Domenica 26 Dicembre 2010
- Sacra Famiglia - fr.
Massimo-Maria FMJ
Dopo averci
fatto contemplare nella Santa Notte il mistero dell'Incarnazione,
fermando la nostra attenzione sul Bambino adagiato nella mangiatoia,
oggi, la Chiesa ci invita a volgere lo sguardo sull'intera famiglia
di Nazareth, modello di ogni famiglia.
Potremo porre
l'accento su vari aspetti della famiglia a partire dalle letture
ascoltate, vogliamo invece cercare di raccogliere qualche
considerazione dalla pagina evangelica.
San Luca ci
descrive un momento molto particolare della famiglia di Gesù.
Ancora nel
cielo brilla la cometa e già oscure tenebre si addensano sulla
famiglia del Figlio di Dio, Verbo fatto carne. Infatti timoroso che
il suo trono possa essere messo in pericolo da quel bimbo innocente,
che i profeti avevano annunziato, Erode, per eliminare il presunto
rivale, non esita ad ordinare l' uccisione di tutti i bimbi del suo
regno, dai due anni in giù.
Tuttavia,
dalla terribile crudeltà del re sfugge proprio l'unico Ricercato
perché non è ancora giunta la sua ora. Nel disegno salvifico di Dio
Gesù è come riservato per un'altra immolazione: il sacrificio della
croce.
La pagina
evangelica ci descrive con dovizia di particolari come il Signore
sfugge alla crudeltà del prepotente Erode.
Dei sogni, un
angelo, l'obbedienza di Giuseppe, la disponibilità di Maria, la
consegna serena del Bambino Gesù.
Da questa
situazione drammatica che la Santa Famiglia attraversa possiamo
dunque ritenere alcune luci, preziose per illuminare il cammino
delle nostre famiglie umane e delle nostre comunità cristiane.
Sembrerebbe
scontato, ma occorre ridirlo e soprattutto ri-contemplarlo: Dio è al
centro! Questo risplende nel mistero dell'obbedienza.
Giuseppe
obbedisce all'angelo, Maria e Gesù obbediscono a Giuseppe. Ed è
attraverso questa obbedienza reciproca che essi compiono il progetto
di Dio, obbediscono davvero a Lui.
Per questa
centralità di Dio, reale e profonda, regna nella famiglia di
Nazareth una grande comunione, una serena collaborazione, una
feconda complementarietà.
Non c'è
davvero posto per rivalità, contesa e nessuno ha proprio bisogno di
opporsi per esistere, anzi, per così dire, collabora stando
umilmente e semplicemente al proprio posto, con sereno slancio alla
opera comune, che particolarmente in questo caso, è davvero l'opera
di Dio. In questo la Santa Famiglia oggi è luminoso esempio per noi.
Significativo, e al contempo affascinante appare poi in questo
contesto il silenzio, che è come il terreno buono in cui si
custodisce il primato di Dio e fiorisce la vera stima ed obbedienza
reciproca.
In tutto il
nostro brano non c'è una sola parola di Giuseppe, di Maria e di
Gesù.
E' detto che
Giuseppe si alzò, prese Maria e Gesù – ed essi si lasciano prendere
– fuggì. Senza dire una parola.
Tra essi non
c'è mutismo, ma neppure tacciono, nella famiglia di Nazareth in
verità si custodisce il silenzio.
Nelle
famiglie, nelle nostre comunità cristiane fratelli e sorelle
esercitiamo spesso il mutismo, talvolta tacciamo, ma viviamo troppo
poco il vero silenzio.
Tra queste
tre realtà c'è davvero grande differenza.
Essere muti
infatti è spesso per “ verbalizzare “ disappunto o protesta, e
questo non genera mai la comunione, ma piuttosto produce isolamento.
Tacere invece
è già qualcosa di più alto, ma è ancora troppo poco, perché chi tace
semplicemente frena la lingua.
Chi invece fa
silenzio, è silente – come è il caso di Giuseppe – apre l'orecchio
del cuore, dilata lo sguardo interiore. Si capisce perché allora dal
silenzio nasce la comunione, la stima, si impara ad ascoltare e
persino a parlare, si impara a parlarsi e certamente ad ascoltarsi.
Interessante, al riguardo, è quello che afferma un proverbio arabo:
“Ogni
parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare per tre porte.
Sull’arco della prima porta dovrebbe esserci scritto: “E' vera?
Sulla seconda dovrebbe campeggiare la domanda: E' necessaria? Sulla
terza dovrebbe essere scolpita la richiesta: E' gentile?”. Passare
consecutivamente tutte e tre le porte, rimanendo “incensurati”, è
cosa difficile!. Forse anche questo racconto può davvero aiutarci a
far crescere l'amore per il silenzio, il buon uso della parola, e la
crescita di relazioni vere e di comunione nelle nostre famiglie e
nelle nostre comunità.
Il silenzio e
l'obbedienza di Nazareth. Quanto avrebbero da guadagnare in serena
gioia e comunione cristiana le nostre famiglie, le nostre comunità
da questo esempio.
Come
fiorirebbero di più i sentimenti a cui fa riferimento l'Apostolo
Paolo nella lettera ai Colossesi.
Tenerezza,
umiltà, bontà, sopportazione, perdono.
Davvero
l'esempio e l'intercessione della Santa Famiglia ci aiutino ad
essere nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità persone che
silenziosamente tengono il cuore aperto all'ascolto di Dio e degli
altri per collaborare, all'ombra di uno stile di umile servizio e
pronta obbedienza, all' opera di Dio.
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sabato
25 dicembre 2010 -
Natale del Signore - fr.
David FMJ
Oggi è un grandissimo giorno di
festa. Un grandissimo giorno di festa, non è qualcosa che si
vive così facilmente. Ci si può
sentire esclusi dalla festa. Il nostro cuore può avere delle
difficoltà
ad accordarsi con le parole che
conviene dire e con i canti che conviene cantare. Eppure oggi è un
grandissimo giorno di festa.
Possiamo affermarlo in modo del tutto speciale, perché nessuno è
escluso dalla gioia che la
Chiesa celebra oggi. Il Bambino nato a Betlemme è la gioia di tutti
noi.
Qualsiasi bambino che viene nel
mondo è una promessa. Ma il bambino di Betlemme è la
realizzazione delle promesse.
Il bambino di Betlemme è la realizzazione delle promesse perché, in
lui, Dio è venuto al nostro
incontro. Dovremmo dire questo con un rispetto infinito: Dio è
venuto al
nostro incontro. Dovremmo
ribadire questo, mormorarlo senza sosta, con stupore e con gioia,
così
come si ripetono e si mormorano
le parole di un amore che ci ha reso la vita. Dio è venuto al nostro
incontro. La gioia che la
Chiesa celebra è quindi intimamente la nostra. Nessuno ne è escluso.
Non
ci rallegriamo soltanto perché
il calendario ha stabilito oggi come giorno di festa. Non ci
rallegriamo neanche per qualcun
altro, come se fossimo soltanto testimoni esteriori e compiacenti.
Ci rallegriamo in prima
persona. Dio è venuto all’incontro con ciascuno di noi. Poco importa
allora
che il mio cuore sia
spontaneamente gioioso o che sia invece appesantito da uno sgomento.
Dio è
venuto al mio incontro per
raggiungermi dove sono e come sono. Non ho bisogno di forzarmi a
rivestire gli abiti di festa:
Dio stesso me li dà. Mi veste con la sua presenza poiché è venuto
fino a
me. Mi veste con la sua grazia
poiché è venuto ad amarmi e salvarmi.
Un bambino è nato, fratelli e
sorelle, e questo bambino è la nostra fecondità. Una fecondità
inattesa perché divina, perché
vittoriosa della morte. Un bambino è nato, un figlio ci è stato
dato.
Ma allorché al solito i
genitori vedono i loro bambini come il prolungamento di loro stessi,
allorché
i bambini, al solito, imparano
dai loro genitori a essere chi sono e ricevono dai loro genitori la
loro
eredità, il bambino di Betlemme
ha invertito i ruoli. È lui che ci insegna chi dobbiamo essere. È da
lui che riceviamo la nostra
eredità. La grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo.
Dalla
sua pienezza noi tutti abbiamo
ricevuto, e grazia su grazia. Ci ha dato il potere di diventare
figli di
Dio. A Betlemme abbiamo
ricevuto un figlio. Questo bambino è il nostro maestro e il nostro
Signore, perché ci fa nascere
di nuovo, ci fa nascere dall’alto.
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Domenica 19 dicembre 2010
- IV Domenica d'Avvento -
fr. David FMJ
Mt. 1, 18-24
Quando qualcuno
d’importante deve venire, è annunciato subito prima del suo arrivo.
Si
annunciano i suoi
titoli, si fa conoscere la sua autorità, si dichiarano le sue
origini e il motivo della
sua venuta. È questo che
fa la liturgia oggi: annuncia la venuta imminente del messia. I suoi
titoli?
Figlio di Davide, figlio
di Dio. La sua autorità? È Signore degli Ebrei e dei pagani, è
Dio-con-noi.
Le sue origini? Una
donna, Maria, incinta per opera dello Spirito Santo, Giuseppe, un
uomo giusto,
della casa di Davide. Il
motivo della sua venuta? Condurci tutti all’obbedienza della fede,
condurci
tutti alla conoscenza
dell’amore, riconciliarci tutti con Dio, darsi a noi per condurci in
Dio.
Per fare quest’annuncio
solenne, la liturgia non ha bisogno d’inventare inni. Le basta
aprire la
Bibbia. È con il metodo
stesso della Sacra Scrittura che la liturgia annuncia l’arrivo del
messia.
Quale metodo? È quello
che il Signore stesso ha utilizzato. Si tratta del procedimento del
compimento. Con questo
procedimento, tutta la Scrittura è letta a partire da Gesù Cristo e
in vista di
Gesù Cristo. Cosicché
oggi abbiamo ascoltato prima l’annuncio del profeta Isaia al re Acaz,
e poi
abbiamo ascoltato il
racconto del vangelo dove un discendente del re Acaz vede una
vergine
concepire un figlio. Il
racconto di Matteo è una ripetizione del racconto del libro del
profeta Isaia.
Non soltanto una
ripetizione, ma anche e sopratutto un approfondimento. Ciò che è
successo tanti
anni fa, ai tempi del
profeta Isaia e del re Acaz, si ripete al tempo di Zaccaria e di
Erode. Si ripete e
si compie. Non è più
soltanto l’oscuro racconto, venuto dal fondo dei tempi remoti, a
proposito di
una fanciulla che dà
finalmente una discendenza al re, ma si tratta del racconto
misterioso, venuto
da Nazaret, un oscuro
villaggio, venuto da Betlemme, la città del re, venuto da
Gerusalemme, la
città del Tempio santo.
Si tratta del racconto misterioso a proposito dell’erede del peccato
del
mondo e nello stesso
momento della benedizione divina, l’erede della nostra condizione
umana e
l’erede della condizione
divina, Gesù di Nazaret, il Signore.
Questo procedimento
preciso con il quale la Scrittura e la liturgia annunciano la venuta
di Cristo
deve farci riflettere.
La prima cosa da dire è che non possiamo fare senza l’Antico
Testamento.
Leggere il vangelo senza
l’Antico Testamento ostacolerebbe questo procedimento di compimento
che vediamo oggi
all’opera così chiaramente. Ma penso che si possa dare anche
un’altra ragione per
spiegare il procedimento
di compimento e nello stesso tempo l’importanza dell’Antico
Testamento.
Quest’altra ragione è
che, in certe cose molto importanti, non possiamo esprimerci
altrimenti che
con un racconto. Ci sono
cose che non possiamo dire in altro modo che raccontando ciò che è
successo. Non si tratta
allora soltanto di descrivere le cose, ma di dire come le abbiamo
vissute,
l’effetto che gli
avvenimenti hanno avuto su di noi. Riflettete un po’, fratelli e
sorelle, e osserverete
in maniera molto
concreta, il nostro bisogno di raccontare. A qualcuno che vi chiede
perché vi siete
sposati con tale
persona, racconterete probabilmente il giorno del primo incontro. A
qualcuno che
chiede a un religioso
perché ha fatto questa scelta di vita, questi risponderà
probabilmente con il
racconto della sua
vocazione. Le parole astratte, i concetti, sono preziosi,
indispensabili. I concetti
esistono nella
Scrittura, per esempio quando dice «il Verbo se è fatto carne», o
quando parla della
gloria di Dio. Ma
occorrono i racconti evangelici, occorre la testimonianza delle
persone impegnate,
per capire che il Verbo
fatto carne ha un volto, una voce, che ha posato il suo sguardo sul
mondo e
sulla gente, che ha
amato, sofferto. In poche parole, occorre tutta la Bibbia per
incontrare il Verbo
incarnato stesso, Gesù
di Nazaret. Serve la Bibbia intera per riconoscere, nel Verbo
incarnato, la
gloria del Dio che creò
il cielo e la terra, l’uomo, la donna e la Chiesa.
C’è un’altra cosa che,
tra le altre, si può dire quando si riflette sul modo di leggere le
Scritture.
Ecco questa seconda
osservazione: il racconto dei vangeli prende tutto il suo senso
quando diviene
non soltanto il
compimento delle antiche profezie, ma il compimento della nostra
esistenza. La voce
potente d’Isaia viene
fino a noi, ma i tempi del re Acaz non sono più i nostri.
Fortunatamente, il
procedimento biblico del
compimento non è chiuso. La Bibbia è una norma, un modello, perché
scopriamo la
continuazione di questo compimento nelle nostra esistenza personale.
Allora,
leggiamo la nostra vita
a partire da Gesù Cristo e in vista di Gesù Cristo. Questo è
possibile, fratelli
e sorelle, soltanto se
noi lasciamo che si esprima in noi il desiderio più profondo, la
vulnerabilità
più nuda. L’attesa di
Acaz che aspettava un erede mentre re nemici lo facevano tremare,
l’attesa di
Maria, portatrice del
frutto dello Spirito Santo, l’attesa di Giuseppe, lo sposo scelto
per Maria, lo
sposo e il padre scelto
da Dio, sono attese ormai storiche, bibliche, ma sono
originariamente attese
personali, umane,
intime. La Parola di Dio è potente fratelli e sorelle, ma tuttavia
essa aspetta che le
offriamo le nostre
persone e il nostre cuore. Allora il significato della Scrittura
s’incarna in noi.
Allora capiamo in questa
maniera altissima che consiste nel conoscere con la vita, con la
propria
vita diventata, a sua
volta, un pezzettino della storia santa
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Domenica
5 dicembre 2010 - II Domenica
d'Avvento - fr. David FMJ
Mt. 3, 1-12
Prima osservazione: il profetismo
fa parte dell’esistenza cristiana. Con la figura di Giovanni
Battista, il profetismo dell’antica alleanza è entrato nello spazio
della nuova alleanza. Non è finito. Per questo motivo le profezie
dell’antico Testamento rimangono attuali. Di conseguenza, denunziare
senza compromessi il male e trasmettere il progetto di Dio sotto la
forma d’immagini potenti ricevute nell’intimità profonda con Dio,
questo fa parte della vita e della missione della Chiesa e dei
cristiani. Le parole d’Isaia proclamate oggi nella prima lettura ne
sono un esempio. Ancora oggi, la nostra aspirazione profonda è
questa pacificazione descritta dal profeta, pacificazione che viene
dalla conoscenza di Dio, una conoscenza che è pioggia che scende dal
cielo, benedizione e grazia.
Seconda osservazione: il nostro
annuncio della fede deve essere incarnato. Il fatto che il
profetismo dell’antica Alleanza non sia passato deve renderci
attenti ad alcune caratteristiche del ministero del Signore Gesù
stesso. La predicazione del Regno ha significato per Gesù di Nazaret
un contatto costante con le realtà umane del suo tempo. L’annuncio
del progetto di Dio ha preso più volte, nel contenuto
dell’insegnamento del Maestro e nel suo modo di vivere, la forma
della denunzia del potere egoistico del mondo.
La fede cristiana non può quindi
accontentarsi di un discorso spirituale disincarnato e indifferente
alle situazioni concrete del mondo nel quale viviamo. «Guardate le
cose di lassù», diceva san Paolo. Certo. Ma lui stesso si mostra, in
tutte le sue lettere, concretamente a contatto con le realtà
sociali, politiche e culturali del suo tempo. Le cose di lassù,
dobbiamo guardarle dalla terra, e non come se fossimo degli angeli.
La dimensione profetica fa parte dell’esistenza cristiana, non
soltanto in quanto annuncio del cielo, ma anche come denunzia, a
nome della giustizia, delle strutture di peccato che rendono le
nostre società indifferenti, anzi omicide, e come proposta di un
altro modo di vivere insieme nel mondo di oggi.
Terza osservazione: la dimensione
profetica non significa intransigenza. Giovanni Battista ha delle
parole dirette e dure, ma accoglie tutti, anche le categorie sociali
che gli Esseni e i farisei escludevano. Giovanni Battista non
predica la separazione dal mondo attorno. Non è il portatore di
un’ideologia intransigente della purezza. Non plasma una élite
religiosa. È a contatto con ogni persona, con le persone qualunque.
Ultima osservazione: non siamo
denunciatori ma annunciatori. Denunciare è facile. Ma è
insufficiente. È parziale e, quindi è forse sbagliato. Giovanni
Battista non denuncia soltanto ma annuncia. È a partire da ciò che
viene che predica la conversione. La parola di Giovanni Battista è
sempre attuale. Abbiamo, ancora oggi, molte cose da denunciare, nel
mondo e nella Chiesa del nostro tempo. Ma che cosa annunciamo? Chi
annunciamo? Saremo profeti soltanto se
saremo coscienti della ricchezza straordinaria che abbiamo. Voglio
parlare della nostra fede comune, la fede cattolica la cui doppia
espressione primaria è la carità e la liturgia. Menzionando la
liturgia non parlo dei canti, dell’incenso e delle processioni, ma
del mistero celebrato, del mistero che raduna, del mistero che ritma
con il suo ciclo annuale tutta la nostra vita e la apre all’amore
che viene da Dio. Possiamo vivere il ricominciare dell’anno
liturgico non come una ripetizione ma come un approfondimento. Una
grazia immensa è là, offerta, attiva, potente: la grazia della
presenza sacramentale di Cristo, dell’attualizzazione dei misteri
della sua vita, cioè le tappe della sua missione che sono le tappe
della nostra salvezza. È in questa
incarnazione del progetto e della presenza di Dio che troviamo le
energie più profonde del nostro profetismo. Annunciamo questa
presenza, ne viviamo, la celebriamo, e a causa di questo non
possiamo più guardare il mondo con gli occhi della disperazione né
con gli occhiali di un ottimismo spirituale artificiale, ma lo
guardiamo con gli occhi della speranza, una speranza che ama.
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Domenica 28 novembre 2010
- I Domenica di Avvento - fr.
Massimo-Maria FMJ
Con il Tempo
di Avvento si apre un nuovo anno liturgico. Ogni inizio desta nel
cuore sentimenti, aspettative, progetti, timori e speranze.
Come credenti
e discepoli di Gesù alcuni sentimenti dobbiamo sentire
particolarmente nostri all'inizio di questo cammino: il rendimento
di grazie, la speranze, desiderio di impegno.
E' necessario
rendere grazie in anticipo per i doni, le grazie, le luci che il
Signore ci offrirà e per i passi che ci donerà di compiere.
E' proprio
poi del tempo di Avvento l'atteggiamento della speranza, non certo
una vaga speranza come quella di chi,,iniziando un percorso si dice
: “speriamo bene”, ma una speranza solida perché ancorata alla
certezza dell'Amore di Dio che non ci abbandona, perché radicata
nella Sua fedeltà alle promesse, perché fondata sulla certezza della
Sua Presenza, sulla sicurezza del Suo Ritorno, della Sua Venuta.
E' infine
importante sentire in noi, all'inizio del cammino, un desiderio di
impegno, per cogliere tutta la grazia di questo passaggio del
Signore, a non sprecare proprio nulla di questo ulteriore tempo che
ci è offerto per aprirci al mistero dell'incontro con Dio.
Fratelli e
sorelle il tempo di Avvento ritorna ogni anno con i suoi colori di
luminosa speranza e serena gioia perché ri-depone, nel nostro cuore
appesantito e distratto, la buona notizia che il nostro Dio è Colui
che viene, il Veniente.
Non Colui che
sta chiuso nella sua beatitudine, ma Colui che vuole, e può, fare
noi beati con la Sua Presenza.
Con grande
forza allora l'Avvento, apre gli orizzonti del nostro andare
ripiegato e poco luminoso, alla prospettiva della venuta,
dell'incontro, del ritorno del Signore.
Da qui il
pressante invito a vegliare.
“
Vegliate dunque! “ raccomanda Gesù nella pagina evangelica
proclamata.
Un vigilare
particolare quello che ci è chiesto. Non si tratta tanto di fare la
guardia, ma piuttosto attendere, non certo nella paura di chi teme
la visita dei ladri, ma nel desiderio amante della presenza dello
Sposo.
Un vigilare
che non ha niente di passivo o statico, ma un vigilare attivo,
impegnato, dinamico del dinamismo dell'amore.
Una prima
indicazione in tale senso ce la offre innanzitutto la liturgia che
ci ha fatto pregare così nella Colletta di questa celebrazione:
“
Suscita in noi o Padre la volontà di andare con la buone opere
incontro al tuo Cristo che viene. “
Quindi
vigilanza operosa!
La
concretezza di questa operosità poi, è la Parola di Dio che ci aiuta
a identificarla.
Il testo di
Isaia nel suo invito a mettersi in cammino verso il monte del
Signore, precisa quale deve essere l' obiettivo:
“Perché
il Signore ci insegni le sue vie e possiamo camminare nei suoi
sentieri!”
Fratelli e
sorelle è chiaro che la Parola del Signore oggi ci sorprende
chiamandoci a vigilare.
Crederemmo
infatti che si tratti di rivolgere tutta l'attenzione solo a Lui ed
alla sua venuta, ma in realtà non è proprio così.
La Parola
infatti ci ricorda che le vie del Signore su cui camminare
vigilando, si incrociano indiscutibilmente con le vie dei fratelli.
“Spezzare
le spade, mutare le falci, non esercitarsi più nell'arte della
guerra.”
Ecco che
allora vigilare è uguale ad essere giusti con chi ci sta al fianco ,
deponendo ogni atteggiamento di ostilità piccola o grande, latente o
manifesta, per camminare nella luce del Signore.
Iniziando
dalla moglie, dal marito, dal figlio dalla figlia, dai colleghi dai
vicini, dai confratelli e dalle consorelle.
Perché
l'avvento sia vissuto nella vigilanza credente è essenziale – scrive
un autore spirituale contemporaneo - lasciarsi scuotere dalla Parola
di Dio che ci invita a gettare via risolutamente tutte le armi di
cui abbiamo corazzato il nostro cuore: le lance appuntite
dell'orgoglio ostinato che ci rende violenti; dell'egoismo che ci
rende prepotenti, persino volendo compiere il bene; dell'ambizione
che ci rende astuti calcolatori e falsificatori.
“ La
notte è avanzata il giorno è vicino” ci ricorda Paolo e
nell'imminenza della luce è necessario vivere da figli della luce,
rivestendoci di essa cioè rivestendoci di Cristo.
Fratelli e
sorelle vigilare coincide con prepararsi alla venuta del Signore
facendo spazio al fratello.
Vigilare
coincide con lo spogliarsi dell'uomo vecchio per rivestirsi del
nuovo che è Cristo ed essere come lui luminosi nella verità, giusti
nell'amore, gioiosi artigiani di fraternità.
Solo così
saremo davvero vigilanti, animati dalla speranza rallegrati dalla
promessa di Gesù. Così certo – ci suggerisce una monaca dei nostri
giorni - saremo pronti ad accogliere le continue venute del Signore
fino a quella ultima e definitiva, quando ci chiamerà alla beata
eternità, che così non giungerà improvvisa e non sarà temuta come un
ladro notturno, ma attesa e vissuta come una festa di nozze.
Buon Avvento!
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Domenica 31
ottobre 2010 - XXXI Domenica
T.O. - fr. David FMJ
Lc. 19,
1-10
Spesso sentiamo, a proposito della storia di
Zaccheo, delle predicazioni che mettono l’accento
sulla parola che Gesù gli rivolge: « Zaccheo,
scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ».
Questa parola è un appello forte da parte del
Signore. Viene interpretata a volte come un’allusione
del Signore a un certo orgoglio segreto di
Zaccheo. Il fatto che esso sia invitato a scendere dal suo
albero sarebbe un’immagine per indicare una
discesa del tutto diversa: quella dell’umiltà. Questo
tipo di interpretazione è valido perché è vero
che il Vangelo ha un potere di richiamo sulle nostre
esistenze. E questo potere fa sì che certe
parole acquistino, oltre al loro senso concreto, un
significato più profondo che ci invita
personalmente alla conversione. Tuttavia, tocca a ciascuno di
noi sapere se tale frase, tale parola,
colpisce il suo cuore con questa modalità particolare. Forse non
occorre che la predicazione abusi di questo
potere di richiamo del Vangelo. È probabilmente più
prudente, a volte, lasciare fare il Signore.
Oggi, vorrei abbordare la storia di Zaccheo in
un modo più concreto e più vicino al testo. Non
sappiamo se Zaccheo era particolarmente
orgoglioso e se l’invito del Signore a scendere dall’albero
aveva per lui un doppio senso. Il testo ci
dice semplicemente che Zaccheo era piccolo, e che è per
vedere meglio Gesù, al di sopra della folla
che glielo nascondeva, che Zaccheo è salito su un albero.
Il testo dà così parecchi dettagli concreti
che ci rendono Zaccheo familiare. È piccolo, è curioso, si
adatta velocissimamente alla nuova situazione
che Gesù provoca nella sua vita, è schietto perché
non tenta di dissimulare che non è stato
sempre onesto, è generoso perché propone di riparare i suoi
torti al quadruplo, ed è realista perché non
parla di abbandonare tutti i suoi averi. Zaccheo è un
personaggio concreto, vorremmo dire un
personaggio in carne e ossa. Possiamo immaginarlo,
conoscere alcuni elementi della sua
psicologia. Zaccheo non è un uomo qualsiasi. Ha caratteristiche
proprie. Zaccheo diviene così qualcuno di
vicino. Possiamo in un certo modo incontrarlo, e
riconosciamo una personalità particolare,
distinta, ma distinta a causa di tratti per finire molto
banali. Zaccheo è ricco, ma non è Erode, non
ha niente di impressionante, non ha doni
particolarmente evidenti se non una certa
abilità per gli affari, non è colpito da un dramma intimo
che lo metterebbe a distanza da noi. Zaccheo è
un uomo molto banale, come ognuno di noi.
Fratelli e sorelle, il vangelo di oggi ci
mostra che la visita del Signore e la sua presenza in
un’esistenza umana non ha bisogno della
straordinarietà o dell’eccellenza. Il Signore visita le nostre
esistenze banali, i nostri problemi banali, le
nostre mediocrità banali e anche le nostre dignità
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banali. Noi non siamo tutti chiamati al
martirio, alla santità eroica, alla santità mediatica,
all’abbandono di tutti i nostri averi. Zaccheo
non è Levi. Levi era stato invitato dalla chiamata del
Signore a lasciare tutto. Questo non avviene
per Zaccheo. Che ci siano dei Zaccheo nel Vangelo è
importante perché questo ci aiuta a
comprendere che la santità non è una sorta di prestazione che
dovremmo ammirare da lontano, così come si
ammirano le prestazioni degli atleti alla televisione,
ma che è la chiamata rivolta anche a noi, noi
che siamo gente banale.
Ho appena detto che noi non siamo tutti
chiamati alla santità eroica. Vorrei però correggere
quest’affermazione. La santità banale di
Zaccheo – che probabilmente è anche la santità che
interessa la maggior parte di noi – possiede
il
suo stile
d’eroismo. Zaccheo è banale, ho detto, il suo
sì al Signore Gesù non ha il carattere
clamoroso del sì di Levi. Tuttavia, Zaccheo è, a modo suo, un
eroe della fede. Perché? Perché ha cambiato
pubblicamente e apertamente le sue abitudini, le sue
cattive abitudini. Fratelli e sorelle, è molto
eroico cambiare le proprie cattive abitudini. Non soltanto
perché si tratta appunto di abitudini che cioè
si sono incise nei nostri riflessi, nel nostro modo di
essere, ma anche perché gli altri, coloro che
vi conoscevano con le vostre cattive abitudini, vi
perdonano raramente di averle abbandonate e
cercano di farvele riprendere. Fratelli e sorelle, c’è
eroismo nel fatto di decidere di cambiare. Non
parlo dell’instabilità, ma del cambiare se stessi.
Questo cambiamento con il quale diventiamo un
po’ più noi stessi, un po’ più liberi. Di questo
eroismo Zaccheo ci dà lezione. Possiamo
imparare, fratelli e sorelle, che la nostra avventura di
santità è un’avventura di libertà, e che la
libertà rende sempre grandi, anche in condizioni molto
ordinarie di vita.
