi di Gesù: “Il
tempo è compiuto e il regno di Dio è
vicino: convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15).
Le due
immagini che Gesù ci offre, quella del granello di senape e quella
del lievito, cercano, in modo simbolico, di aprire il nostro sguardo
alla presenza del regno di Dio nella nostra vita e nel mondo. Gesù
infatti sa bene che solo occhi capaci di penetrare l'apparente
per volgersi al vero senso del reale
possono cogliere la presenza dinamica del suo regno nel mondo, ed è
per questo che, prima con i
suoi discepoli, e oggi con noi, ci
educa a riconoscerlo vivo e attivo nel presente.
I discepoli,
da buoni giudei, e noi, da buoni cristiani sappiamo che Dio opera
nel mondo con la sua mano provvidente, sappiamo che c'è
una storia della salvezza che ha
attraversato i secoli e che ancora si prolunga nel tempo e sappiamo
pure che, come recitiamo nel credo,
“il suo regno non avrà fine”. Ma la
scommessa per noi oggi è passare, per usare un linguaggio che piace
al Papa, dal conoscere a riconoscere. “Conoscere, infatti, potrebbe
essere un'operazione soltanto intellettuale, mentre “riconoscere”
vuole significare la necessità di scoprire il legame profondo tra le
verità che professiamo nel Credo – nel nostro caso l'esistenza del
regno di Dio – e la nostra esistenza quotidiana...”
(Udienza generale del 17/10/2012).
Questa
maturazione è per noi indispensabile per passare dal dirsi cristiani
al vivere da cristiani. Il saper riconoscere i segni vivi della
presenza del regno di Dio, che in fin
dei conti non è altro che la presenza di Gesù al nostro fianco e
nella storia, diventa per noi infatti consolante stimolo alla
speranza, una speranza che non è semplicemente qualcosa che scalda
il cuore e i sentimenti, ma soprattutto un incontro con il Vivente
capace di orientare, correggere e talvolta stravolgere le nostre
decisioni e il nostro comportamento.
Ci muoviamo
qui nella logica squisitamente cattolica esplicitata da San Giacomo,
di una fede che trova visibilità e conferma nella prassi del
cristiano: “mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie
opere ti mostrerò la mia fede”
(Gc 2,18)
e che riesce a mutare l'attesa in speranza mentre osserva che il
granello di senape diventi un grande albero: “Siate costanti,
fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l'agricoltore: egli
aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia
ricevuto le prime e le ultime piogge.
Siate
costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del
Signore è vicina.” (Gc 5,7-8).
Se molta gente vive come
se Dio e il suo regno non esistessero, noi abbiamo la grazia e il
dovere di andare controcorrente, di vivere l'anticonformismo della
fede e della speranza nel Dio vivente. E questo a partire dalle
situazioni più feriali, piccole ed ordinarie della nostra vita: è
proprio in esse che possiamo accogliere il granello si senape o il
pizzico di lievito. In particolare la prima lettura attira oggi la
nostra attenzione su ciò che la Chiesa riconosce essere il nucleo
della società: la famiglia. Gli sposi cristiani infatti, quando
riconoscono che il loro amore non è solo un amore umano, ma viene da
Dio, esprime e partecipa dell'amore di Cristo per la sua Chiesa,
sono già veri evangelizzatori e annunziatori dell'esistenza del
regno di Dio, dato che loro stessi si riconoscono condotti dal
Signore ad accogliere un grande mistero nella loro vita: “Questo
mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla sua
Chiesa!” (Ef 5,32).
Chi vive
così, anche se non se ne rende conto, diventa quel pugno di farina
che si lascia fermentare dal lievito del regno, e che diventa
così capace di fermentare a sua volta
altra pasta. Scriveva a questo proposito il beato Giovanni Paolo II
nel 1981: la famiglia “Chiesa domestica è chiamata ad essere un
segno luminoso della presenza di Cristo e del suo amore anche per i
«lontani», per le famiglie che non
credono ancora e per le stesse
famiglie cristiane che non vivono più in coerenza con la fede
ricevuta: è chiamata «col suo esempio e con
la sua testimonianza» a illuminare
«quelli che cercano la verità»”
(Familiaris consortio § 54).
Il Signore
ci conceda di vedere il suo regno.
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sabato 27 ottobre
2012, XXIX Settimana T.O.,
fr. Giovanni Battista
La prima
lettura di oggi proclama con convincente lucidità quello che
potremmo definire il “principio della diversità”: “A ciascuno di noi
è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”
(Ef 4,7). Nella Chiesa, che è il corpo di
Cristo, non siamo chiamati ad essere tutti uguali. Esigenza primaria
è invece essere se stessi, cioè poter incarnare con tutto il proprio
essere, così com’è, la vocazione particolare che Dio rivolge a
ciascuno. Non esiste una vocazione
oggettivamente migliore di un’altra, ciò che
conta è solo l’adesione alla volontà di Dio che chiede a ciascuno
cose diverse. La crescita nell’unità sarà il segno dell’autenticità
delle diverse vocazioni, una crescita che avviene, secondo San
Paolo, “agendo secondo verità nella carità”. Essere veri in noi
stessi, di fronte a Dio e davanti agli altri è il requisito più
importante per vivere la vita cristiana non come dei commedianti, ma
come persone innamorate che non resistono alla chiamata del più
bello tra i figli dell’uomo.
Tale consapevolezza
ci conserva nella libertà di fronte ai giudizi degli altri, positivi
o negativi che siano, ed allontana la paura di venire allo scoperto
così come siamo. La vita cristiana infatti non consiste nel simulare
chissà quale habitus virtuoso, ma nella Chiesa possiamo e dobbiamo
sentirci a casa, la casa dei figli di Dio, figli che se crescono in
santità lo fanno per davvero e come risposta libera ad un amore
gratuito.
A dire il vero però
una via migliore di tutte c'è, ed è quella che lo stesso San Paolo
indica come la via più sublime, la via della carità. In essa i
carismi personali e le differenti vocazioni trovano armonia. Questo
potrebbe essere invece il “principio di uguaglianza”. Il corpo di
Cristo è infatti composto di membra diverse, metafora per esprimere
i ruoli e le chiamate particolari di ogni cristiano, ma tutte le
vocazioni, in un modo o nell'altro sono vocazioni all'amore.
L'amore è
l'obbiettivo e l'essenza comune per tutti, nonché il criterio con il
quale sarà giudicata l'opera di ciascuno: saremo infatti giudicati
sull'amore! Se dunque tante sono le vocazioni sulla terra quanti
sono gli uomini che la abitano, l'amore è ciò che le armonizza tutte
nel corpo di Cristo. In questo modo si realizza quanto
l'apostolo proclamava con stupore: “Non c'è più Giudeo né Greco; non
c'è schiavo né libero; non c'è maschio né femmina, perché tutti voi
siete
uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,28).
Perdere di vista il
senso profondo ed essenziale della vocazione cristiana significa
autocondannarsi alla sterilità, al non portar frutto (come il fico
della parabola evangelica), o al sostituire il frutto sperato
con tante belle foglie che però non nutrono nessuno e non sono
quanto il Padre e i fratelli auspicano per la nostra gioia e
attendono da noi.
Anche il nostro Libro
di vita ci conferma su questa strada quando ci ricorda che solo
l'amore è valore supremo, nonché compendio di tutta la vita
monastica.
Lodiamo il Signore che arricchisce il giardino
della Chiesa di migliaia di alberi diversi e non temiamo, ciascuno
al suo posto, di lasciarci somministrare il buon concime che ci fa
crescere nella fede, speranza e carità da quegli agricoltori a cui
il Signore ci ha affidato.
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giovedì 25 ottobre
2012, XXIX Settimana Tempo
ordinario - fr. Giovanni Battista FMJ
Il vangelo che
abbiamo ascoltato, ad una lettura immediata, ci lascia perplessi:
non ci sembra infatti riconoscere in esso il Gesù a cui siamo
abituati. Sorgono forse alcune domande nel nostro cuore: Signore
Gesù, noi ti conosciamo come il Principe della pace, Colui che da la
vita per i suoi amici: non sei tu venuto per riconciliare il mondo
intero con la tua Croce e risurrezione? Come è possibile che ora ti
ritieni addirittura portatore di divisione?
Questi interrogativi
sono interrogativi legittimi che però non devono condurci allo
scandalo, quanto piuttosto ad una comprensione più profonda del
testo che abbiamo ascoltato, ad andare oltre il senso che
immediatamente siamo abituati a dare alle parole, anzitutto alla
parola pace.
Di pace oggi se ne
sente parlare in grande abbondanza, soprattutto in riferimento a
situazioni segnate da conflitti armati. Non di rado si vedono
sventolare nelle nostre città variopinte bandiere della pace. Ci
potremmo chiedere allora: è questa la pace che attendono i
cristiani? In parte sì, ma non dobbiamo dimenticare che la pace è
anzitutto un dono di Dio, un dono fatto dal Signore Risorto ai suoi
apostoli dopo aver assorbito ed eliminato nella sua carne il male di
ogni tempo e di ogni luogo, trasformandolo in salvezza per tutti
coloro che lo accolgono. Ricordiamo bene il saluto di Gesù agli
apostoli rinchiusi per paura dei giudei: Pace a voi! (cfr
Gv 20,19).
La pace dunque non è
un prodotto umano frutto dell'ingegno o dell'astuzia degli uomini,
non basta mettersi d'accordo per non fare guerre o trovare un
consenso culturale per vivere nella pace di Cristo, ma è un dono che
viene dall'alto. “Il dono divino della pace – si legge in un
documento della Chiesa - culmina nella persona, nell'insegnamento e
nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, l'uomo
nuovo che può dare al mondo una pace diversa da quella che il mondo
stesso pensa di offrire e che risulta impossibile senza la
conversione del cuore.” (Commisione episcopale
Giustizia e pace, nota pastorale “Educare alla pace”, §16).
