Domenica 18 dicembre 2011
- IV Domenica di Avvento - fr.
Massimo-Maria FMJ
Nell'avvicinarsi del Natale la liturgia pone dinanzi al nostro
sguardo Colei che lungo tutto il cammino dell'Avvento,
discretamente, ma realmente, ci ha accompagnato: Maria Santissima.
Il testo di
San Luca ce la presenta in un momento solenne della sua vita, nel
momento prezioso e nel contempo unico della storia dell'umanità:
l'annuncio dell'Incarnazione del Figlio di Dio.
“ Rallegrati
piena di grazia, il Signore è con te! “.
Con queste
parole che Dio aveva pensato da tutta l'eternità, e che ora
attraverso la bocca di un angelo, anzi un arcangelo, pronuncia nel
tempo, inizia la storia di una chiamata, la storia di una vocazione:
la vocazione di Maria di Nazareth, vocazione a cui è legata in modo
speciale la storia della salvezza per l'umanità.
Maria, la
Vergine di Nazareth, è turbata da queste parole, di quel turbamento
naturale che attraversa il cuore della creatura ogniqualvolta si
sente guardata dal Creatore. E' turbamento di sorpresa insieme, per
essere stata scelta per ciò che era la segreta ambizione di ogni
ragazza d'Israele: essere la madre del Messia.
Solo una
domanda pone Maria, non di dubbio o resistenza, ma di chiarimento su
come collaborare affinché tale progetto di Dio si compia.
L'Angelo
spiega, parla della potenza dello Spirito, del figlio che lei
avrebbe dato alla luce, le annuncia un segno: quello della cugina
sterile divenuta madre, ed infine proclama: “Nulla è impossibile a
Dio!”
La parola
ora è lasciata a Maria, la decisione libera e sovrana è nelle sue
mani se così si può dire.
Maria con
disarmante semplicità e con infinita libertà risponde: “Eccomi! Si
compia in me la tua parola!”.
“Eccomi per
tutto e per sempre!”
C'è qua tutto
il segreto della gioia, tutto il segreto della pace, tutto il
segreto di una vita davvero donata, di una vita pienamente
umanizzata, profondamente realizzata, davvero compiuta.
Ma che cosa ha
reso Maria capace di questo “ Sì “ pronto, generoso, pacifico e
gioioso? Certamente non è stato improvvisato, non si è trattato di
un atto sporadico di audacia azzardata. Le cose grandi Dio le
prepara lentamente, nella ferialità e lungamente, e Dio le prepara
con gli uomini che da Lui si lasciano plasmare, preparare,
modellare.
Cosa ha
quindi preparato Maria?
Figlia del suo
popolo Maria pregava, proclamava nelle sue giornate:
“ Ascolta
Israele il Signore tuo Dio è Unico! ”
Ascolta!
Maria si è
esercitata all'ascolto. Un ascolto che non la ripiegava su di sé, ma
la teneva costantemente tesa verso il Dio Unico e Tre volte Santo,
verso il Dio fedele e grande nell'amore.
Un ascolto
che l'ha resa beata nella fede e forte nell'adesione al progetto di
Dio.
Un ascolto
che ha plasmato in lei una grande consapevolezza: il senso, la
gioia, la pace e la realizzazione della vita viene solo nell'uscire
da se stessi e nell'aprirsi ad un Altro con la A maiuscola. Viene
solo dal di fuori di noi, da Dio appunto, non da noi stessi.
L'ascolto ha reso Maria tutta accoglienza, tutta disponibilità,
tutta ricettività semplice e disarmata, senza indugi o ritardi.
L'ascolto ha plasmato in Maria un cuore da discepola.
Ma legato
all'ascolto è evidente un altro segreto che ha reso Maria
disponibile a Dio. Ce lo suggerisce la liturgia nella preghiera di
colletta con cui abbiamo iniziato la celebrazione di oggi: “ O Dio
che scegli tra gli umili i tuoi servi...” così abbiamo pregato.
L'umiltà di
Maria è l'altro suo segreto, che l'ha resa disponibile, generosa,
consegnata totalmente e gioiosamente al progetto di Dio.
Maria era
ignara di se stessa, contenta della sua piccolezza, gioiosa della
sua povertà, totalmente consegnata, per nulla frustrata di scoprirsi
creatura, di definirsi serva, di farsi piccola e di dirsi povera
davanti al progetto di Dio.
Oggi tanto
si sottolinea che Maria era una come noi, è vero fratelli e sorelle,
ma il problema è che a ben guardare, siamo noi troppo diversi da
lei.
Lei ci
accompagna verso il Natale e con materna tenerezza oggi ci
suggerisce di fare nostri i suoi stessi atteggiamenti di ascolto
generoso, di umiltà gioiosa. E' il segreto per accogliere Gesù nel
Natale, è il segreto della vita cristiana, è il segreto della
santità.
Santa Maria
Madre umile e discepola obbediente prepara Tu il nostro cuore come
il tuo per andare incontro al Tuo Figlio, affinché possa parlarci
trovandoci in ascolto, possa chiamarci trovandoci disponibili, possa
conformarci a Lui trovandoci umilmente consegnati al suo Amore.
Amen.
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martedì 1 novembre
- Solennità di tutti i Santi -
fr. Massimo-Maria FMJ
I Santi!
Chi sono i Santi?
Per la gente sono coloro che fanno i miracoli. Sappiamo però che non
è esatto. E' infatti solo Dio che compie i miracoli. Essi piuttosto
intercedono presso Dio.
Per tanti i Santi sono persone che hanno avuto esperienze
particolari del Divino: visioni, estasi, rivelazioni. E' vero per
alcuni, ma non per tutti. E comunque questi doni mistici non
costituiscono la santità.
Per altri poi i Santi sono persone che hanno vissuto una vita fuori
dal normale, quasi delle semi-divinità. Figure belle, affascinanti,
ricche di mistero ed effetti speciali, con Dio sempre dalla loro
parte pronto a smussare ogni angolo del loro cammino e a risolvere
ogni difficoltà. Lontani sicuramente dalla portata dei comuni
mortali. Niente di più sbagliato! I Santi infatti hanno avuto una
vita con gli stessi combattimenti, tentazioni e prove che noi ben
conosciamo. Hanno coltivato gli stessi desideri e si sono rallegrati
delle nostre stesse gioie.
Per altri ancora i Santi sono persone tristi, malinconiche e sempre
impegnati in sforzi ascetici sovrumani. Davvero una visione parziale
e lontana dalla verità. E' vero una certa agiografia li ha fatti
intendere talvolta così. Ma poi avvicinandoli davvero, lasciandoli
parlare, quanta luce nella loro vita, quanta gioia e quanta ampiezza
di sguardo.
Per alcuni infine i Santi sono: “ I Santi”, veicolando così l'idea
che sono nati così, tutto facile, tutto programmato, tutto scontato.
Non diciamo qualche volta anche noi, magari come alibi per la nostra
mediocrità, Sì, ma loro erano santi. Come se Santi si nasce, ma non
si può diventare per la grazia di Dio.
Il Concilio Vaticano II afferma senza timore che anche nella fede la
Vergine Maria ha compiuto un cammino, a maggior ragione nella
santità i Santi hanno percorso un itinerario lungo, spesso faticoso,
talvolta costellato di prove e senza dubbio di tentazioni, iniziato
nel fonte battesimale e compiutosi nel percorso della vita intera .
I Santi allora. Chi sono i Santi?
La Scrittura lo afferma per Abramo ed altri personaggi chiave nella
Storia della Salvezza; la liturgia lo dice per tanti uomini e donne
che la Chiesa presenta come modelli ed intercessori presso il trono
di Dio: la Scrittura e la Chiesa nella liturgia parlano degli amici
di Dio.
I Santi sono gli amici di Dio!
Tale amicizia offerta loro con il dono della vita, sigillata nel
Sacramento del Battesimo, si è poi dispiegata, approfondita,
maturata e resa salda durante tutta l'esistenza.
Fratelli e sorelle i Santi sono gli amici di Dio!
Non
pensiamo certo all'amicizia che talvolta si conosce nel mondo,
superficiale, interessata, condizionata.
L'amicizia dei Santi con Dio è una amicizia fondata sull'amore
primo, infinito esagerato di Dio che è fedele, che cioè c'è sempre,
non a intermittenza, e una tale amicizia, ha come logica quell'amore
più grande che si concretizza nel dono della vita.
Da
questa prospettiva dell'amicizia allora si comprendono meglio chi
sono i santi e che cosa è la santità.
La
preghiera che forgia i santi e tutti li accomuna è la modalità più
comune per coltivare tale amicizia con Colui che ci chiama tutti
amici. I santi sono stati e sono uomini e donne di preghiera.
L'ascolto della sua Parola e la vita sacramentale che è nota
caratteristica dei Santi è stato il modo ordinario per rinvigorire
questa amicizia e metterla al riparo dalla superficialità. I santi
hanno ascoltato e celebrato l'amore infinito di Dio con assiduità,
attenzione e “devozione” nel senso più profondo e forte del termine,
cioè tutti votati a ciò.
Il
servizio generoso e l'attenzione al prossimo, nella certezza che ciò
che è fatto agli altri è fatto al Signore Gesù, è stato nella loro
vita il modo più sicuro per verificare la verità e la consistenza di
questa amicizia con Dio. Non facciamo fatica a constatare quanto la
carità verso il prossimo e particolarmente il povero ed il
sofferente è una gemma luminosa nella vita di tanti santi antichi e
più recenti.
Questa amicizia nella loro vita si è fatta così ora fiducia nella
prova – certi che Dio non abbandona chi a Lui si affida; ora
perseveranza nel buio – certi che la Sua Presenza illumina ogni
oscurità; ora speranza nella tentazione e nella sofferenza – certi
che Dio è fedele.
Tale amicizia con i santi Dio costantemente, lungo tutta la vita,
l'ha ri-donata loro con il perdono e l'ha ri-detta loro con il corpo
donato e il sangue versato di Gesù, ed essi l'hanno ricambiata
obbedendo alla sua Parola: “ Sarete miei amici se farete ciò che vi
comando.”
I
santi, fratelli e sorelle, gli amici di Dio, i quali certi che in
Gesù Dio ha tutto dato e detto tutto hanno risposto con il dono
totale di tutta la loro vita, un dono che è passato per la povertà,
per la mitezza, per la sopportazione della prove, per la difesa
della giustizia, per la misericordia, per la costruzione della pace,
per la purezza del cuore.
Tale vita donata è oggi la beatitudine nella visione di Dio, ma già
sulla terra ha dato loro di vivere nella gioia. Sì, perché essi non
erano, cupi e malinconici, ma piuttosto uomini e donne con cuore
pieno di esultanza perché rallegrati da Dio, dalla sua amicizia
appunto.
Fratelli e sorelle nella certezza che i santi sono amici di Dio e
quindi anche nostri, certi che ci comprendono perché conoscono le
nostre fatiche e i nostri combattimenti nel lasciare tutto lo spazio
a Dio nella nostra vita chiediamogli oggi che intercedano per il
nostro personale cammino di santità.
Non
c'è nessuno che non possa essere santo. Non esiste alcuna condizione
che lo impedisca, come non c'è alcuno stato di vita che lo
garantisca. La B. Madre Teresa sapientemente ricordava che la
santità non è un lusso per pochi ma un dovere per tutti, è cosa
semplice, lasciare cioè che Dio venga nella nostra vita, prenda ciò
che vuole e ci doni quanto gli piace. La santità è fare la volontà
di Dio nel quotidiano con un sorriso.
Possiamo oggi rinnovare il nostro proposito di camminare verso la
santità che è la vera gioia del cuore e resta il più convincente
annuncio del Vangelo per il mondo. Amen
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Domenica 11 settembre 2011
- XXIV Domenica del T.O -
fr. Massimo-Maria FMJ
“
Perdona l'offesa del tuo prossimo e ti
saranno rimessi i tuoi peccati” Questa è la parola risuonata nella
I° lettura oggi, tratta dal libro del Siracide.
“
Il Signore perdona tutte le tue colpe,
non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le
nostre colpe”. Così abbiamo cantato con il Salmista.
“
Così farà il Padre vostro celeste se non
perdonerete di cuore al vostro fratello”. Questa infine è
l'ammonizione luminosa ed esigente, di Gesù al termine del brano
evangelico appena proclamato.
Fratelli e sorelle è
chiaro come dopo la carità della correzione fraterna della scorsa
domenica, oggi la liturgia voglia guidare la nostra riflessione
sull'esigenza del perdono reciproco, gioioso, illimitato, generoso.
Ripartiamo dal testo del
Siracide.
Il passo ascoltato
affronta un tema non solo importante, ma di sempre grandissima
attualità per il mistero del cuore umano: il perdono e il rancore.
L'autore sacro, secondo
uno stile preciso, quello dei testi sapienziali, cerca di trasferire
nella sfera religiosa, esigenze morali concrete:
-
nel nostro caso, l'autore lo
fa affermando con forza e a più riprese che il perdono negato al
fratello, il rancore custodito nel cuore, diviene uno schermo
che interrompe non solo la relazione con il fratello, ma anche
il dialogo con Dio.
“
Se non hai misericordia per il tuo
simile, come osi pregare per i tuoi peccati?”
Nel Salmo poi il
salmista con accenti poetici canta l'inconfondibile e propria
caratteristica di Dio: la misericordia. “ Perdona tutte le tue
colpe”.
Ma particolarmente nel
brano evangelico è particolarmente svelato il mistero del perdono
rivelando che la sua sorgente e la sua forza è nel cuore di Dio.
Questa scoperta non
cessa di stupirci e persino imbarazzarci, proprio come è capitato a
Pietro.
Giobbe parlando delle
volte che Dio perdona all'uomo, pensandosi tanto magnanimo, aveva
proposto due o tre volte.
Pietro nella sua
domanda, chiedendo a Gesù se sette volte sarebbe sufficiente
perdonare, avrà forse pensato di essere audace e davvero ardito.
Ma Gesù scardina anche
questo limite: il perdono è senza limite, sempre e per tutto.
La parabola che spiega a
Pietro il perché della risposta di Gesù, fa comprendere anche a noi
per quale motivo il discepolo di Gesù deve vivere un tale perdono:
il servo doveva perdonare il suo compagno perché il re a lui aveva
perdonato tanto, molto, anzi tutto.
S. Agostino riassume
mirabilmente tutto questo nel celebre adagio, che diviene programma
di vita: “ Perdonati, perdoniamo.”
Fratelli e sorelle
dobbiamo però non lasciarci sfuggire ancora due indicazioni preziose
della parabola.
Il re dice Gesù, volle
fare i conti con i suoi servi. L'espressione può sembrarci
minacciosa e intimorire. Di fatto questo re chiede conto al servo
dell'amministrazione, ma questo fare i conti non è solo pura
relazione creditore debitore, debito e dovuto, ma questo re fa i
conti utilizzando l'incredibile e inaudita possibilità del condono
totale, del perdono appunto.
Questa è la prima
considerazione per la nostra riflessione sul perdono e per
l'esercizio del perdono: la sua fonte, la sua radice la sua forza è
in Dio. Forse la prima provocazione che ci lancia il Vangelo oggi è
farci scoprire che abbiamo bisogno di evangelizzare la nostra
immagine di Dio.
Ma poi un'altra
indicazione: il servo al quale è stato tutto condonato ha ricevuto
un dono, ma non ha conosciuto il donatore. Troppo curvato sui suoi
calcoli, forse sui suoi timori, paure e ragionamenti, il condono del
debito gli ha semplicemente risolto un problema spinoso, ma non ha
ottenuto l'effetto voluto dal re, quello cioè di rivelargli il suo
cuore misericordioso e buono.
Si capisce così il perchè di un
tale atteggiamento verso il suo compagno: il suo cuore non è
cambiato. Non ha gustato la gioia del perdono, la luce dell'incontro
con l'amore gratuito del re, ma semplicemente il condono gli ha
tolto una preoccupazione, e i suoi debiti finalmente risultavano
regolati: non ha incontrato il re, non ha sperimentato la
misericordia e per questo non è entrato nella logica della gratuità.
Fratelli e sorelle, “ Perdonati,
perdoniamo” ci diceva s. Agostino.