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Domenica 17 ottobre
2010 - XXIX domenica T.O. C -
fr. David
FMJ
Lc. 18, 1-8
La
vedova data in esempio nella parabola non ha la fede cristiana. Il
Cristo non ci parla, oggi, della fede specificamente cristiana ma
del suo preambolo. Ecco perché questa parabola è così strana. La
preghiera della vedova è un lamento insistente per ottenere
giustizia. Siamo molto lontani dalla preghiera del Padre Nostro
insegnata da Gesù. Anziché una preghiera che sia una relazione a
Dio piena di fiducia, d’amore e di mistero, abbiamo un grido di
aiuto ostinato, centrato su se stesso. Per quanto riguarda il
giudice, si tratta di un personaggio poco amichevole. È privo di
compassione, e se esaudisce la povera donna è soltanto affinché essa
lo lasci in pace. Sono immagini strane, fratelli e sorelle. La
preghiera è rappresentata attraverso una situazione umana mediocre,
tristemente banale. Nessun entusiasmo nella situazione descritta.
Nessun amore, nessuno slancio verso l’alto, nessun fascino per la
bellezza di Dio, ma lamenti insistenti da un lato, e la voglia di
essere lasciato tranquillo dall’altro. La ragione di queste immagini
strane è che Gesù non ci parla della fede specificamente cristiana
ma di una fede che viene prima, se così si può dire. Si tratta della
fede del bisognoso, della fede di colui che si consegna a Dio perché
non ha altro soccorso.
Ora, Gesù pone
una domanda terribile: questa fede che è soltanto il preambolo della
fede cristiana, esisterà ancora sulla terra quando egli tornerà,
alla fine dei tempi? Questa è una domanda terribile perché la posta
in gioco è l’esistenza della fede cristiana. Ciò che è messo in
questione è il presupposto e, quindi, il fondamento stesso
dell’atteggiamento cristiano davanti a Dio. L’insegnamento che
dobbiamo trarre da questa parabola è allora chiarissimo. Dobbiamo
evitare di diventare delle persone soddisfatte, delle persone
consolate. Gesù ci avverte: l’uomo corre il rischio di perdere
l’atteggiamento precristiano ed elementare, quello del bisognoso che
grida verso Dio. E se l’uomo diviene una persona soddisfatta,
consolata, se perde la facoltà elementare di gridare giustizia verso
Dio, allora perde anche la possibilità di situarsi cristianamente
davanti a Dio. Fratelli e sorelle, non dobbiamo essere persone
consolate e soddisfatte. C’è qualcosa che è inconsolabile nella
nostra situazione umana. C’è un’ingiustizia fondamentale che ci
viene fatta e che Paolo chiama il mistero d’iniquità. Abita in noi
una nostalgia che non dobbiamo soffocare.
Parlando così,
non voglio disprezzare nessuna delle nostre felicità. Le nostre
felicità possono essere grandi, fratelli e sorelle, possono essere
nobili. Possono a volte condurci vicinissimo al paradiso. Eppure,
c’è qualcosa nella nostra situazione che è inconsolabile. Guardate
come mettiamo al riparo e nascondiamo le nostre felicità. Guardate
come le nostre felicità si proteggono dietro muri e confini, che
spesso provocano proprio la nostra sfortuna. Tuttavia, è vero che
alcune felicità sono così forti da abbracciare il mondo con la sua
sofferenza in una luce molto pura, in una verità più alta.
Ma queste felicità non sono
lontane dall’esperienza mistica. Queste felicità non sono dei
soddisfatti o dei consolati. Non dobbiamo essere consolati a motivo
stesso della dignità delle nostre felicità. Queste dovrebbero poter
durare e sono precarie. Dovrebbero essere intere ma comportano quasi
sempre una rinuncia, una rassegnazione. Non siamo dei consolati ma
gridiamo verso Dio. Non siamo gente forte che non ha bisogno di
niente. Non pensiamo che avere la fede significhi non vedere più
l’ingiustizia della nostra condizione umana, o non fare più
l’esperienza del silenzio incomprensibile di Dio. Non cerchiamo di
fare i forti, di fare coloro che hanno capito tutto, che hanno le
chiavi della vita e di Dio, che sanno sempre come si deve fare. Il
nostro atteggiamento cristiano dinanzi a Dio è un certo compimento
dell’atteggiamento religioso. Ma questo non significa che dovremmo
negare che essere credenti non sopprime tutte le difficoltà. C’è
soltanto quello che non aspetta più niente da nessuno che non ha
difficoltà. Ma questo uomo, fratelli e sorelle, è un uomo morto. La
vedova della parabola non è una grande mistica e neanche un esempio
dell’atteggiamento religioso cristiano. Ma è una lezione d’umanità,
un umile lezione d’umanità che ci ricorda che l’atteggiamento
religioso cristiano non dovrebbe essere una negazione della realtà.
L’eucaristia che
celebriamo è tutto lo spessore, tutta la densità dell’esistenza di
Cristo. Abbraccia il mondo che Cristo ha salvato e di cui è
diventato la meta, la fine, la vittoria. L’eucaristia abbraccia
tutte le grida, non le nega. Essa sia per noi un cibo e una lezione
per la nostra fede. Possiamo credere non con le illusioni
soddisfatte di riuscita spirituale, ma con la nostra umile umanità
raggiunta da Cristo.
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Domenica 3 ottobre
2010 - XXVII Domenica T.O. -
fr. David FMJ
Lc 17, 5-10
I due insegnamenti del Maestro
trasmessi dal vangelo di oggi sono quel tipo di passi delle
Scritture che stimolano i discorsi pii. Ma occorre diffidare dei
discorsi troppi pii. Si crede di fare bene nell’amplificare le
parole di Gesù. Tutto andrebbe meglio se ci fosse più fede, si dice
a volte. Ma Cristo è andato risolutamente alla croce, e ci ha
invitati a fare lo stesso. Con la fede si può tutto, diciamo a
volte. Ma Gesù ha anche detto che colui che vuole costruire una
torre deve prima calcolare per sapere se ha i mezzi per portarla a
termine. L’umiltà consiste nell’essere sottomessi dinanzi a Dio come
un servo davanti a un maestro implacabile, pensiamo a volte. Ma
Gesù, durante l’ultima cena, ci ha detto: «Non vi chiamo più servi,
ma vi ho chiamato amici». Fratelli e sorelle, proviamo quindi a
evitare le semplificazioni pie ed esaminiamo di nuovo il brano
evangelico che è stato proclamato oggi.
Il primo insegnamento del Maestro
s’iscrive in un dialogo. Gli apostoli chiedono « accresci in noi la
fede», e Gesù dà una risposta che
sottolinea la potenza smisurata della fede, anche se piccola
come un granello di senape. Diverse versioni di questo dialogo
esistono in Matteo, Marco e Luca. Il contesto è diverso da un
Vangelo all’altro, ma c’è qualcosa che sorprende: è il fatto che
questo dialogo si svolge sempre nell’intimità tra Gesù e i suoi
apostoli. Questo insegnamento di Gesù sulla fede è quindi un
insegnamento riservato, qualcosa di prezioso che dà alla cerchia dei
più vicini. Dovremmo anche noi riceverlo così: come qualcosa di
prezioso che ci è dato personalmente dal Maestro.
Il contesto nel quale Luca
inserisce questo dialogo ci dà forse un’indicazione per
interpretarlo. Appena prima del brano scelto per la liturgia, c’è un
insegnamento molto esigente del Maestro sul perdono. Si tratta di
perdonare instancabilmente, senza sosta. Ed ecco che gli apostoli
chiedono «accresci in noi la fede». Questo dialogo a proposito della
fede segue l’insegnamento sul perdono illimitato! C’è evidentemente
un legame tra perdono vero e sincero da una parte, e fede dall’altra
parte. Il perdono vero e sincero, dato gratuitamente, forse anche in
pura perdita, forse anche senza che sia riconosciuto, il perdono che
non riposa su nessuna ricompensa, su nessun vantaggio, riposa sulla
fede, perché nient’altro lo giustifica se non una relazione profonda
con una verità, una presenza, un amore, una forza che non sono di
questo mondo. La fede non ci viene data per fare miracoli
spettacolari, ma per vivere una trasformazione profonda che ci rende
testimoni di una bellezza che non viene da noi e che trasforma il
mondo con il perdono.
Mi sembra che qualcos’altro
potrebbe ancora essere notato. Gesù ha preso un esempio strano,
quello dell’albero che si butta nel mare. Altrove, prende l’esempio
della montagna che si sposta. Sono esempi strani che mettono la fede
in relazione con il cosmo. Mi chiedo, fratelli e sorelle, se non ci
sarebbe un motivo per questo. Definiamo spesso la fede come una
visione della vita, una filosofia, un modo di vedere le cose. Ma il
vangelo è molto più audace. La fede che il vangelo ci chiede di
avere ha qualcosa da dire al mondo. La nostra fede non è soltanto
una visione della vita o una filosofia, ma è attesa, anzi
anticipazione della trasformazione del cosmo intero. Con la fede,
siamo invitati a entrare sin d’ora, e sempre di più, nella vita
stessa di Dio. Si tratta di qualcosa che riguarda tutta la
creazione, e non soltanto le idee. La fede, fratelli e sorelle, è la
fede in Gesù Cristo risorto, in Gesù Cristo che è la vita eterna, in
Gesù Cristo che è concretamente – è questo verrà manifestato un
giorno – la pienezza del mondo.
Guardiamo adesso il secondo
insegnamento. Il servo non aspetta ringraziamenti da parte di suo
padrone. Così anche noi, quando avremo compiuto ciò che Dio ci
comanda, diciamo che siamo soltanto servi inutili. Eppure, Gesù non
ci ha trattato come servi inutili. Anzi, è tutto il contrario: ha
fatto di noi gli operai del suo Regno. Ci ha anche fatto partecipare
alla sua vita e formiamo il suo corpo. Il Maestro ha voluto che gli
facciamo l’omaggio della nostra fede, cioè di una risposta libera
con la quale egli fa di noi i suoi intimi e i suoi collaboratori.
Allora, perché Gesù ci parla così oggi? Perché questa
durezza? Forse perché evitiamo di pensare che tutti i privilegi che
egli ci ha accordati sono dovuti, che ci spettano giustamente.
Fratelli e sorelle, trattandoci non come servi, consegnandoci il suo
Figlio, dandoci il suo Spirito Santo, facendoci i depositari del
vangelo e i missionari del Regno, Dio è andato aldilà di ciò che è
giusto. Siamo sotto il regime della grazia, e occorre che non lo
dimentichiamo. Occorre che non lo dimentichiamo non soltanto per
rimanere umili, ma anche per amore per Dio. Infatti, meditando la
nostra condizione di graziati, di uomini e donne destinatari di un
amore che va molto aldilà di ciò che è giusto, cominciamo a capire
quanto è bello l’amore di Dio. Non è soltanto l’umiltà che importa
qui. Ciò che importa è di essere sempre di più innamorati del
mistero infinito che è Dio.
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Domenica
26 settembre 2010
- XXVI Domenica T.O. -
fr. Massimo-Maria
Ogni domenica il
Signore Gesù ci convoca attorno all'altare per renderci partecipi
della sua Pasqua, per consegnarci il dono della pace della sua
Resurrezione. “Vi lascio la pace vi do la mia pace.”
Ascoltando la sua
Parola in questa domenica possiamo avere l'impressione che più che
la pace della Resurrezione che il Signore dona e che dovrebbe essere
caratteristica del discepolo che lo ha incontrato, un certo timore,
se non addirittura paura, invade i il nostro cuore.
In realtà questa ci è
offerta per custodire la vera pace della Resurrezione, per camminare
sicuri verso la pace del Regno, per avanzare spediti verso la pace
di Dio senza sbagliare strada.
Il testo di Luca certo
ci offre vari spunti di riflessione, ci presenta l'esigenza alta del
cammino del discepolo di Gesù – la pace della Resurrezione non è
infatti torpore della coscienza o mancanza di slancio e di fatica
del camminare.
La Parabola ci ricorda
come ogni nostra scelta nel tempo ha un peso di eternità, ci ridice
con chiarezza come i valori ai quali spesso il mondo si riferisce, e
noi con lui, sono esattamente ribaltati nella logica del Regno. La
Parabola di Gesù a ben leggerla ci mostra come la vera differenza
tra il ricco senza nome e il povero Lazzaro non sta nella ricchezza
o nella povertà, ma nell'atteggiamento del cuore davanti alla
ricchezza o alla povertà.
Certo Gesù ancora una
volta si mostra davvero esigente, ma per custodirci oggi nella pace
della Sua Resurrezione e per indicarci chiaramente il cammino verso
la pienezza della vita, della libertà e della pace.
Vogliamo allora
lasciarci insegnare dal Signore Gesù attraverso i personaggi di
questa Parabola.
Il ricco, che
banchetta lautamente e veste sontuosamente. Carissimi amici la vera
disgrazia di questo uomo, non è la ricchezza, ma il fatto che essa
gli ha invaso il cuore e gli ha annebbiato la vista.
Gli ha appesantito il
cuore in un egoismo senza limiti. Si avverte benissimo nel testo
come al centro di tutto c'è lui, solo lui e sempre lui. Persino dopo
la morte vorrebbe ancora usare Lazzaro di cui non si era mai accorto
in vita, per i suoi fini che ci parrebbero nobili – avvisare i
fratelli che si convertano.
Tutto ruota attorno a
se stesso nel cuore egoista appesantito dalle ricchezze. Ma anche lo
sguardo è tristemente annebbiato nel cuore del ricco. Ogni giorno
stava alla sua porta Lazzaro, ma non lo vede, non se ne accorge, e
se per caso gli inciampa sopra non si sente interpellato. Quando
vede Lazzaro nel seno di Abramo, vorrebbe servirsene, forse
finalmente si accorge di lui ma è troppo tardi.
Fratelli e sorelle la
ricchezza non è un male, ma il cuore da essa appesantito è in
pericolo. Tutti in un modo o nell'altro siamo ricchi, di beni
materiali, di affetti, di conoscenze, di doni naturali e persino di
doni spirituali. Solo se servono per servire, solo se si usano per
condividerli custodiscono oggi la pace della Resurrezione nei nostri
cuori e ci permettono di camminare verso la pienezza della pace del
Regno. Quando così con è divengono causa di turbamento, di
apprensione, di gelosie, rivalità, egoismi che non solo non ci
donano di camminare verso la vita, ma già ora ci tolgono la pace.
Se la Parabola di Gesù
ci ammaestra attraverso il ricco, non di meno lo fa attraverso il
povero.
Anche qua, notiamolo
bene, non è esaltata la miseria, né lodata la povertà in sé stessa,
ma ciò a cui dobbiamo volgere lo sguardo è il povero Lazzaro. La
sua, è vero, è una povertà che sconfina nella miseria – non ha da
mangiare e i cani leccano le sue piaghe – tuttavia il povero tace,
non recrimina, non attira l'attenzione in nessun modo, in tutto il
testo non parla mai, neppure colpevolizza il ricco o tanto meno
lascia trasparire un animo vendicativo.
E' fuori dubbio che il
Vangelo non sta invitando a non denunciare le ingiustizie e a subire
l'oppressione, ma sta insegnando qualcosa di più profondo. Il povero
nella pace si affida a Dio nella serena certezza che per il gemito
dei poveri e l'oppressione dei miseri io sorgerò dice il Signore.
Dio è il rifugio sicuro del povero e il sostegno più certo
dell'oppresso.
Fratelli e sorelle
tutti siamo ricchi e tutti siamo poveri. Poveri forse materialmente,
di affetti, ma poveri delle nostre debolezze, delle nostre
fragilità. La fiducia serena in Dio custodisce nella pace della
Resurrezione. Quante volte noi anziché vivere le nostre povertà come
occasione per crescere nella fiducia in colui che sorge per salvarci
e che c'è davvero per sostenerci, recriminiamo, colpevolizziamo,
perdiamo la pace Non solo la ricchezza può rendere il cuore egoista,
ma anche la povertà, quando non è occasione di un affidamento più
grande e sereno al Signore.
Ecco alcune luci per
non sbagliare strada nel cammino verso il Regno.
A chiusura della
Parabola è ribadita l'importanza dell'ascolto di Mosè e dei profeti,
cioè della Parola, e tutta la Parabola ci suggerisce con chiarezza
che ora è il tempo dell'ascolto, dell'obbedienza alla Parola e della
conversione.
Fratelli e sorelle
come abbiamo pregato all'inizio della liturgia chiediamo al Signore
che ci conceda di aderire in tempo alla sua Parola per vivere oggi
nella pace della Resurrezione e per camminare con passo sicuro verso
la pienezza della vita.
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Domenica 19
settembre 2010 - XXV Domenica T.O. -
fr. David FMJ
Lc 16, 1-13
Oggi, la liturgia propone alla nostra
meditazione un brano evangelico complesso per il motivo che è
evidentemente contraddittorio. Non dobbiamo perdere di vista il
fatto che Gesù era un predicatore itinerante e non un professore di
teologia. Non ci si deve aspettare, quindi, che le parabole siano
perfettamente coerenti le une con le altre. Esse hanno come scopo di
farci entrare nell’esperienza di rivelazione che ci propone il
Cristo, o meglio, che Cristo stesso è in persona. Le parabole sono
infinitamente più ricche e preziose che un trattato o un corso.
Possiamo dunque dirlo senza timore: abbiamo appena ascoltato un
testo contraddittorio dove, da una parte, viene lodato un uomo furbo
i cui metodi sono dubbi, e dove dall’altra parte si parla di
un'onesta scrupolosa, anche nei piccoli dettagli. Mi sembra che,
dinanzi a un tale testo, dobbiamo lasciarci impressionare nel senso
stretto, cioè lasciarci prendere dall’esperienza che ci viene
proposta – si potrebbe parlare addirittura di un gioco. Poi entriamo
a nostra volta nel gioco, discutiamo col testo a partire da ciò che,
già, sappiamo di Cristo e del suo insegnamento. La prima cosa da
notare è senza dubbio l’elogio che il padrone fa di
quell’amministratore disonesto. Quest’elogio ha un oggetto preciso:
è la scaltrezza dell’amministratore che viene lodata. Credo,
fratelli e sorelle, che la priorità non è chiederci come mai Gesù
abbia potuto darci in esempio un tale amministratore disonesto, ma
piuttosto entrare nella favola, nella farsa, ridere anche noi, come
gli uditori di Gesù, a causa del bello scherzo fatto al padrone,
immaginare i volti, le boccacce, le intonazioni dei personaggi, e
sopratutto di cogliere quest’elogio dell’intelligenza. Fratelli e
sorelle, il vangelo non ci chiede né di mancare di umorismo, né di
essere stolti. Allora, proviamo ad essere cristiani intelligenti. Se
alcuni tra noi sanno gestire con intelligenza i loro affari, beati
loro. Tuttavia, l’affare più importante che noi, cristiani, dobbiamo
condurre con intelligenza è il vangelo. Qualcuno sta forse per
pensare che il vangelo parla di amore, e che non c’entrano gli
affari. Eppure, sarebbe avere poca esperienza non sapere che, per
amare, occorre molto intelligenza, umorismo e abilità. Ci vuole
abilità per amare la propria moglie, il proprio marito, per amare i
propri bambini ed educarli. Ci vuole abilità per vivere in comunità.
Perché? Perché non si può essere sempre seri, questo è ovvio. Ma
sopratutto perché non è possibile far crescere una relazione senza
abilità, anzi, senza scaltrezza, le quali consentono di dire cose
difficili da dire, di dissipare ambiguità o incomprensioni, di
rassicurare le ansietà ecc. Durante la guerra, un giovane soldato
tenne duro grazie alle lettere che ricevette da sua madre ogni
settimana. Finita la guerra, quest’uomo scoprì che sua madre era
morta da molto tempo. Sapendosi condannata dalla malattia, scrisse
in anticipo una provvista di lettere settimanali per un anno e
mezzo, e chiese a un’amica di mandarle regolarmente al figlio che
non avrebbe mai più rivisto. L’amore ha delle invenzioni, e anche
degli imbrogli che sono davvero meravigliosi. Per ignorarlo,
ci vuole una concezione molto
rigida della vita, o non avere mai letto la Bibbia.
La seconda parte del nostro testo
sembra fare l’elogio opposto al precedente. Si tratta adesso di
onestà, con una tale esattezza però, che si potrebbe avere
l’impressione che Gesù faccia l’elogio degli scrupoli. Fratelli e
sorelle, non dobbiamo perdere di vista che l’esattezza non è il
vangelo. Il vangelo è il «quanto più»! La morale evangelica non è
una morale dello scrupolo ma del dono di sé stessi. Sono i farisei
che, senza sosta, oppongono a Gesù l’esattezza delle regole, delle
prescrizioni e delle usanze. L’insegnamento di Gesù fa scoppiare gli
spiriti stretti dei farisei, e anche i nostri, con questo «quanto
più», questo sovrappiù evangelico, questo dinamismo vivificante e
divino che fa scoppiare anche la morte. Gesù non fa l’elogio
dell’onestà scrupolosa che è arida e senza amore, ma ci mette in
guardia sul punto della lealtà. Non basta essere cristiani
intelligenti, furbi, scaltri. Bisogna anche sapere dove è il nostro
cuore. Non si può servire due padroni, fratelli e sorelle. Tutto è
nostro, il mondo è nostro, come dice san Paolo, ma noi siamo di
Cristo. Dobbiamo usare del mondo con saggezza, cioè con profonda
lealtà nel nostro amore per Cristo e in nome di Cristo. Per la causa
del Vangelo, comportiamoci con scaltrezza come i figli di questo
mondo, ma non imitiamo le loro alienazioni, non cadiamo nei calcoli
e nelle menzogne del mondo. Saper rimanere chi siamo, anche in
questo consiste l’intelligenza.
Fratelli e sorelle, ci sarebbero
ancora molte cose da dire, molte esperienze da fare, a partire delle
parabole di Gesù. Ma tratteniamo questo per finire. Qualcosa di
molto prezioso ci è stato affidato, un bene inestimabile, che si
tratta di far fruttificare con intelligenza e cuore: è il vangelo, è
la fede che abita in noi, è la Chiesa di cui siamo i figli e le
pietre vive. Queste cose non hanno paura di niente, di nessuna
realtà del nostro mondo. Anzi, hanno il potere di trasformarle e di
fare di noi figli e figlie di Dio. |
Domenica 5 settembre 2010
- XXIII Domenica T.O. -
fr. David FMJ
Lc. 14, 25-33
Vorrei fare tre osservazioni
sul vangelo di oggi. La prima osservazione riguarda il salto che
Gesù ci obbliga a fare. Capiamo bene ciò che Gesù ci dice a
proposito dell’uomo che vuole costruire una torre, o a proposito
della strategia di questo re in guerra contro un altro re più
potente. Anzi! È molto chiaro: si tratta di calcolare, di prevedere,
di anticipare. Sono parole e atteggiamenti di ogni giorno; parole e
atteggiamenti dell’attività umana banale. Calcolare, prevedere,
anticipare, sono cose che sappiamo fare, e fare benissimo. Le parole
di Gesù sono quindi chiarissime e ovvie. Tuttavia, lo sono fino a un
certo punto, fino a un salto che si deve fare. Infatti, se non
facciamo questo salto, non si capisce più nulla, siamo addirittura
persi. Infatti, fare un calcolo, tracciare le linee di un piano,
stabilire un bilancio di previsione, contare le truppe o la
tesoreria, tutto questo è chiaro e abbastanza facile. Che la
conseguenza però di questo discorso sia che si debba rinunciare a
tutti i nostri averi, non è più chiaro per niente, e non capiamo
più, a meno che facciamo un salto. E questo salto ci fa capire che,
per ciò che riguarda le cose di Dio che Gesù Cristo è venuto a
insegnarci, prendere le sue precauzioni, fare i propri conti,
prevedere il proprio colpo, consiste appunto, e al contrario della
logica terrena, nel rinunciare ai propri averi e alla propria vita.
Una conclusione tale è davvero una sorpresa. Anzi, occorre dire che
è incomprensibile senza una grazia speciale che ci rende partecipi,
alla nostra misura, della croce di Gesù. Infatti, il salto più
grande che Gesù ci chiede di fare con lui è quello della sua croce.
Là si trova il paradosso più grande, il salto più grande. Gesù
messia, Gesù re d’Israele, fin qui, possiamo più o meno seguire. Ma
Gesù crocifisso è, come lo dice san Paolo, uno scandalo per Israele
una follia per i pagani, cioè, qualcosa d’incomprensibile senza una
grazia speciale. In che cosa consiste questa grazia? Si tratta di
capire, o piuttosto di essere toccati dalla modalità così
particolare secondo la quale la vita si celebra in Gesù Cristo,
secondo la quale la vita di Gesù Cristo è vittoriosa. Questa
modalità è la croce, l’amore come dono di se stesso, nell’abbandono,
nella fede e nella speranza.
La seconda osservazione
riguarda il fatto che il vangelo di oggi sembra mescolare la
questione delle relazioni e degli affetti con la questione dei beni
temporanei. Spontaneamente pensiamo che c’è qui un amalgama, o due
considerazioni che dovrebbero essere distinte anziché essere
mescolate. In realtà, c’è qui un avvertimento importante. Il vangelo
ci mette in guardia circa uno sforzo da fare e che continuamente
richiama la nostra vigilanza. Questo sforzo è di rinunciare a vedere
le nostre relazioni e i nostri affetti come se fossero dei beni. È
una rinuncia fondamentale per amare perché apre alla gratuità che è
l’aiuto indispensabile per il vero amore. Una gratuità che prende a
volte una dimensione crocifiggente.
Si tratta di capire che l’oggetto del nostro amore non è un oggetto
ma una persona, che l’amore è ciò che abbiamo di più prezioso, ma
che non è una possessione, un avere. Si tratta d'imparare ad amare
accentando di non poter assicurarsi di nulla, accentando al
contrario di diventare dipendenti della risposta che sarà o non sarà
data.
L’ultima osservazione riguarda
il tema della preferenza. Gesù non ci chiede soltanto la rinuncia
che apre alla gratuità, ma ci chiede inoltre di preferirlo a tutto e
a tutti. Qui, sono possibili due interpretazioni. Ce n’è una che
mette in concorrenza da un lato l’amore per Cristo, e dall’altro
lato gli affetti allacciati legittimamente, gli affetti umani più
profondi (padre, madre, moglie, bambini, fratelli, sorelle, e
perfino la propria vita). E c’è un’altra interpretazione che vede la
preferenza per Cristo non come un attaccamento concorrente agli
altri, ma come l’attaccamento fondamentale. Scelgo la seconda
interpretazione. Secondo essa, preferire Cristo al di sopra di tutto
è preferire l’amore sopra tutto. Quelli che amo, li amo in Cristo.
La chiamata a preferire Cristo non è in contraddizione con gli
affetti legittimamente stabiliti. Al contrario, è a loro servizio.
Sarebbe forse attenuare il vangelo interpretarlo così? No. Se
oppongo l’amore per Cristo all’amore per gli altri, se li metto in
concorrenza, si può forse avere l’impressione di una radicalità
coraggiosa, che tuttavia ci mette in difficoltà per spiegare come
l’amore evangelico sarebbe ancora amore. Ma se invece scelgo
l’interpretazione che non mette l’amore per Cristo e l’amore per gli
altri in concorrenza, ma vede nella preferenza per Cristo la
preferenza per l’amore stesso, corro allora il rischio di conoscere
situazioni laceranti. Ho in mente queste situazioni dove scegliere
Cristo, cioè scegliere l’amore, paradossalmente allontana da noi
coloro che amiamo. È una contraddizione estremamente dolorosa essere
separato da quelli che amiamo per l’amore stesso, a causa
dell’amore. Non sono considerazioni astratte. In una coppia, in
un’amicizia, in una relazione fraterna, ci sono questi
divari che fanno sì che la qualità
profonda, autenticamente cristiana secondo la quale l’uno ama
l’altro, non è riconosciuta, forse non è neanche intravista, anzi,
provoca un rigetto irritato. Queste situazioni non sono così rare, e
ci avvicinano molto di più alla croce che se ci fossimo accontentati
di pensare che la nostra fede cristiana dovrebbe in definitiva
renderci indifferenti alla qualità delle relazioni umane che
sviluppiamo.
Fratelli e sorelle,
tratteniamo, da questa ultima osservazione, che la radicalità
evangelica non significa sempre né necessariamente intransigenza ed
esclusivismo. Tratteniamo dal vangelo di oggi che non c’è una vita
cristiana seria finché non rinunciamo a possedere le nostre
sicurezze e finché non abbiamo il coraggio di un amore che continua
di offrirsi anche quando è rigettato.
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Domenica
18 luglio 2010 - XVI Domenica del Tempo
Ordinario - fr.David
Lc 10, 38-42
Gesù è a Betània, in una casa
amica. Siamo immersi nell’ambiente intimo di Gesù. Marta, Maria e
Lazaro sono i suoi amici. Per colui che non ha neanche una pietra
dove riposare il capo, la loro casa è un luogo di riposo, così come
anche la casa di Pietro a Cafàrnao. Betània però è più tranquilla.
Gesù può soggiornarvi senza che gli vengano portate folle di malati
e di indemoniati da guarire. A Betània, Gesù si riposa.
