22
novembre 2009
LA RIVELAZIONE BIBLICA COME PAROLA DI DIO
Che cosa intendiamo dire quando diamo alla
Bibbia la qualifica di Parola di Dio?
Parola di Dio è un’espressione che si usa
oggi così spesso, così facilmente, ma rischia talvolta di
patire inflazione, di venire svalutata se non la
riconduciamo alle sue proporzioni reali. La Dei Verbum ci
guida ad una più esatta, comprensione della natura della
Rivelazione - Parola di Dio.
Prima parte
Rivelazione = Parola di Dio interpersonale,
dialogica (cfr n 2 prima parte).
a) Dio parla agli uomini come ad amici.
+ Meraviglia di alcuni padri del Concilio:
troppo eccessivi: meglio dire: come a dei figli (passi più
numerosi nella Bibbia). Invece è rimasto il testo “amici”,
suffragato da Es 33,11 (“JHWH conversava con Mosè faccia a
faccia, come un uomo conversa con un amico”) e da Gv
15,14-15 (“Io non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamato
amici”).
+ Analogia del linguaggio umano:
Tre tipi di linguaggio :
- linguaggio utilitaristico, quotidiano: homo
faber, homo economicus la persona è assente.
- linguaggio tecnico,
scientifico, matematico, dottrinale (anche teologico): la
persona vi è coinvolta intellettualmente, a livello di
apprendimento.
- crisi della scuola: ricerca di un rapporto
docente-studenti, che superi i limiti puri e semplici
dell’insegnamento.
- linguaggio dell’amicizia e dell’amore: è la
manifestazione personale per eccellenza, con cui due persone
vengono a contatto, in vista di una comunione interpersonale
più profonda che lascia inalterata la libertà della persona
e al tempo stesso permette un libero, profondo e
trasformante arricchimento.
+ La triplice funzione del linguaggio umano,
nella parola amicale:
- interrogazione, chiamata, appello (2°
persona: TU)
- racconto, spiegazione, istruzione,
insegnamento, anche dottrinale (3°persona: EGLI/CIÒ)
-espressione di sé, manifestazione di sé,
sempre presente nel linguaggio dell’amicizia e dell’amore
(I° persona: l’IO). Nel linguaggio dell’amicizia e
dell’amore l’IO della persona(o delle persone) non è fuori
campo, non resta neutro (la riprova: quando in una
conversazione tra amici non scatta la persona, non si riesce
a comunicare); noi ecclesiastici, spesso, proteggiamo la
persona dietro una maschera, una scorza.
È in virtù del coinvolgimento della persona
che tale parola amicale è sempre efficace, creativa: si esce
sempre da questo tipo di colloquio trasformati: non si è più
come prima.
+ Tale è la Rivelazione - Parola di Dio (Dio
parla agli uomini come ad amici per visitarli e ammetterli
alla comunione con Sé):
- non il parlare quotidiano - banale che
porta fuori i fenomeni superficiali dell’uomo (mangiare,
bere...) e ciò che egli sente rispetto alle realtà
quotidiane, banali...;
- neppure soltanto né soprattutto il parlare
tecnico, dottrinale (Dio non insegna soltanto, ma parla e
parlando insegna anche la Rivelazione = manifestazione di
Verità, che l’uomo da solo non potrebbe conoscere: è una
definizione per molti aspetti parziale, riduttiva e non
tocca l’essenza della Rivelazione biblica);
- ma il parlare dell’amicizia e dell’amore,
con le sue tre funzioni: Dio parla e chiama, convoca,
interpella (i kletoi, la ecclesìa); Dio parla e racconta,
interpreta l’uomo, l’esistenza, la vita (parlando in
amicizia con l’uomo non solo Dio chiama, convoca,
interpella, ma rivela all’uomo se stesso), i fatti e la
Storia (parola diventa giudizio, minaccia, comando vitale e
storico, promessa, consolazione); la Parola di Dio rivela
l’uomo a se stesso; “Non di solo pane vive l’uomo, ma della
parola di Dio”: cioè, l’uomo conosce se stesso, la pienezza
della sua realtà non da ciò che egli stesso produce, da ciò
che egli stesso ricerca e ottiene attraverso la propria
esperienza e attività (=pane) ma attraverso l’ascolto della
Parola del Signore (Dt 8,1-6).
Dio parla e si esprime, rivela se stesso,
chiama a sé, chiama alla sua comunione; chiama per donare la
vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza (DV 3).