Per vivere il perdono,
per vivere il Vangelo non possiamo fare a meno di fare memoria della
misericordia che Dio ci ha usato, ci usa e sempre ci userà. E'
essenziale non fermarci ai nostri calcoli e pensieri, non
accontentarci neppure dei suoi doni, ma andare oltre: conoscere Lui,
il suo mistero. Chiedere che la sua infinita misericordia non sia
semplicemente una trovata geniale di Dio che aggiusta le nostre
pendenze con la sua giustizia e ci fa sentire a posto, ma che in
realtà ci conduce al suo cuore dove c'è la radice e la sorgente di
quell'amore che solo può convertire il nostro il nostro cuore di
pietra in un cuore di carne.
Amen
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Domenica 4 settembre 2011
- XXIII domenica del T.O. -
fr. Massimo-Maria FMJ
“ Pienezza della legge è
la Carità”
Così San Paolo insegna
ai Romani nel testo della seconda lettura della liturgia di questo
giorno. Ma di più specifica che se un debito abbiamo gli uni gli
altri è quello dell'amore vicendevole.
Ora la prima lettura e
particolarmente il Vangelo di Matteo si sofferma su un aspetto
dell'amore vicendevole: quello che chiamiamo la correzione fraterna
Nel testo di Ezechiele
con curioso paragone il profeta accosta il ministero profetico a
quello della sentinella.
Egli deve spiare
l'orizzonte della storia individuandone i segni nascosti, le tracce
misteriose di Dio, le albe di vita e i tramonti di morte per
comunicarli alla città, in questo caso ad Israele.
La responsabilità del
profeta è fondamentale, la sua inerzia o le sue omissioni possono
essere catastrofiche infatti per l'intera città. Tuttavia la sua
responsabilità si arresta davanti alla libera scelta di chi si
rifiuta di ascoltare, di capire, di cambiare.
Una prima luce sulla
Carità della correzione fraterna raccogliamo dal testo profetico:
Noi siamo responsabili
degli altri, siamo affidati misteriosamente gli uni agli altri, non
possiamo far finta di niente, pagheremo magari con l'impopolarità o
la perdita di consensi. Noi non possiamo tacere, non possiamo
sperare che siano sempre gli altri ad intervenire per non crearci
inimicizie, antipatie. Sarebbe diplomazia ma non Vangelo.
Tuttavia l'amore anche
nella correzione fraterna sa lasciare libero l'altro, non pretende
di ottenere subito il risultato, Per usare il linguaggio di
Ezechiele non si tratta di convincere con la forza, ma di avvertire,
di un avvertimento che non è minaccia, ma squisito gesto di carità.
La Parola del Vangelo
poi aggiunge alcune luci particolari sulla carità della correzione
fraterna.
Gesù propone un
itinerario pedagogico per correggere i fratelli, itinerario che
comporta dei gradi successivi.
-
Tra te e lui solo:
dice tutta la vicinanza, il voler davvero capire non solo la
mancanza, ma soprattutto il mancante. Quante volte noi
supponiamo una mancanza dei fratelli, non ne siamo poi così
sicuri, ne parliamo con terzi, con quarti fino a che tutti sanno
eccetto l'interessato o l'interessata. Fra te e lui solo dice
Gesù
-
Poi altri gradi. Se
non ti ascolta prendi prima due o tre testimoni, poi la
comunità, poi per te sia come pubblicano o pagano. Tutte queste
misure non sono stratagemmi per rafforzarsi nell'autorità da
parte di chi corregge, ma perché chi è corretto senta tutta la
premura di carità.
Una carità che
cresce man mano che si passa al grado seguente delle possibilità
ventilate da Gesù, sino al massimo, che paradossalmente è il
considerare il peccatore come pagano e pubblicano. Infatti
l'esclusione dalla comunità, è di questo che si tratta, non è
punizione, ma medicina. Di più: a ben pensarci gli interlocutori
privilegiati di Gesù sono stati proprio i pagani e pubblicani.
Con essi Gesù ci ha non solo conversato, ma persino si è seduto
alla stessa tavola. E questo illumina di luce particolare il
suggerimento che Gesù offre.
Ancora una indicazione
possiamo poi raccogliere per vivere la correzione fraterna” Se due
di voi sulla terra si mettono d'accordo per chiedere qualunque cosa,
il Padre mio gliela concederà”
La forza e la potenza
della preghiera, della preghiera fatta insieme nella certezza che ha
una fecondità unica. Con la sapienza dei piccoli del Vangelo S.
Teresa di Gesù Bambino ha scritto: La preghiera costituisce tutta la
mia forza, convince meglio i cuori più che tante parole.
E infine un ultima luce la raccogliamo dalla preghiera di colletta
che la sapienza della liturgia ci ha fatto pregare in questa
domenica. “Donaci o Signore uno spirito e un cuore nuovo” perchè
possiamo vivere il compendio della legge che è l'amore.
Per poter vivere la
carità della correzione fraterna è necessario a noi per primi un
cuore e uno spirito nuovo, e particolarmente una novità nel mio
sguardo sul fratello che voglio correggere.
Infatti prima di
pretendere correggere gli atti dell'altro spesso è più importante
correggere la mia visione dell'altro; è essenziale chiedersi
innanzitutto se io credo che il cambiamento dell'altro sia
possibile.
Se io volessi vivere la
correzione fraterna, ma non credo che l'altro possa davvero
cambiare, anzi i miei pregiudizi e stereotipi sono il criterio più
importante, è difficile avventurarsi nell'amore che vuole prendersi
cura dell'altro, che vuole esercitare evangelicamente la correzione
fraterna.
Ancora una volta non
possiamo che guardare a Gesù modello perfetto di chi ha amato sino
al dono di sé; modello perfetto di chi sempre per tutti e su tutto
conserva uno sguardo di misericordia e d è animato da un unico
grande desiderio:
“ Non voglio la morte
del peccatore, ma che si converta e viva”.
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Domenica 17 luglio 2011
- XVI domenica del T.O. -
fr. Massimo-Maria FMJ
“Chi ha orecchi
ascolti.“
Vogliamo raccogliere
questo invito di Gesù all'ascolto, per fare spazio nel nostro cuore
alla sua Parola di questa domenica.
Ancora una volta il filo
conduttore del suo messaggio è “ il Regno dei cieli”.
Attraverso l'immagine
del Regno, sempre così centrale nella sua predicazione, Gesù dipinge
il progetto di liberazione, di salvezza e di vita che il Padre ha
per l'umanità intera.
Nel testo odierno Gesù
parla del Regno attraverso tre parabole: quella centrale e diremmo
principale, del grano e della zizzania, e le altre due più brevi, ma
non meno significative, del lievito e del granello di senapa.
Nelle parabole il
Signore parla certo del Regno, ma in realtà, ci suggerisce insieme,
quale sapienza del cuore sia necessario chiedere allo Spirito, quale
sapienza del cuore sia importante maturare, per saper riconoscere la
presenza del Regno ed essere suoi buoni servitori, suoi sapienti
collaboratori.
Una luce particolare a
questo proposito si sprigiona dalla parabola della zizzania.
Il Regno non si
manifesta nella storia, per così dire, allo stato puro, ma mescolato
con la zizzania. Può sorprenderci e persino sgomentarci, ma Gesù ci
rivela che il Regno non è mai, nella storia, senza la zizzania.
Il buon grano e l'erba
cattiva crescono l'uno accanto all'altra.
Nonostante Gesù ce lo
dica con disarmante chiarezza, noi facciamo enorme fatica ad
ammetterlo, ad accettarlo, a dire “sì” è così e in un certo senso
Dio stesso lascia che sia così.
Pensate!
Vorremmo una Chiesa già
ora, da subito, senza rughe e senza macchie! Vorremmo un mondo che
già ora sia immediatamente tutto trasfigurato dalla vittoria di
Cristo! Vorremmo le nostre comunità cristiane, religiose, di
credenti, già ora, subito, pura trasparenza del Vangelo!
Buoni desideri certo, ma
tutto ciò sarà così nell' ”ora di Dio”.
Ma lo vediamo e Gesù lo
ribadisce non è così. Nel mondo, nella Chiesa, nelle comunità il
bene ed il male, il grano e la zizzania vi abitano curiosamente e
diciamo scandalosamente insieme.
Ma c'è uno scandalo
ancor più grande che siamo chiamati a sopportare, uno scandalo
ancora più umiliante: accettare cioè che nel nostro cuore, nella
nostra vita personale il buon grano e la zizzania crescono insieme.
Qual'è la tentazione davanti a questo mistero che il Padre ci fa
vivere?
E' la tentazione
dell'accusa pronta che vorrebbe subito smascherare il colpevole e
precisare il confine del bene del male. E' la tentazione della
fretta pericolosa che per chiarire subito tutto o fare giustizia,
che sarebbe sommaria, vorrebbe intervenire per strappare la zizzania
rischiando di rovinare irreparabilmente il buon grano. E' la
tentazione dell'aprire il cuore alla sfiducia pessimista che oltre
ad essere antievangelica rischia di condurre a voltare le spalle,
amareggiati al Regno stesso.
Qual'è invece la
sapienza del cuore che urge maturare e la che la Parola ci invita a
chiedere?
E' la sapienza della
pazienza, dell'attesa, del prevedere tempi lunghi. Non è certo
connivenza con il male, con l'erba cattiva, con la zizzania. Non è
passività inerte, uno stare a guardare rassegnato. E' lavorare per
il bene, promuovendolo sempre laddove lo si intravede, senza
sgomentarsi o fare gli scandalizzati perchè al fianco c'è la
zizzania.
E' credere che l'opera
di Dio sta avanzando nonostante uno sguardo puramente umano ci
vorrebbe convincere del contrario.
La pazienza è sapienza!
Saper attendere è sapienza! Saper pazientare è sapienza!
Dio che è sapiente, o
piuttosto è la sapienza, fa così. Non si precipita a punire i
peccatori, ad estirpare il male e correggere le debolezze. Lascia
che bene e male crescano misteriosamente insieme.
E guardando all'uomo
pazientemente invita alla conversione, non dice non c'è più nulla da
fare, piuttosto spera nella conversione credendoci.
Egli che è padrone della
forza – ci ha detto il libro della Sapienza nella prima lettura –
giudica con mitezza e ci governa con molta indulgenza.
Attendi anche tu con
pazienza ci dice Gesù, fai tua la fiducia del Padre ci invita il
Figlio, conserva risolutamente una speranza positiva ci insegna il
Maestro della sapienza, Gesù il Signore.
Se avrai questa sapienza
del cuore, se aprirai il cuore a questa logica di Dio, se cioè sarai
sempre più credente – uomo e donna di fede cioè – non guidato tutto
da semplici ragionamenti e logiche umane, avrai la gioia di vedere
rivelati lo splendore del Regno in tutta la sua
magnificenza....certo, ma nell'ora di Dio, l'ora che tu avrai
preparato con la tua attesa paziente e fiduciosa. L'”ora” che tu
speri credendoci.
Se al contrario ti
precipiti subito a mettere mano alla falce per estirpare in modo
sprovveduto il male, rischi di sradicare anche il buon grano.
Volendo strappare la zizzania rischi di sradicare il Regno.
Davvero chiediamo al Signore la sapienza del cuore che è la pazienza
fiduciosa di attendere come Lui.
E' di una davvero grande
umiltà che abbiamo bisogno per comprendere la logica di Dio. Questo
attendere paziente e fiducioso non è vano, Gesù ci assicura che il
risultato finale è certo: il buon grano infatti sarà riposto nei
granai; il granellino di senapa, anche se piccolo, quel giorno sarà
l'albero più grande capace di trasmettere vita e salvezza; il Regno
oggi nascosto nella pasta come il lievito, quel giorno, con stupore
si vedrà, sarà stato capace di sollevare il mondo intero.
Donaci Signore la
sapienza del cuore per essere pazienti e gioiosi collaboratori del
Regno che avanza con mite fortezza nella storia dell'umanità.
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Domenica 3 luglio
2011 - XIV
Domenica Tempo Ordinario -
don Matteo Perini
Quando
ascoltiamo la Parola del Signore, particolarmente nei vangeli, ci
rendiamo conto a orecchio che questa Parola è diversa dalle altre.
I discorsi degli uomini stancano.
Spesso sono come quei biscotti di sottomarca che si trovano ai
discount. Belle confezioni, in apparenza sembrano nutrienti, ma
quando li mastichi sanno di cartone e per quanti ne mangi non ti
togli mai bene la fame e un po’ ti disgustano.
Generalmente i
discorsi che si fanno, anche a livello teologico, sono un mettere sé
stessi in vetrina, anche inconsciamente, veri monologhi sotto
l’apparenza di dialogo. Altre volte sono un modo di stemperare la
propria ansia a spese dell’uditore, che se può sopportare per opera
di misericordia, dopo un po’ si scoccia. E poi per dire una cosa che
ci vogliono tre parole se ne usa una ventina, quando va bene.
Gesù parla in
modo diverso. E’ una parola che scende nel cuore, non lo affatica
caricandolo di ulteriori pesi, quelli che già abbiamo, avanzano.
Solleva invece, dal peso dell’ignoranza, del non vedere una
direzione, uno scopo alla vita, dal ripiegamento su propri pensieri,
con la luce che illumina un tratto di cammino. La sua parola, Lui,
svela noi a noi stessi, nella stranissima sensazione che conosca il
nostro cuore meglio lui di noi. Ci riaccende la speranza Gesù, anche
con la “sola” sua presenza silenziosa, quando siamo tentati di
scoraggiamento. C’è un senso di libertà che ci raggiunge
nell’ascolto del Signore, anche quando questa Parola ci contraddice
e quindi ci ferisce nell’orgoglio.
Se da bambini
siamo vissuti in un ambiente sano o senza pesi precoci, ricordiamo
di esser stati sorridenti e senza particolari preoccupazioni. E
rivediamo questo in figli e nipoti. Crescendo però piano piano
queste due cose si perdono e andando avanti nella vita disillusioni,
fatiche e ferite ci mettono alla prova. Ecco che ci troviamo nella
condizione che descrive il Signore, affaticati e oppressi. Ecco che
abbiamo bisogno della sua Parola, di Lui che ci sollevi, ci indichi
i passi da fare e i pericoli da evitare. Ci insegni a essere miti e
umili come Lui, obbedienti.
Sul cammino
della fede spesso ci si sente in ritardo, a volte passano gli anni e
ci sembra d’aver fatto dei passi indietro invece che avanti.
Classico del seminarista: “quand’ero semplice fedele credevo di
più”. Era grazia di Dio, e può accadere a tutti di pensarlo di sé.
Ognuno metterà quando ero piccolo, qualche anno fa, i primi anni
della professione e così via. Fede sensibile non vuol dire fede
grande. E ci si duole di questa mancanza spesso più per amor
proprio, un po’ piangendoci addosso di non essere perfetti come
vorremmo, che per amore di Dio, che forse stiamo facendo aspettare.
Ancora una
volta Gesù ci corregge e lo fa perché desidera il nostro bene,
perchè capisce e sente in sé le nostre sofferenze. Il Signore ci
insegna che quando si cammina sulla via dell’imitazione sua,
mitezza, umiltà e carità, spesso manca il motore dell’amore di Dio e
ci si muove per amor proprio. Non siamo poi così solleciti e
ricadiamo nei soliti peccati, da cui non sappiamo o vogliamo fino in
fondo staccarci. Ma la via della santità è misteriosa, si direbbe
strana ai nostri occhi. Il nostro cammino procede profondamente
diverso da come ce lo aspettiamo e tante volte siamo tentati di
giudicarlo coi nostri parametri, con il solo risultato di essere
tentati di lasciare la via stretta e in salita per quella più comoda
e larga e spaziosa che sappiamo conduce alla perdizione.
Colui che è
venuto a noi su un puledro di asino, mite e umile. Certo, comunque
tanto grande anche in questa veste che veniva voglia di stendergli
davanti mantelli e fronde verdi, è lo stesso che siede su un cavallo
bianco, ha gli occhi come una fiamma di fuoco, sul capo molti
diademi, è avvolto in un mantello intriso di sangue, dalla cui bocca
esce una spade per colpire le genti, per dirla con san Giovanni.