Probabilmente, è ad una piccola Betània che i nostri cuori
dovrebbero somigliare. Vorremmo offrire i nostri cuori a Cristo,
come luoghi dove possa sentirsi a casa e riposarsi. Eppure, spesso,
dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere che il nostro bel progetto è
piuttosto difficile da realizzare. In realtà, abbiamo tante cose da
chiedere a Gesù; dobbiamo importunarlo con le nostre necessità e i
nostri affanni. Forse è bene così. Gesù sa bene che si è legato per
l’eternità con la povera gente che noi siamo. Forse possiamo
comunque tenere presente alla nostra coscienza spirituale questo
augurio di essere una Betània per il Signore. Allora, quando la sua
grazia ci invaderà, facendo tacere tutte le preoccupazioni, avremo
il riflesso di accogliere Cristo e di godere tranquillamente della
sua presenza, gratuitamente, a causa del nostro amore per lui, e non
soltanto perché abbiamo bisogno di lui.
Betània, abbiamo detto, è il
luogo privilegiato dove Gesù viene a riposarsi. Eppure, questo luogo
non è privo di tensioni. È ovvio che siamo oggi i testimoni di un
episodio di tensione tra Marta e Maria. Constatiamo quindi che,
anche nell’intimità di Gesù, anche quando Gesù è presente, accolto,
amato, anche quando non ci sono le difficoltà legate all’opposizione
dello spirito del mondo alla novità del Vangelo, ci sono comunque
tensioni. Tensioni che ci sono familiari, che ci sembrano del tutto
normali. Sono le incomprensioni, le differenze di punto di vista
secondo le quali ciascuno valuta in modo diverso l’urgenza presente,
le differenze di sensibilità che, malgrado una lunga condivisione di
vita comune, ci impediscono di vedere nello stesso modo ciò che
occorre fare e come farlo. Queste tensioni, così abituali per noi,
le incontriamo oggi nella casa di Marta, anche se Gesù vi è presente
con fiducia totale e con amicizia. Fratelli e sorelle, non dobbiamo
quindi stupirci di incontrare tensioni nella Chiesa, nei nostri
focolari cristiani, nelle nostre comunità. Gesù è venuto a
condividere la nostra vita in ciò che ha di perfettamente normale, e
vi è presente anche quando constatiamo che non perveniamo ad una
perfetta armonia nelle le nostre relazioni, armonia che sarà
realizzata soltanto nel cielo. Dobbiamo accettare che, nella nostra
vita cristiana, ci siano ancora queste pesantezze troppo conosciute
di ogni vita umana.
Meditiamo adesso le parole di
Gesù su Maria e su Marta. Maria viene lodata da Gesù, non perché è
momentaneamente inattiva, non perché è pigra, non perché è
indelicata essendo incosciente del carico che pesa su sua sorella.
Maria è lodata perché Gesù ha percepito il motivo profondo della sua
inattività, motivo molto lontano da ciò che lo sguardo umano, in
particolare lo sguardo di Marta, può capire. Reciprocamente, Marta
non è rimproverata da Gesù a causa del lamento che ha manifestato.
Gesù non la rimprovera di aver parlato come ha parlato, neanche di
essersi lamentata a proposito di sua sorella, e anche a proposito di
lui. Il rimprovero di Gesù a Marta riguarda, ancora una volta, la
dinamica profonda che abita in lei. Gesù è certamente sensibile alla
buona volontà di Marta, poiché torna volentieri da lei. Ma ha
percepito anche una debolezza spirituale che è abbastanza frequente:
Marta dimentica di godere della presenza del Maestro. Non è raro,
fratelli e sorelle, che ci lasciamo assorbire dalle cose da fare, e
anche dalle cose da fare per Dio e la sua Chiesa, ma che
dimentichiamo di godere di Dio. Fratelli e sorelle, stiamo
celebrando l’eucaristia. Prendiamo cura di godere dei doni di Dio.
Sappiamo gustare le sue grazie e approfittarne. Possiamo accogliere
il corpo e il sangue di Cristo con gratitudine. La vera gratitudine
implica il piacere, implica che non facciamo il muso davanti alle
grazie del Signore, ma che le accettiamo e ne approfittiamo
pienamente. Se, dunque, ci accade di ricevere una grazia di
consolazione, o un’illuminazione su ciò che dobbiamo fare, o una
grazia semplicemente di riposo in Dio, non disprezziamo ciò che ci
viene offerto e coltiviamo la felicità di conoscere il Signore. Ci
sono delle persone a cui una timidezza eccessiva impedisce di
usufruire mai di qualsiasi cosa. Non dobbiamo essere così col
Signore.
Un’ultima osservazione per
finire. L’atteggiamento di Gesù con l’amatissima Marta ci indica che
dobbiamo accettare che Gesù ci faccia dei rimproveri. Questa
accettazione si iscrive in una conversione molto profonda che è
anche una guarigione. È necessario che capiamo prima di tutto che
essere amato non è essere trovato irreprensibile, che essere amabile
non è essere irreprensibile, e che per amare, non abbiamo bisogno
che l’altro sia irreprensibile. Questa base è essenziale perché la
nostra relazione con Cristo sia sufficientemente libera e vera. La
qualità della nostra relazione con Cristo dipende della qualità
delle nostre relazioni affettive, e vice versa. Affidiamo dunque al
Signore i nostri cuori orgogliosi, e lui ci insegni la mitezza e la
gioia di saper amare con umiltà, che non significa amare
miseramente, anzi tutto il contrario.
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Domenica
11 luglio 2010
- XV Domenica del Tempo Ordinario -
fr.Massimo-Maria
La liturgia della Parola di questa domenica si apre con l’ultima
parte del terzo discorso che Mosè rivolge al popolo di Israele nel
libro del Deuteronomio.
Diversi imperativi si susseguono: “ Obbedirai…osserverai…ti
convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta
l’anima”. Questi imperativi sembrano mostrare con sorprendente
lucidità tutta l’esigenza della legge di Dio. Ma subito, nello
stesso discorso, la Parola di Dio, attraverso Mosè, rincuora e fuga
ogni scoraggiamento o abbattimento, che potrebbe nascere dal
raffronto tra l’esigenza grande della legge divina e la fragilità
evidente del cuore dell’uomo: “Questo comando che oggi ti ordino non
è troppo alto per te, né troppo lontano da te…questa parola è molto
vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta
in pratica.”
Accompagnati da questa Parola del Primo Testamento vogliamo ora
accostarci alla pagina evangelica.
Il brano del Vangelo di Luca, nel dialogo tra Gesù e il dottore
della legge, con la conosciutissima parabola del buon samaritano,
mette ora in evidenza quanto nel Nuovo Testamento l’esigenza della
legge divina non solo non si è indebolita, ma anzi approfondita
incredibilmente per il discepolo del Regno.
Tutto inizia da una domanda che il dottore della legge, in modo del
tutto lecito e comprensibile, rivolge a Gesù sul come guadagnarsi la
vita eterna.
Gesù, ha chiaro di avere davanti a sé qualcuno che conosce bene la
legge e, in un certo senso, forse per questo, gli permette di fare
sfoggio di cultura donandogli di pronunziare lui stesso la risposta
alla domanda che aveva appena posto, facendogli citare a perfezione
la legge. “ Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta
la mente e con tutte le tue forze…e il prossimo tuo come te stesso.”
A tale citazione della legge Gesù replica complimentandosi e
rassicurando: “ Hai risposto bene, fa questo e vivrai”.
Il dialogo poteva chiudersi così con una reale Parola di vita di
Gesù ed una bella figura del sapiente dottore della legge.
Di fatto il dialogo continua.
Il dottore della legge volendo giustificarsi pone una seconda
domanda: “ Chi è il mio prossimo?”Questa volta la risposta è il
Signore che la dona con la lunga Parabola del Buon Samaritano anche
se in realtà più che una risposta, la parabola, è un itinerario
attraverso cui il Signore Gesù vuole condurre il suo interlocutore
fino a farlo entrare nella novità del Regno, cambiando il suo
sguardo e convertendo il suo cuore.
Di fatto la risposta del dottore della legge, nella sua esatta
citazione della Scrittura non è incompleta, c’era già tutto, ma è la
sua comprensione che è parziale, in un certo senso falsata.
Guardiamo bene il testo! Subito dopo la domanda” Che cosa devo fare
per ereditare la vita eterna? “ Gesù risponde: “ Che cosa è scritto
nella legge? e poi aggiunge subito: Come leggi? C’è come una
distanza tra quanto è scritto, tra il suo profondo significato cioè,
e quanto il sapiente dottore comprende.
E’ proprio quel “come” da tenere presente. E’ proprio quel “ come “
da correggere per comprendere tutta l’esigenza dell’amore. E’ quel
“come” da cambiare per entrare nella novità del Regno.
Il dottore della legge si era accostato a Gesù volendo avere una
risposta esatta, oggettiva, fredda, distaccata, una norma chiara con
dei confini ben delimitati, con precise distinzioni e ineccepibili
separazioni. Voleva avere – per dirla con una certa ironia – come
delle precise istruzioni per l’uso, della strada per il Paradiso.
Ma Gesù non dà regole precise, propone l’orizzonte dell’amore che è
molto più vasto di norme e molto più esigente di regole definite una
volta per sempre.
“Come leggi?” aveva chiesto Gesù. Il voler cercare solo qualcosa da
osservare per avere la vita eterna e non la via della vita non
permetteva al dottore della legge di cogliere tutta l’esigenza
dell’amore.
Quel “ come” era da convertire.
Ne è prova ancora un secondo punto del dialogo tra Gesù e il dottore
della legge che chiede “ Chi è il mio prossimo?”
Gesù non risponde di fatto a questa domanda, ma piuttosto dice che
nell’amore è necessario “farsi prossimo”, piuttosto che individuare
scrupolosamente chi è il prossimo. Per ciò infatti,alla fine della
parabola il dottore della legge si sente girare la domanda: “ Chi ti
sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei
briganti?.
Fratelli e sorelle oggi la liturgia domenicale ci indica ancora,
nell’Amore, con audacia e impressionante chiarezza, la via della
vita. Forse ci dona di scoprire che anche noi spesso dobbiamo
passare da un atteggiamento di chi cerca nella Parola del Signore
delle rassicuranti norme da osservare per guadagnarsi il Paradiso
all’atteggiamento di chi in essa accoglie la via dell’amore, di un
amore che dona, che condivide, che si dona e che giunge sino ad
immolarsi.
Forse la Parabola del Buon Samaritano indica anche per noi il
cammino da compiere per essere meno “preoccupati” e più “occupati”;
meno preoccupati di salvarci cercando di conoscere bene chi è il
nostro prossimo, e più occupati a condividere il dono della salvezza
facendoci noi prossimo dei fratelli.
Il Vangelo ancora ci ripropone l’esigenza altissima dell’Amore. Ma,
come viverla? Il cuore potrebbe scoraggiarsi e il nostro animo
abbattersi. Eppure, tornando alla prima lettura vediamo che questa
Parola che ci è consegnata è nella nostra bocca, nel nostro cuore, è
davanti ai nostri occhi, cioè ci è reso possibile viverla. Questa
Parola infatti è il volto di Gesù che si è fatto nostro buon
samaritano e che a chi lo accoglie, a chi vive un reale rapporto di
amicizia con Lui, a chi ascolta con cuore docile e generoso la sua
Parola, a chi da Lui si lascia amare, dona di fare come ha fatto
Lui. Permette cioè, di amare come Lui ci ha amato e ci ama.
Permette, nel senso che rende possibile, a chi vive nella Sua
Amicizia, di percorrere la via della vita seguendo dietro di Lui la
via dell’Amore.
Amen.
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Domenica 3
luglio 2010 - XIV Domenica T.O. -
fr. David FMJ
Lc 10, 1-12.17-20
«La messe è abbondante,
ma sono pochi gli operai», dice Gesù. Questa visione del mondo come
un vasto campo di grano viene espressa in modo più sviluppato nel
vangelo secondo Giovanni. Qui, è soltanto evocata. Ma il contesto
nel quale la inserisce san Luca le dà un rilievo sorprendente.
Siamo subito dopo una svolta decisiva nel ministero di
Cristo, svolta che ci è indicata alla fine del capitolo 9 di san
Luca letto domenica scorsa: «mentre stavano compiendosi i giorni in
cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di
mettersi in cammino verso Gerusalemme». Quindi, Gesù si mette in
cammino verso la croce, e durante questo cammino volontario, libero,
coraggioso, anziché fermare il suo sguardo sulla crudeltà del mondo
che sta per rigettarlo e inchiodarlo sulla croce, vede un immenso
campo di grano. Quanto è impressionante quello sguardo. Tuttavia
attenti! Lo capiamo bene? Sicuramente non si tratta, da parte di
Gesù, di una sorta d'auto-convincimento per farsi coraggio. Gesù non
si sforza a guardare in modo positivo la conclusione drammatica che
– lo sa – chiuderà il suo ministero pubblico. In altri termini, Gesù
non cerca di convincersi che tutto va bene per difendersi da una
realtà troppo dura. Gesù sa meglio dei suoi discepoli e meglio di
chiunque lo spessore delle tenebre che sta per attraversare. Ma il
suo sguardo vede già aldilà della prova. Gesù pone sul mondo lo
sguardo di Dio stesso. Allora, il mondo appare come un immenso campo
di grano.
Fratelli e sorelle,
occorre dare qui un avvertimento: questa visione è propria di
Cristo. Siamo, quanto a noi, invitati ad accoglierla nella fede. È
nella fede che consideriamo anche noi il mondo come un immenso campo
di grano. Dire che è nella fede che lo sguardo di Cristo diviene il
nostro, è conservare una distanza tra la sua esperienza e la nostra.
In altre parole, non sappiamo sempre per esperienza che il mondo è
un campo di grano, ma lo crediamo. Ne decifriamo il significato,
fratelli e sorelle. Il campo di grano è un’immagine di fecondità, di
abbondanza, di prosperità. Dio solo sa come è possibile che questo
mondo sia così fecondo. Ci è proposto oggi di dare fiducia a Dio, al
potere che ha di rendere fecondo il mondo e le nostre esistenze. Ci
è chiesto di credere, non di vedere effettivamente il mondo come il
luogo dell’abbondanza, della prosperità e della fecondità secondo il
disegno divino.
Più concretamente, che
cosa significa tutto questo? Per rispondere a questa domanda,
possiamo già dire questo: il vangelo non ci chiede di fare come se
tutto fosse per il meglio nel migliore dei mondi. Possiamo allora
porci questa domanda: siamo capaci di riconoscere che non tutto va
sempre bene nella nostra vita? Sappiamo che non tutto va bene nel
mondo. Sappiamo anche che non tutto va bene nella Chiesa. Ma abbiamo
anche il coraggio di riconoscere tranquillamente che non tutto va
bene nelle nostre vite? Posso dire, senza che questo provochi
delusioni troppo forti, che non tutto va bene nelle nostre
Fraternità Monastiche di Gerusalemme, e che non tutto va bene nelle
vostre famiglie, che non tutto va bene nella mia vita e neanche in
ciascuna delle vostre vite? Ognuno di noi deve certamente affrontare
una moltitudine di preoccupazioni e di inquietudini. Non esiste
nessun posto e nessun ambiente che non abbia il suoi punti
problematici. Sembra che conosciamo a volte la tentazione di vedere
la fede come una specie di mondo a parte, dove tutto va bene, dove
non si respira altro che il rilassamento, il sollievo, l’assenza di
domande e di preoccupazioni. Ma occorrerebbe in questo caso
eliminare una quantità impressionante di versetti dal Nuovo
Testamento. Bisognerebbe cancellare il Getsemani. Bisognerebbe
riscrivere il racconto della Passione secondo Matteo e sopprimere
questo grido atroce del Figlio stesso di Dio, uno dell’indivisibile
Trinità, che urla al Padre «perché mi hai abbandonato». Nei sistemi
totalitari, tutto ciò che non entra nel modello è ignorato, negato,
eliminato. Abbiamo forse questa tendenza, a livello spirituale, di
forzare tutto ad entrare nella nostra comprensione personale e
limitata delle cose di Dio. Se abbiamo delle difficoltà ad accettare
i fatti, le situazioni, le domande che impediscono che la nostra
fede sia un sistema in grado di dare risposte a tutto, spiegare
tutto, e prevedere tutto, questo è il segno che ci siamo fabbricati
una religione che è in realtà una ricerca di evasione. Il
cristianesimo non è questo. Il cristianesimo è vasto, ricco, vero.
Il cristianesimo non è un sistema e non è un’evasione. È l’oceano
infinito dell’amore di Dio, l’abisso misterioso della Trinità.
Ma a che serve che il
vangelo voglia farci condividere lo sguardo del Signore sul mondo
quando il nostro sguardo è ostacolato da tante preoccupazioni? A
questa domanda, credo che si possa rispondere ricordando che,
probabilmente, il Signore ci ha già fatto la grazia di condividere,
più o meno durevolmente, il suo sguardo. Ci è già accaduto di vedere
il mondo e la nostra vita come un campo di grano. Occorre che
conserviamo nel nostro cuore il ricordo di questa esperienza. Che il
mondo sia un campo di grano senza che lo sappiamo sempre e senza che
possiamo sempre costatarlo, questo viene dal fatto che il Signore
solo è il maestro della mietitura. Sa vedere il grano che noi non
vediamo. C’è però una realtà più profonda di ciò che vediamo, ed è
la fecondità che Dio può suscitare. Questo significa che non
dobbiamo mai dichiarare una situazione irrimediabilmente infeconda.
Non dobbiamo negare che ci sia il fallimento. Ma non dobbiamo mai
affermare che ci siano fallimenti tali che Dio non possa farne
qualcosa di fecondo nel suo strano regno.
Signore Gesù, ti
rendiamo grazie per tutte le volte che ci hai concesso di
condividere il tuo sguardo divino sul mondo e sulla nostra vita. E
nei giorni in cui, invece, il mondo ci appare più come un vasto
deserto che come un campo di grano, donaci di avere fede nella
fecondità imprevedibile della tua grazia.
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giovedì
24 Giugno 2010
- Solennità San Giovanni Battista -
fr. Massimo-Maria FMJ
Giovanni il Battista:
davvero un gigante nel vasto orizzonte della Storia della Salvezza.
Gesù lo presenta
affermando che tra i nati di donna non c'è nessuno più grande di
Giovanni il Battista, e in seguito lo definisce come lampada che
arde e risplende.
Nel Prologo del suo
Vangelo Giovanni l'evangelista lo descrive come colui che doveva
rendere testimonianza alla luce.
Nei Vangeli appare
chiaramente che la sua nascita è stata prodigiosa, la sua vita un
segno forte e la sua morte una indubitabile testimonianza resa alla
Verità.
Ancora nei Vangeli è
lo stesso Battista a parlare di sé stesso. Sapendo bene di potersi
prestare ad un malinteso, quello cioè di essere scambiato per il
Messia egli si presenta: come la voce rispetto alla Parola; l'amico
dello sposo non lo sposo; il precursore inviato a preparare la
strada ad un altro di cui lui non si ritiene degno neppure di
slacciare i legacci dei sandali.
E infine la liturgia
della solennità, con precisione, nel prefazio della preghiera
eucaristica offre una descrizione essenziale ma completa di
quest'uomo, nato da una coppia sterile, capace di attirare folle nel
deserto, audace con i potenti fino a turbare il cuore del tenebroso
Erode, modello oggi nella Chiesa di chi nella sequela del Cristo è
chiamato ad essere indicazione leggibile del Regno non anteponendo
nulla all'amore del Cristo.
Non è difficile capire
come tanti sono gli aspetti e molteplici le luci che si sprigionano
dal Precursore. Tuttavia un elemento chiaramente si mostra, quasi si
impone in modo evidente e naturale: tutto in lui indica un Altro.
In quel dito teso ad
indicare l'Agnello di Dio, con cui l'iconografia di sempre lo ha
rappresentato riposa tutto il segreto ed il riassunto della sua
vicenda umana e di credente.
La sua vita ascetica e
la sua parola franca; il suo fare profetico e il suo andare nel
deserto; la sua esultanza nel grembo materno e la sua morte causata
da un re iniquo e prepotente; tutto in lui ha indicato il Messia e
Salvatore.
Se da una parte
incontrare oggi la sua figura attraverso la liturgia di questo
giorno ci pone nel cuore quel sano desiderio di radicalità e di
autenticità, di essenzialità e testimonianza, d'altra parte ci
obbliga a riconsiderare profondamente la dimensione profetica della
vita cristiana e consacrata.
E' curioso notare come
oggi anche all'interno della comunità ecclesiale ci sono come due
posizioni contrastanti. C'è chi si lamenta con rammarico che si
manca di profezia, non ci sono profeti, mancano lo spirito
profetico, scelte profetiche, persone profetiche. Ma da un'altra
parte c'è quasi un pullulare di persone che si dicono profetiche, di
realtà che si attribuiscono l'appellativo di profetiche, di
esperienze di vita cristiana che si pongono nell'onda della
profezia. Si notano movimenti, iniziative, itinerari e spiritualità
che tengono a sottolineare la dimensione profetica.
La figura di Giovanni
oggi non risponde alla domanda se manchiamo o no di profezia, ma
chiarisce che cosa rende davvero “profeta”; qual'è il tratto
essenziale perché si possa parlare di profezia nella comunità
cristiana. Dobbiamo quindi ritornare a quel dito teso ad indicare
l'Agnello.
Fratelli e sorelle il
profeta è tale – e Giovanni è eccellente esempio – perché indica
chiaramente il Signore.
Andare nel deserto,
vestire pelli di cammello e cibarsi di locuste, era profezia nel
Battista perché indicava la vicinanza del Salvatore. La parola
franca e la vita ascetica, il battesimo di penitenza e l'esultanza
dell'amico dello sposo in Giovanni era profezia perché indicava
l'Agnello di Dio.
Se tutto ciò non
avesse indicato il Signore, Giovanni sarebbe stato una persona
originale, per alcuni strana, per altri severa o controcorrente,
fuori dal tempo o di difficile comprensione per tanti, simpatica,
interessante, e capace di attirare l'attenzione per molti. Ma non
certo un profeta.
E' infatti
nell'indicare l'Altro con la A maiuscola che riposa la profezia; è
nel rimandare a Lui con chiarezza il proprio del profeta.
Nella storia della
cristianità ci sono state persone dall'ascesi più severa e dalla
parola più franca del Battista, che hanno attirato più gente e avuto
più successo del Precursore. Tutto è passato e ora dimenticato;
forse mancava proprio questo indicare solamente e radicalmente
l'Agnello.
Il nostro Libro di
vita, quasi riassumendo questo, con una parola audace e luminosa
nella sua semplicità, afferma: “ La tua vita indichi senza paura e
senza rumore il sentiero della Sorgente e Dio stesso accoglierà e
disseterà le anime assetate. I santi non hanno bisogno di essere
ascoltati: la loro stessa esistenza è un richiamo.”
Il Precursore
interceda per la Chiesa, perché ognuno in essa, nella fedeltà alla
propria chiamata, non si stanchi di indicare lo Sposo, l'Agnello di
Dio che dona la vita al mondo. Amen
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Domenica 20 giugno 2010
- XII Domenica T.O. C - fr.
David FMJ
Lc 9, 18-24
Finché tutto va bene, ci accontentiamo di
convinzioni molto semplici. Non voglio dire che dovremmo avere delle
convinzioni complicate. Ciò che chiamo convinzioni molto semplici
sono le convinzioni per le quali non abbiamo preso il tempo e
consentito la fatica di una meditazione seria. Forse Pietro risponde
a Gesù in questo modo. Gesù si complimenta per la sua buona
risposta: «sei il Cristo di Dio». Eppure, Pietro non tarderà a
dimostrare che non ha capito tutte le implicazioni della sua
risposta. «No, questo non ti accadrà mai!»: così egli protesta nel
vangelo secondo Matteo, quando Gesù annuncia per la prima volta la
sua Passione. Giuda non sarà l’unico a tradire Gesù. Anche Pietro lo
tradirà.
Anche a noi,
come a Pietro, accade di vivere secondo delle convinzioni sulle
quali forse non abbiamo abbastanza riflettuto. Quando però vengono i
problemi, le stesse convinzioni, all’improvviso, spariscono, perché
non resistono alla prova della realtà. Non perché erano radicalmente
false! Ma perché non avevano messo radici, come dice la parabola, e
in periodo di aridità, disseccano e muoiono. Non è colpa loro. È
colpa nostra. Prendiamo per esempio le domande del Padre Nostro.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano», preghiamo noi che abbiamo
pane in abbondanza. E coloro che hanno fame? Forse che Dio non li
ascolta? E la nostra fede nella risurrezione: quando la terra si
racchiude su una bara, il «come» della risurrezione diviene una
domanda imbarazzante alla quale anche un san Paolo non sa che cosa
rispondere. E la nostra fede nella grazia: come mai pecchiamo
ancora, mentre, come scrive san Paolo, siamo stati liberati dal
peccato? E il comandamento di amare i nemici: è accettabile finché
non abbiamo nemici. Che fare però quando scopriamo che abbiamo veri
nemici? Ci sono situazioni dove l’amore per i nemici e la lotta per
la giustizia – che è anche una beatitudine – sembrano difficilmente
compatibili.
Non si tratta di
trovare sempre una risposta definitiva per ciascuna domanda della
nostra fede. Colui che vuole sempre avere una risposta a tutto corre
un gravissimo pericolo spirituale: quello di prendere il posto di
Dio. Ma l’atteggiamento opposto è ugualmente pericoloso: non si può
rinunciare a porre tali domande sotto il pretesto che Dio stesso
darà la risposta – dovremmo piuttosto dire che Dio è la risposta –
perché questo sarebbe una dimissione, una diminuzione della nostra
capacità ad agire con libertà, ad amare intelligentemente. Dio non
si è rivelato a noi per sostituirsi alla nostra libertà, ma al
contrario perché l’amiamo e lo serviamo con tutte le nostre forze,
tutta la nostra intelligenza, tutta la nostra anima, e quindi, in un
certo senso, con tutte le nostre domande. Per la Bibbia, la
rivelazione di Dio non estingue le domande degli uomini e non fa
tacere il grido del mondo. Proprio al contrario, essa li porta al
loro culmine. La fede non è la gestione di uno stock di risposte già
pronte.
Oggi, Gesù
stesso ci mette in imbarazzo chiedendoci: «voi, chi dite che io
sia?». Questa domanda merita che ci fermiamo e la meditiamo.
Soltanto così entreremo dentro il testo, cioè questo cesserà di
apparirci come un racconto molto semplice da credere senza
riflettere, ma si aprirà come un dialogo che nasce tra il Signore e
noi. Quindi chiediamoci: noi, chi diciamo che Gesù sia? Non
rispondiamo con troppo fretta citando un concetto o un articolo del
catechismo. Certo, Gesù è il Cristo. Certo, è il Figlio di Dio,
della stessa sostanza del Padre. Ma queste risposte, pure esatte,
non rispondono a tutte le dimensioni della domanda. Infatti, quando
domando: «e io, chi dico che Gesù sia?», non pongo soltanto una
domanda sull’ortodossia della fede, ma anche una domanda sulla mia
relazione personale con il Cristo. Ora, l’ortodossia di una risposta
non ci garantisce che abbiamo un atteggiamento giusto nei confronti
del Signore. Tutto sommato, nei vangeli, i primi a confessare che
Gesù è il Cristo Figlio di Dio sono i demoni, prima degli apostoli.
Allora, noi, chi diciamo che sia Gesù? Cioè, che facciamo della
nostra fede in lui? Nel corso storico, Gesù Cristo è stato
rappresentato con gli attributi temporali dell’impero bizantino, e
la speranza escatologica di una vita nuova nell’altro mondo è
servito a giustificare vari egoismi politici. Al contrario, Gesù
Cristo è stato utilizzato come simbolo della classe degli oppressi,
e il suo santo nome è stato mescolato a delle guerriglie sanguinose.
E noi, non abbiamo mai ridotto Gesù alla nostra causa?
Non abbiamo mai fatto di lui, senza
chiedergli il suo punto di vista, la giustificazione dei nostri
comportamenti, l’appoggio per le nostre battaglie – a volte così
personali che esprimono più le nostre mancanze che una vera
generosità? O al contrario, non abbiamo mai fatto di Gesù la ragione
della nostra tranquillità egoista? C’è un modo santo di fare appello
alle esigenze del vangelo, alla grazia, all’abbandono a Cristo, alla
fiducia, un modo autenticamente cristiano e spirituale, e ce ne è un
altro che è una deviazione, al servizio di interessi personali.
È notevole che
Gesù faccia seguire la domanda «voi, chi dite che io sia»
dall’annuncio della sua Passione. Là, nel dono totale e perfetto che
Gesù fa di se stesso a Dio per la salvezza del mondo, c’è una
dimensione che fa scoppiare tutti i nostri schemi riduttori e tutte
le nostre utilizzazioni non caste del suo santo nome. L’amore di
Cristo è così perfetto da essere sempre al di là delle nostre
categorie mentali. Un segno di salute spirituale cristiana sta nel
percepire Gesù nella sua stranezza, se così si può dire. Quando
possiamo dire: «Sei vicino Signore, ma nello stesso tempo, sei
sempre al di là di ciò che penso di te e su di te; sei sempre
altro», quando preghiamo così, allora entriamo nella relazione casta
col Signore, e la domanda che ci pone oggi nel vangelo diviene la
domanda della nostra vita.
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Domenica 13 giugno 2010
- XI Domenica T.O. - fr.
Massimo-Maria FMJ
Nei Vangeli Gesù spesso accoglie
degli inviti a pranzo e in tale contesto di familiare amicizia,
parla, insegna, compie gesti.
Nel testo di Luca, che la
liturgia ci offre in questa domenica, il Signore entra a casa di un
fariseo, Simone, e si mette a tavola.
