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22 novembre 2009

LA RIVELAZIONE BIBLICA COME PAROLA DI DIO

 

Che cosa intendiamo dire quando diamo alla Bibbia la qualifica di Parola di Dio?

Parola di Dio è un’espressione che si usa oggi così spesso, così facilmente, ma rischia talvolta di patire inflazione, di venire svalutata se non la riconduciamo alle sue proporzioni reali. La Dei Verbum ci guida ad una più esatta, comprensione della natura della Rivelazione - Parola di Dio.

 

Prima parte

Rivelazione = Parola di Dio interpersonale, dialogica (cfr n 2 prima parte).

 

a) Dio parla agli uomini come ad amici.

+ Meraviglia di alcuni padri del Concilio: troppo eccessivi: meglio dire: come a dei figli (passi più numerosi nella Bibbia). Invece è rimasto il testo “amici”, suffragato da Es 33,11 (“JHWH conversava con Mosè faccia a faccia, come un uomo conversa con un amico”) e da Gv 15,14-15 (“Io non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamato amici”).

+ Analogia del linguaggio umano:

Tre tipi di linguaggio :

- linguaggio utilitaristico, quotidiano: homo faber, homo economicus la persona è assente.

- linguaggio tecnico, scientifico, matematico, dottrinale (anche teologico): la persona vi è coinvolta intellettualmente, a livello di apprendimento.

- crisi della scuola: ricerca di un rapporto docente-studenti, che superi i limiti puri e semplici dell’insegnamento.

- linguaggio dell’amicizia e dell’amore: è la manifestazione personale per eccellenza, con cui due persone vengono a contatto, in vista di una comunione interpersonale più profonda che lascia inalterata la libertà della persona e al tempo stesso permette un libero, profondo e trasformante arricchimento.

+ La triplice funzione del linguaggio umano, nella parola amicale:

- interrogazione, chiamata, appello (2° persona: TU)

- racconto, spiegazione, istruzione, insegnamento, anche dottrinale (3°persona: EGLI/CIÒ)

-espressione di sé, manifestazione di sé, sempre presente nel linguaggio dell’amicizia e dell’amore (I° persona: l’IO). Nel linguaggio dell’amicizia e dell’amore l’IO della persona(o delle persone) non è fuori campo, non resta neutro (la riprova: quando in una conversazione tra amici non scatta la persona, non si riesce a comunicare); noi ecclesiastici, spesso, proteggiamo la persona dietro una maschera, una scorza.

È in virtù del coinvolgimento della persona che tale parola amicale è sempre efficace, creativa: si esce sempre da questo tipo di colloquio trasformati: non si è più come prima.

+ Tale è la Rivelazione - Parola di Dio (Dio parla agli uomini come ad amici per visitarli e ammetterli alla comunione con Sé):

- non il parlare quotidiano - banale che porta fuori i fenomeni superficiali dell’uomo (mangiare, bere...) e ciò che egli sente rispetto alle realtà quotidiane, banali...;

- neppure soltanto né soprattutto il parlare tecnico, dottrinale (Dio non insegna soltanto, ma parla e parlando insegna anche la Rivelazione = manifestazione di Verità, che l’uomo da solo non potrebbe conoscere: è una definizione per molti aspetti parziale, riduttiva e non tocca l’essenza della Rivelazione biblica);

- ma il parlare dell’amicizia e dell’amore, con le sue tre funzioni: Dio parla e chiama, convoca, interpella (i kletoi, la ecclesìa); Dio parla e racconta, interpreta l’uomo, l’esistenza, la vita (parlando in amicizia con l’uomo non solo Dio chiama, convoca, interpella, ma rivela all’uomo se stesso), i fatti e la Storia (parola diventa giudizio, minaccia, comando vitale e storico, promessa, consolazione); la Parola di Dio rivela l’uomo a se stesso; “Non di solo pane vive l’uomo, ma della parola di Dio”: cioè, l’uomo conosce se stesso, la pienezza della sua realtà non da ciò che egli stesso produce, da ciò che egli stesso ricerca e ottiene attraverso la propria esperienza e attività (=pane) ma attraverso l’ascolto della Parola del Signore (Dt 8,1-6).

Dio parla e si esprime, rivela se stesso, chiama a sé, chiama alla sua comunione; chiama per donare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza (DV 3).