Però chi lo avrebbe detto? Sentire l’amaro della tentazione, il buio
di una galleria che non vuol finire e saper perseverare.
Resistere alla
purificazione del troppo umano che ancora segretamente coccoliamo in
noi, per godere delle consolazioni del Signore. Per resistere, per
arrivare al punto della dolcezza dello spirito è al Signore che
dobbiamo andare, noi, affaticati e oppressi. Fare quello che lui
dice, perché mitezza e umiltà mettono le condizioni di gustare il
Regno già qui come un anticipo, una caparra. Se no ci cercano
sostituti umani.
Infinita è la
ricompensa che ci attende se avremo voluto vincere la carne e il
nostro io con le loro voci, nella grazia del Signore, fedeli alle
ispirazioni dello Spirito che ci parla nel cuore.
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Domenica 26 giugno 2011
- Corpus Domini -
fr. Massimo-Maria FMJ
“ Io sono il pane
vivo disceso dal cielo. Se uno mangia questo pane vivrà in eterno.”
Così Gesù ci parla in
questa domenica della Solennità del Suo Corpo e del Suo Sangue.
Il pane da mangiare è il
suo corpo ed il vino da bere il suo sangue. Già a Cafarnao queste
parole suscitarono scalpore, sconcerto e mormorazione. Il motivo
della mormorazione e dell'aspra discussione è stata una mancanza,
non nel senso di debolezza morale, ma nel senso letterale cioè di
qualcosa che manca. Che cosa mancava agli interlocutori del Signore?
Mancava, uno sguardo di fede.
Carissimi fratelli e
sorelle il mistero Eucaristico è un mistero molto ricco:
è la presenza reale di
Gesù con noi;
è la sua vita offerta in
sacrificio per noi;
è la sua vita divina
donata in noi.
In questo mistero nasce
e cresce la Chiesa;
per questo mistero noi
diventiamo un solo corpo;
da questo mistero
attingiamo grazia forza e sostegno per il nostro cammino nella
storia.
Vogliamo noi ora
soffermarci sull'aspetto della fede: L'Eucarestia richiede uno
sguardo di fede ed anche esercita il nostro sguardo di fede su tutto
e su tutti.
Enza questo sguardo di
fede le parole della consacrazione restano parole belle, commoventi,
ma prive di forza per noi.
Senza lo sguardo di fede
il pane ed il vino per noi restano pane e vino, ma non riconosciamo
in essi il Santissimo Corpo e e Sangue del Signore.
Senza lo sguardo di fede
tutto si riduce a ciò che noi pensiamo, capiamo e vediamo, con
l'inconveniente che il più ci sfugge.
Partecipare all'Eucarestia,
adorare l'Eucarestia fratelli e sorelle, richiede lo sguardo della
fede ed esercita il nostro sguardo di fede.
Possiamo fare tutte le
comunioni che vogliamo, tutte le ore di adorazione che cogliamo se
non esercitiamo la nostra fede che interpella il nostro amen libero
e docile al Signore, la forza del mistero non si dispiega nella
nostra vita.
Mi spiego meglio con un
esempio che può apparire strano, ma nella sua paradossalità
significativo. Nei testi di teologia morale antichi, i moralisti si
cimentavano con casi di morale a cui rispondere che a noi oggi
possono apparire paradossali, ma tuttavia non stupidi.
Eccone un esempio.
Un topolino entra
nel tabernacolo e mangia un pezzetto di ostia consacrata. Ha il
topolino fatto o no la comunione?
Certamente no. Ha certo
mangiato il pane consacrato, ma non ha fatto la comunione perché
manca della coscienza del gesto, la libertà di acconsentire, ma
soprattutto manca della fede.
Dimentichiamo pure
l'esempio, ma riteniamo l'insegnamento.
Noi corriamo il rischio
di fare come il topolino, tante adorazioni o comunioni le facciamo,
ma tanti ostacoli frapponiamo a Gesù che viene, il nostro sguardo di
fede dorme.
A proposito un test può
essere utile per vedere il livello del nostro sguardo di fede sul
mistero di Gesù: chiediamoci quanto lo sguardo di fede è presente
nella mia vita quotidiana?
Se la critica, il
giudizio, la mormorazione cresce e dilaga; se la tristezza, la
prepotenza e l'ingiustizia regnano anche tra i credenti, manca in
fondo uno sguardo di fede. Gesù oggi ci richiama a questo.
Dobbiamo metterci
davanti al Signore per davvero.
Mettiamoci davanti al
Signore con fede.
Mettiamoci davanti al
Signore con fiducia
Questo è essenziale non
solo per la salvezza dell'anima, ma anche per questa vita di oggi.
Stare davvero davanti a
Gesù con fede, riceverlo con fede rende già oggi davvero vivi, veri
– non di plastica -autentici, credibili!
L'Eucarestia è un dono
incommensurabile per una vita eterna al di là della morte e per una
vita piena oggi nella storia.
Mettiamoci davanti al
Signore con fede e preghiamolo:
Buon Pastore, vero pane,
o Gesù, nutrici e difendici,
portaci ai beni eterni
nella terra dei viventi. Amen
|
Domenica 12
giugno 2011 -
Solennità di Pentecoste -
fr. Jean-Christophe FMJ
Fratelli e sorelle noi
abbiamo ascoltato quella pagina del Vangelo
che narra della sera di
Pasqua.
Gesù Risorto appare ai
suoi discepoli
e gli dice: “ Ricevete
lo Spirito Santo”.
Che cosa succede allora?
Niente.
Non succede nulla.
Non è sorprendente?
Ascoltiamo ora gli Atti
degli Apostoli.
Il giorno di Pentecoste,
lo Spirito Santo
discende sugli Apostoli riuniti.
Che cosa succede?.
Del vento, del fuoco,
e gli Apostoli che
parlano lingue nuove.
Nulla a che vedere con
la sera della Resurrezione.
Eppure è lo stesso
Spirito
che si è manifestato nei
due avvenimenti.
Perché una tale
differenza?
Non ci sono che
cinquanta giorni che separano i due avvenimenti.
Cinquanta giorni per
passare dal niente al tutto.
Cinquanta giorni per
passare dalla paura alla meraviglia
Cinquanta giorni per
passare dalla chiusura all'apertura al mondo.
Che cosa dunque hanno
fatto gli Apostoli durante cinquanta giorni per essere capaci
di essere finalmente
tutti trasformati dallo Spirito Santo?
Hanno vissuto una scuola
di preghiera.
Riuniti nel Cenacolo
essi hanno pregato.
E chi ha animato questa
scuola di preghiera?
Nulla è segnalato nella
Scrittura,
ma nulla ce lo impedisce
di credere.
E bene, è la Vergine
Maria.
Questo lo sappiamo dagli
Atti
che Maria pregava con
gli Apostoli nel cenacolo.
Maria conosce il segreto
della preghiera
lei che meditava ogni
cosa nel suo cuore
Maria conosce questo
cammino
che rende la nostra
umanità
disponibile all'opera
dello Spirito.
Poiché Maria è la
pneumatofora per eccellenza
Lo Spirito Santo riposa
su di lei
al punto da esserne la
sposa ed il tempio.
Al Cenacolo Maria aiuta
gli Apostoli
a scendere dalla loro
testa
verso il cuore dove lo
Spirito ama dimorare.
L'esperienza della
Pentecoste è il frutto della preghiera.
E' una nuova esperienza
di Gesù vivente nella
vita dei discepoli.
Quando Gesù dice la sera
di Pasqua: “ Ricevete lo Spirito Santo”
Egli dice ai suoi
discepoli: “ Io voglio vivere in voi”
E' la sua gioia di
dirci:
“Ricevete lo Spirito
Santo”.
Ci invita quindi
fratelli e sorelle
a discendere nel nostro
Cenacolo interiore.
Egli è lì che ci
attende.
E' questo incontro
interiore con il risorto
che cambierà la nostra
vita.
Una forza nuova si
dispiegherà in noi.
Una forza più forte
della morte.
La forza dello Spirito
Santo
la forza del Risorto.
La missione delle nostre
Fraternità
nel cuore delle città,
è di fare vedere questa
esperienza del Cenacolo.
Noi dobbiamo essere come
Maria
che attira gli Apostoli
a pregare.
Noi dobbiamo essere
anche come Gesù Risorto
che dice a tutti gli
uomini:
“ Ricevi lo Spirito
Santo
ricevi la vita della tua
vita
Entra in una vita nuova.
Prendiamo cura della
nostra vita di preghiera
perché lo Spirito venga
ad infiammare la città.
Fratelli e sorelle non
abbiamo paura dello Spirito Santo.
Spalanchiamo le porte
del nostro cuore
alla sua presenza..
Con lui non abbiamo
nulla da perdere
tutto da guadagnare.
Lo Spirito non sa che
donare
doni, frutti,
carismi...!
E' sempre il meglio che
ci sia per noi.
Poiché lo Spirito è la
nostra vita,
che lo Spirito ci faccia
agire.
Apriamoci alla novità
della sua opera.
Lasciamoci sorprendere
dalla sua audacia.
O Spirito Santo vieni a
ricrearci nella gioia
a liberare in noi l'uomo
nuovo,
l'uomo vivente per la
gloria di Dio
|
Domenica 29 maggio 2011
- VI Domenica Tempo Pasquale -
fr. Massimo-Maria FMJ
“ Se mi amate osserverete i
miei comandamenti “ ci dice Gesù nella Parola del Vangelo di questa
domenica.
“ Chi accoglie i miei
comandamenti e li osserva questi è colui che mi ama “, ribadisce il
Signore un po' più avanti nello stesso testo sottolineando con
particolare intensità la stessa esigenza.
Ci sorprende questo accostamento
voluto e chiaro tra amore e osservanza dei comandamenti. Quasi ci
suscita una reale e nascosta reazione di perplessità. “ Si possono
mettere dei comandi per mostrare l'amore?”
Gesù non teme queste nostre
perplessità e ribadisce che l'Amore è sempre concreto e “ passa “, “
si dice” , “ si concretizza “, attraverso l'osservanza di comandi,
attraverso il porre dei gesti reali e concreti.
Ma piuttosto che attardarci in questa
direzione dobbiamo porci la giusta domanda: “ Quali sono i comandi
da osservare per mostrare che Lo amiamo?”.
Naturalmente nel cuore e nella mente
risuona la Parola di Gesù che troviamo nello stesso Vangelo di
Giovanni : “ Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli
altri come io vi ho amato!”
La conclusione è semplice e di facile
comprensione. Noi amiamo il Signore se amiamo, se “ CI “ amiamo
vicendevolmente.
E' allora sufficiente scorrere le
pagine del Vangelo, ascoltare la Scrittura e guardare a Gesù il
Signore per cogliere l'esigenza di questo comando, la profondità
dell'Amore e l'inimmaginabile conseguenza di un tale invito.
“ La carità è paziente,
benigna, non si adira, non si gonfia, non tiene conto del male
ricevuto, tutto crede tutto spera tutto sopporta” proclama San
Paolo.
“ Porgi l'altra guancia, sii
misericordioso, non giudicare, non condannare, perdona di cuore”
precisa Gesù! Ma soprattutto: “ Nessuno ha un amore più grande di
questo di chi dona la vita”.
Ecco il comando che ci è chiesto di
osservare, ecco l'amore che ci è chiesto di vivere per “ dire “ il
nostro amore per il Maestro.
Fratelli e sorelle ci sarebbe di che
scoraggiarsi, di che spaventarsi, di che provare le vertigini e
reale smarrimento fino a concludere: “ Non fa per me, è troppo
alto!”.
Eppure Gesù non ci inganna, non ci
indica un obiettivo impossibile per poi lasciarci frustrati, ci
chiede di scegliere di amare, mostrandoci che è possibile, donandoci
l'esempio, precedendoci nel cammino, invitandoci a seguirlo.
Ma poi ancora a questo invito e a
questo esempio fa seguire la promessa di un dono: “ Pregherò il
Padre che vi darà un altro Consolatore che rimanga con voi per
sempre. Non vi lascerò orfani.”
E' il dono dello Spirito di Verità,
il Consolatore che costantemente volge il nostro cuore al Padre,
tiene desto in noi il ricordo di Gesù, la forza del suo amore, della
sua offerta, del suo dono.
Egli ci rende capaci, se a Lui ci
consegniamo e se il nostro cuore lo lascia libero di agire, Lui ci
rende capaci di amare.
Fratelli e sorelle, a noi è lasciata
la libertà di scegliere di amare consegnandoci senza resistenze a
tale dono.
In una orazione dopo la comunione del
tempo ordinario con sapienza la liturgia ci fa pregare: “ Non
prevalga in noi o Signore il nostro sentimento, ma l'azione del tuo
Santo Spirito.”
Quante lentezze, ritardi, e disastri
nel nostro cammino discepolare perché diamo credito e potere al
nostro sentimento e resistiamo invece all'azione del Santo Spirito
che Gesù ci dona ed è sempre con noi.
Non ci meravigli né ci sorprenda se
nel nostro cuore, nelle nostre comunità, nella Chiesa e nel mondo,
cresce la critica, la discordia, la tristezza, lo scoraggiamento, la
tenebra, il non-amore. E' il nostro sentimento che prevale, e lo
Spirito è contristato, è come imprigionato.
Non è certo il dono di Dio che “ non
funziona “, ma piuttosto la nostra consegna di noi a Lui che manca.
Il Signore ci chiama ad amarlo,
amando, superando il nostro sentimento ed aprendoci al suo dono.
Seguendo il Signore in questo cammino dell'Amore docili allo Spirito
fiorirà la gioia, la pace, la semplicità, la benevolenza, crescerà
la fede!
L'amore infatti è pacifico, credente,
luminoso, semplice come Dio stesso.
Ci aiuta forse una pagina di
fr.Christian de Cergè, priore dei monaci di Thibirine assassinati in
Algeria, in cui invitando ad essere meno complicati e più semplici
mostra un cammino per essere più facilmente aperti e docili allo
Spirito.
Scrive fr Christian: “ L'uomo è
complicato e la sua tendenza è più o meno a complicare ciò che è
semplice. Lo Spirito Santo invece è testimone e dono della
semplicità che è in Dio. Dio non è complicato, è semplice, senza
false pieghe. L'uomo è complicato pieno di pieghe, Dio è semplice,
ha una sola piega quella dell'amore!”
Fratelli e sorelle la Parola di Gesù
ci invita a consegnarci decisamente al dono dello Spirito che ci
semplifica! Ci rende capaci di prendere le distanza dal non-amore,
dal nostro sentimento e ci conduce a scegliere costantemente di
amare.
Amen
|
Domenica 22 maggio 2011 - V Domenica
Tempo Pasquale - fr. David FMJ
Gv. 14, 1-12
Si può interpretare diversamente l’affermazione di
Gesù: «chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e
ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre». Il
primo senso che ci si presenta intende la parola «opere» come un
sinonimo della parola «miracolo». Compiere le stesse opere di Gesù,
anzi, delle opere più grandi, significa compiere gli stessi miracoli
di Gesù, anzi, di più grandi. Quando Gesù ci chiede di credere
almeno per le opere che compie, vuole due cose. Vuole per primo
rimediare alla nostra difficoltà a comprendere le sue parole e a
crederci. E il rimedio consiste allora nel prestare attenzione ai
miracoli che compie. Vuole poi insegnarci a considerare la sua
persona intera, cioè chi egli è e non soltanto ciò che compie. I
miracoli compiuti da Cristo ricevono in effetti il loro senso pieno
in questa prospettiva precisa: comprendere chi è Gesù. Al di fuori
di questa prospettiva, i miracoli di Cristo non sarebbero diversi o
più interessanti dei miracoli di Mosè e anche, diciamolo, dei
prodigi che si incontrano ugualmente nelle altre religioni. Credere
in Gesù almeno per le opere è quindi entrare in una relazione viva
con lui, e non soltanto restarne a livello di discorso.
C’è però un altro senso possibile della parola «opera». Infatti, lo
stesso vangelo secondo Giovanni realizza un identificazione tra la
parola «opera» al singolare e il credere: «l’opera di Dio è che
crediate in colui che egli ha mandato», dice Gesù. In questa
prospettiva non si tratta più delle opere compiute da Gesù in vista
di aiutarci nel credere, ma si tratta del credere stesso,
qualificato come opera di Dio in noi.