Con un gesto audace e
quasi invadente, una donna peccatrice raggiunge Gesù e con sorpresa
generale, tenendosi ai piedi del Maestro li bagna con le sue
lacrime, li bacia e li asciuga con i suoi capelli.
Nello sconcerto generale,
tanti mormorano sorpresi dal fare della donna e interrogati dal
lasciar fare di Gesù.
Si capisce dal testo che
Gesù, lasciando appunto fare, in silenzio, pare più attratto dal
mormorio interiore di Simone che lo aveva invitato, che dai gesti
esteriori della donna.
Il cuore di Simone
mormora, giudica e arriva persino a conclusioni: “se fosse un
profeta saprebbe chi e che genere di donna è questa!”.
E’ Gesù che rompe il
silenzio dello stupore e dello sconcerto generale. “Simone, ho una
cosa da dirti!”
Il fariseo probabilmente
nel suo cuore pensa che finalmente Gesù avrebbe spiegato, magari
prendendo posizione contro questa intrusa e risolvendo una
situazione tanto incresciosa.
Gesù in realtà parla a
Simone perché è lui che deve operare una conversione, la donna l’ha
già fatto, le lacrime e i gesti di fede amorosa verso Gesù sono il
segno esterno di un mistero di salvezza già operato nel suo cuore.
E’ Simone che deve
cambiare strada. Nella parabola dei due debitori Gesù smonta pezzo
per pezzo tutte le sicurezze di Simone sulla sua presunta
giustizia, Gesù mina la sua religiosità fatta di ragionamenti e
giudizi impeccabili, ma in cui manca l’Amore, la Misericordia, la
Gratuità.
A ben leggere il Vangelo,
Simone parrebbe sulla buona strada per fare questo passaggio. “Parla
pure, Maestro” dice a Gesù. Risponde bene al quesito che Gesù gli
pone alla fine del racconto.
Che grande mistero!
Simone credeva di essere giusto e giudicava severamente la donna.
Ora Gesù nel suo spiegare la parabola presente a Simone la donna
come modello di fede e di amore.
“Ti sono perdonati i tuoi
peccati: va in pace!” è la parola di salvezza che consente il
cammino di questa donna ed è la possibilità che Gesù vuole offrire a
Simone, agli altri commensali che ancora non capiscono e mormorano,
è la parola che il Signore pronuncia per chi, pur riconoscendo la
sua fragilità non smette di amare.
Fratelli e sorelle, nella
nostra esperienza religiosa verso Dio e nella nostra vita di
relazione con gli altri e perfino con noi stessi è importante vivere
nella giustizia, ma il primato resta all’Amore.
Eliot il poeta di lingua
inglese vissuto nel secolo scorso ha un passaggio ce ci sorprende e
fa tanto riflettere: “Talvolta gli uomini costruiscono dei sistemi
talmente perfetti in cui non è più necessario essere buoni” Quando
questo avviene nell’esperienza religiosa è in pericolo la santità.
E’ il caso di una religiosità, di una vita fraterna o di una vita di
relazione nella società in cui c’è la funzionalità, la perfezione
delle forme, l’osservanza di leggi, ma non c’è posto per la gratuità
dell’Amore, la paziente speranza, la forza del perdono, la
semplicità della bontà, la gioia della benevolenza.
Davvero Simone e la
peccatrice sono per noi oggi maestri per rifare nella nostra vita il
primato all’Amore, alla Misericordia e camminare sulla via della
pace.
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Domenica 6 giugno
2010 - Corpus Domini - fr. David FMJ
Signore Gesù, il Santissimo Sacramento non è
ancora sul tuo altare, ma sei già tra di noi. Non abbiamo aspettato
la consacrazione del pane e del vino per pregare nel tuo nome,
perché sei già presente. Forse abbiamo tendenza a dimenticare che
sei presente dovunque. È paradossale, ma sembra che una pietà
eucaristica non sufficientemente illuminata ci nasconda la tua
onnipresenza. Signore, sei presente dovunque, e a volte ci
comportiamo come se abitassi soltanto nei tabernacoli, come se il
Santissimo esposto sul tuo altare fosse una sorta di telefono senza
il soccorso del quale non ci sentiresti più, come se ci fosse da un
lato il vasto mondo e dall’altro le chiese. Ma il mondo è tuo, ed è
in tutto e dappertutto che dobbiamo adorarti. «Viene l’ora – dicevi
una volta alla Samaritana – in cui non è né sul Garizìm né a
Gerusalemme che adorerete il Padre, perché i veri adoratori
adoreranno il Padre in Spirito e verità: così infatti il Padre vuole
che siano quelli che lo adorano». Signore Cristo, se ti dai a noi
nell’alimento consacrato, nel segno del pane e del vino diventati
davvero il tuo corpo e il tuo sangue, se così sei presente nella
realtà eucaristica, non è perché
trascuriamo di vivere sempre e ovunque alla tua presenza.
L’eucaristia nutre la nostra fede, la nostra fedeltà e la nostra
costante attenzione alla tua presenza. Fa che non opponiamo mai la
tua presenza eucaristica alla tua onnipresenza, che non separiamo
mai la nostra fede dalla realtà, che non facciamo più come se ci
fosse da un lato il mondo profano e dall’altro le chiese, perché noi
siamo tuoi per formare la pienezza del tuo corpo e affinché la
creazione intera diventi il tuo tempio.
Signore Cristo, sei già presente tra noi
perché ce l’hai promesso: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome,
lì sono io in mezzo a loro». Eccoci, Signore, radunati nel tuo nome,
eccoci riuniti nella Chiesa. La Chiesa si raduna e lo Spirito Santo
che la fa vivere è il tuo Spirito come è lo Spirito del Padre. Con
questo legame intimo e costitutivo della Chiesa con lo Spirito
Santo, sei davvero presente, sei presente realmente e autenticamente
nella tua Chiesa. Signore Cristo, la nostra assemblea sia
un’assemblea eucaristica, la nostra assemblea sia un’assemblea
ecclesiale. Dacci di non separare mai la tua presenza eucaristica
dalla Chiesa. L’uomo non separi mai ciò che Dio ha unito. Sei lo
sposo della Chiesa, e la sua santità è la tua fedeltà. Separiamo
l’eucaristia dalla Chiesa ogni volta che prendiamo l’ostia
consacrata soltanto per noi stessi, ogni volta che ti ricerchiamo
egoisticamente, come un conforto e
una forza per noi stessi, senza preoccupazioni per la comunità
cristiana e per il mondo, ogni volta che prendiamo l’eucaristia con
delle riserve, rifiutando di sentirci legati alla Chiesa. Eppure,
non c’è eucaristia senza la Chiesa, e non c’è pienamente la Chiesa
quando non c’è l’eucaristia. Il dono del tuo corpo, Signore Gesù, è
nello stesso momento il dono della Chiesa. Donaci di non ignorare le
vaste dimensioni della fecondità della tua eucaristia.
Signore Gesù,
sei la Parola di Dio diventata uomo. Questa Parola è un impegno.
Dio, in te, ha sigillato una promessa. Questa promessa di Dio, tu
l’hai firmata col tuo sangue, l’hai testimoniata col dono della tua
vita. Signore Gesù, sei Dio con noi, fino al dono del corpo e del
sangue, fino al dono insuperabile, al dono senza riserve, al dono
del più perfetto amore. È la tua morte che celebriamo, il tuo
sacrificio che commemoriamo, la tua
vita che riceviamo, la tua risurrezione che proclamiamo, la nostra
risurrezione che aspettiamo. La celebrazione eucaristica raduna il
mistero intero della Parola di Dio rivelata, data, offerta e
vittoriosa. Concedi, Signore Gesù, che non separiamo mai
l’eucaristia e la Parola. Fa che l’atto di comunicarsi sia un
impegno da parte nostra nei confronti del tuo vangelo. Possiamo dire
«amen» per riconoscere la tua presenza eucaristica. Possiamo dire
«amen» per esprimere la nostra riconoscenza, perché ci hai
dimostrato il tuo amore. Il nostro «amen» sia poi, a sua volta, un
impegno, il nostro impegno. Possiamo comunicarci con la coscienza
sempre più forte che ci impegniamo a vivere il tuo vangelo fin nel
nostro corpo. |
Domenica 27 maggio
2010 - Santissima Trinità -
fr. David FMJ
La fede nella Trinità, la viviamo. Voglio dire
con questo che il nostro modo di vivere la fede è una conoscenza
implicita del mistero trinitario. O ancora, che il mistero
trinitario è per noi una realtà viva. Senza la Rivelazione, non
avremmo mai conosciuto che Dio è Trinità. Ma questa Rivelazione
della Trinità ci dà l’intelligenza di ciò che si potrebbe chiamare
lo stile di Dio.
Guardiamo per esempio come ci riferiamo alla
Sacra Scrittura. Poniamoci la domanda seguente: la Rivelazione è per
noi un insieme di decreti divini, scesi dal cielo, contenuti in un
libro sacro, e ai quali occorre aderire con una sottomissione che
non richiama intelligenza ma soltanto obbedienza, o invece la
Rivelazione è il fatto che Dio è venuto incontro all’uomo con lo
Spirito Santo, che rende sapienti illuminando l’armonia della
creazione, inspirando gli autori della Bibbia, dando agli autori
sacri l’intelligenza degli avvenimenti che riguardavano loro e che
annunziavano Cristo, cioè, colui che, rivestito della pienezza dello
Spirito Santo, è la Parola di Dio diventata uomo? Per rispondere
all’alternativa – o … o – occorre ribadire con forza il paragrafo
108 del Catechismo della Chiesa Cattolica: «La fede cristiana non è
una ‘‘religione del Libro’’. Il cristianesimo è la religione della
‘‘Parola’’ di Dio: di una Parola cioè che non è ‘‘una parola scritta
e muta, ma il Verbo incarnato e vivente’’». E questa comprensione
cristiana della Rivelazione riceve, a partire del mistero
trinitario, una luce lampante. Dio, infatti, è in se stesso
comunione, comunicazione in se stesso del proprio mistero, dialogo
intimo, incessante scoperta di se stesso. Dio dice a se stesso chi
è, e perché è amore, questa Rivelazione intima di Dio a se stesso e
in lui stesso è la comunione indivisa del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo. Ed è suscitando così la relazione all’interno di se
stesso, e quindi la differenza in se stesso, che Dio esprime la
pienezza del suo essere. Ma allora la comprensione cristiana della
Rivelazione diviene intelligibile, perché diviene conforme, se si
può dire, allo stile relazionale di Dio. È con il relazionarsi con
gli uomini, con un popolo che si è scelto, che Dio si è rivelato, e
non nel decidere, un bel giorno, di imporre al mondo un sistema già
fatto di decreti e di dottrine. Dio si è rivelato in una storia,
attraverso degli incontri. La Rivelazione conosce dunque un
progresso, porta la marca umana di coloro che sono stati i testimoni
privilegiati di questo Dio venuto incontro a noi. Non leggiamo tutti
i testi della Sacra Scrittura mettendoli tutti allo stesso livello,
ma leggiamo la Bibbia tenendo conto della sua storia che culmina con
Gesù Cristo. Non leggiamo la Bibbia senza interpretarla, perché non
c’è Rivelazione senza la mediazione umana. E proprio perché non c’è
Rivelazione senza mediazione umana, non interpretiamo la Bibbia
fuori della Chiesa. E non c’è Rivelazione senza mediazione umana,
perché il Dio che si rivela è amore, è comunione in se stesso, e di
conseguenza, ciò che ci rivela di lui stesso suscita la comunione e
non può essere capito fuori di una realtà concreta di comunione.
Fratelli e sorelle, il modo con cui leggiamo la Bibbia nella Chiesa
porta in se una conoscenza implicita del mistero trinitario.
Guardiamo ancora un’altra cosa, fratelli e
sorelle. Domandiamoci come viviamo come cristiani la nostra libertà.
Dio è colui che fonda, protegge e fa crescere la nostra libertà, o
invece colui che vessa, contraria e costringe la nostra libertà?
Occorre ribadire con forza ciò che dice la Dichiarazione
Dignitatis Humanae del Concilio
Vaticano II nel suo paragrafo 10: «Un elemento fondamentale della
dottrina cattolica, contenuto nella parola di Dio e costantemente
predicato dai Padri, è che gli esseri umani sono tenuti a rispondere
a Dio credendo volontariamente; nessuno, quindi, può essere
costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Infatti,
l'atto di fede è per sua stessa natura un atto volontario, giacché
gli essere umani, redenti da Cristo Salvatore e chiamati in Cristo
Gesù ad essere figli adottivi, non possono aderire a Dio che ad essi
si rivela, se il Padre non li trae e se non prestano a Dio un ossequio
di fede ragionevole e libero». Di nuovo, è dal mistero trinitario
che questa affermazione riceve luce. Dio Trinità è amore di
comunione, ciò che implica nello stesso momento ricchezza e umiltà.
L’umiltà di Dio, per riprendere così l’affermazione audacie di
François Varillon, è il Padre che ha dato tutto al Figlio, il Figlio
che glorifica il Padre e compie la sua opera, e lo Spirito che
riceve dal Padre e dal Figlio, e che conduce al Padre e al Figlio.
Ma qui si tratta anche di ricchezza, perché c’è, in questa
circolazione di amore trinitario, un carattere di fecondità, la
realtà di un generare eterno. Dio, con la sua umiltà, è fecondo. Ma
allora, se Dio è colui che suscita
l’alterità generandola in se stesso e creandola fuori di se stesso,
se tale è lo stile umile e fecondo dell’amore divino, allora la
nostra esistenza libera, responsabile, la nostra fede adulta, matura
e liberamente offerta, gli rendono davvero omaggio. Il primo
comandamento del libro della Genesi, quando Dio ordina a l’essere
umano di essere fecondo e di dominare sulla creazione, trova qui,
cioè nella rivelazione trinitaria, la sua spiegazione più profonda.
Non dobbiamo temere che la nostra crescita in maturità e in libertà
offenda Dio. La nostra obbedienza credente non deve essere stupida e
passiva, ma deve impegnare tutte le risorse del nostro essere, deve
volersi feconda. Ed è perché l’amore e l’obbedienza evangelici sono
sempre nello stesso momento un amore intelligente e un’obbedienza
creatrice, e non un’emozione vaga e una subordinazione sospetta.
Fratelli e
sorelle, il nostro modo di vivere da cristiani è una professione di
fede trinitaria. Questo mistero che ci supera, ne abbiamo una
conoscenza intima, quasi esperimentale. Questa eucaristia sia, una
volta di più, il compimento liturgico e sacramentale della triplice
luce che crea, salva e vivifica.
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9 maggio 2010, VI
Domenica del tempo pasquale - fr. David
FMJ
Gv. 14-23-29
«Se mi amaste»,
dice il Signore Gesù Cristo. La lunga storia della rivelazione trova
il suo primo compimento nella morte e risurrezione di Cristo, e il
suo ultimo compimento nel ritorno di Cristo, quando sarà tutto in
tutti. Però, questo «se mi amaste» che abbiamo sentito oggi, questa
domanda, o piuttosto questa sollecitazione, è la chiave
d’interpretazione della rivelazione. Dio creatore … Dio maestro
della storia … Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe … Dio delle
Alleanze … Dio di Gesù Cristo … eppure, oseremmo dire, Dio che, per
finire, in Gesù Cristo, ci interroga, ci sollecita. «Se mi amaste»,
chiede Gesù. «Se mi amaste», chiede Dio.
C’è un contrasto
sorprendente tra la maestà di Dio e la semplicità della domanda: «se
mi amaste». Sotto un certo punto di vista, questo contrasto provoca
insicurezza. Infatti, le cose sarebbero molto più semplici se Dio si
accontentasse di comandare, legiferare, arbitrare. Ecco invece che
ci chiede di amarlo. C’è un codice civile, un codice stradale, ci
sono regole innumerevoli per tutte le nostre attività, e c’è il
vangelo, e il vangelo si rifiuta di essere una regola supplementare.
È una chiamata, una missione, una responsabilità. Sopratutto, è un
volto, quello di Gesù Cristo, che ci guarda e ci dice «se mi
amaste». Questa sollecitazione al modo condizionale ci complica
singolarmente il compito. Ci complica la religione. Obbedire,
praticare, testimoniare, questo è ancora abbastanza semplice. Ma
l’amore, e l’amore per Gesù Cristo, l’amore per colui che ha
manifestato l’amore perfetto e senza limiti, questo diviene
complicato. Complicato ma non incomprensibile. Complicato, ma non
tuttavia nel senso in cui una teoria è complicata, o un ragionamento
è complicato. Complicato piuttosto nel senso che bisogna mettersi di
buona volontà, bisogna inventare, rischiare se stessi, lasciarsi
cogliere in fallo, accettare di riconoscere che non siamo
all’altezza. Complicato nel senso che bisogna rispondere con tutto
noi stessi: la nostra libertà, i nostri bisogni, i nostri limiti, i
nostri ideali, i nostri desideri. Complicato in questo senso, che
non c’è una ricetta, ma un rischio da prendere, non c’è una regola
ma il dono di se da consentire, non c’è un cammino tutto segnalato
ma la via della croce che apre sull’abisso infinito di Dio. Siamo
ben smarriti. Dio non è, dunque, il gran direttore generale degli
affari universali che ci comanda ciò che bisogna fare e pensare, ma
è colui che, in Gesù Cristo, dice a ciascuno di noi: «Se mi amerai,
dimorerai fedele alla mia parola e ti rallegrerai».
Ecco quindi il
programma. Andare alla messa, ma per amore. Resistere alle
tentazioni, ma per amore. Mettere in pratica il vangelo, ma per
amore. Testimoniare, ma per amore. Per amore e non per farci santi
ai nostri occhi, né per guardarci nello specchio della nostra vanità
spirituale, né per avere la garanzia di essere sul buon cammino e di
aver ragione, neanche, in un certo senso, per andare al cielo,
sebbene si aspira ad essere con colui che amiamo. Per amore,
soltanto per amore. Ora, sappiamo che non avremo mai abbastanza
amato.
Fratelli e
sorelle, c’è ancora qualcosa da prendere in considerazione. Ed è che
Dio, in suo Figlio Gesù Cristo, parla un linguaggio che capiamo. Non
avremo mai abbastanza amato. Ma sappiamo tuttavia ciò che amare
significa. Noi che siamo cattivi, come dice Gesù, sappiamo pure dare
ai nostri figli buone cose. Quanto più Dio, quanto più il nostro
Padre ci consentirà il dono dello Spirito Santo se glielo chiediamo?
C’è questo «quanto più» che segnala la distanza infinita tra l’amore
di Dio e il nostro povero amore umano. Nonostante questa distanza
infinita, sappiamo riconoscere l’amore. Non è che accettiamo sempre
di riconoscerlo. Perché l’amore non si presenta mai senza esigere
una risposta che può spaventarci. Possiamo ingannarci e rigettare
l’amore. Possiamo prendere un’aria sostenuta e dichiarare che ci
sono delle cose più serie e che siamo occupati. Ma necessita
allora tanta energia, tanta violenza, tante tensioni interiori per
far tacere in noi la chiamata ad amare e ad essere amato. È proprio
perché Dio sveglia in noi questa chiamata e parla un linguaggio che
capiamo così intimamente che ci trova spesso così armati contro di
lui. È stupendo di vedere che l’amore è così semplice ed evidente
circa la chiamata iscritta profondamente in noi, e così complicato
circa le risposte che cerchiamo di dare. Forse è questo che realizza
in noi lo Spirito Santo promesso da Cristo, questo disarmo interiore
che ci insegna a rispondere con sempre più semplicità alla nostra
vocazione essenziale, cioè vivere per amore e per Dio.
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25
aprile 2010 - IV domenica del tempo
pasquale - fr. David FMJ
Gv. 10, 27-30
La liturgia ha scelto per questa quarta domenica del tempo pasquale
un testo davvero molto breve. Tuttavia, questo testo è molto denso è
permette più osservazioni. In primo luogo, è opportuno
ricordarci in quale momento del
vangelo secondo Giovanni ci troviamo. Le parole del Signore Gesù che
abbiamo appena ascoltato si trovano tra due miracoli operati tutti e
due a Gerusalemme: la guarigione del cieco nato e la risurrezione di
Lazzaro. “Dò la vita eterna alle mie pecore”, dice Gesù. “Nessuno le
strapperà dalla mia mano”. Queste affermazioni così forti sono come
un'introduzione all'episodio della risurrezione di Lazzaro. Questo
miracolo accade in un momento in cui le tensioni sono molto vive tra
Gesù e le autorità religiose del suo popolo. La guarigione del cieco
nato ha già provocato la collera dei Farisei e quasi uno scandalo
pubblico: la gente discute per sapere se il miracolato è proprio
colui da sempre conosciuto come cieco; costui è convocato, i suoi
genitori anche, e viene loro intimato di spiegarsi; l'identità di
Gesù e la sua santità sono al centro di discussioni piene di
polemiche e di insulti. Il secondo miracolo, la risurrezione di
Lazzaro, condurrà queste tensioni all'estremo, con la riunione del
Consiglio e la condanna a morte di Gesù da parte del sommo
sacerdote. In questa dinamica drammatica che conduce Gesù verso la
croce risuonano queste parole che precedono immediatamente il brano
letto oggi: “le opere che io compio nel nome del Padre danno
testimonianza di me. Ma voi non credete”.
Il
nostro contesto, fratelli e sorelle, è molto diverso. Ascoltiamo
queste parole durante l'eucaristia in un tempo liturgico segnato
dalla gioia fresca della notte di Pasqua. Queste parole sono per noi
parole di consolazione. Ascoltiamole ancora una volta. “Nessuno può
strappare le mie pecore dalla mia mano”, ci dice Gesù. “Ascoltano la
mia voce, mi seguono, ed io dò loro la vita eterna”. Queste
affermazioni non sono oggi per noi una risposta per le rime da parte
di Gesù, ma sono parole rivolte a noi e che ci consolano. C'è, però,
una condizione per cui queste parole siano davvero di
sollievo: questa condizione è l'umiltà. Tali parole sono un sollievo
soltanto dopo che abbiamo fatto esperienza della nostra fragilità.
Ci sono certamente momenti particolari della vita per farla. Non ci
riconosciamo spontaneamente pecore in cerca del loro pastore, non
soltanto perché siamo orgogliosi, ma anche perché ogni sforzo umano,
ogni sforzo adulto, va nella direzione opposta. Ci sforziamo di
bastare a noi stessi, di prendere in mano la nostra vita, di
decidere responsabilmente il nostro destino. E abbiamo ragione.
Tuttavia, viene un bel giorno in cui capiamo quanto siamo impotenti,
quanto infatti siamo dipendenti da fattori che non siamo in grado di
dominare, quanto le decisioni da prendere ci si presentano senza
chiarezza e sono quindi per noi un rischio da correre. Si tratta qui
di un'esperienza di morte più profonda della semplice scomparsa
fisica. Facciamo infatti esperienza della nostra incapacità a
giustificare la nostra esistenza, a renderla non criticabile, a
darle un senso che resista alle contraddizioni che inevitabilmente
incontriamo lungo l'esistenza. Le parole di Gesù sono allora davvero
un conforto. Non istruzioni per l'uso che ci consentirebbero di non
correre i rischi propri dell'esistenza umana, ma un conforto perché
non abbiamo da creare noi stessi un senso alla nostra vita, perché
non abbiamo più la pretesa di rendere la nostra vita inconfutabile,
invulnerabile, piena, ricca, compiuta. Per tutto ciò ci consegniamo
al Signore, al suo amore, allo Spirito che ci ha dato.
Concludiamo con un'ultima
osservazione, fratelli e sorelle. Le parole di Gesù che ci riporta
oggi il vangelo secondo Giovanni, sono state scritte dopo la
risurrezione del Signore. Il contesto in cui sono state pronunciate
da Gesù differisce dal contesto in cui il vangelo le ha ricordate.
L'evangelista era come noi un credente, qualcuno che sapeva che
Cristo è risorto. Quando mette quindi sulla bocca di Gesù parole
così forti, lo fa avendo alle spalle la certezza della risurrezione
di Cristo, quindi con la consapevolezza che le parole di Gesù sono
del tutto credibili. “Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia
mano”, dichiara Gesù. Sappiamo, come l'evangelista, che neanche la
morte ha potuto separare Gesù dalla sua Chiesa. Questo punto è
importante per capire perché le parole di Gesù sono consolanti per
noi. Non solo perché sono parole sublimi e piene d'amore, ma perché
sono vere, cioè perché il Cristo è veramente risorto e perché ci dà
veramente la sua vita nell'eucaristia. La consolazione cristiana è
profonda perché è vera. Questo significa che la gioia cristiana non
appartiene soltanto all'entusiasmo e alle emozioni religiose, ma che
ha la chiarezza del dogma, cioè che risponde al criterio di verità.
“Io e il Padre siamo una cosa sola”, dice Gesù. Credere in lui è
necessariamente raggiungere questo livello di profondità in cui non
godiamo soltanto delle parole che ci dice, ma in cui ci impegniamo a
proposito della sua identità. Dichiariamo: “credo che sei il Cristo,
colui che è una cosa sola col Padre”. Suggelliamo quest'atto di fede
nel gesto sacramentale dell'eucaristia e nella testimonianza di una
vita secondo il vangelo. Oggi, l'ammettere che la vera gioia non può
fare a meno della verità è spesso trascurato mentre noi, cristiani,
possiamo fare un'affermazione più precisa e dire: la verità è
portatrice di gioia, perché Cristo è risorto e niente, nessuno,
potrà mai strapparci dalla sua mano.
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martedì 6 aprile 2010 -
Ottava di Pasqua - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
possiamo scoprire l’importanza della domanda fatta da Gesù a Maria:
“perché piangi? chi cerchi?”, solo quando ci ricordiamo della
domanda fatta da Dio ad Adamo: “dove sei?”.
La domanda, che nostro padre ha udito dopo il peccato, quando si
nascondeva a per la paura, ha aperto il lungo cammino di Dio alla
ricerca dell’uomo, pecora perduta. “Dove sei?” sulla bocca di Dio
significa, infatti, un lamento amaro: “Figlio mio, figlio mio,
perché mi hai abbandonato?”. Significa anche le lacrime dell’uomo
che, senza Dio, non può trovare il suo posto sulla terra, nasce e
vive soltanto con grande dolore, perso in un grande universo. “Dove
sei?” significa, infine, che Dio si è messo a cercare l’uomo. Se
oggi sentiamo Dio chiedere alla donna “perché piangi?”, siamo
testimoni della fine della ricerca. Ecco il Pastore ha ritrovato la
sua pecora, se la carica sulle spalle pieno di gioia, va a casa con
lei e, parlandole cerca di calmarla. Dio ha compiuto così la sua
opera: mediante Cristo, morto e risorto, si è riunito all’umanità…
Ma questa domanda significa anche, che c’è ancora tanto lavoro da
fare. Dio ha trovato l’uomo, non gli chiede più dov’è, ma gli parla
direttamente. Ora è l’uomo che deve trovare Dio. Per questo
chiedendo a Maria di Màgdala: “Donna, perché piangi?”, il Signore
aggiunge: “chi cerchi?”. Questa domanda è infatti la voce che invita
l’uomo a cercare Dio, che è di nuovo presente in lui.
Il pianto dell’uomo è nato dal peccato, dalla perdita di Dio, ma ora
– dopo la morte e la risurrezione di Cristo – tutto è cambiato.
Maria, vicino al sepolcro, non piange, perché Gesù è morto, perché
l’ha perso, ma perché non trova più il suo corpo sepolto… E anche se
Cristo è già vivo, lei parla ancora di lui come di un morto: hanno
portato via il mio Signore… non so dove l’hanno posto… andrò a
prenderlo… Sì, Dio ha fatto la sua opera, ma l’uomo non è ancora
entrato in essa. La domanda di Gesù: “perché piangi? chi cerchi?” è
quindi invito a entrare nella vita nuova. Piangi, perché hai perso
Dio? Ma guarda, Dio è là! Cerchi il paradiso perduto, l’unione con
Dio distrutta, il Crocifisso? Tutto questo non esiste più! La terra
è unita al cielo, Dio si è fatto uomo, il Crocifisso è risorto!
L’invito di Cristo è molto delicato e personale, rivolgendosi a
Maria Gesù la chiama per nome. E quando Maria entra nell’opera
salvatrice di Dio, quando incontra il suo Maestro, con la gioia
perfetta che nessuno può più toglierle, dice ai discepoli: “Ho visto
il Signore!”. Questa volta parlando del Signore non intende il corpo
sepolto, ma il corpo vivo e glorioso, non intende il morto, ma il
vivente.
Fratelli e sorelle, lo stesso cammino si apre davanti a noi. Cristo
risorto ci invita ad entrare nel nostro pianto e nella nostra
ricerca per scoprire che tutto è compiuto. Noi cerchiamo con le
lacrime Dio, che infatti è stato già ritrovato. Preghiamo quindi il
Signore che ogni giorno ci introduca più profondamente nel mistero
della salvezza. Amen. Alleluia!
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Domenica 4 aprile 2010
- Santa Pasqua - Il giorno -
fr. Massimo-Maria FMJ
Si racconta un aneddoto, probabilmente noto a molti di voi, anche
magari con dovizia di particolari. Si tratta, potremmo dire, di una
sorta di fioretto del Prof. La Pira.