In questo senso, la Parola di Dio non stimola e non trae fuori dall’uomo ciò che è banale o superficiale in lui, ma trae fuori dall’uomo ciò che è nel suo profondo, ciò che lo tocca come persona e come comunità, nel vivo dell’esistenza e della storia. Non si può ascoltare una Parola di Dio e rimanere come prima, perché la Parola di Dio mette in questione l’uomo, la sua vita: si deve accettarla quella Parola o respingerla: e accettandola o anche respingendola, non si è più come prima.

Questa è dunque la Parola di Dio che dobbiamo cercare nella Scrittura (e che dobbiamo predicare), con tutta una serie di conseguenze “pastorali” che vedremo al termine.

Dio nella Bibbia non è soltanto un maestro che insegna: è un padre che chiama, un amico che ti parla, uno sposo che si dona, ecc.

b) Conseguenze della Rivelazione: Parola di amicizia

1. Se la Rivelazione è Parola personale di Dio, se centro della Rivelazione biblica non è una verità o un complesso di verità astratte e impersonali, ma una Persona che mi parla, mi cerca, mi chiama e mi invita, allora questa parola va prima di tutto ascoltata (cfr Proemio della DV “In religioso ascolto della parola”), più che studiata; allora la spiritualità biblica è innanzi tutto spiritualità di ascolto e di obbedienza alla parola di Dio, è e deve essere l’ascolto di un interlocutore presente.

2. Se tale è la Rivelazione - Parola di Dio, allora su quello si modella la risposta della fede, in un suo primo, fondamentale (anche se non esclusivo) aspetto: quello che la DV chiama, con S. Paolo “l’obbedienza della fede” (DV 5), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutto intero veramente e liberamente”.

Si obbedisce ad una persona viva, ci si abbandona ad una per­sona vivente che chiama con una formidabile promessa: l’aspetto “personale” della fede è dunque in primo piano ed è quello che sostiene l’adesione intellettuale al contenuto della Rivela­zione (la fede non e muta) e la comprensione volitiva — esistenziale — storica al progetto di Dio (il fare la Verità).

3. La Rivelazione - Parola e la corrispondente fede, allargano e portano a compimento l’iter complesso e stupendo dell’uomo-persona=relazione= fatto per stare con...

La scoperta, dell’altro che diventa un TU; la scoperta degli altri che diventano un VOI e poi un NOI; fino alla scoperta del totalmente ALTRO, che diventa faticosamente un TU, diventa ABBÀ (Papà, babbo). Ma c’è anche una scoperta del “ciò” che diven­ta “nostro” (ecco il prossimo tema: la st. rivelatrice).

 

 

SECONDA PARTE

La rivelazione biblica avviene “gestis verbisque intrinsice inter se connexis” (DV).

 

È l’altro, fondamentale aspetto del concetto di Rivelazione, re­stituitoci dalla DV (Perché di recupero si tratta e di nessuna novità). È già questa una risposta all’inflazione della Parola di cui dicevamo prima.

Dio, per comunicare con gli uomini, per parlare con essi, sceglie la strada di una presenza viva e operante: egli si rivela attraverso gli esaltanti, spesso drammatici eventi di una storia concreta: la Storia della salvezza e convoca alla “Storia” come luogo della fede.

a) Dove sta la novità di tale asserzione?

Quando si parla di novità, occorre intendersi. Tale dottrina non è certo una invenzione, perché gli articoli di fede non si inventano: semmai si scoprono e si ripropongono di nuovo, quando erano dimenticati.

+ I fatti, la storia come scenario della Rivelazione erano già noti: cfr Lc 3,1ss. Cioè la Rivelazione non accade fuori dello spazio e del tempo umano, ma accade quando gli uomini hanno già fatto storia, e pertanto è sottomessa alle coordinate di tempo e di spazio.

+ Anche i fatti, la storia come oggetto della Rivelazione erano già ben noti.

Il simbolo (Credo) della fede Israelitica e della fede cristiana non contiene verità astratte, atemporali (p.e. L’uomo è un animale ragionevole), bensì fatti: cfr Dt 26 e il nostro Credo: “nacque da M. Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì... E fu risuscitato”.

Però, anche qui, attenzione.