È interessante constatare che ritroviamo qui la
categoria della relazione, ma con una profondità supplementare:
credere è essere in relazione con Gesù e, dal fatto stesso, con il
suo Padre da cui riceviamo la possibilità di credere. Forse abbiamo
qui la chiave per comprendere in qual senso Gesù parla di opere più
grandi. Vuole probabilmente parlare dei miracoli che non hanno mai
cessato nella Chiesa. Ma vuole forse inoltre dire questo: lui ha
compiuto delle opere per aiutare la fede, opere di cui gli apostoli
sono stati i testimoni, e noi realizziamo l’opera del Padre che è di
credere senza aver visto. Insomma, si tratterebbe di un’altra
espressione della benedizione ricevuta da Tommaso in nostro nome:
«beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». Se questa
interpretazione è valida, avremmo allora un’indicazione della grande
stima nella quale Cristo tiene la fede che abbiamo in lui. La nostra
fede è qui capita nello stesso momento come la nostra opera e come
il segno della potenza di Dio in noi, una potenza grandissima che ci
fa oltrepassare il bisogno di vedere dei prodigi.
La molteplicità degli approcci e delle interpretazioni
convergono tutti verso questo: la fede è essere in relazione con
Dio. Ne derivano delle conseguenze considerevoli. Essere credente
non è quindi vivere in un universo parallelo al mondo di ogni
giorno. La fede non ci chiede una sorta di schizofrenia tra, da un
lato, un mondo strano di segni e, dall’altro, il mondo di ogni
giorno, il mondo della spiegazione razionale e della tecnologia. La
fede non è un anti-razionalismo. Non è neanche un moralismo difeso
come altri difendono gli interessi del loro partito politico. In
altri termini, non è un’ideologia. Ma la fede è essere in relazione
col Cristo. La fede non ci apre un mondo parallelo ma la profondità
del mondo presente. Vediamo il senso profondo delle cose. Con gli
occhi della fede, vediamo oltre ciò che sfigura il mondo. Vediamo
nelle cose, negli esseri, nell’avventura umana, l’espressione
dell’amore di Dio e della nostra libertà, essendo le due cose
intimamente legate. Infatti, Dio ci ama creandoci liberi. Vediamo
aldilà di ciò che sembra rovinare il senso dell’esistenza. Vediamo
il Cristo come la riconciliazione e la sintesi di tutte le cose. E
l’attesa di questo raduno futuro di tutto in Cristo ci dà la forza
per agire oggi. Fratelli e sorelle, la fede è rischiare una
relazione, accettare che Dio ci chieda delle cose che non avremmo
previste. Siamo in movimento, siamo in ricerca, e la nostra ricerca
non è azzardata ma è desiderio. È desiderio perché ne conosciamo già
il termine: Gesù Cristo. Termine che è nello stesso momento
intimamente conosciuto da noi e misterioso. Termine che non chiude
su di lui ma ci apre invece sulla profondità della Trinità.
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Domenica 15 maggio 2011
- IVa Domenica Tempo pasquale A -
fr. David FMJ
Gv. 10, 1-10
Il brano del vangelo secondo Giovanni letto oggi proviene dal lungo
discorso del buon Pastore. Il tema pastorale di questo discorso
evoca ovviamente la Chiesa. Ciascuno dei tre anni liturgici, il
giorno della quarta domenica del tempo pasquale, ci fa ascoltare un
tratto di questo discorso pastorale del Signore. C’è quindi un
insistenza liturgica nel sottolineare il legame tra il mistero
pasquale e la Chiesa. La Chiesa è la sposa del buon Pastore. La sua
esistenza stessa è la testimonianza della risurrezione di Cristo
Signore, poiché la Chiesa nasce dalla vittoria del Signore sulla
morte e sul peccato. La Chiesa, infatti, è il prolungamento
dell’opera salvifica di Cristo. La Chiesa è una realtà pasquale
poiché trae la sua sostanza dall’evento pasquale. Perpetua l’evento
pasquale essendo lei stessa in movimento, in processo di passaggio
da questo mondo al Padre. La Chiesa è così comunione. Si tratta
della comunione che congiunge il cielo e la terra, il presente e
l’eternità. Il nostro sguardo sulla Chiesa non deve perdere mai
questa dimensione mistica. Ora, questa dimensione mistica è il
contrario di una perdita di contatto con la realtà. Al contrario, a
imitazione di Cristo, abbraccia la realtà, ne vede la prospettiva,
la messa in gioco, la profondità. Guardare misticamente la Chiesa ed
essere presenti al mondo sono due aspetti di uno stesso movimento
spirituale.
Il discorso pastorale di Cristo è
il lungo sviluppo di una parabola, quella detta del buon Pastore. Il
titolo abitualmente dato a questa parabola non è l’unico possibile.
Infatti, Cristo ci si designa non soltanto come il buon Pastore ma
anche come la porta dalla quale bisogna passare per essere liberi ed
avere la vita. L’autorità di Cristo su di noi è assoluta perché è il
Figlio di Dio, il Verbo venuto nel mondo. Ma sappiamo che Cristo è
la porta, cioè che non dobbiamo temere questa autorità sovrana di
Dio su di noi perché è liberatrice. È affinché avessimo la vita che
Dio ci ha creati e salvati. È in vista della vita in pienezza che ci
invita ad entrare in relazione di alleanza con lui.
L’immagine della porta potrebbe
essere ambigua. Il Signore però ha avuto cura di precisarla. Una
porta, infatti, apre su un orizzonte o racchiude. Ora, è in quanto
apertura verso la libertà simboleggiata dai pascoli che il Signore
evoca l’immagine della porta. Il Signore non dice, quindi, che per
essere salvate, le pecore dovrebbero sforzarsi di essere al riparo
nel buon recinto e non uscirne mai più. Le pecore devono al
contrario passare, uscire, andare e tornare. La salvezza non è
rappresentata da una posizione statica, dal fatto di essere dal lato
giusto, di essere dentro e non fuori, ma dal passaggio attraverso la
porta giusta, attraverso l’unica porta. Fratelli e sorelle, questo
significa che dovunque possiamo essere le «pecore» del Signore. È la
porta che conta. Cristo ha aperto un’uscita, una profondità, una
salvezza, una fecondità, un mistero. Tocca a noi essere, laddove
siamo, le pecore del Pastore. Allora, faremo del nostro mondo
quotidiano i pascoli della salvezza. Lasceremo le forze santificanti
del vangelo fare Chiesa di realtà che pure sembrano molto lontane
dalla Chiesa. Non dobbiamo essere delle pecore paurose che non
cercano altro che rimanere nella stalla. Dobbiamo invece essere
uomini e donne del passaggio pasquale, della fecondità pasquale.
Insomma, esiste una porta aperta in ogni luogo, in ogni situazione.
In altri termini, Cristo è presente, con la sua vittoria, in ogni
luogo, in ogni situazione. Tocca a noi saperlo ascoltare e seguire.
Allora, per un misterioso scambio, diventeremo anche noi la porta,
cioè lasceremo Cristo passare attraverso la nostra esistenza e
raggiungere coloro che ci circondano.
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Domenica
1 maggio 2011 - IIa
Domenica Tempo Pasquale -
fr. David FMJ
Gv. 20, 19-31
Tommaso si presenta a noi come
una figura di transizione tra la fede del gruppo apostolico e la
fede della Chiesa, cioè la nostra. Una figura di transizione e di
trasmissione. Tommaso ha visto il Signore risorto. Questo fa di lui
un membro qualificato del gruppo apostolico. Appartiene alla cerchia
dei primi testimoni e forma con loro i fondamenti della Chiesa. Ma
con le sue resistenze e le sue esigenze, Tommaso è anche, in qualche
modo, il nostro rappresentante e il nostro portavoce. Infatti, non
abbiamo visto così come gli apostoli hanno visto. Tommaso è
depositario di una beatitudine, di una benedizione di cui siamo i
destinatari: beati quelli che pur non avendo visto crederanno. È di
noi che si tratta. Grazie a Tommaso, abbiamo da parte del Signore
stesso una luce sul modo in cui siamo chiamati a vivere la nostra
fede. Crediamo senza aver visto, crediamo sulla parola degli
apostoli trasmessa dalla Chiesa, e questo è per noi una benedizione.
Proviamo a capire in che senso si
tratta di una benedizione per noi. Prima occorre notare questo:
l’incredulità di Tommaso non è un’incredulità ostinata, una sorta di
ateismo o anche semplicemente di agnosticismo. Se Tommaso avesse
profondamente rifiutato la testimonianza dei suoi fratelli apostoli,
avrebbe cessato di andare con loro. Invece vediamo nel vangelo che
si trova tra loro. Tommaso si sente ancora membro del gruppo
apostolico, anche se non accoglie ancora la testimonianza dei suoi
fratelli apostoli. Bisogna quindi interpretare le sue resistenze non
come un rifiuto della parola dei suoi fratelli apostoli, ma come
l’espressione delle sue esigenze. Se cerchiamo di penetrare il senso
profondo delle obiezioni di Tommaso, scopriamo che sono legittime,
anzi che hanno una grande importanza. Tommaso non chiede soltanto
che l’esperienza descritta dai suoi fratelli apostoli si riproduca
in sua presenza. Ma fissa le condizioni: poter toccare il corpo del
risorto, poter toccare le tracce del supplizio. Queste condizioni,
certamente ispirate, esprimono una verità molto profonda. Sono
l’accesso al significato della risurrezione di Cristo. Tommaso,
infatti, non è soddisfatto dall’idea secondo la quale, per esempio,
lo spirito di Gesù riposerebbe in pace. Non accetta di lasciarsi
personalmente coinvolgere dalla risurrezione se essa significa
soltanto che Gesù vivrebbe ormai nella fede dei suoi discepoli,
attraverso il loro affetto. Tommaso vuole incontrare un fenomeno
infinitamente più consistente. E questo è possibile soltanto se il
Risorto è davvero lo stesso Gesù che ha conosciuto, lo stesso Gesù
mortalmente colpito, segnato nel suo corpo dalle ferite della
Passione. Tommaso non vuol sapere né di uno spirito, né di un’idea,
né di un’emozione, ma vuole Gesù stesso, vivo aldilà della morte. Il
suo rifiuto della testimonianza dei suoi compagni è in realtà
l’espressione delle condizioni di credibilità dell’evento della
risurrezione. E questa esigenza ha per noi un significato capitale.
Infatti, ci fa capire che la risurrezione di Cristo non è un happy
end che riguarderebbe soltanto Gesù di Nazaret. È invece un
cambiamento radicale della nostra situazione. Senza il legame,
richiesto da Tommaso, tra il Gesù prima della risurrezione e Cristo
risorto, senza i segni della Passione sul corpo di Gesù vittorioso,
non avremmo a che fare con la salvezza ma saremmo soltanto di fronte
al destino particolare di Gesù. Ciò che la Passione di Cristo
significa per noi sarebbe mancato. Infatti, Cristo ha dato l’impulso
ad un movimento, ha aperto un cammino. Non si attarda a manifestare
la sua risurrezione come con gli apostoli per quaranta giorni, ma
torna al Padre e ci trascina nella sua scia. La salvezza apportata
da Cristo non è una pura informazione, un dato statico da
verificare, ma una verità da vivere, che istituisce relazioni nuove
tra gli uomini, che istituisce un corpo che è la Chiesa, che
costituisce una responsabilità, un patrimonio da trasmettere, una
tradizione, che ci mette in cammino verso il Padre, nella potenza
dello Spirito. Allora capiamo perché il nostro dipendere dalla
testimonianza apostolica è una benedizione. Lo è perché è la chiave
dell’esperienza della presenza di Cristo nella sua Chiesa. La
trasmissione della fede, la condivisione della fede nella vita
comune delle assemblee, delle famiglie e delle comunità, la
testimonianza della fede nel mondo di oggi, questo è il vivere come
Chiesa, questo è la presenza attiva di Cristo nello Spirito. Non
possiamo dire, quindi, che non abbiamo visto nulla. Non possiamo
dire che non abbiamo fatto l’esperienza di Cristo risorto. Ma la
nostra esperienza di Cristo risorto è inseparabile della nostra
esperienza da credenti, della nostra esperienza di Chiesa nel senso
più ampio, più mistico e nello stesso momento più concreto del
termine.
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Domenica
24 aprile 2011 - Domenica
di Pasqua - fr. David FMJ
«Allora entrò l’altro discepolo ―
ci dice il testo. Vide e credette». Ora, appunto, non c’era niente
da vedere: il sepolcro era vuoto. L’esperienza del discepolo è
quindi un’esperienza di fede. Ciò che i suoi sensi gli mostrano è
l’assenza del corpo. Ciò che la fede gli fa scoprire è il compimento
delle Scritture, è la presenza del Signore. Cristo è risorto dai
morti senza testimoni. La sua risurrezione non è stata osservata e
descritta. È una realtà unica che non conosce paragone. Non è quindi
un’esperienza nel senso abituale della parola. Eppure, è
un’esperienza di fede. Un’esperienza di fede per i discepoli. Anche
per noi, la risurrezione di Cristo è un’esperienza di fede.
Un’esperienza nel senso forte della parola. Come la risurrezione di
Cristo è un’esperienza di fede per noi? Lo è dalla pratica della
vita cristiana. Infatti, non potremmo pregare come facciamo se
Cristo non fosse risorto. Non potremmo pronunciare il suo nome con
la certezza di indirizzarci ad una persona. Non potremmo celebrare i
sacramenti che, tutti, derivano dalla sua presenza che agisce. La
resurrezione di Cristo è una realtà molto concreta che determina la
nostra vita cristiana. E di questo, siamo tutti testimoni. Di
questo, cioè della presenza di Cristo tra noi. Noi ne siamo
testimoni con il fatto stesso della nostra comunione intorno al suo
altare. Si tratta di una testimonianza liturgica che reclama di
essere completata con la testimonianza della nostra vita. Siamo
risorti con Cristo, siamo figli e figlie della sua risurrezione.
Fratelli e sorelle, è Pasqua
oggi. È la grande notizia dell’evento fondamentale che cambia
totalmente il mondo. Sappiamo ciò che è accaduto in tutta la Giudea,
incominciando dalla Galilea: Gesù di Nazaret, la sua morte,
l’esperienza poi dei primi testimoni della sua risurrezione.
Sappiamo ciò che sta accadendo adesso: il raduno della Chiesa presso
il Signore per ricevere da lui la sua vita, per entrare nella sua
azione di grazie e diventare, anche noi, figli del Padre. È Pasqua
oggi! Pasqua oggi come ogni anno. Pasqua, ancora, ogni domenica
lungo l’anno. Pasqua, anche, le celebrazioni eucaristiche
quotidiane. Cristo è risorto: ecco il ciclo dell’anno liturgico.
Cristo è risorto: ecco la luce del Mistero. Cristo è risorto: ecco
la pulsazione del mondo salvato, unito alla vita stessa di Dio!
Alleluia!
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sabato 23 aprile 2011
- Veglia Pasquale -
fr. Massimo-Maria FMJ
“
Veniva nel mondo luce vera….la luce
splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno vinta…” ( Gv 1, 9.5
)
Così San Giovanni nel
prologo del suo Vangelo annuncia la venuta di Gesù nel mistero
dell’Incarnazione.
Guardando al Signore
nella sua vita e particolarmente in questi giorni, abbiamo
l’impressione che le tenebre, la luce, l’hanno vinta.
Guardando al nostro
cuore nello scorrere dei giorni abbiamo più di una volta
l’impressione che le tenebre hanno vinto la luce.
Soffermandoci a guardare
il nostro mondo così tormentato e così sconvolto quasi ci
convinciamo che le tenebre la luce l’hanno vinta.
In questa notte a noi
che ci siamo ritrovati per la Veglia Pasquale la Chiesa invece è qui
a gridarci attraverso questa liturgia che no, non è così, tutto al
contrario, la luce ha dissipato le tenebre, la luce dissipa le
tenebre, la luce dissiperà sempre le tenebre, perché nella storia
dell’uomo c’è un fatto reale, unico, inimmaginabile : Gesù è
risorto, ha vinto la morte, è luce eterna e vita senza fine, è il
Vivente. Gesù è vivo!