Quando si trovava in situazioni
difficoltose, magari nell'ambito del suo servizio alla cosa
pubblica, o nel mezzo di un confronto, volendo come rimettere le
cose al proprio posto, ridando alla realtà la giusta prospettiva, e
a tutto la reale dimensione, con disarmante candore interveniva
affermando: ”Sì, ma Cristo è Risorto:”
Crederei che una tale affermazione,
che nasceva da una profonda esperienza di fede e radicata coscienza
cristiana, non voleva essere né un fuggire dalla realtà, né un
sottrarsi alle responsabilità e neppure prendere diplomaticamente
tempo nelle discussioni.
Ma voleva essere un invito a tutti
rivolto a ragionare, a parlare, a confrontarsi, a vivere e ad agire
a partire dall'essenziale, a rimettere tutto al suo giusto posto,
appunto.
Il prof. La Pira, crederei,
condivideva semplicemente, ma con audacia, il suo segreto, la sua
personale esperienza: a partire dalla Resurrezione di Gesù tutto
acquista nuovo valore, tutto è visto, compreso e vissuto in una luce
nuova, in una prospettiva totalmente diversa.
A ben vedere, carissimi fratelli e
sorelle, il professore affermava con quella sua semplice confessione
di fede, lo stesso annuncio che i primi discepoli di Gesù, dopo la
Sua Resurrezione, proclamavano con audacia e franchezza attraverso
quella espressione che agli albori dell'era cristiana riassumeva il
contenuto dell'annuncio di fede: “ Gesù è il Signore.”
Eccoci ancora a Pasqua. Ecco ancora
tra le nostre mani la grazia di una nuova Pasqua.
Ecco allora che la liturgia a partire
da questa notte e per cinquanta giorni ci ripeterà lo stesso
annuncio portato agli apostoli dalle donne corse al sepolcro; lo
stesso sconvolgente messaggio indirizzato dagli angeli alle donne al
mattino di Pasqua; la stessa bella notizia annunciata dagli Apostoli
nel cuore di Gerusalemme; lo stesso messaggio del prof. La Pira, a
noi più vicino nel tempo:
“ Gesù è Risorto ed è
Signore!”.
Ecco tutto il mistero della Pasqua
cristiana! Ecco il vero segreto di cui la Chiesa è depositaria, e al
contempo annunciatrice a tempo opportuno e non opportuno.
La liturgia di questa notte, come del
resto farà ancora durante tutti questi giorni dell'ottava, sviscera
questo annuncio.
Ci mostra la sorpresa delle donne, ci
presenta lo stupore dei discepoli, ci comunica la gioia incredula
degli apostoli.
Ci invita a osservare la tomba vuota,
ci racconta le apparizioni del Risorto.
E persino, quasi volendo tentare di
spiegare l'accaduto, nel bellissimo inno gregoriano del Victimae
pascali, con le parole e la melodia, tenta di farci intuire la
violenza con cui la vita ha combattuto contro la morte – morte e
vita si sono affrontate in un prodigioso duello ci fa cantare la
liturgia – ma, con serena certezza conclude, il Signore della vita
ha vinto ed ora regna immortale.
Fratelli e sorelle, oggi ancora
questo annuncio ci raggiunge. Oggi ancora noi siamo i destinatari di
questa buona notizia. Cosa ne facciamo? Cosa ne abbiamo fatto? Cosa
significa che Gesù è risorto ed è Signore?
C'è una prima considerazione che
sempre facciamo, che conosciamo e direi che crediamo.
Gesù è risorto primizia di coloro che
sono morti – afferma l'Apostolo. Gesù risorto, la sua Pasqua mi
assicurano: la morte è stata sconfitta, la mia morte corporale, che
un giorno certo mi toccherà, è vinta. Io la vivrò, la attraverserò,
ma l'ultima parola è del Signore che la sconfigge come ha sconfitto
la Sua stessa morte.
E questo ci colma il cuore di
speranza. La morte non è più signora e padrona, come cantava un
cantautore contemporaneo.
Possiamo poi, restando in questa
prospettiva, fare un passo ulteriore, e cioè che non solo la mia
morte corporale, sarà riscattata dalla Resurrezione di Gesù, ma ogni
morte che affligge il cuore dell'uomo, ogni ingiustizia che minaccia
ed opprime la storia umana, ogni tristezza che schiaccia l'animo
nostro o di tanti fratelli. Tutti avanziamo e tutto cammina, verso
questo destino di vita, di Resurrezione che il Risorto ha
inaugurato.
Ma ecco l'interrogativo che non
possiamo non porci:” La grazia, la luce, la forza e la potenza della
Resurrezione del Signore la sperimenteremo solo oltre la nostra
morte, al compimento della storia, nella pienezza dei tempi?
La Resurrezione di Gesù, il suo
essere Signore del tempo e della storia è solo una prospettiva che
dona speranza per il futuro, ma che con l'oggi ha niente a che fare?
E' oggi infatti che io sono triste.
E' oggi che la mia vita è minacciata dalla malattia. E' oggi che ho
perduto il lavoro. E' oggi che la mia famiglia attraversa un tunnel
di preoccupazioni, di pene e sofferenze. E' oggi che la vita pare
schiacciarmi e gli altri soffocarmi. E' oggi che subiamo
ingiustizie, maltrattamenti, violenze, ingratitudini, aggressività.
E' oggi che dobbiamo gestire situazioni apparentemente assurde e
paradossali.
E' oggi che tanti cristiani sono
discriminati. E' oggi che si vuole trascinare la Chiesa del Risorto
nel discredito, ridurla al silenzio e magari relegarla al massimo
alle sacrestie.
Gesù è Signore ed è Risorto e certo è
luce di speranza su tutto questo. E' lui che su tutto ciò ha
l'ultima Parola. Ma se Gesù Risorto è speranza per il domani,
speranza che brilla l'orizzonte che ci sta davanti, Lui è anche il
Vivente, oggi.
Fratelli e sorelle che Gesù è
risorto, vuol dire che Gesù è vivo.
Vuol dire che Lui è vivo oggi, è con
noi nell'oggi. Lui attraversa da vivente e da signore tutte le
situazioni in cui ancora noi ci dibattiamo. E questo cambia tutto,
oggi.
Gesù risorto è speranza per il
futuro, ma anche forza per il presente.
In Lui non solo è vinta la morte
futura, ma è sconfitta la solitudine dell'uomo nel presente.
La fede cristiana, la Pasqua di Gesù
è scoprire che il Risorto attraversa con noi questo mistero della
vita, tremendo ed affascinante, luminoso e con tante ombre.
Il cristiano allora è l'uomo della
speranza, ma anche l'uomo della fiducia, della gioia e della pace.
Una fiducia che nasce dalla presenza accanto a lui oggi del Signore.
Una gioia che nasce da una amicizia con il Signore della vita
offerta già oggi. Una pace che è il non sapersi più soli, non certo
dall'avere tutti i problemi risolti, e l'essere assicurati di non
averne altri in seguito.
Non a caso la pace è dono di Gesù
Risorto. E notiamo bene che i discepoli dopo aver ricevuto questo
dono non hanno risolto tutti i problemi: le tensioni nella comunità
cristiana sono apparse ben presto e le persecuzioni sino alle
uccisioni sono giunte subito dopo. Ma la certezza della presenza di
Gesù, il Risorto, il Vittorioso Signore della vita, questa presenza
ha fatto la differenza.
Credere che Gesù è risorto vuol dire
ricordarsi che è vivo con noi nell'oggi, rallegrandosi della sua
presenza oggi, smettendo le continue lamentele e fuggendo la
tentazione di pensare che il passato era magnifico, che altrove
sarebbe stupendo, pensando così che la resurrezione non è capace di
dare forza nel presente e di illuminare il quotidiano, il qui ed
ora.
Fratelli e sorelle questo vuol dire
fare Pasqua oggi, accorgerci che non siamo soli, che Gesù è vivo
oggi. Nella Parola ci parla, nel suo pane ci nutre, nei sacramenti
ci salva, nei fratelli ci incontra. Con la sua presenza ci rallegra,
ci dà forza, ci custodisce nella pace. Poiché è con noi tutti i
giorni sino alla fine del mondo ci può persino inviare per essere
testimoni del suo amore e messaggeri del suo Vangelo.
Quanta pace e serenità santa
fiorirebbe nel cuore delle famiglie e delle comunità se tutto si
pensasse, facesse e scegliesse a partire dalla certezza, che poi è
esperienza che Lui è vivo. Quanta maggiore semplicità abiterebbe la
nostra vita e quanto meno spazio troverebbe la tristezza e
l'angoscia nel nostro cuore se ci occupassimo più di accorgerci di
Gesù accanto a noi che dell'ombra di noi stessi.
Gesù è Risorto! Gesù è vivo! Gesù è
il Signore!
Questa è la nostra forza e sempre la
nostra grande pace!
Amen. Alleluia
|
Domenica
4 aprile 2010 - Santa
Pasqua - La notte - fr.
David FMJ
Perché questa
lunga liturgia della Parola durante la veglia pasquale? Perché Dio,
in Gesù Cristo, è venuto incontro alla storia e l’ha assunta.
Abbiamo quindi percorso insieme la storia del popolo eletto, la
storia d’Israele. Questa storia, fatta di grandezza, ma anche di
mediocrità e di peccati, è una storia santa perché è in vista di
Gesù Cristo. Ora, in Gesù Cristo, questa storia sacra d’Israele è
diventata anche la nostra storia. Dobbiamo capire bene che
cosa significa questo, fratelli e sorelle. È una figura, per parlare
come i Padri della Chiesa; è un modello, un esempio. Questo
significa che, in Gesù Cristo, Dio è venuto ad incontrare la
nostra storia, ad incontrare ciascuno di noi. Infatti, come la
storia d’Israele è stata assunta da Gesù Cristo, così anche noi
siamo assunti da Gesù Cristo, costituiamo il suo corpo, apparteniamo
a lui. In lui siamo stati eletti prima che il mondo fosse. Ciascuno
di noi prenda dunque la sua vita intera e la presenti a Cristo.
Ciascuno di noi
si trova a un momento preciso della sua storia. E questo momento,
benché unico, somiglia probabilmente a uno dei momenti della storia
sacra. Ciascuna delle nostre vite, infatti, ha vocazione a diventare
una storia sacra. Quindi, c’è qui tra noi chi conosce in questa
notte la luce di una creazione nuova. Forse è il vostro caso, cari
Camilla e Simone, voi che sarete battezzati tra pochi istanti. Ci
sono forse altri fra noi che vivono una sorta di attraversamento del
mar rosso, una liberazione insperata operata da Dio. Altri ancora
sono forse nella situazione di Abramo, dinanzi all’incomprensibilità
della volontà di Dio e al sentimento di dover fare un sacrificio
impossibile. Alcuni, come l’apostolo Pietro, non capiscono ancora la
gioia che ci viene offerta questa notte, e sono totalmente stupiti
dai misteri che celebriamo insieme con fede. È con la fede, infatti,
che ciascuna delle nostre vite, ciascuna delle nostre situazioni,
diviene una storia santa, una storia che il Cristo è venuto ad
incontrare. Nessuno dei nostri sentimenti, anche tra i più
contraddittori, è definitivamente chiuso alla presenza di Cristo,
tranne la malafede, la menzogna egoista che dà alla luce il nome di
tenebre per meglio rifiutarla. Cristo è risorto, e siamo tutti
chiamati a rallegrarci alla sua luce. Anche i nostri fallimenti
possono diventare le tappe di un santo Esodo. Cristo è davvero
risorto. Le nostre sterilità sono trasformate, e in lui portano
frutti. La nostra condanna a morte è tolta, perché Dio ha avuto
pietà della la nostra piccolezza e ci ha dimostrato il suo amore.
Ma è perché
siamo innestati nella sua vita che Cristo ci è venuto incontro.
Cristo non ha semplicemente assunto la nostra condizione umana, ma
le ha dato una dimensione nuova. Non dobbiamo cercare molto per
trovare in che cosa consiste questa nuova dimensione della nostra
vita. È Cristo stesso, è lui che fa nuovo tutto. L’inesauribile
novità del Risorto è per noi, è nostra. Mediante la Chiesa, questa
vita nuova è offerta al mondo intero. Dio non è soltanto venuto
incontro alla nostra storia umana. In più ha voluto che il destino
di Cristo diventasse il nostro. Ecco perché siamo radunati nella
grande e santa eucaristia di Cristo, affinché la sua vita passi in
noi e noi gli apparteniamo intimamente. Non apparteniamo a nessun
altro che a lui. Non siamo più prigionieri di questo mondo che gira,
gira e si esaurisce nel ricominciare senza sosta il ciclo della vita
e della morte. Sappiamo bene chi siamo. Siamo di Cristo, e Cristo è
di Dio. Quest’appartenenza è la nostra identità più profonda. È la
nostra vita, e questa vita è eterna.
Signore Gesù
Cristo, su di te la morte non ha più nessun potere. Ti sei
impadronito della morte. Sei il Vivente. Sei l’alfa e l’omega. Dalla
tua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, grazia su grazia. Siamo
chiamati a rallegrarci alla tua luce. Concedici di celebrare
santamente la tua eucaristia. Tu che hai il potere di fare di noi
dei figli di Dio, fa della nostra vita una pasqua verso il Padre. Il
tuo amore non delude. Vogliamo appartenerti in eterno. |
venerdì
2 aprile 2010 - Venerdì Santo
- fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Quando i tre amici di Giobbe vennero
a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui,
partirono, ognuno dal suo villaggio, e si accordarono per andare a
condividere il suo dolore e consolarlo. Alzarono gli occhi da
lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a
piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il
cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra, per
sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva la parola, perché
vedevano che il suo dolore era molto grande. (Gio 2,11nn).
Nel libro di Giobbe, libro
dell’Antico Testamento, troviamo l’annuncio del grande silenzio in
cui la Chiesa entra durante la liturgia del Venerdì Santo. Noi
siamo, infatti, amici di Gesù e abbiamo visto ciò che gli è
accaduto. Forse vorremmo consolarlo e siamo venuti oggi in chiesa
allo stesso scopo degli amici di Giobbe , ma come a loro anche a noi
mancano le parole, perché il dolore di Cristo è troppo grande:
abbandonato dal suo paese, abbandonato dai discepoli, abbandonato da
Dio, è morto crocifisso, nudo, deriso... Cosa può quindi fare la
Chiesa, amica e sposa di Gesù, se non imitare gli amici di Giobbe:
sedere in terra accanto a Cristo e senza parlare condividere il suo
dolore. Il silenzio della Chiesa, che comincia oggi e durerà tutto
domani, è infatti l’unico modo per esprimere la compassione e
l’amicizia al Signore, il cui dolore non è paragonabile a nessun
altro dolore...
Ma l’immensità del dolore di Cristo
non è l’unico motivo del silenzio della Chiesa. C’è un altro motivo
ancor più importante. La Chiesa tace davanti al Crocifisso, perché
sa che non è ancora venuta l’ora di aprire la bocca. Stiamo zitti,
perché Dio sta ancora parlando. Certo, dopo la morte del Figlio
sembra muto e assente, poiché il suo Profeta, il suo Messaggero, la
sua Parola tacciono… Ma non è vero, Dio sta parlando. Per questo la
Chiesa non si lamenta gridando l’ingiustizia, che ha toccato il suo
Amato; non si torce le mani, vedendo Gesù condotto come agnello al
macello; non si strappa le vesti e non permette che il frastuono
insopportabile della disperazione entri nel suo cuore… La Chiesa
piange oggi, certo, perché ama Cristo, che soffre e muore… ma
piangendo tace per sentire meglio la risposta di Dio al silenzio del
Figlio morto. È non c’è dubbio: Dio parlerà.
Ma la speranza non è l’ultimo motivo
del silenzio della Chiesa. C’è anche qualcosa che già il profeta
Isaia presentiva, quando cantava il servo sofferente: “molti si
stupiranno di lui… si meraviglieranno di lui molte genti.. . i re
davanti a lui si chiuderanno la bocca… poiché vedranno un fatto mai
ad essi raccontato”. Quindi cosa vede la Chiesa per la prima volta
in Cristo, tanto da tacere mentre lo guarda con ammirazione? Il
dolore? Sicuramente non è la prima volta che vediamo qualcuno che
soffre. L’ingiustizia? La terra ne è piena e i nostri occhi anche.
Cosa vediamo allora di nuovo, totalmente nuovo in Cristo? La pace,
mi sembra. Per la prima volta nella storia del mondo un uomo
giovane, buono e giusto, lascia una vita che avrebbe potuto durare
a lungo chiamandola “compiuta”. Non interrotta, non strappata, non
perduta, ma “compiuta”, cioè “vissuta pienamente”, “realizzata”.
L’umanità vede sicuramente per la prima volta la pace, che si
nasconde nelle parole: “è compiuto” . E vedendola comincia a
scoprire il senso vero e profondo dell’esistenza, che diviene chiaro
nel Crocifisso. Per questo la Chiesa tace davanti alla croce: poiché
contempla la salvezza dell’uomo.
Nel silenzio del Venerdì Santo la
Chiesa fa una cosa, che agli amici di Giobbe non era venuta in
mente, mentre condividevano il dolore del suo amico per sette giorni
e sette notti. La Chiesa bacerà la Croce. Non mi sembra, che nella
liturgia ci sia un gesto più sorprendente... Ma chi capisce il
silenzio della Chiesa, capisce anche questo bacio, che nasce in
questo silenzio.
Nessuno potrebbe alzarsi per
abbracciare la croce, mentre tace e piange per l’ènormità del dolore
di Cristo. Il desiderio di avvicinarsi alla croce nasce nel cuore,
quando il silenzio diviene manifestazione di speranza, della
convinzione profonda di sentire ancora la voce di Dio, la sua
risposta alla morte del Figlio. Sicuramente questa voce sarà molto
delicata, come il sussurro di una brezza leggera, dobbiamo quindi
stare vicino alla croce per sentirla. Ma l’idea di baciare la croce
può nascere soltanto dal silenzio pieno di ammirazione di chi ha
visto la pace infinita sul volto di Cristo crocifisso. Baciando la
croce, bacerà la porta del paradiso. Non per caso la Chiesa,
introducendoci nell’adorazione della croce e del corpo morto di Dio,
ci fa sentire il canto degli angeli: “Santo Dio, Santo forte, Santo
immortale”. Non la morte adoriamo nel Crocifisso, ma la vita
compiuta, piena, eterna.
Entriamo quindi nel silenzio del
Venerdì Santo e del Sabato Santo, del Grande Sabato, per accogliere
la salvezza e abbracciare la croce. Quando sarà il momento di aprire
la bocca, grideremo di gioia con tutta la Chiesa e loderemo il
Signore della vita. Questa luce ci aspetta dietro la porta davanti
alla quale stiamo oggi. Sì, fratelli e sorelle, la croce di Cristo è
la porta del cielo. Amen.
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martedì 30 marzo 2010 -
martedì Santo - fr. Marek
FMJ
Fratelli e sorelle,
Pietro ha fatto una bella domanda
a Cristo: “Signore, perché non posso seguirti ora?”. Tutti la
portiamo nel cuore, perché pur volendo essere cristiani veri,
cristiani che imitano Cristo, ci scontriamo continuamente con la
nostra debolezza e con il nostro peccato che ci impediscono di fare
ciò che il nostro cuore desidera. Ci sforziamo, preghiamo, ci
convertiamo… ma la nostra vita non è ancora simile a quella del
Maestro. “Perché non posso seguirti ora?” è quindi anche nostra
domanda.
Avremmo anche idea di come
rispondere, come ha fatto Pietro. Si tratta, infatti, dell’amore:
perché seguire l’altro ovunque vada può soltanto farlo uno che lo
ama più di tutto, più di tutto ciò che deve lasciare per poter
essere con l’amato. Per questo Gesù ha detto che l’amore più grande
è di colui che dà la propria vita, cioè tutto, per il suo amico
(cfr. Gv 15,13). Pietro, sentendo che non può seguire Cristo perché
non lo ama abbastanza, cerca di difendersi, anche se nessuno lo
accusa. Non confessa il suo amore soltanto con delle parole, fa
molto di più: promette di dare la sua vita per Gesù. Sembra quindi
sinceramente convinto di amare Cristo più di tutto, più della
propria vita. Ma non è vero, è un’illusione, che sparirà fra qualche
ora con il primo canto del gallo, provocando lacrime molto amare.
Pietro non può seguire Cristo fino alla morte, perché non lo ama più
di tutto.
Quando David voleva costruire la
casa per il Signore, il profeta gli spiegò: è il Signore che ti
costruirà la casa (2 Sam 7,12). Ora, quando Pietro vuole dare la sua
vita per Cristo, lui stesso gli spiega, che è il Signore che darà la
vita per lui. Dio è sempre primo. È quindi primo anche in amore.
“Non siamo stati noi – scriverà umilmente nella sua lettera Giovanni
– ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1 Gv 4,14). L’uomo è
soltanto immagine di Dio, riflesso del suo amore, risposta alla
Parola che esce dalla bocca di Dio. Possiamo dunque diventare come
Lui e seguirlo ovunque vada, come vorrebbe Pietro, soltanto quando
lui stesso si manifesterà in pienezza davanti a noi. Per questo
Cristo, sapendo che sta arrivando l’ora in cui il suo amore si
manifesterà pienamente e che lui sarà innalzato sopra la terra per
attirare tutti a sé, ha detto a Pietro: “mi seguirai più tardi”. Non
ha detto questo per fiducia nell’amicizia del suo discepolo. La
vigliaccheria di Pietro e il suo prossimo rinnegamento non erano
sconosciuti per Cristo. Però, conosceva bene la forza della croce,
sapeva che la croce avrebbe aperto il cielo e avrebbe rivelato
all’uomo l’amore di Dio, permettendo così all’uomo di specchiarsi
nel volto del Padre e di diventare figlio nel Figlio. Per questo
Gesù ha promesso a Pietro e a tutti noi: “mi seguirai più tardi”,
dopo la mia croce. E non si è sbagliato, perché Pietro fu crocifisso
come Cristo, anzi col capo all’ingiù, affinché per tutti fosse
chiaro che il discepolo è soltanto il riflesso di Cristo. Come
l’albero si riflette col capo all’ingiù nell’acqua, così quando
Pietro fu crocifisso, l’amore di Cristo si riflesse col capo
all’ingiù sulla terra. Sì, il nostro amore è la risposta all’amore
di Dio.
Viviamo quindi questa Settimana
Santa, che ci rivela il mistero del cuore del Signore, con fede e
speranza, aspettando umilmente il giorno in cui anche noi
diventeremo l’immagine perfetta dell’amore di Dio. Amen.
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Domenica 28
marzo 2010
- Domenica
della Palme -
fr. David FMJ
La
messa di questa domenica è l’unica dell’anno che ci fa ascoltare due
vangeli, quello dell’entrata messianica di Gesù a Gerusalemme che
abbiamo proclamato all’inizio della celebrazione, e quello della
Passione del Signore. La spiegazione di questa particolarità ci
viene data dalla storia della liturgia. Nell’antichità, a
Gerusalemme, i cristiani celebravano gli avvenimenti riportati dagli
evangelisti sui luoghi stessi del loro svolgimento storico. Secondo
la cronologia indicata da san Giovanni, Gesù è entrato trionfalmente
a Gerusalemme cinque giorni prima del grande Sabba della Pasqua. La
domenica che precede Pasqua era quindi, fin dal quarto secolo, per
la comunità cristiana di Gerusalemme, la domenica delle Palme. Non
si trattava della Passione ma si leggeva il vangelo
dell’ingresso messianico di Gesù, e
i fedeli rivivevano l’avvenimento con una grande processione festiva
attraverso la città di Gerusalemme. Alla stessa epoca, i cristiani
di Roma non conoscevano questa processione festiva delle Palme. Il
loro contesto era diverso, e il loro fervore si esprimeva
altrimenti. Ci tenevano a prepararsi alla festa di Pasqua con la
lettura liturgica dei quattro racconti della Passione di Cristo. Si
cominciava, la sesta domenica di quaresima, con la Passione secondo
Matteo. Poi, il martedì e il mercoledì della Settimana Santa,
venivano i racconti di Marco e di Luca. La Passione secondo Giovanni
era letta, come ancora oggi, il
Venerdì Santo. La celebrazione di oggi è dunque la fusione di due
messe, quella che veniva celebrata a Gerusalemme e quella che veniva
celebrata a Roma. Espressioni liturgiche diverse dello stesso
fervore si sono richiamati a vicenda per formare questa messa ricca
di due vangeli, quello dell’ingresso messianico di Cristo e quello
della sua Passione.
Fratelli e
sorelle, questa celebrazione così particolare che ci fa
all'improvviso passare dalle acclamazioni alle grida di odio è molto
diversa da una sorta di anomalia storica. C’è una verità molto
profonda nel contrasto così particolare tra le due parti della
nostra celebrazione. Tra le acclamazioni troppo terrene che abbiamo
ascoltato all’inizio, e ciò che Gesù ci rivela davvero, c’è
distanza. Sì, davvero, Gesù di Nazaret è il
re d’Israele.
È il figlio di Davide.
È lui il messia. Ma tutto
questo, non nella maniera che ci aspetteremmo. La sua forza, la sua
gloria, la sua esaltazione non sono di questo mondo.
È con l’amore infinito,
con il perdono impossibile, con la remissione dei peccati, con la
vita trasmessa e vittoriosa sulla morte che Gesù è re, prete,
messia. Nella lontananza tra le nostre attese e ciò che Cristo ci
rivela, purifichiamo le nostre rappresentazioni per imparare lo
stile di Dio, la forma della sua potenza, l’aspetto del suo regno,
il carattere sorprendente della sua volontà, la particolarità della
sua azione. Allora sapremo riconoscere l’intervento e la presenza di
Dio: gli avvenimenti che celebriamo lungo questa Santa Settimana ci
mostrano cosa sono. La Passione e la risurrezione di Cristo devono
diventare per ciascuno di noi, a seconda della sua grazia, la sua
Passione e la sua risurrezione.
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giovedì 25 marzo 2010 -
Annunciazione del Signore -
fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Pochi giorni dopo la memoria
solenne di San Giuseppe, sposo di Maria, festeggiamo oggi
l’Annunciazione del Signore, cioè il momento del suo concepimento
nel seno verginale di colei, che aveva come sposo il carpentiere di
Nazareth, come se la Chiesa volesse insegnarci che il matrimonio e
la fecondità non sono esattamente ciò che noi pensiamo. Inoltre,
ricordiamo e celebriamo queste realtà collegate alla venuta del
Signore nel mondo proprio quando lui si prepara a lasciarlo, come se
la Chiesa volesse insegnarci che la vita e la morte non sono
esattamente ciò che noi pensiamo. La liturgia della Chiesa fa sì che
assieme allo sposo di Maria contempliamo il concepimento verginale
di Cristo e che porgiamo l’orecchio alle parole della Madre
dolorosa, che piange sotto la croce, perché ci racconti la dolcezza
e la gioia presenti nel suo cuore il giorno in cui l’angelo le
annunciò la venuta di colui che “sarà santo, sarà chiamato Figlio di
Dio e regnerà per sempre”. Anche se questa logica liturgica ci
sembra un po’ strana e forse disordinata, tutto è a posto.
La Chiesa, infatti, nella sua
pedagogia ci insegna così che la nostra salvezza viene da Dio e
soltanto da Lui. Nessuna delle sue grazie particolari ci salva,
nessuno dei suoi doni è in grado di renderci pienamente felici, ma
soltanto Dio stesso. Per questo la Chiesa ci indica la verginità di
Maria, quando stiamo ancora ammirando il grande San Giuseppe, suo
sposo, ci ricorda l’angelo che annuncia la nascita del Signore
quando ci stiamo preparando ad andare con lui verso la morte. Vuole
che non restiamo fermi in un posto, che non ci soffermiamo troppo su
ciò che è soltanto un mezzo e ci spinge a cercare Dio e Dio solo. La
Chiesa, nostra Madre e Maestra, in un certo senso non ci lascia mai
tranquilli, perché sa bene, che il cuore umano rimane inquieto
finché non riposi in Dio.
Stasera entriamo quindi nella
solennità, abbandonando senza rimpianto le lacrime salvatrici della
Quaresima e il colore viola della liturgia di questo tempo. Tutto
domani sarà consacrato alla meditazione del mistero di quest’umile
“fiat” di Maria, che fa scendere Dio fra gli uomini. Ma dopo la
festa torneremo senza rimpianto alle lacrime di Quaresima per
continuare il nostro cammino verso la grande notte in cui viene la
luce vera. I cambiamenti della liturgia ci permettono di imparare,
che – parafrasando le parole della Lettera agli Ebrei – Dio non
vuole e non gradisce né le nostre feste né i nostri digiuni né i
canti di gioia né le lacrime dovute al peccato. Aspetta il nostro
“fiat”, il nostro onesto: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua
volontà”. L’obbedienza a Dio ci salva, come l’obbedienza di Maria ha
aperto la strada al servo obbediente, la cui offerta ci ha
santificati, una volta per sempre. Amen.
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venerdì 19 marzo 2010
- San Giuseppe -
p.Pierre-Marie FMJ
Professioni
di sr.Marta, fr.Carlo, fr.Pietro
E' una grazia
per noi tutti
di poter
celebrare delle professioni monastiche
il giorno
della festa i San Giuseppe.
La santità di
questo “giusto”
è in effetti
esemplare.