La pace, in quanto
dono, è dunque qualcosa anzitutto da accogliere in se stessi
mediante un incontro vivo e amoroso con Colui che è la nostra pace
(cfr Ef 2,14). È importante capire questo per
evitare di canonizzare la nostra concezione di pace, forse talvolta
un po' segnata dall'idea di benessere psico-fisico ed economico o da
quel buonismo che in apparenza sembra evangelico ma che al di là
della scorza esteriore non cura il vero bene delle persone. La pace
di Cristo è qualcosa che ci supera, qualcosa di più grande di noi e
che richiede necessariamente di sintonizzarci, mediante la fede, su
una frequenza più alta: la frequenza del Vangelo. In quanto dono che
ci supera la pace che viene dall'alto, se accolta, è anche dono che
ci trasforma perché penetra nel nostro cuore per rinnovarlo
interiormente. Non c'è vera pace esteriore infatti se non a partire
da un cuore pacificato; è quanto afferma anche il nostro Libro di
Vita di Gerusalemme: “se sarai unificato, sarai unificante; se
pacificato, sarai pacificante” (§ 5). La pace vera nasce dunque da
un movimento che parte da Dio, passa attraverso il sacrificio della
Croce e si riversa nel cuore dell'uomo che accoglie la vita nuova di
Cristo nella propria vita. Così facendo il cristiano diventa un
altro Cristo, discepolo del Maestro, un libero amante della Verità
nella carità. In quanto servo non è più grande del suo Padrone, ma
si sforza di essere come lui. E questo nei momenti di successo e di
plauso così come in quelli più ostili. “Se hanno perseguitato me
perseguiteranno anche voi”. Chi sceglie di seguire Cristo sulla via
della pace deve essere disposto anche a questo! Ne era ben
consapevole San Paolo: “Se cercassi ancora di piacere agli uomini
non sarei servitore di
Cristo” (Gal 1).
Tale parola vale anche per noi oggi: quando
cerchiamo di piacere agli uomini, e non di piacere al Signore,
cessiamo di essere servitori di Cristo. L'appartenenza al Signore
che marca, dal battesimo in poi tutti i cristiani, diventa dunque
per noi quella appartenenza prioritaria, quel punto di vista
privilegiato da cui guardare tutto il resto, noi stessi e gli altri.
Non si tratta di essere integralisti, invasati che non guardano in
faccia a nessuno, ma di “essere potentemente rafforzati nell'uomo
interiore mediante lo Spirito” (Ef 3) come
dice la prima lettura. A questo punto ci potremmo chiedere: una
volta accolta la pace come dono
che viene dall'alto, quali sono gli strumenti
per custodirla, viverla e diffonderla? Il vangelo di oggi ci offre
un' idea particolare che non possiamo certo ignorare: “sono venuto a
gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc
12, 49).
L'immagine del fuoco
è molto frequente nella Scrittura, nell'Antico Testamento come nel
Nuovo. San Paolo parla di un fuoco che rivelerà di che pasta è fatta
l'opera di ciascuno: “Nessuno, dice l'apostolo, può porre un
fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo.
E se sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre
preziose, legno, fieno e paglia, l'opera di ciascuno sarà ben
visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco
si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di
ciascuno.” (Ef 3, 13-14) Il fuoco come
espressione, simbolo della verità che viene alla luce, il momento
della prova del nove. Ma dietro questa immagine del fuoco si
nasconde anche il richiamo caloroso e appassionante all'amore, al
fuoco della carità: “Forte come la morte è l'amore, tenace come il
regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una
fiamma divina” (Ct 8,6). Verità e amore sono dunque gli strumenti, i
due argini che consentono al fiume della pace di scorrere nella
nostra vita e in quella di coloro che ci vivono accanto. “La carità
– scrive papa Benedetto – è il dono più grande che Dio abbia dato
agli uomini, è sua promessa e nostra speranza”; Ma “solo nella
verità la carità può essere autenticamente vissuta. La verità è luce
che da senso e valore alla carità” (Caritas in
veritate §§ 1.3)
In questo modo
sapremo vivere in modo nuovo, più pacificato perché più vero e
amante quelle relazioni che prima conoscevamo solo su un piano
puramente naturale. Persino i legami più normali, come quelli
domestici ed amicali, attraverso il fuoco buono della carità nella
verità, possono trovare una vitalità più autentica e duratura. Chi
ha sperimentato “l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza”
perché si volge alla verità tutta intera, non può più vivere allo
stesso modo ma è ormai infiammato dal fuoco gettato da Cristo sulla
terra. Così saprà accettare anche di vivere in contraddizione col
mondo e di portare il peso della solitudine e dell'incomprensione
pur di mantenere acceso quel fuoco divino che scalda ed illumina e
di non lasciarsi andare alla menzogna e alla doppiezza.
È forse questo il
martirio a cui sono chiamati i cristiani del nostro tempo: offrire
la propria vita al fuoco di Cristo per diventare dei “roveti
ardenti” nel mondo che stimolano così la buona coscienza di molti
che, attratti dalla vera pace, esclameranno come Mosè: “voglio
avvicinarmi e osservare questo grande spettacolo” (Es 3). Forse è
questa la via che il Signore ci indica per essere nel mondo
operatori di pace, secondo lo spirito delle beatitudini.
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Domenica 15 ottobre 2012
- XXVIII Domenica del T.O. -
fr. Massimo-Maria FMJ
Abbiamo iniziato questa Eucarestia Domenicale con una preghiera
nella quale abbiamo rivolto al Signore una richiesta impegnativa,
suggerita dalla Parola appena ascoltata.
Nella preghiera di colletta infatti il sacerdote a nome di tutti ha
detto: “ Signore nessuna creatura può nascondersi davanti a Te.
Penetra nei nostri cuori con la tua Parola affinché possiamo, alla
luce della tua sapienza, valutare le cose terrene e quelle eterne e
divenire poveri e liberi per il Regno.”
Tutti ci siamo associati a questa richiesta dicendo : “ Amen”.
Abbiamo cioè affermato: “ E' così! Io ci sto! Lo voglio! Così sia
per la mia vita!
Se, già di suo, il testo liturgico ci dice la portata della nostra
invocazione in questa domenica, la Parola evangelica che ha ispirato
la liturgia, ci illumina ancor più su cosa abbiamo chiesto e quale
sentiero ci siamo impegnati a percorrere: abbiamo chiesto la libertà
del cuore e la povertà di spirito.
Abbiamo chiesto di vivere per davvero il Vangelo!
Proprio della libertà del cuore e della povertà che parla il brano
di S. Marco.
Gesù incontra un tale, il quale gli corre incontro, gli si getta ai
piedi e chiamandolo :
“ Maestro
Buono...” depone dinanzi a Lui il suo desiderio di felicità:
“...cosa devo
fare per avere la vita eterna?
Forse gli avevano parlato di Gesù e proprio l'idea di incontrarlo lo
aveva fatto correre.
Probabilmente il presentimento nel cuore che quel giovane Maestro
avrebbe colmato i suoi desideri profondi lo aveva spinto a gettarsi
ai suoi piedi e a confessargli la sua sete di pienezza.
Ma – c'è un ma – man mano che il dialogo avanza, nella misura in cui
la Parola di Gesù scende in profondità, man mano che lo sguardo di
amore del Signore chiede di entrare nella sua vita – lo si capisce
dal testo evangelico – l'entusiasmo che lo aveva fatto correre, e la
spinta interiore che lo avevano condotto ai piedi del Divino
Maestro, si mutano in una lancinante stretta al suo cuore.
Non si tratta di fare qualcosa in più per essere felici, non si
tratta di aggiungere ancora una o più osservanze, si tratta di
seguire Gesù nella via di una grande libertà del cuore e nella
strada della povertà.
“
Va! Vendi! Dona! Seguimi!”
Il risultato è drammatico. Strinse gli occhi e chiuse il cuore.
Rattristato andò via. Aveva scoperto la verità della sua vita.
Osservava tante cose per Dio e sapeva tante cose di Lui e della sua
Legge, ma era ricco. E, il vero problema, a quella ricchezza -
piccola o grande che fosse – aveva attaccato il cuore.
Senza dubbio – lo si capisce bene – se quel tale ebbe una stretta al
cuore alle parole di Gesù, non meno dolore ebbe Gesù stesso che vide
la libertà e la gioia del Regno incontrare una chiusura e il suo
amore scontrarsi con un rifiuto.
Gesù certo non si arrende e come sempre l'amore lascia sino
all'ultimo una opportunità. E' tutta la luce di speranza che viene
dalle Parole finali di Gesù con cui si chiude l'episodio:” E'
difficile per un ricco entrare nel Regno, ma tale difficoltà non è
impossibilità per Dio.”
Questa parola di speranza tuttavia, a noi che abbiamo chiesto un
cuore libero ed uno spirito povero, non ci esime dal porci ora una
domanda:” Di cosa siamo noi ricchi? Qual'è la nostra ricchezza?.
Spesso leggendo questo brano pensiamo ad un tale ricco di ricchezze
materiali, di case, di oro, di soldi. In realtà la parola usata da
San Marco nel testo, indica ogni tipo di possedimento, con una
sfumatura: si tratta certo di ciò che si possiede, ma anche ciò da
cui si può essere posseduti.
Particolarmente in risalto nel Vangelo di oggi è l' “ io “ di questo
tale. E' lui al centro di se stesso, persino della sua relazione con
Dio: “ Cosa devo fare?” È la sua domanda tanto rivelatrice. “ Tutte
queste cose le ho fatte” E' la sua affermazione profondamente
chiarificatrice.
E' il suo “io” che gli ostacola il cammino dietro a Gesù, che lo
imprigiona e gli preclude la gioia del Vangelo e l'esperienza della
libertà del cuore.
Un aneddoto, quasi un fioretto, della vita del Papa Giovanni XXIII,
raccontato dal suo segretario, è prezioso per capire cosa sia la
libertà del cuore e la povertà a cui oggi ci ha invitato il Signore
nella sua Parola e che con audacia abbiamo chiesto nella preghiera
liturgica. Ma il racconto è anche prezioso per capire che cosa può
precluderci il non cercare tale libertà e il non impegnarsi in una
simile povertà.
Si riferisce ad un episodio legato all'ispirazione del Papa di
convocare il Concilio. Riferisce Mons. Capovilla:
“
Il papa mi accennò dell'idea di
convocare un Concilio per la prima volta il 30 ottobre del 58, due
giorni dopo l'elezione. Ascoltai in silenzio. Ventidue giorni dopo
rientrando da Castelgandolfo, dove aveva pregato nella stanza in cui
era morto Pio XII, tornò sull'argomento: “ Sembra che il tempo sia
giunto:” disse. Come al primo accenno rimasi in silenzio....
Finalmente la sera del 20 dicembre, dopo il Rosario mi disse: “
Andiamo al balcone dell'Angelus” e mi diede la meritata lezione. Mi
disse: “ Faccio una confidenza al mio segretario particolare, una
volta, una seconda volta e lui non dice niente:”
Comunque ho capito. Tu pensi che il papa è vecchio, che gli manca il
tempo per un'impresa di grande rilievo, ti spaventa l'insieme
dell'impresa, e sbagli, perché ragioni come un impresario: progetto,
studio, difficoltà, complicazioni....E' un argomento umano.