In questo senso, la Parola di Dio non stimola
e non trae fuori dall’uomo ciò che è banale o superficiale
in lui, ma trae fuori dall’uomo ciò che è nel suo profondo,
ciò che lo tocca come persona e come comunità, nel vivo
dell’esistenza e della storia. Non si può ascoltare una
Parola di Dio e rimanere come prima, perché la Parola di Dio
mette in questione l’uomo, la sua vita: si deve accettarla
quella Parola o respingerla: e accettandola o anche
respingendola, non si è più come prima.
Questa è dunque la Parola di Dio che dobbiamo
cercare nella Scrittura (e che dobbiamo predicare), con
tutta una serie di conseguenze “pastorali” che vedremo al
termine.
Dio nella Bibbia non è soltanto un maestro
che insegna: è un padre che chiama, un amico che ti parla,
uno sposo che si dona, ecc.
b) Conseguenze della Rivelazione: Parola di
amicizia
1. Se la Rivelazione è Parola personale di
Dio, se centro della Rivelazione biblica non è una verità o
un complesso di verità astratte e impersonali, ma una
Persona che mi parla, mi cerca, mi chiama e mi invita,
allora questa parola va prima di tutto ascoltata (cfr
Proemio della DV “In religioso ascolto della parola”), più
che studiata; allora la spiritualità biblica è innanzi tutto
spiritualità di ascolto e di obbedienza alla parola di Dio,
è e deve essere l’ascolto di un interlocutore presente.
2. Se tale è la Rivelazione -
Parola di Dio, allora su quello si modella la risposta della
fede, in un suo primo, fondamentale (anche se non esclusivo)
aspetto: quello che la DV chiama, con S. Paolo “l’obbedienza
della fede” (DV 5), con la quale l’uomo si abbandona a Dio
tutto intero veramente e liberamente”.
Si obbedisce ad una persona viva, ci si
abbandona ad una persona vivente che chiama con una
formidabile promessa: l’aspetto “personale” della fede è
dunque in primo piano ed è quello che sostiene l’adesione
intellettuale al contenuto della Rivelazione (la fede non e
muta) e la comprensione volitiva — esistenziale — storica al
progetto di Dio (il fare la Verità).
3. La Rivelazione - Parola e la
corrispondente fede, allargano e portano a compimento l’iter
complesso e stupendo dell’uomo-persona=relazione= fatto per
stare con...
La scoperta, dell’altro che diventa un TU; la
scoperta degli altri che diventano un VOI e poi un NOI; fino
alla scoperta del totalmente ALTRO, che diventa
faticosamente un TU, diventa ABBÀ (Papà, babbo). Ma c’è
anche una scoperta del “ciò” che diventa “nostro” (ecco il
prossimo tema: la st. rivelatrice).
SECONDA PARTE
La rivelazione biblica avviene “gestis
verbisque intrinsice inter se connexis” (DV).
È l’altro, fondamentale aspetto del concetto
di Rivelazione, restituitoci dalla DV (Perché di recupero
si tratta e di nessuna novità). È già questa una risposta
all’inflazione della Parola di cui dicevamo prima.
Dio, per comunicare con gli uomini, per
parlare con essi, sceglie la strada di una presenza viva e
operante: egli si rivela attraverso gli esaltanti, spesso
drammatici eventi di una storia concreta: la Storia della
salvezza e convoca alla “Storia” come luogo della fede.
a) Dove sta la novità di tale asserzione?
Quando si parla di novità, occorre
intendersi. Tale dottrina non è certo una invenzione, perché
gli articoli di fede non si inventano: semmai si scoprono e
si ripropongono di nuovo, quando erano dimenticati.
+ I fatti, la storia come scenario della
Rivelazione erano già noti: cfr Lc 3,1ss. Cioè la
Rivelazione non accade fuori dello spazio e del tempo umano,
ma accade quando gli uomini hanno già fatto storia, e
pertanto è sottomessa alle coordinate di tempo e di spazio.
+ Anche i fatti, la storia come oggetto della
Rivelazione erano già ben noti.
Il simbolo (Credo) della fede Israelitica e
della fede cristiana non contiene verità astratte,
atemporali (p.e. L’uomo è un animale ragionevole), bensì
fatti: cfr Dt 26 e il nostro Credo: “nacque da M. Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì... E fu
risuscitato”.
Però, anche qui, attenzione.