Quando nel mio Credo professo che “Cristo è morto”, che “Cristo è risorto” non sono chiamato a professare soltanto la storicità del fatto (cioè il fatto nudo e crudo, in quanto veramente accaduto: Cristo è veramente morto, Cristo è veramente risorto), ma anche e soprattutto la sua storicità, cioè l’aspetto di significato e di coinvolgimento per me e per la mia vita che quel fatto possiede.

Certo, non si ha storicità senza la storicità: ciò che non esiste in sé, ciò che non è accaduto, non può aver nessun significato “per me”; ma ciò che mi salva nella mia professione, non è soltanto la validità formale della formula (“Cristo è davvero risorto”), ma è quel fatto riconosciuto come reale (storicità) e insieme accolto come significativo per me, cioè come salvifico per me, come qualcosa che prende la mia persona e la mia vita, impone una decisione, una conversione e mi apre un nuovo futuro.

+ I fatti, la Storia come prova della rivelazione. Anche questo aspetto era ben noto, fin troppo, l’attenzione apologetica ai “magnalia Dei” nell’AT e ai miracoli di Cristo è giusta e doverosa, ma insufficiente (cfr Mc 2,5ss: il paralitico e la remissione dei peccati). Se ci si limitasse a questo aspetto, la Rivelazione ne uscirebbe impoverita. Mi spiego. Prendiamo l’esempio dei miracoli di Gesù, Gesù ha guarito sull’istante un uomo cieco dalla nascita: ciò dimostra che Cristo è l’invitato di Dio, il figlio di Dio. Il valore apologetico del miracolo è per così dire, estrinseco: il fatto è assunto per provare un altro fatto: Gesù che rimette i peccati. Il contenuto del fatto: praticamente, non c’entra: al limite, se il miracolo avesse soltanto questo potenziale di prova, non si vede bene perché Cristo abbia dato la vista ad un nato cieco anziché mettersi a giocare (tipo spettacolo da circo) con un masso da dieci tonnellate. Ma il significato del miracolo non si ferma qui. Il valore del contenuto di questo fatto e di dare la vista ad un cieco; questo è già salvezza e dimostra non solo che Cristo è Figlio di Dio ma anche che egli è venuto a portare salvezza. Ridare la vista è salvezza. Anzi, in Gv il significato di miracolo va oltre: “Io sono la luce del mondo: chi crede in me non cammina nelle tenebre”.

b) I fatti rivelano, la storia rivela; Dio parla anche attraverso gli eventi.

Ecco la grande novità, recuperata dal concilio e brevemente sviluppata nella DV 2-4; i fatti assunti come mezzo di Rivelazione. Se noi leggiamo specialmente i primi 2 capp. della DV troviamo, per la Rivelazione e per la Tradizione (ne vedremo poi le conseguenze sul campo dell’esperienza cristiana e della pastorale), costante questo ritornello; Dio si rivela gestis verbisque (con eventi e parole); la tradizione non trasmette soltanto dottrina ma dottrina e fatti, quindi vita; il suo mezzo di trasmissione non è soltanto orale ma vitale: è trasmessa, portata avanti da tutta la vita del credente e della Chiesa.

- Dimostrare dalla Bibbia (A e NT) che la Rivelazione “gestis verbisque” è estremamente facile: basti un breve accenno.

- La missione di Mosè presso il Faraone a favore del popolo, (siamo all’evento centrale - primordiale - paradigmatico dell’intera storia salvifica), è tutta un dire e un fare: e tutte le parole di Mosè, siano esse un comando che precede il fatto o una spiegazione che lo segue, ricevono il loro senso dal momento che sono attuate nei fatti.

- Cristo compie e completa la Rivelazione col fatto stesso della sua presenza o con la manifestazione di sé, con le parole e le opere, con i segni e con i miracoli e specialmente con la sua morte e resurrezione... (DV 4). In Lui la parola di Dio non solo si fa evento ma si fa carne, si fa uomo; si fa vita, storia.

- I miracoli nel IV Vangelo (ad eccezione di Gv 4,48) vengono detti “segni”: i 7 segni del IV Vangelo che rivelano il Verbo fatto uomo pieno di grazia e di verità, con l’identica struttura: e poi la prolungata parola di Cristo, che spiega la portata rivelatrice e salvifica del segno.