Finché non avrai messo il tuo io sotto i piedi non capirai nulla
delle vie di Dio. “
Fratelli e sorelle ecco perché la Chiesa ci fa chiedere con
insistenza e ci invita a camminare con determinazione verso la
libertà del cuore e la povertà di spirito: rischiamo di non capire
nulla delle vie di Dio.
Non
poteva esserci indicazione più preziosa dal Signore in questa prima
domenica dell'anno della fede:
-
Anno in cui siamo invitati -
come diceva il Papa qualche giorno fa - a riscoprire la gioia
della fede, in un aggiornamento che non è accomodare la fede con
le mode del momento, ma saperla vivere fedelmente nei
cambiamenti della vita.
-
Anno in cui siamo invitati a
rendere grazie per il dono del Concilio in una lettura armonica
con il passato, più libera, cioè più fedele ai testi – e non
alle varie interpretazioni talvolta unilaterali, che hanno
rallentato il passo della ricezione stessa del Concilio . In
questo senso il Papa ha parlato di tornare alla lettera del
Concilio.
-
Anno in cui siamo
chiamati a riscoprire una gioiosa appartenenza al popolo dei
credenti cioè alla Chiesa.
-
Anno in cui siamo
invitati a camminare verso un cuore più libero e povero,
prendendo le distanza da tutto quanto rischia di non farci
capire le vie di Dio, quelle che ci conducono alla vita, alla
vera gioia, alla bontà ed alla pace. Amen.
|
Domenica
16 settembre 2012 –
XXIV Domenica T.O. - fr.
Massimo-Maria FMJ
Nel libro di Isaia si trovano quattro canti cosiddetti del servo
sofferente. Oggi nella prima lettura della liturgia abbiamo
ascoltato il terzo di questi canti.
Solitamente ci si lascia
attirare subito - e certo giustamente – dal mistero della sofferenza
che attraversa l'enigmatico personaggio di cui parla il profeta
Isaia, il servo appunto.
Ma raramente ci si pone una domanda: “ Qual'è la causa che procura
persecuzione e sofferenza al servo?”.
La causa della sofferenza e della persecuzione, lo si capisce dal
testo preso interamente, è stranamente la Parola che il servo è
invitato ad ascoltare e ad annunziare.
E' interessante che a questo ascolto è Dio stesso che abilita il suo
servo, il quale afferma appunto : “ Il Signore Dio mi ha aperto
l'orecchio”, e lo abilita ad ascoltare una parola che è coraggio per
chi è sfiduciato e speranza per chi è disperato.
Questa Parola che il servo ascolta e proclama, poiché viene da Dio,
come spesso capita, incontra persecuzione e reazioni violente.
Il servo che ascolta e che obbedendo annunzia, non si sgomenta dalla
persecuzione né si intimorisce della sofferenza. Ed è lui stesso che
spiega il motivo della sua serenità e la giustificazione del suo
atteggiamento di fiducia.: Dio mi assiste per ciò io non resterò
confuso, non sarò deluso.
Sapientemente la liturgia attraverso il Salmo cantato, detto
responsoriale perché è risposta alla Parola ascoltata, ci conduce
ancor più in profondità dicendoci più chiaramente il come Dio
assiste il suo servo, e perché il servo è certo di non restare
deluso.
Il motivo è chiaro: se è vero che il servo è stato reso capace di
ascolto e, per aver ascoltato ed obbedito a quanto ascoltato si è
incontrato con la sofferenza e la persecuzione, ora è Dio ascolta il
servo perseguitato e sofferente. Il Salmista lo canta con toni
accorati: “ Amo il Signore perché ascolta la mia preghiera.” E' vero
che Dio ha aperto l'orecchio del suo servo perché ascolti, ma ora è
però Dio che tende il suo orecchio nel giorno in cui il servo lo
invoca.
Carissimi fratelli e sorelle, oggi in questa Parola ci è offerta una
splendida luce, è come riassunto tutto il dinamismo della relazione
tra Dio e ciascuno di noi: prima di tutto il rapporto con Dio è una
reciprocità di ascolto.
Dio ci abilita all'ascolto, ci apre l'orecchio e poi ci sussurra la
sua Parola, tenera e dolce, ma talvolta forte ed esigente, e che
spesso nel proclamarla, nell'annunziarla o nell'aderirvi
generosamente e con umile obbedienza ci causa persecuzione e ci
provoca sofferenza.
Proprio in questo caso, proprio quando ciò si verifica, è il momento
di non indietreggiare, di non temere, ma anzi essere fermi – con
espressione ardua il testo di Isaia parla di faccia dura come pietra
– perché Dio non ci abbandona. Egli ci ascolta, tende l'orecchio!
Questo suo ascolto si concretizza, per usare ancora le parole del
salmista, con: il sottrarci dalla morte, il liberare gli occhi dalle
lacrime, preservare i piedi dalla caduta.
Non temiamo mai ad ascoltare, se è vero che la nostra obbedienza
alla Parola può comportare una morte e causare persecuzione o
sofferenza sempre- siamone certi – produce frutto di vita perché Dio
ascolta e non abbandona.
Questa prospettiva ci aiuta ora a cogliere e ad accogliere la Parola
evangelica del testo di Marco
Gesù pone ai suoi una domanda fondamentale “: Chi sono io per voi?”
Pietro a nome di tutti risponde: “ Tu sei il Cristo”. Sei cioè
l'atteso, la speranza di Israele. Sei l'unto di Dio.
Pietro docile alla grazia ha confessato chiaramente ed esattamente
l'identità del Signore. Gesù allora inizia a spiegare a Pietro la
sua risposta. Parla di sofferenza, croce riprovazione a causa dei
sommi sacerdoti, del potere e della scienza ufficiale del tempo.
Pietro ora non è più disposto ad ascoltare e inizia a parlare lui
per rimproverare Gesù. Il Signore reagisce con estrema violenza.
Pietro ortodosso nella risposta non è però più avanti nella
comprensione dei demoni che pure in altri passi del Vangelo avevano
gridato la stessa affermazione: “ Sappiamo che sei il Santo di Dio.”
Gesù rimanda Pietro al suo posto di discepolo e invita lui e la
folla a continuare ad ascoltare. Spiega così che essere discepolo
consiste nel seguire il Maestro prendendo la croce, rinnegandosi e
donando la vita. Solo così si salva la vita, solo così la si
conserva.
E' evidente che ascoltare questa Parola è stato difficile per Pietro
e resta scomodo per noi.
Oggi
il Signore per questa Parola ci vuole aprire l'orecchio, ci vuole “
abilitare” ad ascoltarla.
Vorremmo certo trovare scorciatoie perché ne comprendiamo tutta
l'esigenza; vorremmo ci fosse una proposta alternativa una
possibilità di riserva perché capiamo che comporta una morte da
vivere e una sofferenza da attraversare. Vorremmo volentieri fare
appello al buon senso, magari a sofisticate esegesi o a presunti
diritti della dignità personale pur di fare sconti alla forza e
all'esigenza di una tale Parola.
Ed
invece occorre lasciare che il Signore ci apra l'orecchio ad
ascoltare questa Parola con la certezza che non resteremo confusi,
non saremo delusi. Lui attraverso questa strada che per primo ha
percorso ci conduce alla vita. E quando passeremo per la paura o
l'ombra della morte Lui non ci abbandonerà, ma piuttosto allora ci
ascolterà sempre pronto a impedire che il nostro piede vacilli e
sempre attento a liberare i nostri occhi dalle lacrime.
Il
Signore ci conceda oggi di ascoltare con docilità la Sua Parola
certi che con prontezza Lui ascolta ogni nostra invocazione,
convinti che se lo seguiamo nel donare la vita per amore risponderà
con il donarci una vita piena ed eterna.
Amen
|
Domenica 8 luglio 2012 –
XIV Domenica T.O. - fr.
Massimo-Maria FMJ
Questa Domenica,
diremmo quasi in maniera speculare a Domenica scorsa in cui la
Parola insisteva sulla potenza della fede, si evidenzia la
difficoltà di credere ed il problematico atteggiamento degli uomini
dinanzi a tale fatica.
Nel testo di
Ezechiele è Dio stesso che inviando il suo messaggero lo previene
delle difficoltà che incontrerà, dell’atteggiamento ribelle e
ostinato di coloro ai quali parlerà in nome di Dio. E’ il mistero
del cuore indurito e della testardaggine dell’uomo che pensa di
poter fare da sé, che è convinto di bastare a se stesso e si chiude
al dono di Dio, quel dono che è la sua verità piena e la sua vita
reale
A Ezechiele Dio
dice: “Ascoltino o non ascoltino sapranno che almeno un profeta si
trova in mezzo a loro”.
La chiusura e la
durezza del cuore dell’uomo non scoraggia Dio dall’inviare comunque
il suo profeta perché anche se non ascoltato sia comunque una
presenza che interpella, sempre disponibile per chiunque finalmente
decida di ascoltare ed accogliere la Parola che porta a nome di Dio.
Ma ciò che Dio dice
ad Ezechiele significa anche che, ascoltino o non ascoltino, i duri
di cuore non potranno far tacere o ignorare la voce scomoda del
profeta. E’ Dio che parla attraverso di Lui ed è Dio la sua
misteriosa forza ed il suo incredibile coraggio.
La stessa
esperienza di solitudine e rifiuto la vive anche Gesù nel suo
ritorno al suo paese di Nazareth. Vi ritorna nella veste di un
Maestro orma affermato e con un seguito di discepoli. Da buon ebreo
osservante si reca alla sinagoga in un giorno di sabato per
attendere ai suoi doveri di credente. Probabilmente è stato affidato
a lui il commento della Torah. La sua spiegazione colpisce molti e
impressiona tanti.
Quelle di Gesù non
sono le solite filastrocche dei Rabbini; tutti capiscono che si rifà
ad un insegnamento inedito che prende l’origine da un modo
originalissimo di leggere la Scrittura.
Le domande nel
cuore degli ascoltatori pertinenti e giustificate scaturiscono con
forza: “Da dove gli vengono queste cose? Che sapienza è mai questa?”
Ma insieme, altre
domande che chiudono l’orizzonte e induriscono il cuore: “Non è il
figlio di Maria, fratello di Giacomo, di Joses? E le sue sorelle non
stanno qui da noi? Il risultato: “Si scandalizzavano di lui”.
Ma di cosa si
scandalizzavano esattamente?
Non del fatto che
Gesù non parlasse bene: riconoscevano una sapienza fuori dal comune.
Non che non compisse segni straordinari: “Ciò che hai fatto altrove
compilo anche qui nel tuo paese”, gli chiedevano proprio i
nazaretani.