Quando nel mio Credo professo che “Cristo è
morto”, che “Cristo è risorto” non sono chiamato a
professare soltanto la storicità del fatto (cioè il fatto
nudo e crudo, in quanto veramente accaduto: Cristo è
veramente morto, Cristo è veramente risorto), ma anche e
soprattutto la sua storicità, cioè l’aspetto di significato
e di coinvolgimento per me e per la mia vita che quel fatto
possiede.
Certo, non si ha storicità senza la
storicità: ciò che non esiste in sé, ciò che non è accaduto,
non può aver nessun significato “per me”; ma ciò che mi
salva nella mia professione, non è soltanto la validità
formale della formula (“Cristo è davvero risorto”), ma è
quel fatto riconosciuto come reale (storicità) e insieme
accolto come significativo per me, cioè come salvifico per
me, come qualcosa che prende la mia persona e la mia vita,
impone una decisione, una conversione e mi apre un nuovo
futuro.
+ I fatti, la Storia come prova della
rivelazione. Anche questo aspetto era ben noto, fin troppo,
l’attenzione apologetica ai “magnalia Dei” nell’AT e ai
miracoli di Cristo è giusta e doverosa, ma insufficiente
(cfr Mc 2,5ss: il paralitico e la remissione dei peccati).
Se ci si limitasse a questo aspetto, la Rivelazione ne
uscirebbe impoverita. Mi spiego. Prendiamo l’esempio dei
miracoli di Gesù, Gesù ha guarito sull’istante un uomo cieco
dalla nascita: ciò dimostra che Cristo è l’invitato di Dio,
il figlio di Dio. Il valore apologetico del miracolo è per
così dire, estrinseco: il fatto è assunto per provare un
altro fatto: Gesù che rimette i peccati. Il contenuto del
fatto: praticamente, non c’entra: al limite, se il miracolo
avesse soltanto questo potenziale di prova, non si vede bene
perché Cristo abbia dato la vista ad un nato cieco anziché
mettersi a giocare (tipo spettacolo da circo) con un masso
da dieci tonnellate. Ma il significato del miracolo non si
ferma qui. Il valore del contenuto di questo fatto e di dare
la vista ad un cieco; questo è già salvezza e dimostra non
solo che Cristo è Figlio di Dio ma anche che egli è venuto a
portare salvezza. Ridare la vista è salvezza. Anzi, in Gv il
significato di miracolo va oltre: “Io sono la luce del
mondo: chi crede in me non cammina nelle tenebre”.
b) I fatti rivelano, la storia rivela; Dio
parla anche attraverso gli eventi.
Ecco la grande novità, recuperata dal
concilio e brevemente sviluppata nella DV 2-4; i fatti
assunti come mezzo di Rivelazione. Se noi leggiamo
specialmente i primi 2 capp. della DV troviamo, per la
Rivelazione e per la Tradizione (ne vedremo poi le
conseguenze sul campo dell’esperienza cristiana e della
pastorale), costante questo ritornello; Dio si rivela gestis
verbisque (con eventi e parole); la tradizione non trasmette
soltanto dottrina ma dottrina e fatti, quindi vita; il suo
mezzo di trasmissione non è soltanto orale ma vitale: è
trasmessa, portata avanti da tutta la vita del credente e
della Chiesa.
- Dimostrare dalla Bibbia (A e NT) che la
Rivelazione “gestis verbisque” è estremamente facile: basti
un breve accenno.
- La missione di Mosè presso il Faraone a
favore del popolo, (siamo all’evento centrale - primordiale
- paradigmatico dell’intera storia salvifica), è tutta un
dire e un fare: e tutte le parole di Mosè, siano esse un
comando che precede il fatto o una spiegazione che lo segue,
ricevono il loro senso dal momento che sono attuate nei
fatti.
- Cristo compie e completa la Rivelazione col
fatto stesso della sua presenza o con la manifestazione di
sé, con le parole e le opere, con i segni e con i miracoli e
specialmente con la sua morte e resurrezione... (DV 4). In
Lui la parola di Dio non solo si fa evento ma si fa carne,
si fa uomo; si fa vita, storia.
- I miracoli nel IV Vangelo (ad eccezione di
Gv 4,48) vengono detti “segni”: i 7 segni del IV Vangelo che
rivelano il Verbo fatto uomo pieno di grazia e di verità,
con l’identica struttura: e poi la prolungata parola di
Cristo, che spiega la portata rivelatrice e salvifica del
segno.
- Nella Bibbia abbiamo non soltanto la
dialettica “Dio parla l’uomo ascolta”, ma anche Dio ha fatto
vedere, l’uomo riconosce”. Se Dio si rivelasse solo a
parole, non avremmo questa seconda dialettica.