E' esemplare
per ogni cristiano
ma più ancora
per ogni candidato alla vita monastica.
I voti che
voi pronuncerete stasera
cara sorella
Marta e cari fratelli Carlo e Pietro
sono dei voti
di castità, di povertà e di obbedienza..
Voi fate
questo nella sequela e seguendo l' esempio
di Gesù
casto, povero e obbediente.
Ma voi sapete
anche quanto San Giuseppe
ha potuto
vivere alla perfezione
in una vita
di obbedienza, di povertà e di castità.
Che
bell'esempio per voi!
L'obbedienza
di Giuseppe ha avuto tre grandi meriti:
di essere
intelligente, impegnativa e immediata.
-Con
intelligenza, ha voluto comprendere
perché come
Dio gli chiedeva questo o quello.
-Ha accettato
sempre l'imperativo degli avvenimenti:
di andare a
Betlemme, di fuggire in Egitto, di ritornare a Nazareth,
di cercare
Gesù per tre giorni a Gerusalemme,
senza
lamentarsi, senza protestare.
Si è mostrato
disponibile in tutto.
Senza
attendere, senza dire nulla, nella fede e nella pace
ha fatto ciò
che il Signore gli ha domandato.
Caro Pietro,
caro Carlo, cara Marta,
meditate,
contemplate l'obbedienza di San Giuseppe.
Pregatelo che
vi insegni a viverla.
Essa vi
condurrà alla pace dell'anima
e alla vera
libertà interiore.
Non si è mai
così liberi e pacifici
come quando
ci si conforma in tutto alla volontà di Dio.
E' per
crescere in questa pace dell'anima
e in questa
libertà del cuore,
che voi
volete stasera votare la vostra obbedienza al Signore.
La povertà di
Giuseppe è allo stesso tempo umile e radicale.
Non è davvero
ricco, non ha relazioni su cui contare,
non difende
alcun titolo.
Non c'è posto
per lui nella notte di Betlemme.
Esule nel
deserto verso una terra straniera.
Ritorna
incognito a Nazareth nel più grande anonimato.
Giuseppe è
povero nel suo avere, nel suo sapere, nel suo potere.
Povero nel
suo pensiero proprio, nel suo amor proprio, nel suo proprio volere.
Che
bell'esempio per Gesù che da ricco che era
s'è fatto
povero per arricchirci della sua povertà!
Cari fratelli
Pietro e Carlo, cara sorella Marta,
guardate San
Giuseppe vivere, riflettere, alzarsi, camminare.
Guardatelo
ripartire, fermarsi, tacere, lavorare, pregare senza dire nulla.
Se voi
saprete imitarlo, ognuno al suo posto,
voi sarete
condotti al più alto della prima beatitudine:
Si! Beati i
poveri in spirito – come Giuseppe -
essi vedranno
Dio.
La castità di
Giuseppe, è anch'essa esemplare.
Egli è colui
che la tradizione cristiana
si compiace
di chiamare “ il casto Sposo della Vergine Maria”.
La sua
castità non ha niente di mieloso, di austero, di costrizione.
Il suo amore
per Maria è immenso.
Ma è pieno di
rispetto, di tenerezza e di amicizia.
Giuseppe ci
mostra attraverso questo, quanto la verginità consacrata
non ha nulla
di restrittivo, di contro natura, di triste.
Ma al
contrario, può aprire alla gioia, alla fecondità spirituale,
e ad un amore
ancora più alto e più grande.
Attraverso
una rinuncia, certo
( una
rinuncia al matrimonio, che è anch'esso
un sacramento
alto e grande)
ma in vista
del Regno dei cieli e delle nozze eterne.
Così Giuseppe
ci ricorda che ogni vocazione cristiana
è una
vocazione alla nuzialità.
Una nuzialità
che il Cristo Signore, il Dio amico degli uomini
ci promette a
tutti e a tutte
nella
pienezza eterna del Regno dei cieli.
Ecco fratelli
e sorelle come la vita del grande San Giuseppe
tutta
impregnata di silenzio e seminata di umiltà
può servirci
da guida per il cammino.
Ci introduce
alla contemplazione del mistero di Gesù.
Ci aiuta a
lodare la santità della Vergine Immacolata.
Ci rivela la
presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori.
Ci conduce
all'ascolto filiale della volontà del Padre.
Come non
amare colui che è certamente
uno dei più
grande santi della cristianità?
Marta, Carlo
e Pietro, che interceda per voi dall'alto dei cieli,
per i vostri
parenti, per i vostri amici, per i vostri fratelli e sorelle di
Gerusalemme
in questo
giorno della vostra professione monastica alla badia Fiorentina.
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giovedì 18 marzo 2010
- IV settimana di Quaresima -
p.Pierre-Marie FMJ
I testimoni del
Testimone
Affinché la
testimonianza data da qualcuno
possa apparire vera
bisogna che questa
stessa testimonianza sia credibile.
Gesù si presenta come
testimone del Padre
e inviato di Dio.
Egli si definisce luce
del mondo
e nello stesso tempo
la via, la verità e la vita.
Ma la gloria della sua
divinità resta volontariamente velata
sotto la forma della
sua natura umana.
Il Verbo luce vera che
è la vita del mondo
si è fatto in tutto
simile a noi.
Vive nel cuore di
questo mondo nella visibilità della carne.
Chi dunque può
testimoniare di Lui?
Forse si può dire Dio,
il Padre?
Poiché è il suo Padre.
Si può pensare Dio lo
Spirito?
Poiché Gesù ne è
colmo.
Sì, è vero, Essi gli
rendono testimonianza.
E Gesù parla nel nome
del Padre
e agisce sotto la
mozione dello Spirito.
“Ma Dio nessuno
lo ha mai visto.” (Gv 1,18 )
“Nessuno lo ha
contemplato.”
( 1 Gv 4,14 )
Lo Spirito soffia dove
vuole e non si sa
né da dove viene né
dove và.
E Gesù stesso ci dice
che
del Padre che lo ha
inviato,
noi non abbiamo mai
ascoltato la sua voce
né visto il suo
volto. ( Gv 5,37 )
Chi dunque
testimonierà di Gesù?
Cosa dunque può
rendere credibile e vero
ciò che Lui dice e
insegna?
Egli stesso ce lo
dice: due realtà,
le opere che compie
e le Scritture che
annuncia.
A causa delle sue
opere innanzitutto
Esse sono segni che
Gesù dice il vero.
Ed è buono per noi di
riprendere,
meditare
incessantemente lungo i giorni
dei tempi liturgici,
degli anni queste sue opere.
Con Nicodemo noi
possiamo allora riconoscerlo
e dirgli:
“ Nessuno può compiere
i segni che tu compi
se Dio non fosse
con Lui” ( Gv 3,2 )
Gesù non è stato
semplicemente un parolaio, egli ha agito.
Si riconosce l’albero
dai suoi frutti.
Ed ecco sono già venti
secoli che il mondo è testimone
della divina fecondità
della sua vita !
A causa delle
Scritture poi Gesù è credibile.
Ed ecco allora venti
secoli di Storia Santa
che lo precedono, dove
tutto,
la Legge, i profeti e
i Salmi,
lo concerne, lo
prefigura, l’annuncia, lo manifesta.
Noi possiamo ancora
ascoltarlo mentre ci ridice:
Voi scrutate le
Scritture perché pensate
trovare in esse la
vita eterna.
Ora, sono esse a
rendermi testimonianza. ( 5,39
)
Ed anche per questo
che noi crediamo in Lui.
Perché tutte le
Scritture,
oggettivamente,
chiaramente, indiscutibilmente,
lo rischiarano,
l’annunciano, lo rivelano,
e dunque testimoniano
di Lui.
E poiché Egli stesso,
con tutta la sua luce e con tutta la sua vita,
spiega, illumina e
infine compie
tutto quanto di Lui
era scritto.
Ecco fratelli e
sorelle,su che cosa già
noi possiamo fondare
la nostra fede in Gesù Cristo
e credere alla verità
della sua Parola
alla credibilità della
sua testimonianza.
Tra qualche giorno un
altro segno, un ultimo sigillo,
una prova ultima e
suprema
ci sarà data della sua
Verità.
Il dono totale della
sua vita offerta per noi come puro amore.
Non si dona la propria
vita su una croce
se questo non è per il
trionfo della verità.
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Domenica 14 marzo 2010 -
IV Domenica di Quaresima - Laetare -
fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
La domenica di Quaresima chiamata
“laetare”, perché apre la liturgia con l’invito alla letizia,
significa che metà del tempo di preparazione alla festa pasquale è
già passata e che la grande notte in cui vedremo la luce vera si
avvicina. Sentiamo quindi un certo sollievo, perché l’austerità del
digiuno sta per cedere il posto alla gioia della festa, ma
innanzitutto ci rallegriamo del fatto, che fra non molto tempo il
Signore ci manifesterà la pienezza della sua gloria e della sua
bellezza. Camilla e Simone hanno un motivo particolare per
rallegrarsi, perché nella notte di Pasqua, che ci colmerà tutti di
luce, si immergeranno totalmente in Cristo per mezzo del battesimo,
cioè del bagno “nell’acqua che rigenera e rinnova nello
Spirito Santo (Tt 3,5)”. Per prepararci a questa grande notte
meditiamo un attimo l’incontro del cieco nato con Gesù, raccontato
con le parole del Vangelo appena ascoltate, perché è per noi
l’illustrazione e l’annuncio di ciò che accadrà anche a noi.
Non è difficile per nessuno
riconoscersi in questo pover’uomo, che fin dalla nascita non vede la
luce. Tutti siamo nati esattamente così: abbiamo tutto ciò che ci
vuole per essere uomo, il corpo e l’anima, la gente e il mondo
intorno a noi, il cervello per pensare e la lingua per parlare.
Manca soltanto la luce. Sappiamo che davanti a noi c’è il mondo
grande, aperto e pronto ad accoglierci come le strade di
Gerusalemme, che si aprono davanti al cieco nato. Ma noi possiamo
soltanto brancolare cautamente con le braccia tese per non cadere.
Manca la luce ai nostri occhi e per questo non possiamo correre,
entrare nel mondo con gioia, libertà e coraggio. C’è anche la gente
intorno a noi, la sentiamo parlare a noi e di noi. A volte gli altri
sono molto vicini, proprio davanti a noi, ma poiché ci manca la
luce, l’abisso delle tenebre ci separa sempre da loro. La vita senza
luce non è la vita vera. È difficile anche spiegare, cosa manchi
concretamente, perché le tenebre fanno sparire tutto ciò, che
esiste. In un certo senso il cieco nato, come tutti noi, peccatori,
vive e non vive nello stesso tempo, è e non è, tanto che nel momento
in cui acquisterà la vista, molti non lo riconosceranno più. Basta
togliere all’uomo la luce, e non è più lo stesso. Apparentemente
niente è cambiato, ma senza luce il mondo non è più il mondo, l’uomo
non è più se stesso. Se quindi qualcuno è nato cieco, è come se non
fosse ancora nato. Ed è proprio così per tutti noi. Ogni uomo, che
viene in questo mondo, diviene pienamente uomo, solo quando acquista
la luce.
Possiamo facilmente riconoscerci
anche nella domanda dei discepoli, che chiedono: “chi ha peccato,
lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Vogliono come tutti
noi sapere da dove venga questa situazione, qual è la causa, di chi
è la colpa. È necessario saperlo per agire, per trovare una
soluzione, per scontare le colpe, per togliere le cause ed
eliminarne così gli effetti. Noi dedichiamo molte energie per
scoprire il perché delle nostre tenebre e della nostra povera
situazione, sperando – consapevolmente o no – che un giorno lo
troveremo e saremo in grado di rimediare. Sembra, che speriamo
ostinatamente di non essere davvero ciechi, ma semplicemente di non
sapere ancora come fare ad aprire gli occhi. È difficile raggiungere
questa saggezza, che ammette in pieno la nostra debolezza.
Solo due persone nella scena
evangelica che meditiamo non cercano colpe, né altre cause della
cecità. Il cieco nato, perché ha già capito, che questa strada non
conduce in nessun posto, e Gesù, perché sa, che non è tanto la causa
che va cercata, quanto il fine della cecità: quest’uomo è nato
cieco, “perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.
Nell’atteggiamento di Cristo vediamo la risposta di Dio alla
mancanza di luce nella vita umana: farò un’opera nuova, vi creerò di
nuovo, vi inonderò di luce e manifesterete la mia gloria. Ma il
miracolo della salvezza dell’uomo da questa cecità che trasforma la
nostra vita, praticamente, in morte, esige un particolare
atteggiamento, che è evidente nel cieco nato. La misericordia di Dio
cerca in ogni uomo l’umiltà del cieco nato, che non accusa più
nessuno, né si lamenta, avendo abbandonato ogni speranza umana di
guarire e di raggiungere da solo pienezza di vita. Se quindi ci
siamo riconosciuti nel cieco nato per quel che riguarda la sua
miseria, cerchiamo anche di essere simili a lui nell’umiltà e nella
semplicità con cui accoglie il dono di Dio. In questo modo le opere
di Dio si manifesteranno anche in noi.
Camilla e Simone, i nostri cari
eletti, che vivono oggi il loro secondo scrutinio, ci indicano
come fare. Fra poco si avvicineranno all’altare in silenzio,
affidandosi alla preghiera della Chiesa e alla grazia del Signore.
Il loro umile silenzio e la fede in Cristo aprono sempre di più i
loro cuori alla luce, liberano dalle menzogne che accecano, e fanno
crescere in loro la vita vera ed eterna. Con gli scrutini, ripetuti
per tre volte prima del Battesimo, la Chiesa ci insegna, che non è
la nostra ricerca agitata di un colpevole a liberarci dalle tenebre,
ma l’umile attesa della grazia del Signore, il riconoscimento della
povertà umana, la supplica silenziosa ma piena di fede e la semplice
accoglienza dell’opera di Dio in noi.
Fratelli e sorelle, l’opera del
Signore, cioè la notte in cui risplenderà la luce vera che ci
abbraccerà per sempre, si avvicina. Dio farà per noi tutto ciò che
ha fatto per il cieco nato nella parabola: ci spalmerà gli occhi col
fango, esponendo in pubblico il suo Figlio crocifisso, aprirà il suo
cuore dandoci l’acqua e invitandoci a lavarci in essa. Lavati,
vedremo la luce vera, Cristo morto e risorto, che rende la vita
umana salda, eterna. Perseveriamo quindi nella preparazione
quaresimale, affinché per mezzo della preghiera, del digiuno e
dell’elemosina la nostra umiltà cresca e ci renda più pronti ad
accogliere il dono della salvezza e preghiamo per Camilla, Simone e
tutti gli eletti, che si avvicinano alla fonte di vita per la prima
volta. Amen.
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mercoledì 10 marzo 2010
- III settimana di
Quaresima - fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
I cristiani non osservano il
Sabato, non hanno il segno della circoncisione, non fanno la
distinzione fra gli animali puri e impuri, non lavano le mani prima
di mangiare per i motivi religiosi. E facile indicare tanti minimi e
anche grandi precetti della Legge ebrea, che i discepoli di Cristo
trasgrediscono. Sembra che soltanto il Decalogo ci è rimasto da
tutta la Legge e gode la grande stima nella Chiesa. Ma tutto
l’altro, tanti iota e trattini, è passato. Che cosa quindi
significano le parole di Gesù appena ascoltate?
“Non sono venuto ad abolire la
Legge, ma a dare pieno compimento”. Anche se il risultato
dell’abolire e del dare compimento è lo stesso, non si tratta della
stessa cosa. La Legge sia abolita, che compiuta, non esiste più, ma
abolita muore sterile e senza figli, compiuta invece, dà la vita al
mondo nuovo, dove tutto ciò che la Legge cerca di custodire, è
custodito senza di essa, nella libertà totale. L’abolizione della
Legge è la sua sconfitta, il compimento – la vittoria perfetta, il
raggiungimento dello scopo. Per questo osservare la Legge e
insegnarla rende l’uomo grande nel regno dei cieli, dove la volontà
del Padre è fatta perfettamente senza Legge.
La Legge – come ha detto san
Paolo – è “un pedagogo, che ci conduce fino a Cristo”. Il nome di
pedagogo, che viene naturalmente dal greco, significa “chi conduce
il bambino” e indicava uno schiavo che era responsabile per il
cammino dei bambini dalla casa alla scuola. Non poteva lasciare la
mano del bambino, finché non si trovasse davanti al maestro. San
Paolo così descrive il ruolo della Legge: non è il nostro maestro,
ma ci conduce a lui.
Fratelli e sorelle, se la Chiesa
ci propone oggi questa meditazione sulla natura della Legge, lo fa
sicuramente per ricordarci il valore e il posto delle nostre leggi
quaresimali. Non sono Cristo, non in ciò che facciamo c’è la nostra
salvezza, non nell’osservanza delle regole – quaresimali o altre –
c’è la nostra pace. Tutto questo ha il senso soltanto quando ci
guida a Cristo e quando ci lascia davanti a Lui. Se no, la Legge
paradossalmente può essere l’ostacolo e può nuocere, come nuocerebbe
lo schiavo, che non lasciasse la mano del bambino dopo essersi
trovato davanti al maestro. Osserviamo quindi scrupolosamente la
Legge, esaminando accuratamente se è pronta a lasciarci davanti a
Cristo. Amen.
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Domenica 7 marzo 2010
- III Domenica di Quaresima -
fr. David FMJ
Gn 4, 5-42
Fratelli e sorelle, la storia della Samaritana è
la storia di un incontro particolarmente
importante, poiché si
tratta dell’incontro con il Signore.
Questo vangelo della
Samaritana è stato scelto dalla Chiesa per
il primo scrutinio dei catecumeni. C’è, in questa scelta, qualcosa
che colpisce. La Chiesa trasmette il suo tesoro a Camilla e a Simone
che stano per essere battezzati nella notte di Pasqua, e
la prima
perla preziosa che
la Chiesa, maternamente, tira fuori per
loro, è questo vangelo della Samaritana. Eppure,
altri brani dei
vangeli potrebbero
sembrare adatti. Avremmo potuto immaginare che il
vangelo del primo
scrutinio sarebbe dovuto essere il testo delle
Beatitudini, o il Padre
Nostro, o il
prologo di san
Giovanni, o la parabola del figlio
prodigo. Ma è stato scelto il vangelo della Samaritana. Bisogna
senza dubbio prendere in considerazione l’insieme dei tre vangeli
dei tre scrutini per capire questa scelta. Oggi la Samaritana. La
domenica prossima il cieco nato. E la settimana più avanti, la
resurrezione di Lazzaro. Questi tre episodi
tratti dal vangelo secondo san Giovanni sono una splendida
preparazione al battesimo, perché affrontano i temi dell’acqua,
della luce e della vita. Il battesimo infatti lava, illumina e
vivifica, perché iscrive in noi, in un modo indelebile, la vita di
Cristo, morto e risorto per amore nostro.
Ma torniamo al vangelo di oggi. La storia della
Samaritana è la storia di un incontro. Appunto, è con un incontro
che tutto comincia. La nostra fede, fratelli e sorelle, è fondata
sull’incontro con Gesù Cristo, il figlio di Dio. La proclamazione
del vangelo, la celebrazione dei sacramenti, la predicazione, la
liturgia, la Chiesa sono un effetto dell’incontro con Gesù Cristo,
il figlio di Dio, e hanno come meta
condurre all’incontro con lui. Un incontro, fratelli e sorelle, è
una scoperta, un inattesa apertura, quando si tratta di un incontro
profondo che cambia il corso dell’esistenza. Siamo, grazie a san
Giovanni, i testimoni delle tappe dell’incontro vissuto dalla
Samaritana. Queste tappe appaiono con una precisione sorprendente.
Questa donna è venuta ad attingere acqua a
un ora in cui le donne non erano solite andare al pozzo. Forse si
nasconde, forse vuole evitare la gente e che si interesse dei suoi
affari. Questa donna però sta per vivere una trasformazione
spettacolare e divenire così missionaria nella sua città. Ciò non
avviene tutto d’un tratto. Si vede un evoluzione nella qualità del
suo rapporto con Gesù. C’è prima il tempo delle obiezioni. Poi
quello dell’equivoco, quando intende in un modo materiale l’acqua
viva promessa da Gesù. Viene di seguito il tempo della verità su sé
stessa: «hai detto bene «Io non ho marito». Infatti hai avuto cinque
mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il
vero.» Di che cosa si tratta? Di uno schiaffo in faccia?
Di un insulto mascherato? Di un
umiliazione gratuita? Per niente affatto. Gesù è l’unico che possa
condurci all’umile verità su noi stessi in modo che non insulta, ma
libera. C’è, nel modo di amare di Gesù, qualcosa di unico, di
assolutamente originale. L’amore di Gesù non conosce nessuna
illusione a nostro riguardo, nessun ingenuità. Eppure ci ama con un
amore totale, senza ripensamenti, senza rimpianti, con un amore che
libera e crea. Tutti gli amori veri attingono a questa sorge divina
dell’amore di Cristo.
Quando san Giovanni
ci fa lasciare la Samaritana, essa è ormai diventata missionaria.
«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto»,
proclama ai vicini, ai conoscenti, ai viandanti, a chi ben vuole
ascoltarla. Ma tutti sanno già probabilmente più o meno ciò che
questa donna ha fatto e chi è. Si può pensare che la sua reputazione
non è molto buona tra gli abitanti del suo paese. Ma eccola, a causa
del suo incontro con Gesù, in possesso di una libertà profonda che
le permette di assumere la propria storia. L’inquietudine non fa più
presa su di lei. Il mondo è cambiato, quando lei ha incontrato Gesù,
l’unico che possa giustificare la nostra esistenza. D’ora in poi, la
nostra esistenza non è più la nostra, ma appartiene a lui ed è per
lui. Questo legame intimo con il Cristo non è esclusivo da tutte le
nostre altre relazioni,
ma dà
compimento ad esse.
La nostra
esistenza per il Cristo è, contemporaneamente, un esistenza per gli
altri e per ciò un esistenza profondamente missionaria.
Uno psicologo ha detto un giorno
che, per i bambini, le relazioni più importanti vengono descritte
sotto il modo dell’avere. Alla domanda «che cosa hai?», i bambini
rispondono, si dice, spontaneamente: «ho un papa, ho una mamma». La
ricchezza fondamentale dell’essere umano sono le relazioni che
contano veramente per lui. Per la Chiesa, e per noi che siamo
generati dalla Chiesa nel battesimo, Gesù è il nostro tesoro.
Abbiamo Gesù Cristo, una ricchezza inestimabile perché ci apre
all’amore infinito. Camilla e Simone, il vostro incontro con Gesù
Cristo ha già attraversato più tappe. Possiate avere cura della
relazione già stabilita con lui. Una storia unica vi aspetta e vi
chiama: la storia santa della vostra vita con Cristo.
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Mercoledì 3 marzo 2010 - II
settimana di Quaresima -
fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Il grande sforzo della vita
monastica, ma anche di tutta la vita cristiana, è vivere ora senza
andare troppo avanti col pensiero e col cuore. Infatti preghiamo il
Padre: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, e ricordiamo le
parole del Maestro: “Non preoccupatevi dunque del domani… A ciascun
giorno basta la sua pena”. Ma non è facile vivere soltanto oggi. E
la difficoltà non viene soltanto dal nostro peccato, ma dal fatto,
che Dio ci ha creati eterni, e ne consegue che il nostro cuore corre
verso il mondo che verrà e che sarà eterno. Per questo abbiamo
bisogno di promesse, di garanzie da parte di Dio… Per questo la
madre dei figli di Zebedeo vuole che Gesù dica che i suoi due figli
siedano uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel regno di
Cristo. Ma le promesse che Dio fa agli uomini non parlano mai
soltanto del futuro, come vorrebbe la madre dei figli di Zebedeo.
Nel rispetto del progetto creatore riguardo all’uomo – Dio ci ha
creati infatti eterni in mezzo al tempo – parlano tanto del futuro,
quanto del presente: se vuoi ottenere la gloria di Dio, devi
essere pronto ad esistere ora come Dio, devi essere pronto a bere il
calice che Lui sta per bere. Occorre intrecciare il nostro oggi con
il nostro domani e vivere pienamente l’eternità in mezzo al tempo.
Cristo stesso ci ha indicato, come
far coesistere vita terrena e vita celeste. È Lui il primo uomo che
vive ora e sempre. Salendo a Gerusalemme, saliva al Padre. Per lui
il cammino verso la città santa, la condanna a morte, la
flagellazione, la crocifissione e la risurrezione sembrano essere
una cosa sola. Il suo “oggi”: quello banale come il tradizionale
pellegrinaggio alla città santa, quello terribile come l’ora della
passione o quello glorioso come la risurrezione dai morti, è sempre
inserito nell’eternità, nella vita eterna col Padre. Non fa nulla
soltanto oggi e ora aspettando qualche “poi”. La risurrezione, che
significa infatti la pienezza della vita eterna, è per lui il terzo
giorno, cioè uno di questi “adesso” di cui è composta la nostra
esistenza. Per Gesù sembra non esistere un adesso e un poi, un qui e
un là, il tempo e l’eternità. Lui davvero vive sia ora, che sempre.
Per questo rispondendo alla domanda
della madre dei figli di Zebedeo dice, che chi vuole diventare
grande, sarà servitore, chi vuole diventare il primo, sarà schiavo.
“Diventare”, che ci apre verso il futuro, verso l’eternità, deve
incontrare “essere”, che tocca il nostro presente. Non si tratta
quindi nell’insegnamento di Cristo di essere servitore per diventare
grande, ma di capire che servitù e grandezza, schiavitù e primato
sono una cosa sola. Proprio come nel Figlio dell’uomo che essendo re
eterno e glorioso serve e dà la vita. E la sua croce, verso la quale
camminiamo con Lui, è davvero la sua gloria. In lei si incontrano la
terra e il cielo, l’ora e il sempre, la servitù e la grandezza.
Preghiamo dunque oggi il Signore, che ci dia la grazia di entrare
con gioia nel mistero della sua croce. Amen.
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Venerdì 19 febbraio 2010
- dopo le Ceneri - fr. Marek
FMJ
Fratelli e sorelle,
All’inizio della Quaresima, il Mercoledì delle
Ceneri la Chiesa ci ha ricordato le parole di Gesù che invitano a
stare attenti “a non praticare la nostra giustizia davanti agli
uomini per essere ammirati da loro”. Le opere della giustizia, cioè
l’elemosina, la preghiera e il digiuno devono essere praticati nel
segreto, dove soltanto il Padre ci vede. Oggi, sempre in questa
materna pedagogia nei confronti dei suoi figli, la Chiesa ci insegna
come digiunare, offrendoci il brano del Vangelo che abbiamo appena
ascoltato. Non sono che tre frasi: una domanda, una domanda retorica
che è poi la risposta, e una profezia, ma per comprendere ciò che
dicono non ci basta la vita…
Nella nostra situazione di discepoli di Cristo
che digiunano, dobbiamo rifare la domanda dei discepoli di Giovanni
e chiedere a Gesù: perché digiuniamo? Forse perché gli uomini di
tutte religioni lo fanno? Forse perché è la santa tradizione, e i
padri, i santi lo facevano? Forse perché siamo monaci, monache e il
monaco digiuna? Anche se tutto questo è vero, non basta per essere
motivo di digiuno per i discepoli di Cristo. La causa del digiuno
davvero cristiano è una sola: possono forse gli invitati a nozze non
essere in lutto, quando lo sposo è stato loro tolto?
Il pianto e il digiuno cristiano nascono dalla
consapevolezza del peccato. Il peccato invece sta proprio in questo:
siamo invitati a nozze, siamo creati per condividere la gioia eterna
di Dio, ma Dio è sparito dal nostro mondo. Tutto è pronto per le
nozze: la terra dà i suoi frutti e sembra un tavolo imbandito con
abbondanza, la musica del creato sembra invitare alla danza,
l’umanità è come la figlia del cosmo, giovane ma matura per essere
sposa del Creatore. Ma lo Sposo non c’é. I farisei e i discepoli di
Giovanni il Battista lo aspettavano, è dunque ovvio che
digiunassero, perché prima della venuta dello Sposo non si tocca il
cibo messo sui tavoli e i musicisti non suonano. Ma il digiuno
cristiano è diverso. Noi sappiamo che lo Sposo è già venuto, ma che
dopo è stato preso e buttato fuori. Non ci saranno dunque queste
nozze per le quali tutto il mondo è pronto. Possiamo non essere in
lutto? Possiamo ascoltare la musica del mondo, mangiarne i pasti
deliziosi e rallegrarci ammirando la bellezza della sposa?
Paradossalmente la grandezza e lo splendore del mondo e dell’uomo –
tutto pronto per le nozze! – aumentano il dolore. Tutto questo
sembra vano, sembra non aver più senso: è stato creato per sposare
Dio, ma non ci saranno nozze, lo Sposo è stato loro tolto. Per
questo digiuniamo, non possiamo non essere in lutto, è evidente.