Si scandalizzavano
che quest’uomo, capace di sapienza nel parlare, di segni di Dio
nell’agire, di fatto non ha alle sue spalle una brillante carriera
accademica, non appartiene ad un ceto rispettabile, non ha una
genealogia prestigiosa, non ha particolare cariche ufficiali.
Gesù è troppo
semplice per venire da Dio, è troppo feriale Gesù per essere l’unto
di Dio, è troppo comune per parlare in nome di Dio, è di una
famiglia troppo umile per essere della discendenza di re Davide.
L’amaro commento di
Gesù lo si capisce: “Un profeta non è ben accetto in patria”. E la
conseguenza è drammatica: “Non vi poté operare nessun prodigio… si
meravigliava della loro incredulità”.
Che cosa dunque li
scandalizza, che cosa dunque impedisce drammaticamente ai Nazaretani
di credere in Gesù? Qual è la fatica del credere?.
Non riescono a
tenere insieme segni eloquenti, la Parola sapiente con le origini
umili, con la ordinarietà e ferialità della sua vita.
E’ quello che da
sempre si usa chiamare lo scandalo dell’Incarnazione e che ha avuto
in San Paolo, uno dei cantori più intensi.
Nella 1Cor.
l’apostolo commenta splendidamente questa pagina evangelica: “Mentre
i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi annunciamo
Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è
potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio
è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più
forte degli uomini.
Ma quello che è
stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti;
quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i
forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che
è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono…
Fratelli sorelle,
noi siamo discepoli di Gesù, lo confessiamo Figlio di Dio e crediamo
fermamente al mistero dell’incarnazione. Tuttavia dalla tentazione
di essere scandalizzati da Gesù siamo immuni e dalla fatica ardua di
credere non siamo affatto dispensati.
Non è forse vero che vorremmo,
perché suoi discepoli, ci fossero riservate corsie preferenziali per
seguirlo? Non è forse vero che per portare il Vangelo crediamo la
necessità di effetti speciali che ci impressionino, o che il Regno
avanzi solo grazie a coloro che definiamo persona carismatiche?
Quante volte anche nella Chiesa, a seconda di chi dice le cose ci
lasciamo catturare e toccare, se poi le stesse cose le dice qualcuno
meno brillante, meno sulla cresta dell’onda, non solo non
ascoltiamo, ma anzi siamo pronti alla critica?
Il mistero dell’Incarnazione ci
dice che Dio ha scelto la ferialità umana per incontrarci, l’ordinarietà
dell’uomo comune per parlarci, la nostra debolezza per manifestare
la sua potenza.
Signore, convertici alla tua
logica, per servire con tutta la Chiesa il tuo Regno. Amen.
|
Domenica 17
giugno 2012 - XI domenica T.O.
- fr.Massimo-Maria FMJ
Una
espressione che troviamo nel libro dei Salmi può risultarci oggi
preziosa per accogliere la Parola di Dio di questa domenica. Il
Salmista afferma con forza ed audacia: “Tutto ciò che vuole il
Signore lo compie nei cieli e sulla terra, nel mare e in tutti gli
abissi.”
Senza dubbio noi siamo non solo preparati, ma piuttosto disponibili
ad accogliere una tale affermazione. Più difficoltà e forse un certo
disagio ce lo crea la modalità, la logica con cui Dio compie la sue
opere in cielo sulla terra, nei mari e in tutti gli abissi.
Questa
logica, questa modalità ci è precisamente descritta nelle letture
bibliche di oggi, precisamente nelle tre parabole che troviamo
rispettivamente nella prima lettura e nel testo evangelico.
Si parla nel
testo di Ezechiele di un piccolo ramoscello di cedro che la mano di
Dio pone su un alto monte e che diviene poi un enorme e forte cedro.
Nel Vangelo Gesù usa poi l'immagine del piccolo seme che nel tempo
produce un ricco frutto, e del piccolissimo granello di senapa che è
capace di dar vita ad un rigoglioso ed imponente albero.
Che cosa ci
sorprende e forse anche ci scandalizza della modalità di Dio di
compiere le sue grandi opere?
Ci sorprende, ci stupisce e ci lascia persino perplessi il fatto che
Dio non utilizzi grandi strumenti, non impieghi modi potenti per
portare avanti i suoi disegni. Al contrario la semplicità è il suo
criterio e la piccolezza il suo stile. Addirittura proprio gli inizi
delle sue opere rispettano particolarmente questi criteri. Egli
infatti inizia le sue grandi e meravigliose opere modestamente,
semplicemente, con mezzi umili, umanamente spesso insignificanti,
che stupiscono e persino possono scandalizzare l'uomo.
Una domanda
allora possiamo porci alla luce di questo. Qual'é l'atteggiamento
interiore che è necessario per essere con Dio collaboratori delle
sue opere, particolarmente dell'opera per eccellenza, che è il suo
regno? Come assecondarlo, servirlo, collaborare alla sua crescita?
Mi pare
di poter cogliere almeno tre inviti: convertire la nostra
logica, crescere nella fede, saper abitare la paziente attesa.
Convertire la nostra logica. Papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani,
conosciuto come il papa del sorriso per il suo volto amabile, ha
scritto a questo proposito qualcosa di significativo: ”Gli uomini le
loro cose, al fine di mostrare potenza e forza, e affinché siano
solide e sopravvivano nel tempo le scrivono sul bronzo, le incidono
sul ferro, le imprimono sul marmo. Dio, Lui le sue cose, quelle più
importanti e più preziose le scrive sulla sabbia perché appaia che
la potenza e il segreto della riuscita è tutto e solo suo.”
Fratelli e
sorelle a questo cambiamento di logica ci invita la Parola del
Signore oggi.
Gli inizi
delle opere di Dio sono sempre modesti, i suoi progetti avanzano
nella semplicità e si costruiscono solidamente nell'umiltà.
Particolarmente vero per il suo Regno. A guardarci intorno potremmo
oggi essere scoraggiati perché il Regno più che avanzare pare
retrocedere, più che crescere scomparire, più che strutturarsi
svanire. Eppure avanza misteriosamente, ma sicuramente, attraverso i
cuori che nella semplicità e nell'umiltà accolgono, vivono, cedono
alla Parola. Ramoscelli piccoli, semi deboli, granelli
insignificanti, ma che la mano potente e forte di Dio ha posto,
accompagna e sostiene.
Convertire la nostra logica è necessario, ma insieme è necessario
chiedere al Signore che aumenti la nostra fede. Per noi credenti
spesso il vero problema non è credere che Dio esista, che sia
potente, che abbia creato il mondo e che lo sostenga, ma proprio
ammettere che porti avanti le sue opere attraverso il criterio, la
logica, la modalità appena descritta. Abramo in questo davvero ci è
padre in questa fede. Dio gli chiede di uscire dalla sua terra, non
gli dice dove andare, solo gli fa una promessa. Abramo esce dalla
“sua terra“ con tutto ciò che questo vuol dire, e senza sapere verso
dove camminare, credendo solo nella fedeltà di Dio avanza.
La Parola oggi ci invita a domandare e coltivare questa fede per
collaborare con tutta la Chiesa all'edificazione del Regno.
Conversione della logica, crescita nella fede, ma ancora una cosa è
importante: abitare la paziente attesa.
Perché il
ramoscello di cedro divenga un grande albero e il granellino di
senapa un forte arbusto, come affinché il seme dia un frutto maturo,
occorre che trascorra del tempo, occorre che non solo Dio, ma anche
l'uomo sappia attendere con pazienza. Possiamo essere disposti a
tentare di mutare logica, a fidarci di più di Dio, ma la prova più
dura può essere la pazienza dell'attesa. Eppure per servire il Regno
e per evitare che la nostra fretta lo rovini occorre saper abitare
pazientemente l'attesa.
“ Tutto ciò
che vuole il Signore lo compie nei cieli e sulla terra, nel mare e
in tutti gli abissi.”
Questo è
particolarmente vero per il suo Regno nel mondo, e nella nostra
vita.
Dio può
compiere meraviglie grazie ad un solo, autentico, reale, piccolo
atto di fede! «Quanto un granello di senapa», non ci è chiesto
altro! Mettere il proprio cuore e la propria mente al servizio del
Regno, al servizio di Cristo Signore, significa pronunciare il sì
della fede. E' questo l'invito che il Signore oggi ci rivolge.
Come abbiamo
pregato all'inizio accogliamolo con umile fiducia e coltiviamolo con
pazienza evangelica.
Amen
|
Domenica
15 aprile 2012 - Domenica
in Albis - appunti di sr.
Sarah sull'Omelia di S. Em. Card. Silvano Piovanelli
Domenica in albis “deponentis”- si deponeva la veste bianca del
Battesimo. Comprendere grazia del Battesimo. Ringraziamo per questo
dono che abbiamo ricevuto? Lui ha voluto che fossimo ripieni di
questa ricchezza .
Tommaso,
segno preciso della non credenza: vuole fare l’esperienza. E’ detto
Didimo: gemello. Potremmo anche pensare che tutti siamo un po’
Didimi, in noi c’è sempre uno gemello: uno che crede e uno che
resiste ad abbandonarsi completamente a Lui. C’è in noi una doppia
personalità: bisogna che cresca lo spazio della fede, della speranza
, dell’Amore. Bisogna credere di più, amare di più,
indefettibilmente sperare. C’è Gesù, ma Gesù Risorto! E’ difficile
pensare ad un corpo risorto! Non è un corpo materiale, è un corpo
spirituale; Noi formiamo i nostri concetti sulle cose che si vedono.
Gesù è risorto e anche noi risorgeremo. Anche Maria è risorta!
Bisogna
che lo spazio della fede diventi sempre più largo; corriamo nella
corsia che ci sia dinanzi. E’ il figlio di Dio che è corso nella
nostra matura umana, anche nel dolore, nella disperazione. Come
Tommaso vorremmo qualche elemento più concreto e allora il Signore
ci dice di toccare: quando possiamo toccarlo? Quando ha detto:
quello che voi farete al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto
a me! Possiamo veramente così toccare il Signore. Allora veramente
la c’è un segno evidente del Risorto e se avessimo il coraggio del
non giudizio, perdono, accoglienza... saremmo la luce del mondo!
Guardiamo mentre sono quel che sono, bisognoso di essere
riconosciuto, bisognoso di essere aiutato. Deponiamo le vesti del
Battesimo per vivere del Battesimo nel quotidiano. Lo rivestiamo
interiormente.