La Chiesa attraverso la
liturgia questa notte ci grida la vittoria di Gesù sulle tenebre,
sulla morte, su ogni morte.
La Chiesa questa notte
attraverso i segni e le parole della sacra liturgia ci riconsegna
tutto la gioia, la speranza la forza della Pasqua di Gesù.
Ci siamo ritrovati qui
nel buio di questa chiesa, e fuori ancora nel buio della notte
abbiamo visto come una luce si è levata, quella del cero: la
liturgia ci ha annunziato che: è segno della luce di Cristo che si è
levato vittorioso dal sepolcro.
Guidati poi da questa
luce siamo rientrati in chiesa che per la presenza del cero pasquale
ha ritrovato anch’essa il suo splendore. Insieme agli occhi
illuminati dalla luce, anche il cuore è stato invitato a destarsi
alla gioia, alla luce del Risorto. Proprio nel crescere della gioia
abbiamo espresso con il canto l’esultanza dello spirito avendo
l’ardire di affermare che questa notte non solo non è tenebrosa ma è
gloriosa, perché la luce di Cristo si è levata. Abbiamo avuto
l’audacia di cantare felice la colpa di Adamo perché ci ha procurato
un così grande Redentore divenuto per sempre una luce che non si
spegne e vita che non muore.
Nell’ascolto
della Parola di Dio abbiamo contemplato come Dio per noi ha da tempo
compiuto meraviglie, e la meraviglia delle meraviglie la Pasqua del
Figlio che ci ha rimesso sulle labbra e nel cuore, l’alleluia
pasquale, perché Gesù non lo si può più cercare in un sepolcro, la
tomba infatti è vuota, Lui è risorto.
Carissimi fratelli e
sorelle se noi siamo qui questa notte un tale annuncio lo abbiamo
già ricevuto, già lo conosciamo, già abbiamo idea di cosa si tratta.
Eppure la Chiesa ci riconsegna un tale annuncio, con tutta la sua
forza e la sua immutata freschezza.
Si! Abbiamo bisogno di
ravvivare nella nostra vita e nel nostro cuore la luminosità di
questo incommensurabile dono.
Perché se Gesù è
risorto, se la sua luce ha dissipato le tenebre le nostre vite
cristiane sono così tristi, opache e talvolta poco significative?
Perché i nostri animi
sembrano rassegnati, i nostri volti scuri e i nostri cuori induriti?
Fratelli e sorelle la
luce di Cristo si è levata vittoriosa dal sepolcro, ma noi spesso
siamo assopiti e distratti, spesso siamo storditi e confusi da altre
luci.
La liturgia mette sulle
labbra di Gesù queste parole “ Sono vivo e sono sempre con te.” Noi
lo sappiamo e tuttavia siamo talmente concentrati su noi stessi, sui
nostri interessi, sui nostri pensieri, sui nostri calcoli, sui
nostri contorti ragionamenti che non è la luce di Gesù a orientarci,
non è la vita di Gesù a rallegrarci, non è la sua vittoria a
informare la nostra vita.
Siamo noi stessi al
centro di noi stessi.
E’ il nostro io il masso
che chiude la tomba del nostro cuore e senza il nostro “amen” libero
e gioioso il Signore questa pietra, a differenza della pietra del
suo sepolcro, non la infrange.
Il papa nella catechesi
di mercoledì scorso invitando i cristiani a vivere nell’intensità e
nel raccoglimento la Pasqua parlava dell’insensibilità a Dio,
insensibilità alla presenza di Dio, in cui il mondo di oggi vive.
Anche noi forse siamo un
po’ vittime di questa insensibilità.
Fratelli e sorelle la
grazia di questa Pasqua vuole sollevarci da questa insensibilità, da
un certo torpore. Noi dobbiamo scegliere di rimettere questo
annuncio al centro della nostra vita, dobbiamo scomodare il nostro
io e ridare il suo posto a Dio, dobbiamo aprire il cuore e far
cambiare aria come si fa con i luoghi da troppo tempo chiusi. Il
Signore è risorto davvero ed è realmente vivo per noi. Viene a dire
e a dare la sua pace. Viene a irradiare la sua luce e a infondere il
suo splendore. Viene a rimettere la speranza che solo il suo volto e
la sua voce di vivente possono far fiorire.
Ci diremo Buona Pasqua!
Ma l’augurio più bello sarà quello che ci scambieremo attraverso una
vita luminosa che dice la pace del Risorto, la speranza del Vivente,
la gioia di Dio.
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venerdì 22 aprile 2011
- Venerdì santo -
fr. David FMJ
La morte di Gesù Cristo è la
morte comune, ordinaria, cattiva e brutta. Gesù Cristo è realmente
morto. È morto della morte che falcia ogni minuto tante vite, da
tanti secoli. Quanti uomini e donne hanno già percorso questa terra,
hanno respirato la nostra aria, hanno vissuto là dove viviamo?
Quante ossa si ammassano sotto le nostre città, sotto i nostri
passi? Cristo è affondato nell’abisso dell’oblio che ricopre tutti
coloro che calpestiamo senza saperlo. Gesù Cristo è veramente morto,
ha preso la strada di tutti gli uomini, quella del regno che la
Bibbia indica come quello delle ombre.
Eppure, la morte di Gesù Cristo è
unica. Nonostante ordinaria e comune è unica. Ci sarebbe forse una
contraddizione? Non sarebbe piuttosto qualcosa che ci supera?
Infatti, è la constatazione trasmessa alla Chiesa dai primi
discepoli, che la morte di Gesù Cristo è unica. La morte di Gesù
Cristo possiede il carattere di una misteriosa libertà. Gesù è morto
perché era veramente uomo e, quindi, mortale. Ma la sua morte è
anche il dono che fa di lui stesso, il compimento della sua
missione, per mezzo di una libertà che appartiene soltanto a lui.
Gesù si è reso padrone della morte. E anche la nostra morte è
cambiata. Possiamo ormai morire con Gesù: questo è credere che la
relazione che conosciamo già ora con lui, nella sua Chiesa, non avrà
mai fine; questo è credere che saremo sempre con lui poiché lui è
sempre con noi; questo è credere che la morte non potrà separarci da
lui poiché non ha potuto separarlo da noi.
Sei Signore, O Cristo. Sei il
primogenito di coloro che risuscitano dai morti. Sei l’alfa e
l’omega. Non c’è niente che tu non abbia visitato. Niente. Neanche
la nostra morte.
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giovedì 21 aprile 2011
- Giovedì Santo - “In coena Domini” -
fr. Massimo-Maria FMJ
“Gesù
sapendo che era giunta la sua ora...dopo aver amato i suoi che erano
nel mondo li amò sino alla fine.”
( Gv 13,1 )
Così si
apre il brano evangelico di questa liturgia del Giovedì Santo.
L'
Evangelista Giovanni che aveva posato il capo sul petto del Maestro,
proprio nel cuore di quest'ora del supremo amore, quasi volendone
con questo gesto penetrarne furtivamente i segreti, con una tale
affermazione: “ li amò sino alla fine” svela il mistero di quest'ora;
rivela il segreto più profondo della vita di Gesù; spiega il movente
ultimo della sua totale donazione.
I suoi
discepoli, i suoi amici, tutti gli uomini, Gesù, li aveva già amati
sul serio : Il Signore aveva già dato prova di un amore che
definiremmo, “da Dio”.
Si era
infatti spogliato della sua divinità, ed assunto la debolezza
dell'umanità, nell'Incarnazione.
Aveva
lasciato l'infinito dell'eternità ed era entrato nella fragile
temporalità.
Attraversando poi le strade della Palestina aveva concretamente, con
la Parola e le opere, proclamato l'amore indicibile del Padre.
San
Giovanni ora sottolinea che c’è un di più, e questo di più, lo dice
proprio bene, e lo sottolinea con attenzione per evitare che passi
inosservato: “ ...dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li
amò sino alla fine...”.
C'è un di
più, c’è un ancora, c'è “ un'ora” , l'Ora per antonomasia, in cui
questo amore è detto tutto ed è dato tutto.
A tavola
con i suoi amici nel pane spezzato e nel vino versato Gesù annuncia
la sua vita offerta sulla croce e regala il mistero dell'Eucarestia
alla sua Comunità.
Lì nel
Cenacolo poi, chiede ai suoi amici di ripetere il gesto in sua
memoria perché questo dono varchi i confini del tempo e dello spazio
e divenga contemporaneo di ogni uomo che appare nella storia. Nasce
così il sacerdozio della Nuova Alleanza, il ministero sacerdotale
nella sua Chiesa.
Ed infine
si leva da tavola e si veste da servo. Si alza da tavola e scende ai
piedi dei suoi amici dicendo per sempre che è nel sevizio che si
riconoscono coloro che gli appartengono e nell'amore donato che Lui
è presente.
L'Eucarestia,
il sacerdozio, la Carità ecco le tre gemme, i doni del Signore alla
sua Chiesa nella sua ora.
A noi di
accoglierli con semplicità e gratitudine. A noi di rallegrarcene con
consapevolezza e senso di responsabilità. A noi di viverne come
testimoni entusiasti e credibili.
Tre doni
che hanno un unica fonte: il cuore del Figlio di Dio, in cui si
manifesta, nella storia, tutto l'Amore del Padre.
Tre gemme
luminose che hanno un unica sorgente: l'Amore infinito di Dio
Trinità che costantemente vuole fare di ogni uomo – secondo
l'espressione usata dal Papa Benedetto XVI – il suo partner
personale e vivo.
Nel testo
di Giovanni si dice poi che dopo che Gesù ebbe lavato i piedi ai
suoi discepoli, riprese le vesti, tornò a tavola.
Seduto a
tavola con loro, li sorprende con una domanda, che, considerato il
momento solenne e visti i doni davvero unici, assume una forza ed
una valenza davvero tutta particolare:
”Capite quello
che ho fatto per voi?“
Non si
tratta certo di un rimprovero, non è senza dubbio un volersi
rassicurare che abbiano davvero capito tutto – le vicende che
seguono dimostrano l’esatto contrario - , non è neppure un volerli
mettere a disagio mostrando che il loro Maestro dubiti della loro
capacità di comprensione.
Piuttosto è
un bussare alla porta del loro cuore affinché accolgano quei doni
che, quella sera faceva a loro, ma misteriosamente alla Chiesa di
ogni tempo, per sempre.
Con quella
domanda Gesù tende la mano come mendicante sperando che l’immensità
di quei doni, che sono poi la sua vita, il suo amore, la sua
salvezza, non vadano perduti.
Nella
liturgia, che perennemente rinnova tutta la forza del dono e tutta
la potenza dell’amore del Signore, stasera Gesù, in questa ora,
rivolge la stessa domanda, personalmente a ciascuno di noi:
“ Capite
quello che ho fatto per voi?”
La domanda
ha lo stesso significato di quella sera ed è a noi rivolta con
particolare intensità. E’ il Signore che ci chiede di aprirgli il
cuore. E’ il Signore che ci domanda di lasciarci da Lui amare. E’ il
Signore che non si è stancato delle nostre infedeltà e dei nostri
ritardi e prepara tenacemente e discretamente la Pasqua da noi, a
casa nostra, nel nostro cuore.
Siamo noi
disposti ad accogliere il dono del suo corpo e del sua sangue nella
nostra vita?
Siamo
disposti a ricevere attraverso il ministero sacerdotale nella Chiesa
i suoi gesti di salvezza per la nostra vita?
Siamo noi
disposti, forti del suo amore e da esso abilitati, a deporre ogni
resistenza, e a scegliere di amare nella nostra vita?
Questa
domanda è allora una richiesta di accoglienza da parte del Signore.
Ma non solo!
E’ anche
annuncio di una luminosa speranza: Tutta la nostra vita, così come
quella di ogni uomo riposa sulla consolante certezza del dono
d’amore del Signore, un dono per tutti e per sempre; un dono che è
la sua vita offerta in sacrificio per la gloria del Padre e la
salvezza del mondo.
Donaci
Signore in quest’ora di accogliere il tuo dono,
di deporre ciò
che ci separa dal tuo amore, di cingerci dell’Habitus del servizio,
di essere come te testardi solo nell’amare sempre e comunque per
avere la gioia di appartenerti e la pace di seguirti.
Amen
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Domenica 10 aprile 2011 - V° Domenica
di Quaresima - fr.Massimo-Maria FMJ
Per Gesù si
avvicina decisamente l'evento della Morte e Resurrezione. La Sua
Pasqua, la sua “ Ora “ sono imminenti.
Essendo come
perseguitato dai Giudei ostili che vogliono ucciderlo, Lui la cui
vita nessuno gliela prende, ma la dona,si allontana per questo dalla
Giudea e si reca con i suoi discepoli nella Transgiordania. Mentre
si trova lì, le due sorelle Marta e Maria gli fanno giungere la
notizia della morte del loro fratello ed amico di Gesù, Lazzaro.
Il racconto
dettagliato lo abbiamo ascoltato.
La fede, che è
certo un grande dono nel testo evangelico è presentata di due tipi.
Una, che segue
il miracolo ed è provocata dal miracolo. E' il caso della gente e di
molti giudei dei quali precisa San Giovanni: “ Molti alla vista di
quello che aveva compiuto credettero in Lui “.
L' altro tipo
di fede è quella di Marta alla quale Gesù chiede a proposito della
Resurrezione: “ Credi Tu questo? Se credi vedrai la gloria di Dio” è
la fede che precede il miracolo, anzi lo provoca.
Nell'approssimarsi della Pasqua, in un certo senso, il Signore
chiede anche a noi questo secondo tipo di fede. Una fede da
“esercitarsi” per così dire davanti al mistero più radicale che
tocca l'uomo : quello della vita e della morte. Questa fede è
proprio richiesta da Gesù nel Vangelo ascoltato per il segno della
Resurrezione di Lazzaro che è chiara profezia della sua Resurrezione
e che certo è caparra della nostra.
E' ora da non
lasciar sfuggire che l'evangelista Giovanni, lui l'amico prediletto,
in questo contesto in cui allude al dono della fede insista su un
altro tema: quello dell'amicizia.
Scrive San
Giovanni: “ Gesù amava Lazzaro, Marta e Maria” e ancora,
“ Signore
il tuo amico è malato” fanno sapere a Gesù.
E inoltre, le
stesse lacrime del Signore non sono forse anch'esse segno di un
affetto amicale reale e profondo?
Carissimi
fratelli e sorelle,
se è vero che
nell'itinerario verso la Pasqua Gesù con il segno della Resurrezione
di Lazzaro ci invita ad intravvedere già lo sbocco della sua
Passione e il compimento della sua vita donata per la nostra gioia e
salvezza, è anche vero che attraverso la Parola il Signore vuole
provocare la crescita della fede e approfondire la nostra personale
amicizia con Lui.
La fede che
Gesù oggi ci invita a far crescere è quella fede semplice certo, ma
profonda, che crede che Gesù è sempre Signore della vita.
Quella fede che
è confermata certo dai segni, ma che non li presuppone, addirittura
non vacilla se i segni vengono meno, o si fanno rari.
Quella fede che
crede alla vita anche quando si fa visibile e persino toccabile il
mistero della morte.
Questa fede non
è qualcosa di puramente intellettuale, che so con chiarezza nella
testa, ma è una fede che possiamo fedinire amicale, che si esplica
cioè, che si dice nel segno dell'amicizia. E' nell'amicizia con il
Signore, un' amicizia affettiva ed effettiva che si custodisce la
fede, la si sostiene e in un certo senso con questa amicizia la fede
si confonde.
Questa fede e
questa amicizia si confondono perché hanno un punto comune. L'una
infatti è motivata e l'antra sostenuta da una grande e solida
certezza: Gesù i suoi amici li ama, a modo suo verrebbe da dire, ma
li ama davvero sempre e gratuitamente. Li ama creando un legame di
vita, che Egli non può più sconfessare.
Ad essi, ai
suoi amici chiede solo appunto di credere in Lui come il segno più
certo dell'amicizia che li lega.