Fratelli e sorelle, il digiuno cristiano non è
uno sforzo per essere migliori, più padroni di sé, più giusti. È il
frutto del lutto, che viene dal nostro peccato, ma di un lutto pieno
di speranza, perché lo Sposo, tolto a noi, ha promesso di portarci
là dove lui è. Le nozze nel mondo che conosciamo non sono riuscite,
ma ora noi siamo invitati alle nozze dell’Agnello in cielo. Lo Sposo
è stato sbattuto fuori dalla casa della sposa, ma nonostante questo
la prenderà nella sua casa e non l’abbandonerà mai. Digiuniamo
dunque piangendo i nostri peccati, ma con questa gioiosa e umile,
perché misteriosa, speranza di bere un giorno il vino nuovo nel
Regno dell’Agnello. I cristiani digiunano, per così dire, perché
aspettano il pane dal cielo. Amen.
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Domenica 14 febbraio 2010
- VI Domenica T.O. - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Di solito le conclusioni
pratiche tratte dalla meditazione della Sacra Scrittura vengono
presentate alla fine dell’omelia, ma questa volta mi permetto di
cominciare all’incontrario, condividendo fin dall’inizio una delle
conclusioni possibili della meditazione sul brano del vangelo detto
“Le Beatitudini”. Ed è questa: non consoliamo i poveri e gli
affamati troppo presto chiamandoli beati, dobbiamo essere davvero
molto prudenti e parchi nel dire a chi piange “beato te” e a chi è
insultato e disprezzato, “rallegrati!” E ora cerco di spiegare
almeno un po’ perché.
Le Beatitudini che abbiamo
appena ascoltato sono parole di Gesù di importanza straordinaria.
Sapete bene che sono proprio le Beatitudini ad essere considerate la
costituzione, la legge fondamentale del Regno di Dio, tanto che a
volte sono chiamate il nuovo Decalogo. Sono anche parole
belle, commoventi e profondamente consolanti. Sono sognate e tanto
attese dai poveri e dagli affamati, cioè da tutti noi. Però tutta la
loro forza sta non tanto in ciò che viene detto, ma in chi le
pronuncia. Le stesse parole sarebbero morte e vuote, se non fosse
Gesù a pronunciarle. Non si può separare le Beatitudini da colui
che, per così dire “beatifica”, benedice in questo modo. E questo è
il primo motivo che richiede moderazione nel fare nostre le parole
delle Beatitudini.
Gesù è il povero, perché come
leggiamo in San Paolo: da ricco che era, si è fatto povero per voi,
perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Gesù è
affamato, così assetato da chiedere a una Samaritana: “dammi da
bere” e da gridare davanti al mondo intero dall’alto della croce:
“Ho sete!”. Gesù piange, piange su Lazzaro, piange su Gerusalemme,
prova tristezza e angoscia al Getzèmani e la Lettera agli Ebrei dice
di lui che “offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime”.
Tutti conosciamo molto bene l’odio, gli insulti e il disprezzo, che
Gesù ha subito durante la vita e soprattutto nell’ora della morte.
Furono inimmaginabili. Gesù è quindi disceso fino al fondo della
povertà umana, nessuno ha potuto farlo così perfettamente, e per
questo soltanto lui può parlarcene secondo verità.
E cosa ha trovato Gesù in fondo
alla povertà umana? Secondo le sue parole, lì ha trovato il regno di
Dio. Soltanto in questo modo si può spiegare la sua benedizione:
beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio!
Nel cuore del povero si
nasconde il Regno. È difficile crederlo. Sembra che il cuore
sia corrotto, guasto, se da lui deriva una vita zoppa, sciancata.
Sembra che il cuore sia vuoto, se la vita non dà soddisfazione.
Sembra infine che Dio l’abbia abbandonato, rigettato, se dal cuore
esce il peccato. Gesù però dopo aver toccato il fondo del cuore
umano, dopo essersi immerso nella povertà umana fino alla morte, lì
ha trovato il Regno di Dio, cioè Dio stesso e la sua vita, la vita
eterna. La sua autorità quindi, autorità di un vero uomo, rende
autentiche le parole della sua benedizione: beati siete voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio, l’ho visto, l’ho toccato. Noi
possiamo fare nostre queste parole soltanto nella misura della
nostra somiglianza col Cristo crocifisso e risorto. Per questo
conviene che siamo moderati nel proclamare beati i poveri.
Ma c’è anche un altro motivo.
Le Beatitudini non sono soltanto la rivelazione di ciò che Gesù ha
trovato nel cuore umano, al fondo della povertà umana. Sono anche il
frutto della trasformazione dell’uomo che si è realizzata per mezzo
suo. Il Regno di Dio è infatti nel cuore umano, perché mediante
l’incarnazione è diventato il cuore di Dio. Gesù è sia vero uomo,
che vero Dio, e questo fa sì che nel cuore umano sia di nuovo
seminato il Regno di Dio. I poveri sono beati, gli affamati saranno
saziati e coloro che piangono rideranno, perché in Cristo Dio è
tornato all’uomo, è entrato nel suo tempio. Non c’è altro motivo di
felicità per i poveri, che Gesù. Le Beatitudini, che ci piacciono
tanto, sono quindi parole di Gesù in un modo del tutto particolare.
Sulle nostre labbra rischiano di essere pio desiderio, se escono
invece dalla sua bocca, hanno la forza della verità: liberano.
Gesù infatti non pronuncia tanto una benedizione, ma crea ciò che
dice, rende il povero davvero beato, prima facendosi uomo lui stesso
e poi pronunciando le splendide parole delle Beatitudini.
E questo è il secondo motivo
che richiede la nostra moderazione nel ripetere le parole delle
Beatitudini. Queste parole diventeranno davvero nostre, quando noi
diventeremo davvero di Cristo, quando saremo uniti alla divinità di
colui, che si è unito alla nostra umanità. Aspettando quel giorno
possiamo annunciare ai nostri fratelli poveri Gesù Cristo, che li ha
proclamati beati. Questo è più vero del nostro dir loro che
possiedono il Regno e che tutto andrà bene.
Fratelli e sorelle, se le
Beatitudini che meditiamo oggi sono le parole più importanti di
Gesù, se sono il fondamento e la costituzione del popolo della nuova
Alleanza, e se allo stesso tempo non sono ancora pienamente nostre,
percepiamo meglio la direzione del nostro cammino cristiano, il cui
fine è fare nostre queste parole e il cui metodo è farsi
conformi alla morte di Cristo – per toccare il fondo della povertà
umana – nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, che
inserisce l’uomo nella vita di Dio. Ecco l’essenziale della vita
cristiana: diventare come Gesù per la salvezza del mondo, per
proclamare e rendere beato ogni povero e tutti coloro che piangono e
hanno fame. Amen.
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martedì 9 febbraio 2010
- V settimana T.O. - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
La polemica di Gesù con i
farisei e gli scribi può sembrarci strana e puramente accademica,
perché la questione delle abluzioni rituali non infiamma i nostri
intelletti e non tocca la nostra vita quotidiana. Però le ultime
parole di Cristo aprono nuovi orizzonti sull’argomento, e questo
rende possibile il nostro impegno nella loro discussione. Gesù
giudica in modo inequivocabile la pratica del “korban”, quando
dice: “voi annullate la parola di Dio con la tradizione che avete
tramandato voi”, ma aggiunge anche: “E di cose simili ne fate
molte”, e questo è inquietante per noi. Non conosciamo questa
pratica del “korban”, ma forse facciamo qualcosa di simile,
annullando così la parola di Dio con la nostra tradizione.
Probabilmente facciamo così,
perché la tendenza all’idolatria è nell’uomo molto forte. La parola
di Dio è come la pietra gettata dal pastore alla pecora, che si sta
allontanando dal gregge, per farla tornare sulla strada giusta. Da
questa pratica deriva il nome ebreo della Legge di Dio:
Torah. La parola di Dio non ci lascia in pace, ci sta sempre
addosso, ci spinge, ci fa camminare. La tradizione umana nasce dal
limitarsi a fissare la pietra gettata dal Pastore e questo col tempo
diviene contemplazione del segno di Dio invece che di Dio stesso. Ci
può dare un po’ di riposo, ci rende tranquilli e sicuri. La parola
di Dio invece ci fa pellegrini, viaggiatori, uomini che come Cristo
non hanno dove posare il capo. La tradizione umana ci permette di
passare lunghi giorni là dove un pellegrino potrebbe soltanto
pernottare, ci propone non soltanto la tana o il nido, ma una vera
casa con un bel giardino e una camera dove nel letto ci aspetta un
cuscino morbido. La tentazione è forte e sottile, è quindi
molto probabile che anche noi facciamo cose simili a quelle dei
farisei. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma ciascuno di noi
lo sa da se.
Fortunatamente Cristo ci ha
dato un rimedio efficace: la parola di Isaia che ci ricorda che
onoriamo Dio con le labbra, ma il nostro cuore è lontano da Lui. È
vero. La tradizione umana non è mai ciò che desidera il nostro
cuore, non può mai soddisfarlo. Esso è inquieto anche in una
situazione confortevole (quando cioè abbiamo il cuscino morbido
sotto la testa) o in una situazione sicura (quando viviamo in un
mondo stabile, per di più protetto dalla tradizione degli antichi).
Il cuore umano trova la pace soltanto vicino a Dio, con Lui o
addirittura in Lui. È per questo che Dio nella sua misericordia ci
libera da ogni tradizione umana, che pur essendo buona e utile, come
la pietra gettata alla pecora, non servirebbe a nulla se diventasse
l’oggetto del nostro amore. Nulla si può preferire al Cristo,
davvero nulla. Amen.
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mercoledì 3 febbraio 2010
- IV settimana T.O. -
fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Dio conosce bene il cuore
umano, sa di che cosa siamo plasmati e ricorda che noi siamo
polvere. Però dopo aver preso su di se la nostra natura, deve in un
certo senso ri-impararlo, sperimentarlo – per così dire – sulla sua
pelle. A Nazareth, sentendo i suoi vicini disprezzare le sue parole
solo a causa del suo mestiere e della sua famiglia, impara – e
questo spiega la sua sorpresa – che l’uomo fa l’abitudine al mondo
in cui vive tanto da esserne schiavo, e da non potere a volte
neanche immaginare che le cose possano cambiare e andare in un altro
modo. Il falegname è falegname e non rabbi che insegna nella
sinagoga. Gli abitanti di Nazareth probabilmente avrebbero ascoltato
volentieri la sapienza di qualsiasi grande rabbi, se uno di loro
avesse voluto venire da Gerusalemme, ma era difficile per loro
ammettere che un bravo falegname Nazareno fosse divenuto davvero un
grande rabbi e forse anche un profeta. Accettare questo avrebbe
significato essere d’accordo con qualsiasi imprevedibile cambiamento
del mondo. Si rivoltano quindi istintivamente contro Cristo,
seguendo un impulso di autodifesa. La loro risposta all’insegnamento
di Gesù significa infatti: non toccare il nostro mondo, non ti
azzardare a distruggerlo!
Tuttavia, questo toccare il
mondo, crearlo e trasformarlo è proprietà della Parola di Dio.
Uscendo dalla bocca dell’Altissimo la Parola ha creato l’universo e
ne sostiene senza sosta l’esistenza. La voce del Signore – come dice
il Salmista – schianta i cedri e affretta il parto delle capre. Non
si può dire alla Parola di Dio: non toccare il nostro mondo, perché
questo significherebbe: smetti di esistere! E come può non esistere
la Parola del Dio vivente ed eterno? Non ci stupiamo quindi, se pur
non potendo compiere nessun prodigio, Cristo impone le mani ancorché
a pochi malati e li guarisce. Toccare il mondo, cambiarlo per
guarire e salvare è infatti proprietà della Parola di Dio.
Fratelli e sorelle, la
ribellione contro la Parola di Dio e contro la sua ininterrotta
azione nel mondo è presente anche nei nostri cuori. Forse ne abbiamo
già eliminato la ragione fondamentale, cioè il non fidarsi di Dio,
ma mi sembra che ci sia anche un altro motivo, che pur apparendo non
imputabile, può lungamente sostenere questa rivolta in noi:
l’abitudine, l’assuefazione al mondo che conosciamo ed al nostro
“io”. Nonostante tutto ogni tanto la Parola stende la mano per
toccare il mondo e noi. Scopriamo allora con stupore, che il mondo
continua a crescere e anche noi non siamo ancora compiuti. Lasciamo
quindi che la Parola di Dio faccia la sua opera in noi ed in ogni
creatura, lasciamo che ci sorprenda. Amen.
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Domenica 31 gennaio 2010
- IV Domenica T.O. -
fr. David FMJ
Gr. 1, 4...19; Sal 70; 1Co 12, 31-- 13,13; Lc
4, 21-30
Quest’episodio ci dà
l’impressione che Gesù sciupi tutto. Sembrava che le cose andassero
bene. La
gente era stupita,
anzi, ammirata, ma il contenuto dell’insegnamento di Gesù suscita
delle reazioni, delle
incomprensioni, poi un
tumulto, e in fine un tentativo di omicidio sulla sua persona. Va
notato che questo
succede a casa di
Gesù. Questo tumulto, questa collera collettiva,
quest’incomprensione, si verificano fra la
sua gente, gli
abitanti del suo villaggio, quelli che frequentano la sua sinagoga,
quelli che l’hanno visto
crescere. E ne viene
un avvertimento per noi. Dobbiamo chiederci se non corriamo il
rischio, noi che
frequentiamo Gesù, noi
che ci consideriamo dei privilegiati perché siamo vicini a lui,
perché facciamo parte
della sua Chiesa,
dobbiamo chiederci se non rischiamo di essere, prima o poi,
nonostante tutto questo, o
forse a causa di tutto
questo, tra i più impermeabili alla Parola di Gesù, proprio perché
resi troppo sicuri di
se da questi
privilegi. È qualcosa che s’incontra ripetutamente nella storia
della Chiesa. I santi hanno spesso
un ruolo profetico.
Rompono spesso la monotonia di una vita ecclesiale troppo appagata
di se, e
manifestano la forza
sempre nuova di Dio. Possiamo pensare anche a quei gruppi che si
separano dalla
Chiesa dopo un
concilio, dopo che la Chiesa ha vissuto una grazia del tutto
speciale dello Spirito Santo che
fa tutto nuovo. Ci
sono sempre delle correnti integraliste che non accettano
l’evoluzione della Chiesa. Ma
non si può rifiutare
l’evoluzione della Chiesa, perché sarebbe volere una Chiesa morta,
separata dallo Spirito
Santo.
Ma sono esempi che,
per noi, semplici fedeli, rimangono rassicuranti perché non siamo
messi in
questione da tale
considerazioni. Eppure, il pericolo che il Vangelo di oggi ci indica
non riguarda
esclusivamente
l’istituzione ecclesiale. Riguarda ciascuno di noi. È quindi in modo
personale che dobbiamo
accettare di
riconoscere, con umiltà e lealtà, che siamo nella stessa situazione
degli abitanti del villaggio di
Gesù, che cioè la
Parola di Gesù non sempre ci è gradita, che viene a urtare il nostro
benessere spirituale, a
ricordarci verità che
preferiamo non prendere in considerazione. Ma facciamo un esempio,
per non
rimanere troppo nel
vago, per non rischiare di non essere coinvolti, quando invece il
Vangelo di oggi ci
ricorda che dobbiamo
lasciarci interpellare dalla Parola di Dio. Prendiamo come esempio
la crisi delle
vocazioni. Ci sono
famiglie molto cattoliche, molto praticanti, che vanno regolarmente
alla messa, e che
tuttavia reagiscono in
un modo del tutto negativo quando uno dei loro figli dichiara di
voler consacrare la
vita al Signore.
Forse, in questi casi, succede qualcosa che somiglia a ciò che il
Vangelo di oggi ci fa vedere. A
Nazaret, Gesù provoca
un tumulto. Eppure, ha semplicemente detto ciò che tutti già
sapevano. Ha ricordato
episodi biblici
famosi. I suoi ascoltatori sapevano perfettamente chi era stato
Elia, la vedova di Sarepta,
Eliseo e Naamàn.
Semplicemente, sulla bocca di Gesù, questi episodi ben conosciuti
smettevano di essere
storielle alle quali
erano abituati, delle storielle che avevano perso l’effetto sorpresa
e che facevano, per così
dire, parte del loro
bagaglio culturale. Le vecchie storielle della vedova di Sarepta e
di Naamàn il siro
divenivano, sulla
bocca di Gesù, a causa della sua santità, della sua divinità, parola
profetica, parola divina,
una spada a doppio
taglio, parola che viene a giudicare i cuori. Ciò che la vedova di
Sarepta diceva al profeta
Elia noi possiamo
dirlo a Gesù: «sei un uomo di Dio, sulla tua bocca, la Parola di Dio
è verità».
Ma torniamo al nostro
esempio, la crisi delle vocazioni. Nelle nostre famiglie, quando un
giovane
annuncia di voler
consacrare la sua vita al Signore, non succede in definitiva niente
di così straordinario.
Gesù ha chiamato
questo giovane. È qualcosa di importante per lui, per la sua
famiglia, ma è anche qualcosa
di cui già si sapeva,
perché fa parte del modo di fare abituale di Gesù, se così si può
dire, poiché Gesù non
smette mai di chiamare
al suo seguito. Nei vangeli, lo vediamo frequentemente chiamare
qualcuno a
lasciare tutto per
seguirlo in un modo del tutto particolare. Insomma, quando Gesù ci
fa la sorpresa, se si
può dir così, di
chiamare qualcuno che conosciamo, non fa nient’altro che ciò che lo
vediamo fare dall’inizio
della Chiesa. Nelle
reazioni familiari a volte così sorprendentemente violente davanti
all’ingresso di un
giovane nella vita
religiosa o in seminario, ci si può chiedere se non ci sia qualcosa
di molto simile alla
reazione degli
abitanti di Nazaret di fronte alla predicazione di Gesù. Se siamo
sinceri nel nostro
attaccamento a Gesù,
se vogliamo davvero essere suoi discepoli, dobbiamo pur aspettarci
che entri nella
nostra vita per darle
una direzione che non avevamo pensato o immaginato prima. Sia con la
chiamata di
una persona cara che,
in un certo modo, si separerà da noi per consacrarsi a Dio, sia, e a
maggior ragione,
con la chiamata che
sentiamo nel profondo del nostro cuore e che siamo tentati di
soffocare, Gesù ci invita
a seguirlo, non a
ribellarci a lui o a chiuderci davanti alla sua presenza. Avremmo
senza dubbio tante
buonissime ragioni da
opporgli. Ma è lui il Signore. I rabbi di Nazaret trovavano forse
che la predicazione di
Gesù mancava di senso
pastorale, e le reazioni del popolo sembravano dar loro ragione.
Potremmo, allo
stesso modo, davanti a
una vocazione nascente, la nostra o quella di una persona cara,
dirci che c’è di
meglio da fare, che è
uno spreco entrare in monastero dopo gli studi fatti ecc. Ma è Gesù
il Signore, e i
nostri buoni motivi
devono cedere il passo davanti a lui.
Fratelli e sorelle,
nell’attuale crisi delle vocazioni, chiediamoci se non ci siano i
sintomi di una «sindrome
di Nazaret». In altri
termini, chiediamoci se non ci siamo fabbricata una vita cristiana
tutto sommato
abbastanza comoda, ma
un po’ troppo impermeabile alla volontà di Gesù, all’irruzione della
sua volontà
nella nostra vita. Se
fosse così, allora, la crisi delle vocazioni non sarebbe il problema
più grave della Chiesa.
Il problema più grave
sarebbe a questo punto che noi tutti, fedeli, religiosi, preti,
credenti, vogliamo
diventare davvero
credenti, e per questo permeabili alla volontà di Gesù nella nostra
vita personale.
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venerdì
29 gennaio 2010 - III
settimana T.O. - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
In Polonia, come penso anche in
Italia, mi sembra in quarta o quinta elementare i bambini fanno un
esperimento di biologia, che per la mia intelligenza è stata una
delle prime grandi scoperte. Si versa un po’ d’acqua in un vasetto,
si stende sull’imboccatura una garza, sulla quale si mette un po’ di
cotone umido e alla fine sul cotone si mette un seme di fagiolo. Poi
si osserva il mistero della crescita e si prendono appunti per
sapere quando il seme si apre, quando la radice raggiunge la
superficie dell’acqua, quando appare la prima fogliolina. È bello
quest’esperimento, perché mette in evidenza la forza vitale
racchiusa nel seme di fagiolo, così poco appariscente. Sicuramente
anche Gesù, forse senza particolari esperimenti scientifici,
ammirava il mistero nascosto nel seme, se ne faceva uso per
condividere con noi ciò che dall’eternità contempla nel seno della
Trinità. Il mistero della vita che si compie nel seme gettato sul
terreno gli sembrava simile al mistero del regno di Dio. Perciò
sulla base delle parole di Cristo anche noi possiamo avvicinarci a
questo mistero.
Cristo è il Figlio di Dio, la
Parola e la Sapienza del Padre che ha accesso immediato e pieno a
Dio. Dio, che nessuno ha mai visto, è per il Salvatore in un certo
senso come questo fagiolo per un giovane biologo: è nudo e aperto,
pronto ad essere conosciuto ed ammirato. Il Figlio può dunque vedere
il cuore del mistero del regno di Dio, cioè la propria nascita dal
Padre, ineffabile per tutto il creato, e l’apparizione, per così
dire, dello Spirito Santo inseparabilmente legata a questa nascita,
in quanto lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio. E poiché la
vita intima della Trinità divina è come il seme gettato sul terreno,
è l’origine di ogni fecondità e creatività, il Figlio vede il seme
produrre lo stelo e la spiga, vede il mondo intero sgorgare dal seno
della Trinità, come se ci fosse troppo amore da parte di Dio e non
fosse possibile contenerlo. Dio in un certo senso trabocca, come la
vita imprigionata nel seme non può rimanere dentro ma
germoglia e cresce. E alla fine il Figlio vede, che come il seme
produce il chicco pieno nella spiga moltiplicando se stesso, così
Dio crea gli uomini, sua immagine e somiglianza, che la Bibbia non
esita a chiamare dei. E nella pienezza del tempo appare il
frutto maturo di questo mistero del regno di Dio: Gesù Cristo,
Figlio di Dio e figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo, che offre a
tutti gli uomini la vita vera di Dio e fa espandere lo
Spirito Santo su tutte le creature. Sicuramente l’ammirazione
infantile della crescita del fagiolo è soltanto un pallido
riflesso dell’ammirazione che riempie il cuore del Figlio di Dio che
contempla senza fine e senza ostacoli il mistero del regno del
Padre.
Fratelli e sorelle, mentre per
Cristo il regno di Dio è simile al seme che germoglia e cresce
tranquillamente, di notte o di giorno, per noi è come il tesoro
nascosto che dobbiamo trovare e comprare al pesante prezzo della vendita
di tutto quello che abbiamo. Egli contempla nella gioia e nella pace
l’opera di Dio, noi cerchiamo di impadronirci del regno in un modo
che Gesù chiama violento. È così perché noi, peccatori siamo ancora
fuori e la vita che fa crescere il seme non ha ancora preso pieno
possesso di noi. Chiediamo quindi umilmente al nostro Salvatore di
sottometterci totalmente alla volontà di Dio come lo sono Lui stesso
e ogni piccolo seme di senape o di fagiolo. Che faccia sparire in
noi le ombre della morte e riempia tutto il nostro essere della vita
di Dio. La nostra gioia sarà piena, quando nel giorno della
mietitura con Gesù e tanti fratelli e sorelle ognuno di noi sarà un
chicco pieno nella spiga, cioè la perfetta somiglianza con Dio, seme
dal quale tutto ha vita ed esistenza. Amen.
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mercoledì
27 gennaio 2010 - III
settimana T.O. - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Le
parabole di Cristo sono uno dei doni più grandi che egli ci ha
fatto. Uniscono infatti il cielo e il suo regno alla terra. Non sono
ancora la Parola vivente di Dio, ma pronunciate dalla Parola stessa
creano nel nostro mondo un luogo dove possiamo introdurci nella
verità sulle cose divine. Sono – come Gesù ha detto – “per quelli
che sono fuori”, fuori dalla vita di Dio ovviamente, fuori dal seno
della Trinità, cioè fuori dal mistero del regno di Dio, ma sono date
loro come un acconto, un anticipo della contemplazione della verità.
Le parabole, secondo il loro nome, sono un certo metodo con
cui Dio fa sì che gli affari del cielo penetrino negli affari
della terra, getta (paraballei, direbbero i greci) gli uni vicino
agli altri e lancia un ponte al di sopra dell’abisso che divide la
terra dal cielo. Per questo è così importante saper ascoltare le
parabole. È possibile guardare la parabola e non vederla, ascoltare
le parole sul seminatore e non capire che sono un ponte, una porta
verso il mistero del regno. Ma è anche possibile scorgere la
parabola nell’insegnamento di Cristo e abbracciare con lo sguardo e
con la mente le due realtà separate fino dal principio del mondo che
conosciamo, ma da Gesù poste nella parabola l’una vicino all’altra.
È quindi possibile vedendo una bella immagine terrena vedere il
cielo.
La
parabola che meditiamo oggi non è soltanto una delle più conosciute,
ma – secondo le parole di Cristo – è all’origine di tutte le
parabole. Senza di essa non se ne può capire nessun’altra. Forse per
questo Gesù dopo averla raccontata svela un po’ il mistero della
parabola in quanto tale e fa uscire dall’ombra le realtà celesti per
porle in modo chiaro accanto a quelle della terra: gli uccelli che
mangiano il grano caduto sulla strada sono Satana che viene
subito e porta via la Parola appena seminata… il grano che cade sul
terreno buono è la gente che ascolta la Parola, l’accoglie e porta
frutto… Ed è molto significativo che il personaggio principale
della parabola – il seminatore – rimanga senza una spiegazione e
manchi il suo equivalente celeste. Gesù dice soltanto che il
seminatore, uscito a seminare, semina la Parola. Ma chi è questo
seminatore?
Possiamo ovviamente dire che il seminatore è Dio o Cristo stesso, ma
questo non servirebbe a nulla. La natura della parabola fa si che,
come Gesù stesso spiega, guardando ciò che ci dice, non vediamo di
che cosa parla, ascoltando non comprendiamo. Non si tratta quindi di
risolvere l’indovinello e di ricavarne la soddisfazione
intellettuale che abbiamo capito tutto. Si tratta piuttosto di
entrare mediante la parabola dentro il mistero del regno di Dio per
non esserne più fuori. Se la parabola diventasse chiara per noi,
cioè le cose visibili – il seminatore, il grano, la terra e così via
– ci indicassero con precisione quelle invisibili, rimarremmo
fuori dal mistero, proprio perché è davanti a noi. Ma Gesù ci vuole
dentro, nel cuore di Dio. Per questo non ci svela chi è il
seminatore, ma ripete che semina abbondantemente la Parola.
Siamo quindi davanti a un evento: la Parola sta per essere seminata.
È infatti dappertutto tanto che la prodigalità del seminatore
stupisce. E la parabola sul seminatore, come anche le altre, non
tanto ci insegna questo, quanto piuttosto ci invita ad entrare
dentro, ad impegnarsi in questo evento. Per quelli che sono fuori,
Cristo ha le parabole, ma a quelli che sono dentro è stato dato il
mistero del regno di Dio.
Fratelli e sorelle, meditando la Parola, scrutandola e portandola
nel cuore continuamente dobbiamo cercare sempre non tanto di
comprenderla, quanto di entrare in essa. Allora non siamo più noi a
meditare la Parola, ma la Parola – in un certo senso – ci medita, ci
scruta e ci porta in se. E quando il seminatore semina la Parola,
noi possiamo essere seminati insieme a lei, possiamo essere coloro
che vengono seminati sul terreno buono, e possiamo portare frutto,
molto frutto. Amen.
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venerdì
22 gennaio 2010
- II settimana T.O. -
fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
L’istituzione dei Dodici
significa molto più che scegliere i discepoli e organizzare la
scuola di rabbi di Nazareth. Questi uomini sono il fondamento
dell’opera di Cristo. Vediamo infatti il Verbo creatore, che ha
dispiegato i cieli e fondato la terra, gettarne ora le basi sotto
cieli nuovi e terra nuova. E come al mattino della creazione Dio
disse e fu e in questo modo creò nella sua libertà infinita ciò che
voleva, così ora chiama a sé quelli che vuole ed essi vanno da lui,
obbedienti come le stelle del cielo che non trasgrediscono mai i
suoi ordini: “egli le ha chiamate ad hanno risposto – eccoci! e
hanno brillato di gioia per colui che le ha create” (Ba 3,35).
“Costituì dunque i Dodici”, si mise ad erigere l’edificio della
Chiesa, fondò la nuova Gerusalemme.
Questa libertà di Cristo nel
chiamare ed istituire i Dodici, che lui stesso un giorno ricorderà
dicendo – “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho
costituti” – ci dice una cosa molta importante sulla natura della
Chiesa. Può sembrare banale e ovvia, ma non è così. Questo modo di
chiamare gli Apostoli significa, che la Chiesa è opera di Cristo
nello stesso modo in cui lo è il mondo. Lo conferma anche lo scopo
principale della costituzione dei Dodici. Cristo lo ha fatto, perché
stessero con lui. Anche il mondo Dio ha creato senza nessun
tornaconto personale, dall’amore puro l’ha creato, perché stesse
davanti a lui, perché fosse. La Chiesa prima di tutto è quindi opera
di Dio e nuova creazione, e solo dopo viene tutto ciò che sembra del
tutto naturale e simile a tante altre realtà umane: l’organizzazione
sociale della Chiesa, la sua storia inserita nella storia
dell’umanità, le convinzioni e le credenze dei cristiani.