Riprendiamo il nostro cammino. E noi monaci e monache rendete grazie
per portare ogni giorno la veste bianca ( tipo di vita diversa)
sempre più fedeli perché la vita consacrata è l’epifania del
Battesimo. Ci impegniamo nella fedeltà. Maria che ha vissuto più
intensamente la fede nella Risurrezione ci faccia cristiani
consapevoli del dono ricevuto e ci renda capaci di rispondere in una
maniera sempre più piena.
|
Domenica 8 aprile 2012
- Veglia Pasquale -
fr. Massimo-Maria
Il testo evangelico di Marco, che
questa notte la liturgia ci dona di ascoltare, si apre con le donne
che impazienti, appena possono, ancora attonite e sgomente si recano
alla tomba di Gesù.
Si recano in un cimitero, per
onorare il corpo di un morto.
Un gesto di pietà, del tutto
normale, che voleva esprimere ancora una volta l'affetto per il
Signore, e magari arrecare un poco di sollievo al loro dolore.
Nel loro avanzare mesto e
raccolto, una sola preoccupazione abita il loro cuore e rompe il
loro silenzio: “Come entrare nel sepolcro a causa dell'enorme masso
che ne ostruiva l'ingresso.”
Avvicinate al sepolcro e insieme
al sole che inizia a levarsi, per loro, gradualmente, si svela
l'inatteso, si delinea l'incredibile, sono poste dinanzi
all'impensabile.
Il masso è rotolato. Il sepolcro
è vuoto. Il Maestro non è più là. Un angelo parla per Lui
annunciando la più incredibile e sconcertante vera buona notizia:
Gesù è Risorto, non è qui, vi precede in Galilea lì lo vedrete. Ora
non perdete tempo, annunciatelo a Pietro, agli altri suoi amici e
date inizio alla corsa del Vangelo della Resurrezione per sempre
sino alla fine della storia.
Fratelli e sorelle questa Buona
Notizia, partita quel mattino, ha percorso i secoli ed ha superato
le tempeste della storia e con la stessa forza e freschezza ci
raggiunge ancora: Gesù è Risorto! Gesù è vivo! La morte è sconfitta!
Noi siamo salvi! Questa è la Pasqua.
Per approfondire ancor più la
luce di un tale annuncio e per nutrire ancor meglio la nostra fede
possiamo raccogliere almeno due riflessioni a partire dal testo di
Marco.
Il primo annuncio della Pasqua è
affidato a delle donne. Nella scala della dignità della società
orientale del tempo erano considerate “ultime“. Pensiamo che nel
contesto giuridico non erano considerate soggetto in sede di
processi, non erano abilitate a testimoniare. Prima considerazione:
se la resurrezione di Gesù fosse stata una abile creazione della
comunità cristiana delle origini, non si sarebbero mai scelte delle
donne per essere le prime testimoni, avrebbe significato partire con
una testimonianza giuridicamente nulla. Se questa prima
considerazione è importante, la seconda è preziosa ed è questa:
ancora una volta sono scelti gli ultimi, i piccoli per essere
testimoni e annunciatori delle meraviglie di Dio.
Per avvicinarsi alla grandezza di
Dio non c'è altra strada che quella della piccolezza, per accogliere
lo splendore del Risorto non c'è altra postazione che quella
dell'umiltà.
Fratelli e sorelle perché la nostra Europa è in una profonda crisi
di fede? Perché i contenuti della fede cristiana che ha fatto ciò
che siamo, sono messi alla pari dei miti greci o sostituiti con le
filosofie dell'oriente?
Perché noi davanti alla notizia,
all'evento sconvolgente della Resurrezione di Gesù rischiamo di fare
come i greci con San Paolo nell'areopago di Atene che conclusero: “
Le favole sono belle, ma per esse non abbiamo tempo, sarà per un
altra volta”?
Siamo pieni, smisuratamente
pieni, esageratamente pieni di noi stessi. Corriamo dietro a tutte
le parole degli uomini, ma non facciamo spazio alla Parola di Dio.
Consideriamo favole puerili le
promesse di Gesù, la sua vita, la sua storia, il suo mistero. Siamo
pronti a dilapidare una fortuna credendo a chi ci promette elisir di
lunga vita, e non abbiamo l'audacia di chiederci con onestà e
attenzione: “ E se Gesù è davvero Risorto? Saranno poi stati tutti
folli i martiri che sono morti per confessare la sua Resurrezione?
Saranno poi stati tutti inetti i santi che hanno dato la vita per
Lui certi che tutto non si chiude negli spazi stretti della storia,
ma anzi in Gesù la morte è l'inizio di una eternità con Lui? Sarà
pura fantasia che oggi ancora tanti uomini e donne a Lui il Risorto
gli danno la vita e se ne avessero cento di vite gliele darebbero
tutte?
Cari amici noi moderni, è vero,
penetriamo le galassie ma, stiamo perdendo il cielo.
Pensiamo di sapere tutto ma ci
sfugge l'essenziale.
La ricchezza certo non è un male,
tutt'altro. La conoscenza non è per nulla negativa, né la scienza
affatto da trascurare. Le stupende e incredibili conquiste dell'uomo
sono segno della benedizione di Dio.
Ma restiamo al nostro posto,
ritroviamo il nostro posto: noi non siamo Dio. Questo nostro mondo,
piccolo e stupendo, non è tutto. Ciò che ci sfugge è più di ciò che
è capace di impressionarci e monopolizzare il nostro interesse.
I pastori a Natale e le donne a Pasqua ci dicono che è essenziale
riprendere il cammino della piccolezza, della semplicità,
dell'umiltà, per fare spazio al dono di Dio nella nostra vita e per
accogliere tutta la luce del Risorto e tutta la sua promessa di
vita.
Il dono di Dio è la Pasqua del
Suo Figlio, la vera buona notizia a cui aprire la vita è la
Resurrezione di Gesù.
Ed ecco l'altra
riflessione da raccogliere a partire dal testo evangelico.
E' importante sapere che
la pietra sepolcrale nell'antico Israele era il sigillo della bocca
degli inferi che secondo la terribile espressione del libro dei
Proverbi: “ Ha sempre fame e non dice mai : Basta!”
Ora essa, la pietra
sepolcrale della tomba di Gesù – simbolo di tutte le pietre
sepolcrali – essa, al mattino di Pasqua, è rovesciata per dire che
la zona della morte non è più frontiera irreversibile, ma aperta.
Nella morte di Gesù è morta la nostra morte e nella sua Resurrezione
per sempre è rinata per noi la vita che non muore.
Questa è la Pasqua di
Gesù che ci riunisce nel cuore della notte in questa Chiesa e che dà
senso all'umana esistenza, riempie di speranza le nostre notti ed è
sorgente luminosa per il nostro futuro, ci fa camminare nella storia
con lo sguardo rivolto all'essenziale: la vita piena in Dio che il
Risorto ci ha procurato al di là della storia.
Una grande e importante
grazia non possiamo non chiedere al Signore per noi, per tante
persone care al nostro cuore e per tanti uomini e donne smarriti e
disperati in questa Santissima notte. Ma anche un sereno e simpatico
proposito non possiamo non fare, se tutto ciò andiamo dicendo è
vero, in questa notte di Pasqua.
La grazia la esprimerei
con una preghiera breve ma intensa tratta da un romanzo di Antoine
de Saint- Exupery: “Appari a me, o Signore, perché è tutto molto
faticoso quando si perde il gusto di Dio.”
Non è forse vero
che abbiamo tanto, forse troppo, dicevamo ci sentiamo adulti e
autosufficienti – cioè crediamo di bastare a noi stessi – ma siamo
soli, sempre preoccupati e spesso affaticati. Abbiamo perso Gesù
Risorto, il gusto di Dio. Il Signore ci trovi piccoli e doni a noi e
a tutti la grazia del gusto di Lui: il Risorto. Tutto cambia. Come
ha scritto il Santo Padre: “ Nel nostro cuore c'è gioia e dolore,
sul nostro viso sorriso e lacrime. Così è la nostra realtà terrena.
Ma Cristo è Risorto, è vivo, e cammina con noi. Per questo cantiamo
e camminiamo, fedeli al nostro impegno in questo mondo, con lo
sguardo rivolto al cielo.”
Il proposito lo prendo
da un aneddoto che il Cardinale di New York ha raccontato nella sua
relazione sulla nuova evangelizzazione al Papa ed ai Cardinali
all'ultimo concistoro: “ Quand'ero seminarista al Collegio Nord
americano tutti gli studenti di teologia del primo anno di tutti gli
atenei romani furono invitati ad una Messa in San Pietro celebrata
dal Prefetto della Congregazione del Clero il Card. Wright. Ci
aspettavamo una omelia dotta, cerebrale. Ma lui iniziò così:”
Carissimi fate a me ed alla Chiesa un favore: quando girate per le
strade di Roma, sorridete!”
Fratelli e sorelle il
sorriso che nasce da una gioia profonda sarà il segno più certo che
abbiamo fatto spazio al dono di Dio nella nostra vita, e che ci
siamo fatti piccoli e umili per cui il Risorto ha brillato
potentemente nella nostra vita. E' rinato fresco e profondo il gusto
di Dio. Amen. Buona Pasqua!
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giovedì 5
aprile 2012 -
giovedì santo S. Messa “ In coena Domini “ -
fr.Massimo-Maria
Nel cuore abbiamo ancora
il giubilo delle folle di Gerusalemme e l'esultanza che la liturgia
ci ha donato di vivere domenica scorsa nell'invitarci a seguire Gesù
che entrava a Gerusalemme per celebrarvi la Pasqua.
La stessa liturgia
questa sera ci fa entrare con il Signore Gesù in quella stanza, al
piano superiore, nel cuore della città santa, in un clima più
intimo, interiore, di grande raccoglimento, per mangiare quella
Pasqua che il Signore ardentemente ha desiderato celebrare con i
suoi, per i suoi, per ciascuno di noi.
Con questa liturgia la
Chiesa entra nel triduo pasquale, il triduo sacro, vertice di tutto
l'anno liturgico. S.Agostino con una espressione davvero felice ed
eloquente parla del : “triduo del crocifisso, del sepolto e del
Risorto”, mostrando così che il triduo non è preparazione alla
Pasqua, come si può erroneamente credere, ma ogni istante che
viviamo in questi giorni santi, è un momento dell'unico mistero
pasquale, è l'unica Pasqua che certo ha il suo culmine nella
Resurrezione del Signore.
In questa liturgia,
della cena del Signore, la comunità cristiana fa memoria
dell'Istituzione dell'Eucarestia e del Sacramento dell'Ordine e
insieme della consegna, da parte del Maestro, della legge nuova, del
comandamento nuovo, quello dell'amore.