Chiede il
Signore di credere aggrappandosi a questa amicizia anche quando ci
dona di passare con Lui e come Lui nella valle di morte, anzi di
credere allora ancor più che chi a Lui appartiene per questo vincolo
di amicizia è chiamato per sempre e definitivamente, al di là di
ogni apparenza, alla vita.
Di credere per
dire così amando e cioè dimorando nella sua amicizia.
Il Signore ci
doni di vivere pacificati da questa fede in Lui e rallegrati dalla
Sua amicizia. La nostra vita solo così trova un senso e anche il
mistero della morte ne è illuminato e redento.
Fratelli e
sorelle sappiamo bene quanto i nostri cuori hanno bisogno di una
tale amicizia che come canta la Scrittura è il balsamo della vita.
Ma non solo, anche Gesù ha bisogno oggi di amici così, capaci cioè
di credergli perdutamente.
Amen
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Domenica 3 aprile 2011
- IV Domenica di Quaresima -
fr. Massimo-Maria FMJ
In questa
domenica quarta di Quaresima la liturgia ci propone il testo del
Vangelo di Giovanni che riporta uno dei sette segni, dei sette
miracoli che Gesù opera secondo il Quarto evangelista.
Due elementi
sono presenti nel testo: la luce e l'acqua!
Elementi
davvero preziosi per chi nella Quaresima percorre il cammino del
catecumenato verso la Notte Pasquale. L'acqua infatti richiama
chiaramente l' acqua del Battesimo in cui sarà immerso ed essere
così dal dono della fede illuminato, ed ecco l'altro elemento,
quello della luce.
Questa Parola
però non è certo riservata ai catecumeni, ma è spezzata nella Chiesa
oggi per tutti i battezzati, per ciascuno di noi.
Gesù passa e
vede un uomo cieco dalla nascita – precisa San Giovanni.
In quest'uomo
cieco c'è non solo chi è privo della luce della fede, ma anche
ciascuno di noi che ricevuto il dono della fede tuttavia ci portiamo
ancora
tante tenebre
del cuore, della mente della vita.
Il Signore
vuole essere oggi ancora la nostra luce, la nostra vera e potente
luce.
Come aprirsi
ad un tale dono, accoglierlo e viverne?
Gesù vide il
cieco.
Fratelli e
sorelle Gesù vede le nostre cecità le nostre tenebre le nostre
oscurità. Questo non ci deve spaventare, ma piuttosto rincuorare. Il
Vangelo ci dice infatti che Egli le vede per annunciarci in questo
modo che Lui davvero può rischiararle. Non temiamo di mostrargliele,
di consegnargliele. Non ci inganniamo solo Lui può rischiararle, non
altro, non altri. Lasciamoci innanzitutto guardare dal Signore.
Il Vangelo
poi ci offre una preziosa indicazione per donare al Signore la
possibilità di fugare le nostre tenebre e rivestirci della sua
splendida luce.
“ Vai a
Siloè e lavati” ha chiesto il Signore al cieco. Quell'uomo ha
ascoltato ed ha obbedito.
Ha ascoltato
ed ha obbedito!
Attraverso
l'ascolto profondo, disarmato, semplice e entusiasta della Parola di
Gesù, e attraverso l'obbedienza pronta e generosa ad essa,
permettiamo al Signore di illuminarci. Così la sua Luce ci
raggiunge. Così Lui diviene per noi la Luce.
Non
nascondiamocelo! Spesso ascoltiamo ed obbediamo ad altre parole, che
ci paiono più suadenti, più autorevoli; che sembrano offrirci più
garanzie, ma in realtà non fanno che aumentare le nostre cecità ed
infittire le nostre tenebre.
Gesù oggi ci
rivela la nostra cecità, ma non per ingigantire sensi di colpa o di
inadeguatezza, per schiacciarci ed umiliarci, piuttosto per porci
con audacia e forza la stessa domanda che ha posto al cieco:
“ Credi
tu nel Figlio dell'uomo? ”
E' la fede in
Gesù che questa Parola vuole sostenere, vuole far crescere, vuole
risvegliare.
Non importa
quanto siano grandi le tenebre, i bui, le cecità. La fede in Gesù le
dissipa. Questo annuncio allora non solo ci illumina, ma anche ci
rallegra, ed è proprio per questo che alla luce, in questa domenica
si aggiunge il tema della gioia. Il nostro cuore non è destinato al
buio, la nostra mente non deve restare nella cecità, la nostra vita
non è per essere vissuta nelle tenebre. Siamo chiamati ad una vita
che sia luminosa della presenza del Signore, e oggi particolarmente
rallegrata dalla Sua Promessa.
Amen
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Domenica
27 marzo 2011 - 3a
domenica di Quaresima -
fr. David FMJ
Gv. 4, 5-42
« Mi ha detto tutto quello che ho
fatto. Che sia forse il Messia? » Fratelli e sorelle, ci vuole tanta
libertà per parlare così. Una libertà che quasi fa paura talmente è
rara. Questa donna è conosciuta nel suo villaggio. Anche la gente sa
tutto ciò che ha fatto, chi è, con chi va a letto. La Samaritana lo
sa, si parla di lei, e senza dubbio non benissimo. Forse si evita di
pronunciare il suo nome. Si usa il pronome «lei», perché il nome fa
ridere o provoca il disprezzo. Agli occhi del villaggio intero è la
donna dai cinque mariti. Lo sa. È la prima a saperlo. È questa
emarginata, partita a cercare l’acqua a un’ora in cui non rischia
d’incontrare le altre donne del villaggio, che ritorna verso i suoi
e prende la parola, apertamente, pubblicamente: «Venite a vedere,
egli mi ha detto tutto ciò che ho fatto, tutto ciò che sapete anche
voi, ciò di cui ridete di me, che forse invidiate, segretamente,
ipocritamente».
Strana proclamazione di fede. Il
villaggio sente, viene, ascolta e crede. Probabilmente l’elemento
determinante non è che Gesù abbia indovinato chi era la donna con
cui parlava. Nel «mi ha detto tutto ciò che ho fatto», non è
l’informazione in sé che colpisce, ma il modo nuovo con cui questa
donna si situa nei confronti del villaggio: è diventata libera. La
sua parola non è impudica.
Non è neanche una sorta di auto-condanna. Non fa sfoggio dei suoi
errori, non affonda nell’odio di se stessa. Ma rivive. Lo sguardo
degli altri e l’opinione pubblica sono ormai un dato di fatto, ma si
sa molto più di questo adesso, perché ha incontrato lo sguardo di
Cristo. È l’unico sguardo che libera, che possa darci un’identità
più profonda e più vera dei rimproveri della coscienza, più profonda
e più vera dell’ingiuria della morte.
Questa libertà nuova, la
Samaritana l’ha ricevuta. Non l’immaginava neanche. Come avrebbe
potuto fabbricarla? Non è tornata nel villaggio con un atteggiamento
insolente di sfida ma con una luce nuova, quella di Cristo. Si
tratta quindi di un dono, di una grazia. Ma fu anche una lotta.
Prima della luce, prima del perdono, prima della riconciliazione con
se stessa, la Samaritana ha lottato con Cristo. Gli scambi sono
ironici, secchi. Lo strano rabbino non si lascia destabilizzare. Le
sue risposte si avvicinano sempre di più al segreto intimo della
Samaritana. E si svela anche lui. Raramente, infatti, Gesù dirà così
esplicitamente la sua identità messianica. La lotta è avviata, e
Gesù di Nazaret è più forte. In questo modo però unico e così
particolare. Gesù, infatti, ha questo modo di svelare le nostre
miserie che non scaccia ma rialza e ridà vita. Il suo sguardo non è
accusa ma guarigione.
Quanto poco è perbenista tutto
questo. Gesù spezza tutte le usanze. Rivolge la parola a una donna a
lui sconosciuta, a una donna di vita, a una Samaritana cioè
un’eretica. Tutte le frontiere sono oltrepassate: le convenzioni
sociali, la morale e il dogma. Una donna di brutta reputazione
diviene apostolo di un villaggio di eretici! Quanto tutto questo è
sconveniente. Quanto tutto questo ci rallegra. Il vangelo non
conosce frontiere. L’annuncio della salvezza è per tutti. Possiamo
quindi non giudicare più gli altri e neanche noi stessi. Da ciascuno
dei nostri cuori può venire un sì a Cristo riposto con la più grande
serietà, perché Cristo viene a noi e supera tutte le frontiere,
anche le più intime. Abbiamo tutti bisogno, fratelli e sorelle,
d’incontrare lo sguardo di Cristo. Lasciamoci incontrare da Cristo e
lottiamo con lui. È più forte di noi ed è benissimo così. È più
forte di noi: questo significa che niente può ostacolare la sua
grazia purché decidiamo di rispondergli, di guardarlo e di aprirci.
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mercoledì 9 marzo 2011
- Le Ceneri - fr.
David FMJ
« Convocate una riunione
sacra », proclama il profeta. Perché quest’aspetto comunitario della
penitenza quaresimale? Perché c’è una mediocrità collettiva alla
quale ogni mio peccato contribuisce. Ora, questa mediocrità
collettiva trascina a volte il mio prossimo nel peccato. Il mio
peccato mi rende mediocre, e la mia mediocrità non è un
incoraggiamento per il prossimo, non lo aiuta. I nostri peccati
personali hanno un impatto comunitario. La penitenza comunitaria è
una risposta a questo diffondersi del peccato e anche un aiuto per
la conversione personale.
«Sì, le mie iniquità io
le riconosco, dice il salmista, il mio peccato mi sta sempre
dinanzi». Fratelli e sorelle, sappiamo bene cosa c’è da riformare in
noi. Quando facciamo finta di non sapere su quale punto dovremmo
lavorare alla nostra conversione, questo è il segno che ci siamo
abituati a una certa mediocrità. Essere contenti di se stessi al
punto da non vedere più che occorre convertirsi, questo è uno dei
mali spirituali peggiori.
Non si tratta di essere
in guerra contro noi stessi, o di costruirci, a furia di sforzi e di
disciplina, una certa immagine ideale di noi stessi. Si tratta, così
parla l’apostolo, di non lasciare senza effetti la grazia ricevuta.
Bisogna quindi riconoscere la grazia ricevuta. La penitenza
cristiana parte dalla grazia ricevuta. È a partire dalla grazia di
Dio, dai suoi interventi di salvezza nella mia vita, a partire dalle
sue chiamate nel profondo del mio cuore che scopro il mio peccato,
le mie esitazioni, le mie chiusure, le mie resistenze. Rimane però
il fatto che Dio ha fatto grazia e che vuole ancora fare grazia. In
questo senso, la riconoscenza, l’azione di grazie, la gratitudine
sono più necessarie della penitenza.
Il vangelo ha ripetuto
con insistenza una chiamata all’interiorità. Entrare in se stesso.
Essere se stesso. Non fare il fanfarone. Non vivere dello sguardo
degli altri. Questi propositi trovano il loro fondamento nella fede.
Questa, infatti, è la fede: investire le messe in gioco della nostra
esistenza nella relazione con Dio. Allora, è da Dio che aspetto di
ricevere la mia ricompensa, come dice il vangelo, cioè la mia
identità profonda, la mia ragione di essere, la mia pace interiore,
la mia speranza. La chiamata all’interiorità è quindi anche una
chiamata all’incontro con Dio. Dobbiamo renderci attenti alla
presenza del mistero. Tuttavia, l’interiorità spirituale cristiana
non è intimistica, come ce lo ricorda il Santo Padre. In altri
termini, non è egoistica ma ci spinge invece a una maggiore qualità
delle nostre relazioni umane, a una maggiore bontà da parte nostra.
Un’ultima domanda.
Perché il digiuno e l’astinenza? Perché la nostra bontà non rimanga
a livello del nostro portafoglio, perché la ricerca di Dio non
rimanga a livello dell’elaborazione intellettuale. Cioè perché il
nostro ricercare Dio e il nostro desiderio di essere buoni siano
davvero la nostra ricerca e il nostro desiderio. Nel
nostro sforzo di conversione, si tratta d’impegnare il corpo sotto
la modalità della mancanza. Siamo così noi stessi in gioco, e non
soltanto i nostri beni materiali o intellettuali.
Possiamo, fratelli e
sorelle, vivere questa quaresima con il proponimento di mettere la
nostra esistenza e i movimenti segreti del nostro cuore sotto il
segno della vittoria di Cristo. Cristo è vittorioso. Cristo è
Signore. La sua Pasqua è la sua vittoria la cui luce non può essere
indebolita da niente. Siamo polvere, ma la sua croce ci salva.
Torneremo in polvere, ma egli è la risurrezione e la vita.
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Domenica
6 marzo 2011 - IX Domenica TO
- fr. David FMJ
Mt. 7,
21-27
Se abbiamo ascoltato
attentamente il vangelo, ci accorgiamo che l’opposizione non è tra
dire e fare. La linea di separazione tra le due categorie che Gesù
distingue e oppone non passa tra il non fare e il fare. Infatti,
coloro che dicono «Signore Signore» non vengono presentati dal
vangelo come gente che non fa nulla. Anzi, fanno molte cose. Fanno
anche delle cose grandi, come per esempio delle profezie e dei
miracoli.
La parabola delle due
case fornisce una spiegazione decisiva. In questa parabola tutti e
due gli uomini costruiscono una casa. Il primo però costruisce sulla
roccia, e invece il secondo sulla sabbia.
La questione porta
quindi non sul fare o il non fare, ma sulla qualità dell’attività, e
più precisamente su ciò che la fonda. Allora l’insegnamento di Gesù
diviene chiaro: non è ripetendo «Signore Signore» che diamo alle
nostre azioni un fondamento sufficiente. Pregare è necessario.
Testimoniare al Santo
Padre il nostro affetto e la nostra obbedienza filiali è un dovere.
Sostenere economicamente la Chiesa e fare l’elemosina sono anch’essi
doveri. Tutte queste cose sono importanti. Ma niente di tutto ciò è
sufficiente. Se ci preoccupiamo dei nostri doveri da cristiani senza
esaminare il fondamento profondo della nostra attività, rischiamo di
rimanere al livello denunciato da Cristo. Posso essere un cattolico
perfetto sociologicamente parlando, posso essere un uomo molto pio e
anche molto impegnato nelle attività della Chiesa, e tuttavia
appartenere alla categoria delle persone che dicono «Signore
Signore», alla categoria di coloro che costruiscono sulla sabbia.
Ancora una volta, non
si tratta di aggiungere delle cose da fare per migliorare la
situazione. Non si tratta di aggiungere preghiere, servizi per la
Chiesa e opere di carità. Se possiamo – senza tuttavia perdere di
vista il nostro equilibrio personale e familiare –, pregare un po’
di più,
essere un po’ più disponibili per la Chiesa e
un po’ più generosi nelle nostre elemosine, ottimo. Dobbiamo sapere
però che questo non farà sì che il suolo sul quale costruiamo sia
sabbia o roccia.
Allora, che cosa
bisogna fare? Certo bisogna fare qualcosa: Gesù stesso ci parla di
fare qualcosa, di mettere in pratica ciò che ci dice.
Bisogna fare la
volontà del Padre di Gesù Cristo. Ora, la volontà del Padre di Gesù
Cristo non si confonde con la quantità delle preghiere né con delle
opere di beneficenza. Certo, bisogna pregare. Ci sono anche
preghiere tipicamente cristiane.
Certo bisogna
compiere delle opere di beneficenza. Questo però, tutte le religioni
lo sanno. Il cristianesimo non ha il monopolio della preghiera,
della beneficenza e neanche dei miracoli.
La volontà del Padre di
Gesù Cristo è qualcosa di più che la
preghiera, l’elemosina e i
miracoli. Essa sarebbe quindi così misteriosa? Sappiamo che cos’è e
in che cosa
consiste? Sarebbe così complicata da non potersi ricondurre a
nessuna delle opere di religione? No, la volontà del Padre non è
complicata, se con complicata intendiamo astratta o eccessivamente
elaborata. E sì, fratelli e sorelle, conosciamo la volontà del
Padre. La volontà del Padre è Gesù stesso. Se vogliamo costruire la
nostra casa sulla roccia, dobbiamo vivere con Gesù Cristo e in Gesù
Cristo. Si potrebbe dire anche che dobbiamo vivere come Gesù Cristo.