Per esempio, il salmo 111,1-3 afferma questo
dato fondamentale:
"Grandi sono le opere del Signore: le
contemplino coloro che lo amano”.
- Anche il fatto che la “dimenticanza delle
opere di Dio” sia considerata peccato e fonte di peccato
(cfr Sl 106,7-14-21; 95,9); ci dimostra come Dio si riveli
attraverso i fatti: se si trattasse soltanto di dimenticanza
di un fatto di cronaca, mal si spiegherebbe l’imputazione al
popolo di un gran peccato; al contrario ciò diventa
comprensibile; pensando che in quella dimenticanza c’è
l’oblio di Dio che opera, che salva operando»
- Ma direi di più riassumendo.
Anche guardando i fatti messi in relazione
dalla Bibbia come “oggetto” e come “prova” della
Rivelazione, sia nell’AT che nel NT, si vede che sono sempre
di un certo tipo, cioè sono ordinariamente fatti che
esprimono una liberazione, una. salvezza, una guarigione, un
portare ad uno stato di pienezza e di vita ciò che si
trovava in uno stato di malattia, di povertà, di sofferenza,
di schiavitù, una vivificazione di ciò che era morto.
Pertanto i fatti biblici si presentano non solo oggetto e
prova della Rivelazione, ma sono in se stessi rivelanti,
cioè manifestano nel loro attuarsi una precisa intenzione
divina.
c) Ambiguità del fatto e suo superamento.
Ma ecco una prima questione:
come possono rivelare i fatti? Non sono forse profondamente
ambigui? Ma ciò che è ambiguo, non rivela! I. Anche il fatto
umano ha una portata rivelatrice.
+ La persona umana parla di sé, rivela sé
attraverso le sue scelte, i fatti che compie. L’agire
rivela, perché nell’agire serio e responsabile è coinvolta
la persona e il suo potenziale di significato.
Si pensi all’assassinio di M. L. King, o
anche alla morte (e vita) di Papa Giovanni.
+ Però è anche vero che il fatto spesso è
estremamente ambiguo nel suo significato.
È un dato di esperienza. Noi non possiamo
interpretare con piena sicurezza i perché, le intenzioni, il
significato (o i significati) dei fatti altrui (esempio
banale: vedo uno che si butta da uno scoglio nel mare: fa un
bagno? Si suicida? Vuol salvare qualcuno?).
E spesso è ancor più problematico capire
quello che faccio io: non cerchiamo sempre di ingannarci?
Non è così difficile essere autentici?
+ Ma anche quando le azioni sono autentiche,
frutto cioè di una scelta nel momento in cui si è posti di
fronte ad una decisione nuda, anche allora il fatto umano è
ambiguo (positivamente ambiguo) per due motivi: per la sua
densità e per la sua unicità.
La densità del fatto gli deriva
dall’interiorità della persona che vi si esprime, la quale è
profonda, pluridimensionale, mai totalmente sondabile e
quindi difficilmente riducibile ad un unica dimensione
ermeneutica.
L’unicità del fatto umano gli deriva da
quegli elementi unici e irripetibili (l’atto personale non è
mai identico), i quali impediscono di ridurlo totalmente ad
un tipo standard.
Un esempio della Bibbia: Is 43,16-19: la
liberazione da Babilonia assomiglia all’esodo dall’Egitto: e
tuttavia è qualcosa di assolutamente nuovo: l’antica
categoria ed esperienza dell’esodo aiuta ma non è
sufficiente a comprendere il nuovo evento.
2. Come si supera, allora, questa ambiguità
positiva (il fatto è ambiguo, perché ha molto da dire,
troppo da dire) del fatto?
+ Talvolta un fatto isolato, inserito in una
serie di fatti simili (mai identici) assume significato.
Esempio:- Vedo un giovane che entra una
mattina in chiesa (avrà un compito od un esame); lo vedo
ogni mattina entrare in chiesa: è tutto diverso.
- Dalla Bibbia: Dio perdona una volta; Dio
perdona di continuo: ne viene fuori un attributo o meglio
una costante di Dio (cfr Sl 136): “la misericordia di Dio è
eterna”, dove “eterna” non significa “atemporale” ma che
supera ogni generazione è presente in ogni generazione,
trascende ogni atto e in ogni atto e di continuo si rivela.
+ Talvolta un atto lo si comprende soltanto
quando tutto l’arco di eventi, ai quali quel singolo atto è
collegato, è compiuto.