I tre doni che il
Signore fa alla sua Chiesa, in quest'ora solenne della sua vita,
sono tra loro intimamente legati.
Ci aiuta a comprendere
meglio questo legame se teniamo presente una categoria che è
chiaramente presente in questa liturgia e in tutto il mistero
pasquale: il dono, il donare.
Gesù prende il pane, lo
spezza e lo dona. Gesù ricevuto il calice, lo benedice e lo dona.
Gesù istituendo il ministero sacerdotale si dona, si pone nella mani
della Chiesa abilitando alcuni a rendere presente la sua vita donata
nell'Eucarestia.
Ed ancora Gesù sulla
croce realizzerà il dono significato nel pane spezzato e nel vino
versato,anzi proprio sulla croce il dono totale della sua vita sarà
compiuto. Infine Gesù col gesto della lavanda dei piedi, facendosi
servo, fa dell'amore che si dona l'unica logica, l'unico comando,
l'unica legge che per sempre distinguerà i suoi amici, lo renderà
presente nel mondo attraverso la testimonianza dei suoi, come
prolungamento di quella Sua Presenza suprema che è il pane
dell'Eucarestia.
Fratelli e sorelle,
rendendo grazie al Signore per il dono immenso del suo corpo donato
e del suo sangue versato, benedicendolo per il suo ministero di
salvezza perpetuato nella Chiesa da quella sera fino ad oggi nel
mondo attraverso la vita dei suoi ministri, lasciandoci raggiungere
dall'invito a fare dell'amore che si dona la regola suprema della
vita, soffermiamoci su quel particolare gesto di donazione che Gesù
pone la sera della Pasqua nel cenacolo: la lavanda dei piedi.
Sulla stessa linea del
pane e vino donati si colloca il segno semplice e solenne, discreto
e forte della lavanda dei piedi.
Ogni gesto è importante
ed ogni azione di enorme significato.
Gesù si alza da tavola,
lascia la presidenza – potremmo dire – e si cinge di un asciugatoio.
Fratelli e sorelle, Gesù non compie propriamente un gesto di
servizio, piuttosto si fa servo!
E poi passa a lavare i
piedi. Si porta liberamente e volontariamente ai piedi dei suoi
discepoli. Un Maestro che lava i piedi ai discepoli: per la
mentalità del tempo un gesto sconcertante, era il gesto riservato
agli schiavi.
Gesù scende – sottolineo
scende – per arrivare ai piedi dei discepoli.
Poi ritorna a tavola e
spiega : Io sono Maestro e Signore, è vero! Ma se il Maestro lava i
piedi voi non dovete lavarli a Lui, ma lavarveli reciprocamente.
Nello stesso Vangelo
Gesù afferma: “ Amatevi come io vi ho amato”.
Non ci sono più né
alibi, né scorciatoie, né interpretazioni, né opinioni, stasera Gesù
il “ come “ Gesù ce lo mostra con disarmante chiarezza.
Ma raccogliamo ancora
un'altra caratteristica di questo come, meno evidente, ma non meno
importante.
Quando Pietro non
capendo il gesto di Gesù vorrebbe sottrarsi e Gesù spiega il senso
di quanto va facendo, il Signore dice ad un certo punto: “ Non tutti
siete mondi” e subito precisa San Giovanni: “ Gesù sapeva chi lo
tradiva”.
Gesù con queste parole
non sta rivolgendo un accusa al traditore, o cercando di umiliarlo,
piuttosto una volta ancora gli sta tendendo la mano. Giuda infatti
era in quel momento il solo a poter capire questa precisazione del
Maestro.
“Sarete
beati se amerete così, come io ho fatto – ci dice il Signore!”
Fratelli e sorelle,
il comando di Gesù non è
un richiamo ad una generica solidarietà umana, buona, nobile, ma
ancora poca cosa rispetto a ciò a cui il Signore vuole condurci. Lui
attraverso la sua parola e il suo esempio fa sorgere per noi la
possibilità di una vita che sia tutta ”secondo Gesù”, una vita che
prendendo la distanza da logiche puramente umane sia vissuta come
reale, fecondo, potente atto d'amore, come Gesù appunto!
A noi è domandato
stasera di accogliere questa possibilità.
Come è possibile?
Come si può compiere
questo comando nella nostra vita?
Non pensiamo anche noi
cristiani, talvolta, che sia utopico tutto ciò, idealista?.
Perdonare si, ma c'è un limite! Donare si, ma il buon senso – il
benedetto buon senso - L'umiltà certo, ma la mia dignità è pur
importante e viene certo prima. Scendere ai piedi di Gesù si può
magari, ma ai piedi dei fratelli è troppo, e ai piedi di chi ci ha
fatto torto o ci considera nemici è esagerato.
Gesù non demorde: “ Come
ho fatto io fate anche voi”.
Come è possibile? ci
chiediamo ancora.
Abbiamo bisogno di una
radicale conversione, di una profonda conversione del cuore.
E' essenziale
convertirsi a....Lui!
Solo a partire da Gesù è
possibile la condivisione. Solo radicandosi nel suo mistero e
passando per la sua croce è possibile una tale fraternità!
Il Papa, proprio oggi
nella Messa Crismale, parlando ai sacerdoti ha affermato qualcosa
che credo sia utile per tutti:
“
è richiesto un
legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo
necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello
che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È
richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso,
ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi:
che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e
così per gli altri? ...Cristo non domina, ma serve; non prende, ma
dà ...”
Fratelli e sorelle il
segreto si trova in quel “Fate questo in memoria di me”. Per i
discepoli è essenziale celebrare il sacramento della croce, della
vita donata di Gesù. E' capitale cibarsi di Lui, adorarLo.
Solo così si può essere
capaci di scegliere costantemente di raggiungerlo poi ai piedi degli
altri nel servizio, nella donazione, nella Carità. Solo così
possiamo amare come Egli ama. Aderire a Lui è il segreto di tutto e
la chiamata di stasera.
Un autore spirituale
contemporaneo ha scritto, e concludiamo: “ I discepoli che vogliono
essere fedeli, comprendendo ciò che il Maestro dice e fa, saranno
beati se accetteranno di fare l'esperienza della medesima estrema
umiltà aderendo con fede a Lui.
“Vi
ho dato l'esempio perché come ho fatto io facciate anche voi”
In ogni difficile
situazione della nostra esistenza dovremmo essere consapevoli di
stare vivendo l'ora di Gesù.
L'Amore divino si è
abbassato a lavare le nostre sozzure, si è cinto di umiltà, si è
spogliato della sua gloria e si è rivestito dei nostri poveri
stracci, si è fatto servo ai nostri piedi....Gesù continua a dirci:
Sapete quello che ho fatto? Cercate di capire, di aderire a me con
sincero amore” . Amen
|
Domenica 1
aprile 2012 - Domenica delle
Palme - fr. Massimo-Maria FMJ
“
Vieni e seguimi”. Diverse volte
nel Vangelo risuona questo invito.
“
Se uno mi
vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo.”
Così Gesù parla ai suoi discepoli proprio dopo l'ingresso a
Gerusalemme.
La partecipazione gioiosa al rito della processione delle palme di
questa domenica, con cui abbiamo iniziato la solenne liturgia, ci
richiama probabilmente questa Parola del Signore.
In questo giorno siamo infatti invitati a metterci in cammino con
Gesù che entra nel mistero della Sua Passione. Siamo invitati a
seguirlo!
Ma dove il Signore vuole condurci? Cosa vuole dirci? Cosa vuole
donarci?
Lasciamoci guidare da questi interrogativi per cogliere con maggiore
profondità il mistero che la Chiesa celebra in questo giorno; i
misteri che Essa contempla e vive in questi giorni.
Dove Gesù vuole condurci ?
Durante il tempo quaresimale gli evangelisti con accenti diversi
hanno sottolineato che Gesù saliva a Gerusalemme, fino a specificare
che camminava dinanzi a tutti salendo a Gerusalemme. Oggi il Signore
entra a Gerusalemme, e vi entra in modo trionfale, acclamato
dalle folle, osannato da coloro che lì' si trovavano per la festa di
Pasqua.
Il Papa
ha ricordato che la meta del cammino di Gesù è Gerusalemme, e che
Gerusalemme qua và intesa a diversi livelli: è senza dubbio il luogo
geografico, ma è poi la città densa di significati: il luogo in cui
vi era il Tempio della Presenza di Dio; il luogo in cui tanti figli
di Israele erano saliti a celebrare la Pasqua della liberazione; ed
ora è per il Signore il luogo in cui Egli vi sale per celebrare la
sua Pasqua, quella
che compie tutte le Pasqua, quella che dà compimento a tutto.
Gesù ci
invita a seguirlo all'inizio di questa Settimana Santa per condurci
a Gerusalemme, il luogo della sua
Pasqua, il luogo, cari fratelli e sorelle, in cui esaudisce la
preghiera che ci ha accompagnato lungo tutto il percorso
quaresimale: “ Non nasconderci il tuo volto!”
A
Gerusalemme egli ci mostra, nel mistero della Sua Passione di dolore
e di amore, il suo vero volto, e ci f scorgere in esso il volto del
Padre che ha tanto amato il mondo da dare l'Unigenito, che non vuole
la morte del peccatore, ma che abbia pienezza di vita.
Avevano ragione le folle di acclamare Gesù Re di gloria.
Ma abbiamo ragione noi pure, che abbiamo percorso le strade della
città inneggiando al Figlio di Davide che a Gerusalemme per tutti
dona la salvezza e a tutti dona la vittoria.
Già
allora intuiamo la risposta a quanto ci chiedevamo nella seconda
domanda:
Cosa vuole dirci?
Gesù vuole dirci la sua Pasqua!
Il suo passaggio cioè attraverso la morte e dalla morte alla vita.
Morte che in Lui è da considerarsi non come una vita strappata, ma
piuttosto come una esistenza donata.
Gesù ci invita a seguirlo a Gerusalemme per dirci la Sua Pasqua.
E vuole dircelo avendo nel cuore un desiderio immenso: che noi
capiamo che tutto questo grande mistero è per noi.
Un “per noi” che dice l'immensità dell'amore di Dio per ogni uomo,
ma anche un “per noi” nel senso di: a favore nostro, con delle
conseguenze impensabili, incredibili per la nostra esistenza umana.
Infatti nella sua Pasqua, dietro di Lui anche per noi è reso
possibile lo stesso passaggio: Egli è l'apri strada, cammina avanti,
ci precede e ci accompagna.