- Nella Bibbia abbiamo non soltanto la dialettica “Dio parla l’uomo ascolta”, ma anche Dio ha fatto vedere, l’uomo riconosce”. Se Dio si rivelasse solo a parole, non avremmo questa seconda dialettica.

Per esempio, il salmo 111,1-3 afferma questo dato fondamentale:

"Grandi sono le opere del Signore: le contemplino coloro che lo amano”.

- Anche il fatto che la “dimenticanza delle opere di Dio” sia considerata peccato e fonte di peccato (cfr Sl 106,7-14-21; 95,9); ci dimostra come Dio si riveli attraverso i fatti: se si trattasse soltanto di dimenticanza di un fatto di cronaca, mal si spiegherebbe l’imputazione al popolo di un gran peccato; al contrario ciò diventa comprensibile; pensando che in quella dimenticanza c’è l’oblio di Dio che opera, che salva operando»

- Ma direi di più riassumendo.

Anche guardando i fatti messi in relazione dalla Bibbia come “oggetto” e come “prova” della Rivelazione, sia nell’AT che nel NT, si vede che sono sempre di un certo tipo, cioè sono ordinariamente fatti che esprimono una liberazione, una. salvezza, una guarigione, un portare ad uno stato di pienezza e di vita ciò che si trovava in uno stato di malattia, di povertà, di sofferenza, di schiavitù, una vivificazione di ciò che era morto. Pertanto i fatti biblici si presentano non solo oggetto e prova della Rivelazione, ma sono in se stessi rivelanti, cioè manifestano nel loro attuarsi una precisa intenzione divina.

c) Ambiguità del fatto e suo superamento.

Ma ecco una prima questione: come possono rivelare i fatti? Non sono forse profondamente ambigui? Ma ciò che è ambiguo, non rivela! I. Anche il fatto umano ha una portata rivelatrice.

+ La persona umana parla di sé, rivela sé attraverso le sue scelte, i fatti che compie. L’agire rivela, perché nell’agire serio e responsabile è coinvolta la persona e il suo potenziale di significato.

Si pensi all’assassinio di M. L. King, o anche alla morte (e vita) di Papa Giovanni.

+ Però è anche vero che il fatto spesso è estremamente ambiguo nel suo significato.

È un dato di esperienza. Noi non possiamo interpretare con piena sicurezza i perché, le intenzioni, il significato (o i significati) dei fatti altrui (esempio banale: vedo uno che si butta da uno scoglio nel mare: fa un bagno? Si suicida? Vuol salvare qualcuno?).

E spesso è ancor più problematico capire quello che faccio io: non cerchiamo sempre di ingannarci? Non è così difficile essere autentici?

+ Ma anche quando le azioni sono autentiche, frutto cioè di una scelta nel momento in cui si è posti di fronte ad una decisione nuda, anche allora il fatto umano è ambiguo (positivamente ambiguo) per due motivi: per la sua densità e per la sua unicità.

La densità del fatto gli deriva dall’interiorità della persona che vi si esprime, la quale è profonda, pluridimensionale, mai totalmente sondabile e quindi difficilmente riducibile ad un unica dimensione ermeneutica.

L’unicità del fatto umano gli deriva da quegli elementi unici e irripetibili (l’atto personale non è mai identico), i quali impediscono di ridurlo totalmente ad un tipo standard.

Un esempio della Bibbia: Is 43,16-19: la liberazione da Babilonia assomiglia all’esodo dall’Egitto: e tuttavia è qualcosa di assolutamente nuovo: l’antica categoria ed esperienza dell’esodo aiuta ma non è sufficiente a comprendere il nuovo evento.

2. Come si supera, allora, questa ambiguità positiva (il fatto è ambiguo, perché ha molto da dire, troppo da dire) del fatto?

+ Talvolta un fatto isolato, inserito in una serie di fatti simili (mai identici) assume significato.

Esempio:- Vedo un giovane che entra una mattina in chiesa (avrà un compito od un esame); lo vedo ogni mattina entrare in chiesa: è tutto diverso.

- Dalla Bibbia: Dio perdona una volta; Dio perdona di continuo: ne viene fuori un attributo o meglio una costante di Dio (cfr Sl 136): “la misericordia di Dio è eterna”, dove “eterna” non significa “atemporale” ma che supera ogni generazione è presente in ogni generazione, trascende ogni atto e in ogni atto e di continuo si rivela.