Pur essendo creazione di Dio e
opera della sua Parola onnipotente, la Chiesa rimane una creatura
fragile e vive sempre a rischio di peccato, dal momento che non dal
nulla Dio l’ha creata, ma dagli uomini. E l’uomo fra tutte le
creature è l’unica capace di non essere ciò che è, di disobbedire e
di rivoltarsi contro Dio. In questa settimana di preghiera per
l’unità della Chiesa il mistero del suo peccato si manifesta in modo
particolare. La Chiesa è una – confessano tutti i cristiani, che
essendo separati fra di loro e divisi dimostrano in tal modo che non
è una. La Chiesa è cattolica, ma dal momento che questa parola
indica innanzitutto la confessione di un gruppo di cristiani e non
l’universalità della Chiesa, è chiaro che la Chiesa non è più
cattolica. Creata per essere una e cattolica, poiché peccatrice, non
realizza perfettamente il progetto di Dio. Come ogni uomo anche
tutta la Chiesa deve quindi fare ininterrottamente questo sforzo di
conversione per diventare ciò che è e nessuno di noi può contentarsi
di essere nella Chiesa, se la Chiesa non è se stessa, non è davvero
una e cattolica.
Fratelli e sorelle, il grande
desiderio che si è svegliato nei cristiani dopo tanti anni,
addirittura secoli di divisione, il desiderio di ritrovare l’unione
perduta è la prova chiarissima che la Chiesa è opera di Dio. Nel
mondo attuale l’unione degli sposi diviene sempre più un lusso, il
pensiero sull’unione politica di una nazione, anche una sola sembra
utopia e la vera unione delle nazioni è sicuramente sogno soltanto
di visionari spericolati. Da dove viene quindi in noi questa brama
di essere uno se non da Dio? Davvero siamo “edificati sopra il
fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo
lo stesso Cristo Gesù”. È lui che continua in noi la sua opera per
renderla perfetta. Rendiamo grazie al Signore e siamo obbedienti a
lui per affrettare la venuta della Gerusalemme celeste dove Dio sarà
tutto in tutti. Amen.
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Domenica 20 gennaio 2010
- II settimana T.O. - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
La Chiesa, nostra madre e maestra, introducendoci nel tempo
ordinario vuole spiegarci bene cosa significa vivere la vita
cristiana nel quotidiano. Per questo la liturgia dopo il tempo di
Natale ci mostra pazientemente il mistero di Cristo venuto nel mondo
e rende presenti le epifanie cioè le manifestazioni del Salvatore,
perché la nostra vita dipende dalla verità della sua persona, da chi
è lui. Dopo aver visto Cristo attraverso l’adorazione dei magi come
re delle genti e dopo aver imparato attraverso il suo battesimo nel
Giordano che è figlio diletto del Padre, oggi la Chiesa ci propone
il terzo evento tradizionalmente considerato elemento della
manifestazione del Salvatore: le nozze di Cana e il miracolo della
trasformazione dell’acqua in vino. Che cosa ci dice quest’episodio?
Che Cristo è sposo della Chiesa e che fa entrare l’umanità
nell’unione con Dio.
Giovanni il Battista, come vi ricordate bene, è venuto per preparare
le vie del Signore, per preparargli il popolo, lavandolo dalle sue
colpe nelle acque del Giordano. Alla domanda: “chi sei?”, rispondeva
indicando uno che doveva venire dopo di lui e che sarebbe stato più
grande di lui. Giovanni era infatti l’amico dello Sposo. L’ha
affermato chiaramente, quando i suoi discepoli gli dicevano,
probabilmente non senza amarezza, che tutti accorrevano a Gesù e le
folle attorno a Giovanni sparivano. “Lo sposo – ha detto Giovanni –
è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è
presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo”. Quale
dunque doveva essere la gioia di Giovanni, quando poteva presentare
lo sposo alla sposa dicendo: ecco l’agnello di Dio, ecco colui che
vi ama tanto da dare la vita per voi. In quel momento Giovanni
sapeva che la sua missione era compiuta: sono giunte le nozze
dell’Agnello e la sua sposa è pronta. Allora dopo la testimonianza
di Giovanni e la chiamata dei primi discepoli, Gesù rivelato Sposo
del popolo santo inaugura il tempo delle nozze mistiche
e spirituali a Cana in Galilea.
La
provvidenza gli dà l’occasione di farlo, quando durante la festa del
matrimonio Maria, accorgendosi che manca il vino, intercede per gli
sposi in difficoltà. Ma la sua semplice constatazione: “non hanno
vino”, svela la situazione di tutto il popolo e di tutta l’umanità.
Davvero non hanno vino, perché il Signore è venuto soltanto con
l’acqua. La terra, come dice san Pietro nella sua lettera, è uscita
dall’acqua ed è in mezzo all’acqua. E il popolo santo dalla mano di
Giovanni non ha ricevuto altro battesimo che quello dell’acqua. Non
hanno quindi vino.
È significativo che volendo offrire alla gente il vino Gesù chiede
di riempire di acqua le anfore di pietra per la
purificazione rituale dei Giudei. Accoglie così l’opera di Giovanni
e guarda con benevolenza la conversione del popolo, che nelle acque
si è purificato. “Ora prendetene, dice, e portatene a colui che
dirige il banchetto”, perché vuole che la conversione e la
purificazione diano il suo frutto. Ed ecco l’acqua diviene vino, il
tempo della preparazione si cambia in festa, il pentimento, la
conversione e la purificazione nella gioia del perdono.
Il tempo del battesimo nell’acqua era quindi finito. Gesù, come ci
dice Giovanni l’Evangelista, non battezzava. Era finito il tempo
della penitenza. Gesù non digiunava, ma passava tanto tempo
mangiando e bevendo con i pubblicani e i peccatori così da essere
considerato da alcuni un mangione e un beone. Non era però possibile
il digiuno in presenza dello Sposo. Gesù annunciava la venuta del
Regno di Dio, proclamava beati coloro che lo desideravano e seminava
dappertutto la gioia della pienezza del tempo. Davvero si comportava
col popolo come lo Sposo con la sua Sposa, come lo Sposo innamorato
e profondamente felice.
Tutto questo finisce dopo un anno, o dopo tre anni, quando i farisei
decidono di uccidere Gesù. Lo Sposo è stato rifiutato dalla sposa.
Mentre mangia con i suoi discepoli l’ultima cena, dice profondamente
rattristato: “io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto
della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno
del Padre mio”. E quella sera cambia il vino delle nozze nel suo
sangue.
Se torniamo adesso al brano che parla della trasformazione
dell’acqua in vino a Cana, vediamo, che già quel giorno Gesù sapeva
bene, che il vero vino che avrebbe offerto al popolo, alla sua
diletta sposa per introdurlo nelle nozze eterne, è il suo sangue.
Non ha forse detto a Maria, dopo aver saputo da lei che il vino era
finito, che non era ancora giunta la sua ora? Sapeva bene che l’ora
delle nozze, l’ora in cui avrebbe potuto dare il vino vero, che
rallegra il cuore umano, era l’ora della sua morte sulla croce. Per
questo anche Giovanni il Battista, l’amico dello sposo, l’ha
chiamato l’Agnello. “Il Signore degli eserciti – secondo la promessa
di Isaia – ha preparato per tutti i popoli un banchetto di vini
eccellenti” (Is 25,6)… ma sul monte Calvario. Cristo si è
manifestato lo Sposo del popolo non tanto a Cana, quanto sulla
croce. La tomba è divenuta la sua stanza nuziale.
Fratelli e sorelle, grande è il mistero delle nozze dell’Agnello. Ci
ha sposato dando la sua vita per noi e subendo la morte per mano di
quel popolo che ha amato fino alla fine. Per questo non vino bevono
i cristiani durante l’Eucaristia, ma il sangue di Cristo, e non
conoscono altra gioia che quella di Gomer, moglie di Osea, che
nonostante l’adulterio continuava ad essere amata dal marito.
È anche molto importante, che dopo la risurrezione dai morti, cioè
dopo la croce per mezzo della quale Cristo ha contratto il
matrimonio con la Chiesa, il Salvatore abbia ristabilito il
battesimo, l’acqua viene riabilitata. Prima non battezzava, ora
mediante il suo corpo mistico vuole battezzare il mondo intero, e
per questo invia i suoi apostoli: andate e fate discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo. La missione di Giovanni il Battista passa allora alla
Chiesa, perché è di nuovo necessario che qualcuno prepari per Cristo
la sposa, che non è più un popolo ma l’umanità intera, e le indichi
l’Agnello di Dio, il suo Sposo. Dio infatti nell’eternità ci aspetta
tutti per godere con noi della vita felice di sposi che si amano di
amore perfetto.
Fratelli e sorelle, poiché, come abbiamo già detto, la nostra vita
cristiana dipende dalla verità della persona di Cristo, possiamo
chiedere per concludere, cosa significa per noi, che Gesù Cristo è
nostro Sposo rifiutato, ma fedele, crocifisso, ma risorto e vivo?
Cosa significa che è già venuto per sposarci, ma verrà ancora per
rendere perfetta la sua unione con tutta l’umanità. Mi sembra che
due possibili risposte siano di particolare importanza. La prima è
che la vita cristiana è una vita di gioiosa e serena penitenza, di
perpetua conversione e di ricerca del perfetto frantumare del cuore.
Poiché il Signore ci ha sposati sulla croce, il cristiano cerca di
entrare sempre più profondamente in questo mistero in cui il peccato
dell’uomo incontra l’amore infinito di Dio, le lacrime si mescolano
con la gioia e la morte, toccando la vita, muore. La seconda
conclusione è che la vita cristiana è una umile testimonianza
davanti al mondo, che si esprime innanzitutto nell’amarlo come il
Signore ha amato noi. Viviamo dunque il nostro tempo ordinario, la
nostra quotidianità cristiana bevendo dal calice del Signore il suo
sangue, vino eccellente, amando coloro che egli ha amato e
aspettando la sua venuta. Amen.
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venerdì 15 gennaio 2010
- I settimana T.O. - fr.
Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
Giustamente il
paralitico, di cui ci parla oggi il Vangelo, era portato, sorretto
da quattro presone, anche se due sole sarebbero state sufficienti
per trasportare la barella. C’era innanzitutto necessità concreta di
quattro persone, a causa della folla, perché i portatori avevano
bisogno di una mano libera per farsi un passaggio. Ma dovevano anche
essere in quattro per mostrarci chiaramente la totale debolezza del
paralitico. Come un fiume diviso in quattro corsi irrigava il
Paradiso per testimoniare la fecondità dell’Eden e come un Vangelo
in quattro forme nutre la Chiesa per mostrarci chiaramente la
pienezza della Parola incarnata, così sono quattro coloro che
portano la barella su cui è adagiato il paralitico, perché noi non
possiamo avere alcun dubbio riguardo alla sua debolezza. Questo
paralitico infatti, abitante anonimo di Cafàrnao deposto con tutta
la sua miseria davanti a Cristo, rappresenta tutti noi, ogni uomo e
l’umanità tutta intera. È davvero difficile trovare le parole per
esprimere la nostra miseria, ma il Vangelo ci aiuta a trovarci al
cospetto della verità, mostrandoci i quattro uomini che calano la
barella col paralitico attraverso un’apertura fatta nel tetto e
cercano disperatamente aiuto per lui. Ecco l’uomo, una povera
creatura che con tutto il suo essere grida aiuto!
Dal momento che
rendersi conto della verità della nostra debolezza non è divertente,
sarebbe legittimo chiedersi, perché la Parola di Dio lo fa? Perché
cancella tutti i nostri sforzi di costruire un’immagine positiva
ed ottimistica di noi stessi, per dirci, sembra spietatamente:
fidati di me, sei paralitico, siete paralitici…?
La risposta è: per
perdonare i nostri peccati. La conoscenza della nostra debolezza
serve infatti alla scoperta della misericordia infinita di Dio. Ma
non si tratta in questo caso di quella conoscenza che ci spinge
all’azione, quando, consapevoli del nostro peccato, del nostro vizio
o della nostra mancanza ci sforziamo di essere migliori. Si tratta
invece di quella conoscenza della miseria umana che scoraggia
totalmente e spenge ogni speranza naturale di poter fare
qualcosa. Si tratta proprio di questo tipo di conoscenza, è lei che
ci rivela la misericordia di Dio.
La vediamo in questo
paralitico, che aspettando con grande fede la guarigione da Gesù,
non la riceve. Tutti lo hanno deluso, anche il Messia, e il
paralitico si trova solo con la sua povertà. Ma le parole che lo
hanno privato dell’ultima speranza, nello stesso tempo hanno
inondato la sua anima con la luce infinita di Dio: Figlio, ti sono
perdonati i peccati. Sono le parole che uccidendo l’ultima speranza
umana del paralitico fanno nascere in lui la vita nuova, eterna. È
stato riconciliato con Dio.
Dopo queste parole il
paralitico e Cristo sanno bene che il miracolo più grande si è già
compiuto. L’uomo e Dio si sono incontrati e godono dell’unione
ritrovata. Ma poiché ci sono tante persone che non vedendo la luce,
la pace e la gioia nel cuore del paralitico e non credendo nella
forza della parola di Cristo, non credono che i peccati siano stati
perdonati, Gesù dice al peccatore perdonato: alzati, prendi la tua
barella e va’ a casa tua. Lo fa, perché tutti sappiano che il Figlio
dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati. Per questo infatti è
venuto.
Fratelli e sorelle,
il perdono dei nostri peccati è la grazia, che Cristo ci offre
costantemente, e la più perfetta manifestazione della sua
onnipotenza. Cerchiamola, perché non abbiamo mai visto nulla di
simile. Amen.
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Domenica 10 gennaio 2010
- Battesmo del Signore -
fr.
Massimo-Maria FMJ
Siamo giunti con la festa del Battesimo del
Signore al termine del tempo liturgico del Natale. La Parola che
risuona oggi nella liturgia non illumina solo questa domenica, ma
rischiara il cammino fatto e quello che continua ora.
Il noto testo di Isaia della I lettura in
un certo senso apre il cuore all’ascolto e l’animo alla speranza.
Il profeta parla ad un popolo duramente
provato dalla schiavitù . Promette un intervento potente e liberante
di Dio. Assicura una salvezza visibile e sperimentabile e lo fa con
l’immagine audace e tenera del pastore che con soavità e forza
raduna il gregge e con tenerezza e prudenza cura pecore ed agnelli.
La parola consolazione che apre l’oracolo e riassume lo stesso
oracolo, è comprensibile nel quadro della fedeltà di Dio, che non si
dimentica né si stanca dei suoi eletti, ma si fa presente in mezzo
al suo popolo: “ Ecco il vostro Dio!” invita a proclamare con forza
il profeta.
Se la profezia ci apre il cuore
all’ascolto e alla speranza, la realizzazione di tale promessa che
nella pagina evangelica è descritta, ci illumina profondamente su
quanto abbiamo vissuto nel tempo del Natale e quanto siamo chiamati
a vivere.
Non è più la voce del profeta che invita a
gridare la venuta di Dio, ma il Padre che proclama la presenza del
Figlio proprio nel cuore del suo popolo.
Non è più la parola audace e determinata del
profeta che annuncia salvezza e consolazione, ma Gesù di Nazareth,
che discende nelle acque del Giordano Lui salvatore e consolatore, e
in un certo senso, dal Padre è presentato come consolazione e
salvezza.
Ecco allora che il nostro sguardo oggi è
invitato a posarsi con intensità su Gesù che discende nel fiume
Giordano.
Certo per cogliere il gesto di ulteriore
abbassamento dell’Amore di Dio, che dopo essersi incarnato nel
grembo di Maria, dopo essersi lasciato adagiare sulla paglia e dopo
aver vissuto il nascondimento di Nazareth, ora scende nelle acque
del fiume, in fila con i peccatori per ricevere il Battesimo di
Giovanni. Non certo per essere purificato, Lui l’agnello Innocente,
ma piuttosto per rendersi solidale con i peccatori ed essere ancora
più vicino all’uomo di ogni tempo. Per questo siamo invitati a
guardare intensamente al Signore oggi. Ma ancora, per vedere la
forza dello Spirito che discende su di Lui per rivestirlo della sua
Forza e per rivelare al popolo che lo attendeva, e a noi suoi
discepoli, che davvero Lui è quel più forte di cui Giovanni aveva
parlato, il vero Salvatore, colui che solo può consolare, anzi è la
consolazione.
Vogliamo ancora posare con forza lo
sguardo su Gesù al Giordano, per vedere su di Lui il cielo aperto e
riascoltare la voce di Colui che nessuno ha mai visto, il Padre. E’
Lui infatti che ci assicura che quello è il suo Figlio Diletto, in
cui noi incontriamo davvero il mistero tremendo ed affascinante di
Dio, la sua Luce, la sua Forza, la sua Potenza, il suo misterioso ed
infinito Amore.
Ma nel mistero del Natale Dio non è già
vicino all’uomo? Nella manifestazione dell’Epifania non c’è già
chiaramente affermata, proclamata la volontà di Dio di volere essere
vicino ad ogni uomo, di ogni popolo, razza nazione, tempo?
Nell’Incarnazione del Figlio Dio non si è fatto solidale con i
peccatori per salvarli con il suo amore e nella sua misericordia?
Tutto vero! Ma allora cosa ci dice di più oggi la festa del
Battesimo di Gesù, perché fissare intensamente il nostro sguardo su
di Lui?
Ci aiuta una parola del papa Benedetto XVI
a trovare una risposta alla nostra domanda:” Se il Natale e
l’Epifania servono soprattutto a renderci capaci di vedere, ad
aprirci gli occhi ed il cuore al mistero di un Dio che viene a stare
con noi, - afferma Benedetto XVI - la festa del Battesimo di Gesù ci
introduce potremmo dire, alla quotidianità di un rapporto personale
con Lui. Infatti, mediante l’immersione nelle acque del Giordano,
Gesù si è unito a noi.”
Ecco fratelli e sorelle perché oggi
vogliamo con audacia e insistenza attardarci a contemplare Gesù nel
mistero del suo Battesimo, per riscoprire la grazia del nostro
Battesimo che ci ha unito con Gesù; che ci ha introdotto alla
quotidianità di un rapporto personale con Lui; che ci ha dato
accesso al cammino per incontrare Lui il Salvatore che ci ha
salvati, l’amico che ci rallegra con la sua amicizia, il pastore che
ci sostiene con la sua presenza, il maestro che ci consola ed
illumina con la sua Parola, la Vita che rende bella luminosa piena
ed eterna la nostra esistenza. Per dirlo ancora con le parole del
papa:” Il Battesimo è per così dire il ponte che Gesù ha costruito
tra sé e noi, la strada per la quale si rende a noi accessibile; è
l'arcobaleno divino sulla nostra vita, la promessa del grande sì di
Dio, la porta della speranza e, nello stesso tempo, il segno che ci
indica il cammino da percorrere in modo attivo e gioioso per
incontrarlo e sentirci da Lui amati.”.
Fratelli e sorelle questa Parola illumina
il senso del cammino fatto e ci assicura che davvero Dio in Gesù
vuole stare con noi: e questa è la parola di consolazione di Isaia
che si è compiuta.
Ma questa Parola oggi rischiara il cammino
che ci stà davanti, che consiste nel vivere la grazia del nostro
Battesimo che ci ha unito a Gesù.
Come fare questo? Ascoltiamo ancora il Papa
che ci dona una parola sicura
“ Dio non agisce in modo magico. Agisce
solo con la nostra libertà. Non possiamo rinunciare alla nostra
libertà. Dio interpella la nostra libertà, ci invita a cooperare col
fuoco dello Spirito Santo. Queste due cose debbono andare insieme.
Il Battesimo rimarrà per tutta la vita dono di Dio, il quale ha
messo il suo sigillo nelle nostre anime. Ma sarà poi la nostra
cooperazione, la disponibilità della nostra libertà a dire quel “si”
che rende efficace l’azione divina.”
Dopo il tempo forte dell’Avvento e il
tempo gaudioso del Natale riprendiamo il tempo ordinario allora con
questa consegna: In Gesù Dio è con noi. Nel Battesimo Gesù è sempre
con noi. Liberamente e gioiosamente diciamo ogni giorno il nostro
“sì” alla sua Parola per la nostra gioia, alla sua volontà per la
nostra salvezza, al suo Spirito per la nostra pace.
Amen
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venerdì
8 gennaio 2010 -
1a settimana dopo Natale -
fr. Marek FMJ
Fratelli e sorelle,
La
moltiplicazione dei pani è un miracolo splendido ed impressionante.
Non sarebbe però giusto, se il suo splendore ci coprisse le parole e
i gesti di Cristo che sicuramente sono più discreti del grande segno
compiuto davanti alle folle, ma non meno importanti. E poiché la
grazia del Signore si nasconde molto spesso, se non sempre, in ciò
che è piccolo e d’aspetto modesto, vorrei oggi rivolgere la nostra
attenzione a una frase di Gesù agli apostoli e per mezzo di loro a
tutta la Chiesa: “Voi stessi date loro da mangiare”.
Sono
parole sconvolgenti. Se non vogliamo considerarle come una
provocazione o uno scherzo, il loro significato ci costringe a
cambiare tutto ciò che pensiamo di noi stessi. Gesù esige infatti
dai suoi discepoli una cosa impossibile per l’uomo. Gli apostoli,
essendo uomini responsabili e maturi, quando si accorgono che il
luogo è deserto ed ormai è tardi, suggeriscono al loro
maestro l’unica soluzione sensata di una situazione difficile:
“congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei
dintorni, possano comprarsi da mangiare”. Dobbiamo apprezzare la
loro preoccupazione per gli altri e le loro doti organizzative,
virtù di cui Gesù sembra del tutto privo. La sua proposta – voi
stessi date loro da mangiare – è, per dirlo gentilmente, fuori
luogo, e gli apostoli non mancano di dirlo: “Dobbiamo andare a
comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”.
Sicuramente duecento denari erano una somma che non era mai esistita
nella cassa tenuta da Giuda e anche nel caso che in quel momento ci
fosse, non sarebbe bastata per comprare la quantità di pane
sufficiente a saziare la folla.
Ma Gesù
non scherzava. “Voi stessi date loro da mangiare” è una richiesta
seria. Cristo esige dai suoi discepoli l’impossibile.
Davvero
non è possibile, avendo cinque pani e due pesci, nutrire a sazietà
cinquemila uomini. Ma gli apostoli ci sono riusciti. Con la
benedizione di Cristo hanno distribuito alla gente il niente che
possedevano e hanno ancora portato via dodici ceste piene di pezzi
di pane. Si, mi sembra che questa piccola frase di Cristo: “voi
stessi date loro da mangiare” sia altrettanto sconvolgente che la
moltiplicazione dei pani. Perché anche se è vero che è Gesù che ha
fatto il miracolo, è anche vero, che il pane era il pane degli
apostoli e la folla l’ha ricevuto dalle loro mani. Mi sembra quindi
che si possa dire, che il miracolo consiste nell’esecuzione della
richiesta di Cristo: “voi stessi date loro da mangiare”.
L’impossibile è avvenuto: gli Apostoli hanno dato da mangiare a
tutti.
Fratelli e
sorelle, a mio parere tutti abbiamo l’abitudine, che sembra “onnicristiana”,
di ripetere che seguire Cristo e compiere i suoi comandamenti
è difficile. Ma questo non è vero, ciò che Gesù esige dai suoi
discepoli non è difficile, è impossibile. Amare i nemici, benedire
coloro che ci maledicono, fare del bene a quelli che ci odiano, non
perdere mai la speranza e la gioia, non scoraggiarsi del proprio
peccato, né del peccato del mondo, ringraziare sempre il Signore e
credere che Lui ha già vinto il mondo e tutte le forze del male
presenti in esso, non è difficile, è impossibile. E che tutto questo
succeda è un perenne miracolo, un segno che non sparisce mai, la
manifestazione e la prova che Dio è con noi. L’impossibile si compie
ogni giorno. Cresce nei cuori umani il Regno di Dio, così come si è
moltiplicato il pane degli Apostoli, perché Dio si è fatto uomo. Non
c’è più Dio, ma Dio-con-noi. Non c’è più l’uomo, ma l’uomo in Dio.
Dobbiamo
quindi cantare senza fine con gli angeli: gloria a Dio e pace agli
uomini, che egli ama.
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mercoledì 6 gennaio 2010 -
Epifania del Signore -
fr. Massimo-Maria FMJ
Se nel Natale il
mistero della luce di Gesù splende chiaramente, certo nel mistero
della sua manifestazione, in questa solennità dell’Epifania, la luce
di Gesù rifulge con particolare intensità.
Se nel mistero del
Natale, l’invito degli angeli a dirigersi verso Betlemme è forte,
ora nel giorno dell’Epifania, attraverso lo splendore della stella
ed il solenne incedere dei Magi, l’invito a recarsi a Betlemme, si
fa più pressante.
Luce intensa ed
invito pressante ad avvicinarsi a Lui è oggi per noi il Signore, per
rivolgerci un annuncio che, se lasciamo cadere una certa
abitudinarietà, è sconvolgente:
Dio che nel Natale
di Gesù è con noi, nel giorno dell’Epifania ci svela il suo
desiderio di manifestarsi, di farsi conoscere e incontrare da tutti
gli uomini.
In Gesù Dio è “
visibile “, ma anche “ incontrabile, conoscibile “ si manifesta
all’uomo, ad ogni uomo di ogni epoca e tempo, a tutto l’uomo.
Fratelli e sorelle
è vero che il testo del Vangelo con i suoi elementi della stella e
dei Magi potrebbe farci ancora apparire il Natale come una bella
antica fiaba, ma noi sappiamo bene che non è affatto così.
Al contrario, i
Magi hanno per ogni uomo una testimonianza preziosa da offrire, e la
stella una luce particolarissima da donare.
I magi, non sono
semplicemente dei ricchi sapienti del lontano oriente, ma dei
testimoni per l’uomo di ogni tempo e quindi per l’uomo
contemporaneo. Testimoni del fatto che a chi cerca con sincerità
umile ed intellettuale onestà la verità, questa si fa incontro, si
rivela, si manifesta, si fa conoscere.
Le vie, i cammini,
i percorsi possono essere tanti, differenti e spesso i più
impensabili. Alcuni anni fa, l’allora Cardinale Ratzinger, ebbe a
dire che le vie per incontrare Dio sono tante quante sono i cuori
degli uomini. Ma certo a chi la cerca la Verità si fa incontro in un
volto preciso, non confuso, in una persona dai connotati chiari non
vaghi, e si tratta appunto del Bambino di Betlemme, Gesù di
Nazareth, figlio di Maria e Figlio di Dio.
Sì i Magi sono
testimoni che la verità a chi la cerca si rivela, ma occorre
cercarla con umiltà, senza preconcetti, lasciando che si riveli come
vuole e dove non avremmo magari pensato, nel nostro caso nel volto
semplice di un bimbo e nei vagiti teneri di un neonato.
Davvero quanta
semplicità, umiltà fiducia e vera sapienza nei Magi. Noi forse al
loro posto non avremmo riconosciuto e creduto. Avremmo detto che era
troppo poco, non sicuro non attendibile e neppure affidabile
identificare la Verità con un neonato. Dopo lunghe ricerche e dopo
tanto cammino ci saremmo attesi qualcosa di più solenne, forte e
rassicurante. Eppure la Verità è semplice come un Bimbo, perché Dio
rivela la sua Sapienza nella piccolezza e ciò ci spiazza e non poco.
Davvero la luce di
Gesù oggi è speranza grande per tutti i cercatori della verità che
ancora oggi sono in cammino, che ancora oggi avanzano lentamente
forse ma non con poca audacia.
Una riflessione
particolare poi merita la stella, non tanto per la poesia che essa
richiama, quanto per il significato che rappresenta.
Il Vangelo non
parla di una stella, ma della Sua stella quella cioè che conduce a
Lui, che splende per Lui, che indica Gesù.
Che cosa è questa
stella?
Fratelli e sorelle
questa stella non è la stessa per tutti, ma è quel segno, quei segni
necessari e utili per ciascuno per andare a Gesù.
Per qualcuno è
stata l’evidenza di una riflessione maturata nel segreto della
coscienza, per altri la trasparente testimonianza di una persona,
per taluni lo splendore di una liturgia, per talaltri il fascino di
una Parola o dei Sacramenti.
Per tanti forse la
vivida gioia interiore di sentire che Gesù davvero è Colui che ha il
segreto della storia e dell’uomo.
Un fatto è certo che
ognuno oggi può e deve dare un nome alla sua stella che lo ha
guidato e lo guida sino a Betlemme, poiché possa entrare nella casa,
la Chiesa di Gesù per offrire tutto sé stesso generosamente e
gioiosamente al Bimbo di Betlemme per essere così, per grazia lui
stesso stella luminosa che a tanti indica decisamente il cammino
verso la Verità.
Tanti nostri
fratelli e sorelle attendono dei segni di Dio leggibili e
riconoscibili, e qual è segno più visibile e luminoso della Santità
dei credenti?
Signore Gesù oggi
affidiamo a Te tutti coloro che Ti cercano, che avanzano verso la
tua luce; dona loro perseveranza, audacia e costanza.
A noi che già abbiamo
contemplato il tuo splendore dona di rifletterlo senza ombre e di
essere così, pur nella nostra povertà, segno umile e luminoso della
Tua Presenza e della Tua Salvezza.
Amen
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