E come per Gesù il cammino non si ferma a Gerusalemme, ma giunge
sino al cuore del Padre, alle altezze di Dio, alla vita piena, così
a noi è dato di seguirlo sin lì, non fino a qualche tappa più bassa.
Gesù dicendoci la Sua Pasqua ci dice dove è indirizzato il cammino
della nostra vita.
Ma insieme ci rivela che in fondo tutta la nostra esistenza è
pasquale, non solo perché destinata al grande passaggio finale dalla
morte alla vita, ma tutta costellata di passaggi più piccoli, meno
importanti, ma non meno significativi, meno visibili, ma spesso non
meno sofferti e che tutti preparano al grande passaggio, e che di
esso sono misterioso presagio.
In tutti il Signore ci precede, ci accompagna, ci apre il cammino.
Abbiamo così accennato la risposta al nostro terzo interrogativo:
Cosa vuole donarci?
A Gerusalemme il Signore ci riporta a Dio, ci riafferma la certezza
del suo amore per noi, ci apre il cammino della vita, fratelli e
sorelle ci riconsegna la pace, Lui ne è il principe, e ci
riempie di gioia.
Ecco perché pur nella drammaticità degli avvenimenti di questi
giorni il cuore del discepolo è pervaso dalla gioia. A Gerusalemme
nel dirci la Sua Pasqua il Signore ci dona la gioia
vera, piena, profonda, quella che nessuno può toglierci.
E' questa gioia che il Signore vuole donarci, questa gioia così
desiderata dal cuore dell'uomo, e che sappiamo bene ha la sua
sorgente nel cuore di Dio.
A
proposito di essa il Papa scrivendo ai giovani per la G.M.G. che
oggi si celebra nella Chiesa afferma:
”
L'
amore infinito
di Dio per ciascuno di noi si manifesta in modo pieno in Gesù
Cristo. In Lui si trova la gioia che cerchiamo."
Nell’ora della passione di
Gesù, questo amore si manifesta in tutta la sua forza. Negli ultimi
momenti della sua vita terrena, a cena con i suoi amici, Egli dice:
«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio
amore... Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la
vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11).
Gesù vuole introdurre i suoi discepoli e ciascuno di noi nella gioia
piena, quella che Egli condivide con il Padre, perché l’amore con
cui il Padre lo ama sia in noi (cfr. Gv 17,26).
La gioia cristiana è aprirsi a questo amore di Dio e appartenere a
Lui.”
Fratelli e sorelle oggi iniziando la settimana Santa accogliamo
l'invito di Gesù a seguirlo: “ Vieni e seguimi”, Lui ci garantisce:
“ Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il
mio servo.”
Amen
|
Domenica
4 marzo 2012
- IIa Domenica di
Quaresima - fr. Massimo
Maria FMJ
Domenica scorsa lo Spirito ha
condotto Gesù nel deserto. Oggi è Gesù che conduce Pietro Giacomo e
Giovanni sulla montagna.
Nel
deserto lo Spirito sostiene Gesù nel combattimento contro il potere
delle tenebre, contro il Tentatore.
Sulla
montagna Gesù – lo afferma la liturgia rivelandoci il senso di
quanto i discepoli vivono – prepara i suoi a sostenere un altro
combattimento: lo scandalo della croce.
Questa
preparazione allo “ scandalo” della croce Gesù la compie attraverso
il mistero della sua Trasfigurazione il cui racconto abbiamo
ascoltato nella versione di Marco.
L'evangelista cerca di farci percepire qualcosa di quello che hanno
vissuto i discepoli: Gesù si trasfigura davanti a loro, le sue vesti
divengono bianche annotando in modo simpatico che nessun lavandaio
potrebbe renderle così.
Ma, cosa
è la Trasfigurazione?
Gesù per
un istante svela tutto lo splendore del suo mistero abitualmente
nascosto: i miracoli qualcosa avevano certo già lasciato sfuggire e
i demoni tanto già avevano intuito, ma ora è Gesù che svela
totalmente: Chi Egli è! Qual'è il suo segreto!
Se
questa prima parte è certo importante, diviene tuttavia essenziale
accogliere e custodire gelosamente nel cuore la Parola del Padre: “
Questi è il Figlio mio l'Amato: Ascoltatelo!.”
Perché
queste parole vanno custodite, direi di più, fissate solidamente nel
cuore?
Per
superare la tentazione di Pietro di costruire tende terrene che
imprigionano Gesù e non lasciano invece seguirlo nella sua
strada, quella che passa per una altra montagna, il Golgota, e
giungere così alla gloria, quella della Resurrezione.
“ Questi
è il Figlio mio l'Amato: Ascoltatelo.” dice il Padre sul monte della
Trasfigurazione, in cui Gesù è splendente di luce. Ma lo stesso
Figlio, l'Amato da ascoltare è quello ricoperto di ignominia sulla
croce, quello fragile e spossato sulla strada del Calvario
schiacciato dal peso della croce.
E'
sempre il Figlio, l'Amato da ascoltare, sia quando dicendo di essere
credenti in Lui ci sentiamo dire di avere una marciasi in più,che
quando dicendo di di fidarci di Lui siamo considerati poveri illusi,
tacciati di ingenuità infantile.
Di
questo Gesù, fratelli e sorelle, che fa passare la gloria per la
croce, ognuno di noi in fondo è un po' scandalizzato, magari non a
parole, ma certo quando questa logica si manifesta nella concretezza
della vita.
La
tentazione è sempre di voler anticipare la gloria costruendo capanne
materiali per rinchiudervi il Gesù che desideriamo, senza – passando
per la croce – attendere la dimora che scende dal cielo, la vera
gloria. E' sempre tentazione forte quella di passare accanto alla
via della croce, di evitarla accuratamente.
Ma Gesù
non lascia illusioni e non vuole fraintendimenti: “ Ordinò di non
dire nulla a nessuno se non dopo che il Figlio dell'uomo sarebbe
risuscitato”.
Fratelli
e sorelle, se da una parte la liturgia ci mostra nella
trasfigurazione di Gesù la meta del cammino, che non solo sostiene
il passo, ma lo rende più spedito e gioioso, nello stesso tempo ci
ricorda che oggi, non è il tempo di voler maldestramente anticipare
la gloria che sarebbe artificiale; oggi non è opportuno cedere alla
tentazione di crearci un nostro percorso che evita la via della
croce o costeggia prudentemente il Calvario.
Oggi è
il tempo di pre-gustare certo la gloria, ma ascoltando
l'Amato, “sempre” e “tutto”, con docilità e e totale disponibilità.
Oggi è
il tempo per riconoscere in Gesù, l'Amato, per aderire a Lui, per
riconoscerlo come la ragione ultima della vita scoprendo che è bello
andargli dietro ovunque Egli passi.
E' il
tempo dell'obbedienza della fede!
E' la
narrazione della I lettura, il sacrificio di Isacco, che non
leggiamo mai senza interiore turbamento. Abramo è benedetto perché
non ha rifiutato a Dio neppure quanto gli stava supremamente a
cuore. La fede e l'obbedienza a Dio sono sempre questo: la gloria
definitiva passa attraverso questa obbedienza che fa sentire fino a
che punto io è l'Assoluto!
Davvero
è necessario fare nostra la preghiera con cui abbiamo iniziato
questa celebrazione eucaristica: “ Rafforzaci o Padre,
nell'obbedienza della fede perchè seguiamo in tutto le sue orme e
siamo trasfigurati nella luce della tu gloria.” Amen
|
Domenica 26 febbraio 2012
- Ia Domenica di
Quaresima - fr. Massimo
Maria (FMJ)
La liturgia della prima domenica di Quaresima è caratterizzata dalla
contemplazione di un momento particolare della vita del Signore: le
tentazioni. In questo senso infatti si parla della domenica delle
tentazioni.
Nel ciclo liturgico di questo anno ci è offerto il racconto delle
tentazioni secondo il Vangelo di Marco. Un racconto decisamente più
breve, più sobrio, più essenziale, se pensiamo ai testi di Matteo e
Luca in cui sono descritte le tre tentazioni con dovizia di
particolari.
Un testo senza dubbio meno drammatico quello di Marco, se lo
accostiamo a quello di Luca per esempio, in cui il racconto si
conclude con delle note piuttosto inquietanti: “ Dopo aver esaurito
ogni tipo di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare
al momento fissato.” Sappiamo che si tratta del momento della
passione e della croce.
Tuttavia, pur nella sua brevità e nella sua essenzialità, , il brano
di Marco non è meno eloquente e prezioso degli altri. Da esso
vogliamo così raccogliere alcune riflessioni di una certa importanza
per il nostro itinerario quaresimale e per il nostro cammino
cristiano in generale.
“Lo
Spirito sospinse Gesù nel deserto.” spiega l'evangelista. Il Signore
si inoltra nel deserto in obbedienza alla voce dello Spirito, in
quell'atteggiamento di obbedienza che caratterizza tutta la vita del
Signore. Ma poi precisa Marco, una volta nel deserto, vi rimase
quaranta giorni tentato da Satana.
Gesù sceglie di restare nel deserto, di non fuggire la tentazione,
di combatterla, di affrontare la prova. Gesù non viene fuori prima,
và sino in fondo. Sa che la sua missione passa per quella strada e
la percorre.
La prova, la tentazione fratelli e sorelle fa parte della vita
cristiana, è passaggio importante del cammino del discepolo dietro
al Maestro. La sapienza della Scrittura lo afferma a più riprese:
” Figlio se ti presenti per servire il Signore
preparati alla tentazione”.
C'è nella nostra vita cristiana, nella nostra vita di discepoli, nel
cammino di fede, tutta una profondità, una solidità, una robustezza
che si costruisce attraverso l'esperienza del deserto, della
tentazione, della prova. “ Attraverso il fuoco si prova l'ora”
recita ancora la Scrittura. E Gesù lo sappiamo ci fa chiedere al
Padre di “ Non abbandonarci nella tentazione.
E' necessario notare anche San Marco pone il suo racconto delle
tentazioni subito dopo il Battesimo del Signore, quasi per
sottolineare anche lui attraverso questo quanto la tentazione sia
nel programma ordinario dell'itinerario del cristiano così appunto
come lo è stato per il Maestro, anzi il Maestro ci è passato per
noi, per primo.
Una certa presentazione della vita cristiana tutta gioia spensierata
e priva di questo aspetto del combattimento e della prova diviene
molto pericolosa. Il combattimento infatti fa parte di un autentico
cammino evangelico e talvolta anzi la lotta si può fare molto aspra.
Se a questo non siamo preparati rischiamo di soccombere nella prova,
pensando magari che Dio ci abbia abbandonato, ci abbia imbrogliato,
o che forse non esista.