+ Talvolta un atto lo si comprende soltanto quando tutto l’arco di eventi, ai quali quel singolo atto è collegato, è compiuto.

Soltanto quando gli Ebrei hanno potuto entrare in Terra Promessa, hanno compreso il senso pieno dell’esodo dall’Egitto (vedi la riprova del mormorare del popolo nel deserto): cfr eduxit... Et induxit (Dt 26); induxit ut induceret (Dt 6).

+ Ma il mezzo ordinario, più comune per sovvenire all’ambiguità del fatto è la parola, la parola dell’interprete.

- Anche la storia umana ha i suoi interpreti, i suoi carismatici: alcuni hanno per natura il fiuto e la possibilità di capire il fatto (i poeti, gli artisti, alcuni registi: vedi neorealismo italiano); altri possono arrivarci per esercitazione, amando e studiando i fatti (lo psicologo, il sociologo, lo storico), Tutti siamo (o dovremmo essere) un po’ poeti, artisti, psicologi, sociologi e storici....

- La rivelazione biblica ha assunto (è anche questa una dimensione dell’Incarnazione) questa attività di interpretare i fatti (la profezia) e ne ha fatto una struttura permanente del suo manifestarsi.

I Profeti sono i grandi interpreti che, dal punto di vista di Dio, hanno interpretato per le loro generazioni e per noi i grandi fatti positivamente ambigui della Storia della salvezza.

 

3. Relazione organica tra fatto e parola (cfr DV 2)

Cioè, le parole senza fatti, sarebbero prive di significato: con i fatti prendono invece validità le realtà e le dottrine indicate dalle parole;

d’altra parte, le parole illustrano le opere e aiutano a capire la densità e profondità del loro significato. Illustriamo brevemente questo rapporto tra parola e fatto con alcuni esempi:

+ la parola prima del fatto;

- profezia “stricto sensu”: 2Re 19.

Assedio di Sennacherib. Isaia rassicura il Re Ezechia:

“Sennacherib udrà una notizia e se ne tornerà alla sua terra”.

Scoppia la peste, piuttosto normale in quel tempo. In forza della parola profetica “prima” del fatto, il fatto “peste” perde la sua ambiguità di significato e assume il valore di segno concreto della presenza salvifica di JHWH.

- Esodo 3,7ss: “Ho visto l’afflizione... Ti manderò dal Faraone e tu farai uscire il mio popolo dall’Egitto”. Questa proclamazione profetica annuncia una intenzione Divina che copre tutti gli eventi di Israele fino all’ingresso nella terra promessa: quella che prometterà la professione di fede: “eduxit nos... Ut induceret”.

- eventualmente, la parola-comando (cfr Osea)

+ la parola dopo il fatto :

- la forma più comune: il raccontare, il narrare.

Il raccontare, che non può esaurirsi in un fare semplicemente cronaca dettagliata ma diventa il tramite principale per proclamare il fatto, la storia come significativa per l’uomo in ogni generazione. Questa è la storia vera.

Non una sola parola narrativa, ma più parole narrative (es. Le 4 tradizioni del Pentateuco; i 4 Vangeli).

Sono 4 parole incaricate di esplicitare il mai totalmente esauribile significato degli eventi salvifici di un passato che mantiene la sua attualità per il presente, anche per l’oggi (in questi fatti, c’entra l’uomo e ancor più c’entra Dio c’entra il Verbo fatto carne).

C’è e ci sarà sempre un 5° Vangelo (anche se non ispirato e canonico) che la Chiesa è chiamata a proclamare e a vivere, in ogni sua stagione. Così il Conc. Vaticano II e il sinodo dei Vescovi: una 5° parola di Dio nella chiesa e tramite la chiesa.

- La Parola che proclama il fatto e lo attualizza (culto-sacramento).

Prendiamo come esempio il Dt 26,3 (L’oggi culturale); quel fatto avvenuto nel passato è aperto anche a quel pio israelita che vi si sente coinvolto. C’è una proclamazione e una attualizzazione per lui di quell’evento salvifico, oltre che un chiarimento del significato che quell’evento passato ha per lui, oggi: il dono della terra è di Dio, è gratuito: ciò guide e regola non solo l’offerta delle primizie ma tutto la sua vita (cfr Dt 6) A voi, il rapportare questo aspetto alla Messa memoriale della passione - morte - resurrezione di Cristo.