A condizione, tuttavia, di essere coscienti dello spazio immenso che
contiene questo «come». Cristo è immenso. Tutti i santi imitano
Gesù, eppure i santi non si assomigliano. Imitare Gesù Cristo è
prolungare il suo vangelo rilevando le sfide
di oggi, e non ripetere soluzioni già pronte.
La volontà del Padre
è Gesù Cristo stesso. Ciò che dobbiamo fare è prolungare la presenza
di Gesù nel mondo di oggi. Questa è la roccia. Forse troviamo questo
terreno roccioso un po’ accidentato. Forse sentiamo i nostri piedi
vacillare. Infatti, inventare il vangelo per oggi a volte significa
rischiare di sbagliare, inventare camini ancora sconosciuti. Eppure,
qui si trova la solidità della nostra vita cristiana: in questo
movimento, in questo rischio preso volontariamente nel nome del
Signore e con fiducia nella sua grazia. In verità, non c’è vita
senza movimento e senza rischio.
Nello stesso modo,
non c’è una vera
vita
cristiana senza movimento e senza rischio.
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Domenica 27
febbraio 2011
- VIII Domenica del T.O. -
fr.
Massimo-Maria FMJ
Ancora una volta Gesù nella sua
Parola ci sorprende, ci meraviglia.
Nel testo evangelico di Matteo,
appena proclamato, il Signore chiama la ricchezza, più precisamente
il denaro “ padrone “.
Attribuire questo titolo “ padrone “
al denaro è certo provocatorio, ma è anche come dargli un
riconoscimento.
Proprio questo sulla bocca di Gesù ci
sorprende!
Ma, è sufficiente guardarsi attorno
anche oggi, osservare tante dinamiche, tante scelte che si compiono,
tanti criteri che regolano i discernimenti nel nostro mondo, basta
aprire gli occhi per rendersi conto e convincersi che è vero.
Il denaro, la ricchezza sono padroni!
Il denaro regna sulla terra come un potente sovrano che ha servitori
e persino schiavi.
Con il denaro si valutano le cose, si
scelgono tante realtà in base al guadagno, si pesano persino vite
umane!
Con la ricchezza si comprano cose,
fatti, persino le persone e qualche volte ci si illude di comprare
addirittura Dio.
Il denaro regna potente tiranno, ma
Gesù che conosce il cuore dei suoi discepoli ed il nostro cuore
vuole sottrarre i suoi amici ad un tale opprimente e mortifero
dominio.
Nel brano del Vangelo, attraverso
immagini tratte dal mondo agricolo e della natura, fa sorgere nel
cuore una struggente nostalgia della libertà, risveglia nell'animo
l'intuizione di come la vita piena e la sua solidità vada collocata
e cercata altrove rispetto alla ricchezza o al denaro.
Gli uccelli che si librano nel cielo;
i gigli che adornano i campi la cui sontuosità neppure la
proverbiale gloria di Salomone uguaglia; l'erba dei prati che
trasforma in giardino deserte colline; non veicolano tutte queste
immagini quel desiderio di libertà, di limpidezza, di ampio respiro
e pienezza di vita che in fondo abita il cuore di ogni uomo?
Ma il Signore indica il cammino della
libertà soprattutto attraverso una Parola del brano di Matteo che
risulta particolarmente luminosa.
“ Nessuno può servire due
padroni perché o odierà uno e amerà l'altro; o si affezionerà
all'uno e disprezzerà l'altro! Non potete servire Dio e la ricchezza
”.
Gesù mostra come da un parte c'è la
tentazione di cercare solidità, sicurezza, vita aggrappandosi alle
ricchezze, solo in apparenza portatrici di vita, ma in realtà
incapaci di dare e custodire la vita.
Dall'altra lato Gesù invita il
discepolo a non sbagliare dove porre il suo solido fondamento.
Il discepolo di Gesù infatti,
inserito nel mondo e nelle sue ricchezze – in sé non cattive – è
invitato a gettare l'ancora della sua solidità, a porre il suo
stabile fondamento nell'Infinito, in Dio, nel Suo Regno, nel Suo
Amore fedele, libero e liberante, che costantemente è premurosa
Provvidenza.
Sorge allora una domanda che possiamo
definire operativa:
Come porre in Dio il proprio
fondamento? Come appoggiarsi davvero solo nell'Amore del Padre,
l'Amore vero che libera, rende liberi e lascia liberi?
Una parola attraversa implicitamente
i testi biblici di oggi, ad iniziare dallo splendido testo di Isaia
: è la fiducia.
Credere non solo che Dio ama, ma che
mi ama.
Credere non solo che Dio non si
dimentica dei suoi amici, ma che non si dimenticherà mai di me.
Credere che poiché la vita vale più
del cibo ed il corpo più del vestito Lui si prende cura di me.
Creder che se si occupa degli uccelli
del cielo, veste i gigli dei campi ed ammanta di prati le colline
ancor più di occupa e si preoccupa di me.
Cari amici e fratelli, confessiamolo
con onesta lucidità, noi viviamo tristi, spaventati, angosciati ed
anche arrabbiati, perché crediamo alle varie ricchezze materiali,
cerchiamo in esse solidità e sicurezza, e il risultato è che ne
diveniamo prigionieri.
Ma la nostra disgrazia è proprio che
non crediamo profondamente all'Amore di Dio per noi!
Dobbiamo assolutamente porre il
nostro fondamento nell'Infinito Mistero di Amore di Dio per noi:E'
la nostra vita, la nostra libertà e la nostra pace e salvezza.
Lo si fa col crederci. Ponendo in lui
la nostra fiducia.
Questo è cercare il Regno di Dio,
insieme al quale tutto ci è donato.
Il Signore ci liberi dalla tentazione
di cercare sicurezza e solidità se non in Lui
Lui ci doni di credere davvero alla
sua azione provvidente nella nostra vita, ci colmi del suo Amore
forte e fedele che rallegra il cuore, fa risplendere il volto, colma
la vita, libera rende liberi e lascia liberi.
Amen
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martedì 22 Febbraio 2011
- Cattedra di S. Pietro - fr.
Massimo-Maria FMJ
Celebriamo oggi la festa della
Cattedra dell'Apostolo Pietro. Si tratta di una festa molto antica,
celebrata sin dal IV secolo, in cui la comunità dei credenti rende
grazie a Dio per il ministero affidato dal Signore, nella Chiesa e
per la Chiesa, all'Apostolo Pietro ed ai suoi successori.
Il testo evangelico di Matteo della
cosiddetta confessione di Pietro nella regione di Cesarèa di
Filippo, ci aiuta a cogliere il senso di questa celebrazione e della
figura di Pietro nella Comunità cristiana.
Gesù pone agli Apostoli una domanda
sul suo conto, o meglio su cosa la gente dice di Lui.
Le risposte sono diverse, ma tutte
pongono Gesù nella linea dei grandi profeti della Storia della
Salvezza: Giovanni Battista, Elia, uno dei grandi profeti.
In seguito come altre volte il
Signore fa con i suoi, restringe il cerchio, ed in modo molto
diretto li interroga su cosa loro pensano di Lui. Chi essi ritengono
sia Gesù.
Già il semplice fatto che non più a
caso essi rispondono, ma è Pietro che prende la parola e parla a
nome di tutti, guidato dal Padre, evidenzia il posto particolare di
questo Apostolo rispetto agli altri. Certo poi la sua riposta : “ Tu
sei il Cristo, il Figlio di Dio”, una delle più solenni professioni
di fede dei Vangeli, e la conseguente investitura da parte del
Signore dicono chi è Pietro e che cosa Gesù gli affida.
Sulla professione di fede
dell'Apostolo Pietro Gesù fonda la Chiesa nel Vangelo di Matteo, e
alla cura premurosa del pescatore di Galilea, al potere di
sciogliere e legare di Pietro Gesù affida il suo nuovo popolo.
La liturgia, attraverso le sue
formule ora semplici ora solenni, ma che sempre veicolano contenuti
di fede, pregando per il Papa, riprende tutto questo sottolineando
come dal Signore è scelto per essere Pastore e Maestro a servizio
della Comunione.
Fratelli e Sorelle, vogliamo allora
rendere grazie davvero per la Festa della Cattedra di Pietro, per il
ministero del Pietro di oggi, ministero importante, delicato,ma
soprattutto prezioso.
La figura di Pietro, oggi il Papa
Benedetto, attende forse quel calore umano, così evidente nel testo
degli Atti degli Apostoli, quando si riferisce di come tutta la
comunità cristiana elevava preghiere ferventi per Pietro che era in
catene.
Certo la figura di Pietro chiede
quell'obbedienza e comunione effettiva e visibile con lui,
essenziali per essere davvero Chiesa.
Ma ancora questa Festa provoca
particolarmente un esame del nostro sguardo di fede sulla Chiesa e
su Pietro.
La carne ed il sangue – per usare le
immagini utilizzate da Gesù nel Vangelo – rischiano di farci
inseguire un'altra Chiesa che è più nelle nostre idee o gusti
personali, ma che è a fianco di quella della storia di oggi; la
carne ed il sangue rischiano di farci volere un altro Pietro, più
così e meno cosà! Ma siamo appunto nel solco della carne e del
sangue!
L'uomo e la donna di fede, credenti
cioè, sanno invece che questa Chiesa di oggi così com'è è la Chiesa
di Gesù, e che questo Pietro di oggi è quello che il Signore ha
scelto e che Lui ha donato alla Sua Chiesa e per la Sua Chiesa.
Preghiamo per la Chiesa allora, per
il Santo Padre e per noi. Il Signore confermi e rafforzi la nostra
fede perché possiamo davvero crescere in quella comunione che è
riflesso dell'Amore della Trinità.
Amen.
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Domenica 20 febbraio 2011
- VII Domenica T.O. - fr.
David FMJ
Mt. 5,
38-48
Le richieste impossibili del Signore non hanno
come finalità di scoraggiarci ma di aprirci.
Abbiamo davvero bisogno di essere aperti. La
nostra tendenza è di raggiungere, con i nostri sforzi,
una certa auto-sufficienza. Ma nell’ambito
della vita spirituale, l’auto-sufficienza è mortale perché è
chiusura. Dobbiamo invece aprirci alla grazia.
«Siate perfetti come è perfetto il Padre
vostro celeste», ci dice il Signore. Ma di quale
perfezione si tratta? La parola greca
τέλειος significa sia
perfezione che compimento, cioè lo stato
di ciò che ha raggiunto la maturità. Penso che
il vangelo rimandi al secondo senso della perfezione.
Ciò che ci viene chiesto è di tendere al
nostro compimento, alla nostra piena maturità. Ora, il
vangelo ce l’insegna, il nostro compimento non
è nella forza della vendetta ma nella forza del
perdono. Raggiungiamo il pieno sviluppo di ciò
che significa essere uomo non con la forza
aggressiva ma con la forza del perdono. E
questo stato compiuto dell’essere umano è analogo a Dio,
è ad immagine di Dio. Il perdono fa vivere.
Invece, la forza aggressiva può servire soltanto
temporaneamente a dei fini difensivi. Lo
constatiamo già ad un livello terreno: senza il perdono, è
la logica di una giustizia implacabile che si
sviluppa, e questa finisce per spegnere la vita perché
siamo sempre debitori gli uni verso gli altri.
La giustizia nel senso di una liquidazione completa dei
danni e di un equilibrio dove non ci sarebbe
più nessuno debito, questa giustizia sulla terra sarebbe
quella della morte.
Il comandamento di Cristo di essere perfetti
come Dio, cioè di perdonare perché egli stesso
perdona, è ovviamente portatore di una
teologia. Cristo ci offre un’intelligenza più profonda della
responsabilità che Dio ci ha dato. Il libro
della Genesi ci diceva già che l’uomo e la donna sono
chiamati a esercitare un dominio sulla
creazione. Esercitare un dominio sulla creazione significa
completare il progetto creatore di Dio. Adamo
dà un nome alle creature, cioè unisce la sua voce alla
parola creatrice di Dio. Il progetto creatore
di Dio è anche fecondità. Adamo e Eva sono quindi
chiamati a moltiplicare il genere umano. Il
dominio sulla creazione di Adamo ed Eva ha anche un
significato sacerdotale: gli uomini dovrebbero
essere i porta-voce della creazione davanti a Dio, e i
rappresentanti di Dio nella creazione.
L’insegnamento di Cristo s’iscrive in questa visione e
l’approfondisce. Come Dio fa cadere la pioggia
e sorgere il sole, cioè vigila con sollecitudine sui
buoni e sui cattivi, così anche noi dobbiamo
amare i nostri nemici. In altri termini, come il Signore
lavora generosamente in vista della salvezza
del più gran numero possibile, così anche noi
dobbiamo avere il desiderio della salvezza di
tutti, anche di quelli che ci odiano. Eccoci corresponsabili
della salvezza del mondo. Eccoci chiamati a
rappresentare sulla terra, nelle nostre
relazioni, nelle nostre responsabilità, nella
nostra comprensione della società, l’amore salvifico di
Dio. E il primo luogo dove si esprime questa
responsabilità è l’eucaristia.
Tuttavia, rimane il fatto, fratelli e sorelle,
che il Signore ha usato un verbo molto forte. «Amate i
vostri nemici», ci dice. Il verbo che viene
usato è ἀγαπάω, lo
stesso verbo che usa Gesù quando si
tratta di amare lui stesso. Qui, non ci sono
più discorsi intellettuali possibili, né filosofici neanche,
forse, teologici. Perché
ἀγαπάω è il verbo
dell’impossibile, il verbo del nostro limite. È anche il
verbo della grazia, dell’apertura in noi di
uno spazio nuovo, sconosciuto, misterioso. È quindi il
verbo del rischio, anzi, del rischio più
grande. In realtà, amare è sempre rischioso. L’ amore
impossibile dei nemici è l’approfondimento
dell’amore tout court, perché l’amore è, per finire,
sempre segnato dal sigillo dell’impossibilità.
Amare ci porta sempre, alla fine dei conti, a dare la
vita. Il paradosso dell’amore è che si iscrive
nella spontaneità della nostra natura, ma nello stesso
momento porta in lui una profondità contraria
non soltanto al nostro egoismo ma anche al nostro
istinto di conservazione. L’amore possiede un
dinamismo che finisce sempre, un giorno o l’altro,
per inciampare contro i nostri limiti più
insuperabili. Non dobbiamo pensare che il Signore prenda
gli esempi dell’amore spontaneo per
disprezzarli e considerarli insignificanti. Amare coloro che ci
amano, salutare i nostri fratelli, questo è
già l’opera della grazia. Ma dobbiamo andare oltre. Si
tratta di andare fino a una certa logica
dell’amore. Una logica divina. Là, occorre lasciare più spazio
alla grazia. Là, siamo tutti poveri se
contiamo su noi stessi. Là, siamo ricchi della promessa di Dio
di venire a realizzare in noi la sua opera.
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Domenica 6 febbraio 2011
- Va Domenica T.O. - p.
Pierre-Marie FMJ
Il sale,
la luce e la città
(Is 58,7-10; 1 Cor 2,1-5; Mt 5,13-16)
“Voi siete il
sale della terra”.
“Voi siete la
luce del mondo”.
“Siate come una
città che sta sopra un monte”.
Mai nessuno,
sulla terra, si era rivolto così agli uomini.
Eppure, è
proprio ciò che Gesù ci dice oggi.
Soffermiamoci,
allora, un momento per meditare questa parola.
*
Ecco, dunque,
la città, la luce e il sale.
Perché questa
triplice immagine?
Il sale è
presente nel mondo, a tutti i livelli.
Si trova nel
mondo minerale. Permea quello vegetale.
Abita nel regno
animale.
È presente nel
suolo, negli oceani, sulla nostra tavola, nel nostro sangue.
Dona gusto e
sapore, purifica, conserva, vivifica.
Meglio ancora,
raffigura la saggezza, esprime l’amicizia;
traduce la
gioia fraterna, contraddistingue il giusto proposito.
Si capisce che
Gesù abbia potuto dire:
“Abbiate sale
in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri!”. (Mc 9,50)
L’importante
perciò non è essere “sale”, ma “IL sale della terra”.
Il dono che Dio
ci ha fatto è per la terra intera.