Ma in realtà siamo noi che abbiamo saltato qualche pagina del
Vangelo.
Gesù nel deserto quindi affronta il combattimento, la tentazione.
Quali armi Gesù utilizza contro il tentatore, per affrontare il
combattimento?
Nel Vangelo di Luca e Matteo – lo dicevamo – contrappone alla parola
del diavolo la Parola di Dio, quei famosi “ Sta scritto....”
A differenza di Eva che nel giardino dell'Eden dialoga con il
tentatore, con la tentazione infatti soccombe, Gesù invece
contrappone da parte sua la Parola di Dio, certo che è in essa la
forza necessaria per vincere il tentatore. Già questo è un primo e
prezioso insegnamento.
Nel Vangelo di Marco invece non vi è nessuna parola del diavolo è
vero, ma neppure del Signore. Il silenzio infatti è un altra arma
vittoriosa, che Gesù utilizza, assai preziosa nella tentazione.
“Nel
silenzio stà la vostra forza” proclama la saggezza della Scrittura.
Non è infatti silenzio di abbattimento, di rassegnazione né tanto
meno di scoraggiamento, ma un silenzio pieno di fiducia, di fede
nell'intervento di Dio, di certezza nella fedeltà della sua grazia
potente, di pazienza amorosa. Anche davanti a Pilato, altro momento
di prova, lo troveremo nel racconto della Passione Matteo scriverà:
“ Jesus autem tacebat” Gesù invece taceva.
La tradizione spirituale ha davvero raccolto abbondantemente questa
strategia. Il nostro Libro di Vita afferma: “ Il silenzio rimetterà
ordine in te quando sarai stanco, inquieto tentato.” Anche San
Benedetto nella sua regola a proposito della prova, nel capitolo
sull'umiltà scrive: “ il monaco vedendosi imposte cose dure e
contrastanti, subendo torti di qualsiasi genere – quindi
l'esperienza della prova – abbracci dentro di sé, in silenzio, la
pazienza.” Indicando così ancora nel silenzio uno strumento prezioso
per trovare forza nel combattimento e per attraversare l'esperienza
della prova.
Nella terapia del silenzio ci è poi indicato per noi e per il nostro
cammino nella prova, un secondo prezioso insegnamento.
Ci
aiuta infine ad avanzare nella tentazione conoscere come il
tentatore agisce. A partire dalla esperienza di Gesù, tenendo conto
di tutti i racconti dei sinottici raccogliamo una ultima
osservazione.
In fondo in tutte le tentazioni, compresa quella sulla croce, ciò
che il tentatore cerca di fare con Gesù non è farlo demordere da
quanto il Padre gli ha chiesto, piuttosto di farglielo realizzare in
modo diverso. Il tentatore dicono gli esegeti mette in discussione
il tipo di messianismo che Gesù realizza. Per il progetto del Padre,
nella logica dell'amore infinito di Dio, Gesù deve essere un messia
povero, crocifisso, umanamente fallito, abbassato, umiliato. Il
diavolo propone di restare messia, rispondere alla chiamata di Dio,
ma in modo diverso, secondo le logiche del mondo di potere, di
gloria di sicurezza legate alle ricchezze materiali e ai poteri
umani.
Anche per noi spesso il tentatore si appoggia su un dono di Dio
vero, reale, che il Signore ci ha fatto:la chiamata cristiana. Ma
ciò che tenta di sovvertire è la modalità di viverla, invitandoci al
compromesso, suggerendoci il buon senso, richiamandoci altri valori
in se buoni, sani e santi.
Se sei figlio di Dio buttati dal pinnacolo del tempio, gli angeli ti
salveranno e tutti crederanno. Il successo della tua missione sarà
assicurato.
Fratelli e sorelle la tentazione non ci deve spaventare attraverso
di essa il Signore è passato e ancora ogni giorno passa con noi. La
tentazione non ci deve sgomentare, tutto concorre al bene di coloro
che amano Dio ripete San Paolo. Anche attraverso di essa il Padre ci
purifica, ci libera, ci converte. La tentazione – tante volte lo
abbiamo sentito noi fratelli e sorelle di Gerusalemme ripetere da P.
Pierre Marie - se non ci fosse non ci sarebbe neppure la santità,
per ricordarci che Dio ci fa avanzare anche attraverso la prova nel
cammino della santità.
Come abbiamo pregato all'inizio ripetiamocelo in questo tempo di
Quaresima: “ Disponi Signore i nostri cuori all'ascolto della Parola
perchè si compia in noi la vera conversione”.
Amen
|
Domenica
15 gennaio 2012 - II Domenica T.O. -
fr. Massimo-Maria FMJ
“ Il Signore
chiamò Samuele! “
“Gesù si
voltò e disse: “ Venite e vedete. “
In queste
due parole della Scrittura è contenuto il tema della Parola di Dio
di questa seconda domenica del tempo ordinario. Le due frasi sono
infatti il cuore di due racconti di vocazione.
Il primo ha
per protagonista Samuele, profeta e sacerdote che intorno al 1030
a.C. assiste al passaggio di Israele da una struttura di tipo
tribale a quella monarchica con il re Saul.
L'iniziativa
è sempre e tutta di Dio, che tuttavia non lo chiama in modo irruento
ed aggressivo, ma piuttosto attraverso un lento apprendistato che
inizia con una prima chiamata nella notte, nella pace del tempio,
quando, come dice il testo, “ la lampada dell'arca non si era ancora
spenta “ ed il giovanissimo Samuele era abbandonato al primo sonno
della notte.
Samuele
risponde prontamente, ma la sua risposta è ancora confusa ed
incerta. Pensa infatti che a chiamarlo sia stato il sacerdote Eli.
Solo alla quarta volta, dopo tre fallimenti il giovane Samuele
scopre la sua vera vocazione, decifra la voce di Dio e comprende che
non dovrà essere un semplice sevo del sacerdote Eli nel tempio, ma
profeta e sacerdote lui stresso del suo popolo.
Da quella
notte così misteriosa Samuele esce conoscendo la sua chiamata, ma di
più, avendo scoperto la sua vera identità. Quella chiamata è stata
infatti per lui come una nuova nascita, una nascita che lo ha
generato alla verità di se stesso in modo pieno ed autentico.
E'
questo il dono di ogni chiamata di Dio prima ancora che fare
qualcosa o rendere un servizio. Accoglierla è permettere a Dio di
generarci alla verità di noi stessi in modo pieno ed autentico.
Anche nel
secondo racconto di vocazione ci sono un pò gli stessi elementi.
L'iniziativa è del Signore, che si volta e guarda quei discepoli del
Battista che gli vanno dietro. Attraverso un gioco misterioso di
sguardi e parole Gesù gli rivolge un invito: “Venite e vedete.”
Anche in
questo caso la scoperta della chiamata per i discepoli è
progressiva, passa attraverso una strada che si percorre con Gesù,
conosce una ricerca, conosce delle domande, delle perplessità, ed
approda ad una casa di Palestina dove la ricerca si arresta e si
spegne, nel trovare.
Attraverso
questo itinerario progressivo e persino laborioso, i discepoli, come
Samuele, scoprono la loro chiamata, la loro vera identità. E'
emblematico per questo il caso di Simone, che, al termine del
racconto, diviene Pietro.
Nel
racconto della vocazione di Samuele, della chiamata di Andrea,
Pietre e gli altri discepoli, c'è il racconto di ogni chiamata, c'è
il racconto della nostra vocazione di battezzati, di consacrati, di
laici, di discepoli del Signore. Alcune luci ci sono offerte allora
per il nostro itinerario; luci certo da non smarrire.
Tutto nasce
da un dono primo e gratuito del Signore, dalla sua iniziativa
personale e misericordiosa. Chiamandoci Dio ci usa misericordia.
Tutto si
dispiega nel tempo con gradualità e in progressione. Non ha fretta
il Signore nelle sue opere e chiede a noi di aver pazienza per
assecondare la sua opera in noi, di non voler capire, realizzare,
tutto e subito.
Ogni sua
chiamata è importante perché prima di assegnarci un compito, un
servizio, una missione, la sua chiamata, la vocazione ci genera alla
verità di noi stessi, ci rivela la nostra profonda identità,
completa per così dire la nostra nascita in modo pieno ed autentico.
Quando si insiste allora che è importante conoscere cosa Dio vuole
dalla nostra vita, il vero motivo non è, e non dovrebbe essere,
riempire seminari e monasteri, ma la certezza che da una tale
scoperta ognuno è generato in pienezza e in tutta la sua verità.
Ma c'è un
ultimo elemento nei due racconti di vocazioni su cui ci siamo
soffermati.
Si tratta di
un dato a prima vista marginale, ma in realtà particolarmente
significativo.
Nella storia
di Samuele, è stato necessario Eli. Nella chiamata dei primi
discepoli è stato prezioso il Battista.
Per giungere
a bene ascoltare il Signore, per discernere la sua voce, la sua
chiamata, la sua parola è necessaria quella che possiamo chiamare in
modo esteso: una mediazione. Per il cammino battesimale c'è
essenzialmente quella della Chiesa.
Per ogni
cammino personale è necessaria una presenza amica, un fratello, un
padre, un maestro che guidi, illumini, sorregga e faccia si che il
nostro passo sia più generoso e spedito nel seguire il Signore.
La
autoreferenzialità, il “fai da te” nella vita cristiana e nel
cammino di ogni chiamata discepolare è sempre esporsi a pericoli,
deviazioni, trappole.
E' invece
necessaria la presenza di chi con la stessa libertà interiore di
Giovanni il Battista e la pazienza infinita di Elia, ci rende il
servizio di indicarci il dove e il come la grazia chiede di essere
assecondata.
Attraverso
questo ultimo elemento la Parola ci ricorda cioè che, nessuno si
salva da solo, ma la salvezza così come la risposta ad ogni chiamata
passa nella comunione con Dio e con i fratelli. Ognuno ha bisogno
della grazia di Dio, ma anche del servizio, della guida, della
preghiera e delle indicazioni e persino correzioni dei fratelli.
Fratelli e
sorelle la Parola in questa domenica ci invita da una parte a fare
memoria grata della nostra vocazione personale, e dall'altra, ci
ricorda, che nella risposta, siamo affidati gli uni agli altri.
Nel giorno
della sua vocazione il profeta Geremia vide la mano del Signore che
gli presentava un mandorlo fiorito, segno della protezione divina.
Ogni
discepolo nella risposta della sua chiamata non è comunque mai
abbandonato nel deserto della vita, ma sul suo capo si stende
l'ombra di un ramo verde e fiorito che è la promessa certa della
fedeltà di Dio.
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