- La parola che medita, contempla il fatto.

La meditazione che altro è se non un mettersi dinanzi al fatto per penetrarlo e farsi penetrare, un raccogliere tutte le interpellazioni che mi provengono da quel fatto e dare una risposta non solo intellettuale (di comprensione) ma anche di adesione vitale, esistenziale, storica?

Esempi tipici: Gn 32 (meditazione)

Gn 19 (tutti gli aspetti della parola prima e dopo il fatto).

d) Conseguenze pastorali della Rivelazione nei fatti e attraverso i fatti.

Tralascio alcune conseguenze di carattere “dottrinale”: per es. il modo di fare teologia, che dovrebbe sempre più centrarsi nella. “Storia, della salvezza”; come pure le implicazioni che questo tema ha su “Evangelizzazione e sacramenti”.

Mi soffermo solo su alcune conseguenze di carattere spirituale e pastorale.

1. Dalla Rivelazione - Parola di amicizia derivavo la spiritualità biblica, come spiritualità di religioso ascolto di un interlocutore presente.

Dalla Rivelazione della storia (nei fatti) e attraverso i fatti, deriva un altro fondamentale aspetto della spiritualità biblico — cristiana: quello dell’esperienza vitale, fattuale, storica della fede. Mi spiego. Se la Bibbia è - com’è - realmente - manifestazione della Parola di Dio attraverso eventi concreti che cambiano il corso della storia, allora occorre accogliere e sperimentare concretamente il messaggio rivelato per poterne capire a fondo il significato.

Gv 7,16-17 lo dice chiaramente, ne è una riprova: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. Soltanto colui che è disposto (volontà, non velleità) a fare la sua volontà conoscerà se questa dottrina, viene da Dio, o se io parlo da me stesso”.

Da questo punto di vista, la migliore definizione della Chiesa è quella di Semmerloth: “La Chiesa è la comunità di coloro che ascoltano la Parola Di Dio per metterla in pratica e la mettono in pratica, per meglio comprenderla”.

Non vi può essere quindi una vera “lectio divina” della scrittura là dove non c’è e non si cerca esperienza di fede, cioè sperimentazione della realtà nuova (esistenziale e storica) alla quale la Parola di Dio ci convoca e ci guida.

2. Più precisamente, dal punto di vista della Chiesa-comunità.

- La Chiesa deve capire Cristo: come? La chiesa deve rivelare Cristo: come?

La Chiesa non può né carpire Cristo né rivelarlo soltanto nelle parole e con le parole.

Per capire Cristo, la Chiesa deve anche soprattutto vivere evangelicamente, fare tante esperienze evangeliche.

Per rivelare Cristo, la Chiesa non può limitarsi a proclamarlo: deve prendere coscienza della storia, deve impegnarsi, deve agire per trasformare la vita e la storia in storia di salvezza.

3. Poiché Dio si è rivelato attraverso i fatti e la storia (e la storia continua); anche l’esistenza-vita e la storia presenti diventano il luogo dell’interpellazione che Dio ci rivolge di continuo.

Il credente deve imparare a leggere e ad ascoltare Dio nella propria esistenza. Per fare questo, deve prima conoscere il grande arco della storia della salvezza biblica e in quello saper leggere, capire vivere la propria vita come esistenza di salvezza. E la fede diventa anche, in questo senso, approfondimento dell’esistenza, diventa un Sì alla vita, in nome di Dio e in obbedienza alla sua Parola.

Non solo la piccola storia di ogni giorno, ma anche la grande storia dell’intera famiglia umana si fa trasparente alla Parola di Dio e al suo volere. La Chiesa, per questo, è chiamata a scrutare “i segni dei tempi” e a interpretarli alla luce del Vangelo (Gaudium et Spes 4), cioè a “discernere negli avvenimenti del mondo i veri segni della presenza e del disegno di Dio” (ibid 11). La teologia dei “segni dei tempi” si innesta e si fonda sul dato biblico che la storia è il luogo e il tramite della Parola in­terpellatrice di Dio. Sull’ambiguità dei “segni dei tempi”, vedi CEI, “Contributo al Sinodo dei Vescovi” (1974) nn 75-76.

 

 

 

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