Ha messo una
sapienza nella nostra mente, un sapore nella nostra anima,
che sono da
condividere tutto intorno a noi.
La Sapienza
della Sua Parola e il sapore della Sua Fede.
Siamo
dispensatori di una parola – non la nostra, ma la Sua –
che è il sale
della vita.
“Ma se il sale
perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?”. (Mt 5,19)
*
“Voi siete la
luce del mondo”. (Mt 5,14)
Perché, in
seguito, Gesù ci dice questo?
Innanzitutto,
perché il nostro Padre è “il Padre, creatore della luce”. (Gc
1,17)
Credendo in
Lui, diventiamo perciò “figli della luce”. (Gv 12,36)
Creandoci, Dio
ha posto in noi una scintilla di divinità.
Ha acceso nel
nostro cuore la fiamma della sua grazia,
il chiarore
della speranza e la luce della fede.
Successivamente, perché facendosi uomo come noi
Gesù, “Luce del
mondo”, fa di noi degli altri
cristi,
portatori della
sua luce.
“Chi segue me,
non camminerà nelle tenebre,
ma avrà la luce
della vita”. (Gv 8,12)
Con la sua
parola, illumina la nostra ricerca di verità.
Con il suo
amore “illumina gli occhi del nostro cuore”. (Ef 1,18)
Con la sua
grazia accende nel nostro cuore la gioia della sua presenza.
Dobbiamo quindi
testimoniare quello che è dentro di noi.
Quella parola
seminata nel campo della nostra esistenza
e quella vita
divina di cui siamo partecipi. (2 Pt 1,4)
A coloro a cui
è detto: “Voi siete il
Corpo di Cristo”,
è dunque logico
che venga detto anche: “Voi portate la luce di Cristo”
e, di
conseguenza, “Voi diventate la luce del mondo!”.
Qual è allora
questa luce che il Signore
attende di
vedere risplendere nel mondo attraverso la nostra vita?
È la luce
dell’amore.
Lo splendore
della carità, come ci ha detto il profeta Isaia:
“Dividi il pane
con l’affamato; introduci in casa i senza tetto;
vesti uno che
vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti.
Allora –
continua il profeta – la tua luce sorgerà come l’aurora...
brillerà fra le
tenebre la tua luce,
la tua tenebra
sarà come il meriggio”. (58,7-10)
Ecco dove
risiede la vera illuminazione del mondo.
Infatti, sta
scritto: “Là dove c’è amore, là c’è
Dio”. (1 Gv 4,7)
Quindi il
nostro amore è proprio luce di Dio!
*
La terza
immagine è quella menzionata più brevemente,
ma non per
questo è la meno bella.
È quella della
città “che sta sopra un monte”
allo stesso
modo della lampada che sta sul candelabro, al centro della casa.
(Mt 5,15)
Il viandante
smarrito nella notte, perduto nella campagna,
comprende ben
presto ciò che rappresentano tutte le luci accese
di una città
abitata, posta in alto. Sono per lui la promessa della salvezza.
Cosa vuole
dirci Gesù con questa immagine?
Essenzialmente
questo: che la fede non è una questione privata, individuale.
Essa vive e
risplende solo quando è davvero condivisa e cantata,
celebrata dal
Corpo di Cristo tutto intero. (Ef 4,12-13)
Questa città
degli uomini così riuniti dalla preghiera, nell’unità della fede,
diventa allora
come un faro per il mondo che la circonda.
Oggi, in cui il
mondo è per la maggior parte urbano,
il ruolo
principale dei Cristiani è di fare delle città,
della propria
città, e quindi per noi, di Firenze,
altrettante
“visioni di pace”.
Visioni di
pace, in cui Dio si potrebbe riconoscere
poiché vi si
vive come fratelli e sorelle;
e in cui la
fraternità sarebbe vissuta, poiché vi si adorerebbe,
come figli e
figlie di Dio, lo stesso Padre dei Cieli.
Che luce per il
mondo sarebbe una città in cui,
sotto lo
sguardo di Dio, ognuno si sforzasse di
“conservare
l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”! (Ef 4,3)
Ecco, laici e
consacrati, la nostra comune vocazione cittadina!
*
Cari fratelli
e sorelle,
poiché questo è
quello che il Signore vuole,
siamo dunque
“sale della terra”, “luce del mondo” e “città sopra un monte”,
ma che tutto
sia per la sola gloria di Dio. (1 Cor 10,31)
“Allora,
vedendo le nostre buone opere, gli uomini rendano gloria
al Padre nostro
che è nei cieli”. (Mt 5,16)
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Domenica 16 gennaio 2011
- IIa Domenica T.O. - fr.
David FMJ
Gv. 1, 29-34
Fratelli e sorelle, ogni anno, la domenica che
segue quella del battesimo di Cristo ci fa ascoltare
un brano dell’inizio del vangelo secondo
Giovanni. La seconda domenica del tempo ordinario ha
così il sapore di un inizio. La novità di
Natale non era quindi una parentesi, fratelli e sorelle! La
novità della venuta del Salvatore, nato a
Betlemme, è chiamata ad entrare nel tempo ordinario, nella
vita di ogni giorno. Proviamo ad aprirci alla
presenza di questa novità. Ci viene dato un mezzo
molto semplice. Basta ripetere le parole di
Giovanni il Battista. Ripetiamole dicendole per conto
nostro: Signore, non ti conoscevo, e ho
contemplato lo Spirito discendere e dimorare su di te. Sì, io
ho visto, e testimonio: sei tu il figlio di
Dio.
Fratelli e sorelle, non finiremo mai di
conoscere il Signore. A tal punto che la nostra vita
conosce questi momenti di grazia in cui i
nostri occhi si aprono finalmente sul mistero di Cristo. Di
questo possiamo essere sicuri: l’esperienza si
produrrà di nuovo. Di nuovo lo incontreremo. Di
nuovo avremo il sentimento di scoprirlo
finalmente. E l’ultimo giorno, che sarà anche il primo e
l’unico giorno senza tramonto, lo scopriremo
ancora, lo scopriremo senza fine.
Fratelli e sorelle, tali parole non sono
esagerazione entusiasta. Qualcosa di veramente nuovo ci è
data, qualcosa che non si rovina. Ed è Cristo
stesso. La sua permanente novità per noi è la sua
misericordia. Eccoci, fratelli e sorelle. La
parola misericordia è stata appena pronunciata. Molto
probabilmente questa parola ci addormenta. La
ripetiamo così spesso. E poi, la troviamo forse un
po’ insipida. Forse troviamo che abbia
un’apparenza un po’ triste, una faccina un po’ smorta. Che
errore! Quanto abbiamo torto ad opporre
misericordia e gioia, misericordia e forza, misericordia e
gloria. Siamo uomini e donne cui è stata fatta
misericordia, cui Dio e la sua Chiesa fanno senza
sosta misericordia. Abbiamo capito che questo
è gioia, forza e gloria? Siamo uomini e donne in
piedi proprio perché siamo stati rialzati.
Dobbiamo sapere che, senza la misericordia di Dio, non
siamo forti, ma stolti e bugiardi. Mentiamo
agli altri, a noi stessi, e ci richiudiamo nella nostra
sufficienza. Non c’è gioia senza la
misericordia di Dio, perché solo Dio dà alla nostra vita questa
dilatazione infinita che è misericordia. Cosa
è la misericordia di Dio? Ebbene, è la sua fiducia in
noi. Fiducia nonostante tutto. Fiducia
nonostante noi. Fiducia che sarebbe fatica vana senza la
grazia. Dio si è consegnato a noi e continua a
farlo senza stancarsi. Ecco la misericordia, perché non
lo meritiamo, perché non siamo all’altezza,
perché non siamo in grado di essere degni di una tale
fiducia. Ma Dio fa misericordia, e non con un
aria imbronciata e dall’alto del suo cielo. Fa
misericordia dandoci il suo Figlio unigenito e
il suo Santo Spirito! La misericordia di Dio è
larghezza, è intera, è vivificante,
trasformante. Non siamo degni della fiducia di Dio, eppure Egli ha
fiducia in noi, e – o meraviglia, o miracolo –
qualcosa della sua opera divina, qualcosa della sua
opera di salvezza passa attraverso di noi,
grazie a noi. Diciamolo ancora, tanto è immenso: qualcosa
dell’opera di Dio si compie grazie a noi.
Perché Dio lo vuole, ovviamente, e perché fa che sia così.
Ma è così, e perché è così, una dimensione
immensa è data alla nostra vita.
Fratelli e sorelle, possiamo a nostra volta
parlare come Giovanni il Battista: Signore, non ti
conoscevamo, perché sei novità e perché siamo
vecchiaia e morte. Non ti conoscevamo, perché sei
colui che viene al nostro incontro. Sei sempre
colui che viene al nostro incontro. Abbiamo visto lo
Spirito dimorare su di te. A questo segno ti
abbiamo riconosciuto. Sei venuto al nostro incontro, e lo
Spirito dimorava su di te, perché sei la vita,
perché sei dono. Questo Spirito che è vita è venuto a
dimorare sulla tua Chiesa e in noi. Non finiremo mai di
meravigliarcene.
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giovedì
6 gennaio 2011 - Epifania del
Signore - fr. David FMJ
Is. 60, 1-6 ; Ep. 3,
2 …6 ; Mt. 2, 1-12
Una ricca
carovana pesantemente caricata; tutto un equipaggio prestigioso di
servi e di cammelli si dirige verso Betlemme, al chiarore di una
stella. E nobili stranieri, un gruppo di maghi pagani, tre re magi
secondo una bella tradizione popolare, irrompono per deporre,
davanti al bambino Gesù, l’omaggio inatteso di cofanetti preziosi.
Ecco un racconto incantevole dove il più sorprendente è ancora
l’identità degli adoratori. Magi maghi, pagani, stranieri e
idolatri, la legge dell’antica Alleanza ne fa dei personaggi poco
raccomandabili. Eppure sono questi uomini così lontani dall’Alleanza
che il racconto dell’evangelista Matteo mette in onore.
La prima lettura è la porta
attraverso la quale la liturgia ci propone d’entrare per capire
meglio il Vangelo di oggi. Si tratta di una profezia d’Isaia che
annuncia lo sviluppo universale della fede biblica a partire della
dominazione di Gerusalemme: «Alzati, Gerusalemme! La gloria del
Signore appare su di te. Tutti verranno da Saba, portando oro e
incenso, e proclamando le glorie del Signore». Così profetizza
Isaia. Il racconto del vangelo secondo Matteo è tanto il compimento
di questa profezia quanto una presa di distanza verso di lei.
Eccoli, i pagani, con oro e incenso, così come era annunciato.
Infatti, il raduno universale dei popoli nella lode al Dio unico è,
per i profeti, uno dei segni principali che il messia è finalmente
tra noi. Ma che distanza tra le folle di cammelli e di dromedari
d’Isaia, e il passaggio notturno di alcuni magi che spariscono quasi
subito! E all’indomani di questa notte strana e bella, non sorge il
giorno della lode unanime di tutti i popoli davanti alla meraviglia
del neonato adagiato nella mangiatoia, ma la strage dei bambini
ordinata da Erode impaurito. Sì, la gloria del Signore si è
manifestata, ma nella nascita di un bambino povero in una grotta
miserabile. E la reazione del mondo, cioè di coloro che hanno il
potere, è stata la paura e il rifiuto. «Pace in terra», avevano
annunciato gli angeli alla nascita di Gesù. Il Vangelo ci dice che
la pace e la regalità messianiche sono la presenza di Dio nell’umile
debolezza di un neonato, e non la dominazione di un sistema
politico-religioso. Con i magi, la Chiesa universale si prosterna
davanti all’umiltà di Dio che si dà all’uomo fino a diventare pane
di vita. La pace messianica non può essere una pace dei forti che
dominano la terra.
La presa di distanza dell’evangelista
verso la profezia sottolinea la novità dell’agire di Dio. La venuta
del Messia è stata annunciata. Egli nasce a Betlemme come era
previsto. Eppure, nonostante le profezie, la realizzazione del
progetto di Dio è talmente sorprendente che non sarebbe stata
riconosciuta senza l’aiuto degli angeli, dei pastori, dei magi e
della loro stella. Gli eruditi convocati alla corte di Erode non
hanno visto venire niente. E anche la stella misteriosa che guidava
i magi sparisce. La scienza idolatrica dei magi maghi e la scienza
sacra degli eruditi d’Israele svaniscono tutte e due davanti al
mistero di Cristo che confonde i saggi e i potenti. Non c’è più la
legge e neanche il destino. Non ci sono più i precetti sul puro e
l’impuro e neanche le stelle della predestinazione. Non c’è più la
circoncisione e neanche la magia. «Il mistero di Cristo è che le
genti sono chiamate, in lui, a condividere la stessa eredità, a
formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa
per mezzo del vangelo». C’è, adesso, un bambino nelle braccia di sua
madre, e ci sarà più tardi un uomo steso sulle braccia della croce.
Questa è la scienza eterna, la scienza dell’amore di Dio per noi.
Fratelli e sorelle, questo significa che siamo liberi. La novità
dell’amore di Dio per noi è la nostra liberazione. Non siamo
prigionieri di un destino. Né gli oroscopi, né le predizioni, né il
passato, né le ferite della nostra storia, né i conflitti familiari,
niente può separarci dall’amore di Dio per noi. Ma questo significa
anche che abbiamo una grande responsabilità: niente può esonerarci
dalla crescita nell’amare così come Cristo ci ha amato, niente può
esonerarci dalla crescita nell’essere uomini e donne liberi.
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Domenica
2 gennaio 2011
- 2a domenica di Natale -
fr. David FMJ
Gv. 1,
1-18
Ci facciamo
tante domande a proposito di Dio. Delle domande filosofiche certo,
ma anche delle
domande pratiche. Tra queste ultime, alcune ci
preoccupano spesso. Ci domandiamo, per esempio,
come pregare, o ancora, come riconoscere la
presenza di Dio nel nostro mondo. Queste domande
filosofiche e pratiche sono legittime. In un
certo senso, sono il segno della dignità dell’uomo.
Tuttavia, il cristiano è condotto a situare
queste domande diversamente rispetto agli altri uomini.
Non significa che queste domande non
esisterebbero più per il cristiano. Ma per lui si pongono
diversamente, cioè all’interno di
un’esperienza di fede che dà loro un quadro da cui dipendono
ormai la loro pertinenza e il loro valore.
Così fa, fratelli e sorelle, il mistero del Natale. Tutte queste
domande che possiamo porci a proposito di Dio
trovano, a Betlemme, una rivalutazione radicale.
Infatti, sappiamo più o meno come si fa con un
bambino. Percepiamo i suoi bisogni elementari,
capiamo istintivamente come fare per stabilire
una comunicazione con lui. Non abbiamo bisogno si
sforzarci per provare nei suoi confronti
sentimenti di tenerezza e di protezione. Tutto ciò viene da
solo, perché tutto ciò è profondamente
iscritto in noi. Ora, il bambino di Betlemme, Gesù di
Nazaret, ci apre una relazione con Dio così
semplice e, se si può osare dire, così evidente come
quella di cui abbiamo appena parlato. Ci
domandiamo, così come gli altri uomini, come pregare. Ci
domandiamo anche noi dove è Dio. Ma queste
domande prendono per noi un senso diverso. Nel
nostro caso, queste domande ci spingono a
ritrovare la semplicità originaria, profondamente iscritta
in noi, che rende possibile l’esperienza di
Dio. C’è qui una ricchezza incomparabile ma anche una
grande esigenza. Dio non ha voluto rimanere un
mistero opaco che avrebbe ridotto l’uomo al
silenzio, in una sottomissione paurosa o in
una domanda angosciata. Dio si è fatto vicino fino a
diventare il nostro prossimo. Quindi, Dio
cessa di essere per noi una domanda teorica. Dio ha preso
un volto, uno sguardo, una voce. È diventato
per noi un’esigenza di relazione. È una persona che
occorre conoscere sempre meglio, capire sempre
meglio, amare sempre meglio. Questa esigenza è
beata, perché è quella dell’amore. L’amore è
una responsabilità, l’amore è un compito aspro, ma
l’amore è l’unica verità che possa fare sì che
la fatica di vivere sia una vera gioia che non mente.
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