Soltanto quando gli Ebrei hanno potuto
entrare in Terra Promessa, hanno compreso il senso pieno
dell’esodo dall’Egitto (vedi la riprova del mormorare del
popolo nel deserto): cfr eduxit...
Et induxit (Dt 26); induxit ut induceret (Dt
6).
+ Ma il mezzo ordinario, più comune per
sovvenire all’ambiguità del fatto è la parola, la parola
dell’interprete.
- Anche la storia umana ha i suoi interpreti,
i suoi carismatici: alcuni hanno per natura il fiuto e la
possibilità di capire il fatto (i poeti, gli artisti, alcuni
registi: vedi neorealismo italiano); altri possono arrivarci
per esercitazione, amando e studiando i fatti (lo psicologo,
il sociologo, lo storico), Tutti siamo (o dovremmo essere)
un po’ poeti, artisti, psicologi, sociologi e storici....
- La rivelazione biblica ha assunto (è anche
questa una dimensione dell’Incarnazione) questa attività di
interpretare i fatti (la profezia) e ne ha fatto una
struttura permanente del suo manifestarsi.
I Profeti sono i grandi interpreti che, dal
punto di vista di Dio, hanno interpretato per le loro
generazioni e per noi i grandi fatti positivamente ambigui
della Storia della salvezza.
3. Relazione organica tra fatto e parola (cfr
DV 2)
Cioè, le parole senza fatti, sarebbero prive
di significato: con i fatti prendono invece validità le
realtà e le dottrine indicate dalle parole;
d’altra parte, le parole illustrano le opere
e aiutano a capire la densità e profondità del loro
significato. Illustriamo brevemente questo rapporto tra
parola e fatto con alcuni esempi:
+ la parola prima del fatto;
- profezia “stricto sensu”: 2Re 19.
Assedio di Sennacherib. Isaia
rassicura il Re Ezechia:
“Sennacherib udrà una notizia e se ne tornerà
alla sua terra”.
Scoppia la peste, piuttosto normale in quel
tempo. In forza della parola profetica “prima” del fatto, il
fatto “peste” perde la sua ambiguità di significato e assume
il valore di segno concreto della presenza salvifica di
JHWH.
- Esodo 3,7ss: “Ho visto
l’afflizione... Ti manderò dal Faraone e tu farai uscire il
mio popolo dall’Egitto”. Questa proclamazione profetica
annuncia una intenzione Divina che copre tutti gli eventi di
Israele fino all’ingresso nella terra promessa: quella che
prometterà la professione di fede: “eduxit nos... Ut
induceret”.
- eventualmente, la
parola-comando (cfr Osea)
+ la parola dopo il fatto :
- la forma più comune: il raccontare, il
narrare.
Il raccontare, che non può esaurirsi in un
fare semplicemente cronaca dettagliata ma diventa il tramite
principale per proclamare il fatto, la storia come
significativa per l’uomo in ogni generazione. Questa è la
storia vera.
Non una sola parola narrativa, ma più parole
narrative (es. Le 4 tradizioni del Pentateuco; i 4 Vangeli).
Sono 4 parole incaricate di esplicitare il
mai totalmente esauribile significato degli eventi salvifici
di un passato che mantiene la sua attualità per il presente,
anche per l’oggi (in questi fatti, c’entra l’uomo e ancor
più c’entra Dio c’entra il Verbo fatto carne).
C’è e ci sarà sempre un 5° Vangelo (anche se
non ispirato e canonico) che la Chiesa è chiamata a
proclamare e a vivere, in ogni sua stagione. Così il Conc.
Vaticano II e il sinodo dei Vescovi: una 5° parola di Dio
nella chiesa e tramite la chiesa.
- La Parola che proclama il fatto e lo
attualizza (culto-sacramento).
Prendiamo come esempio il Dt 26,3 (L’oggi
culturale); quel fatto avvenuto nel passato è aperto anche a
quel pio israelita che vi si sente coinvolto. C’è una
proclamazione e una attualizzazione per lui di quell’evento
salvifico, oltre che un chiarimento del significato che
quell’evento passato ha per lui, oggi: il dono della terra è
di Dio, è gratuito: ciò guide e regola non solo l’offerta
delle primizie ma tutto la sua vita (cfr Dt 6) A voi, il
rapportare questo aspetto alla Messa memoriale della
passione - morte - resurrezione di Cristo.
- La parola che medita, contempla il fatto.
La meditazione che altro è se non un mettersi
dinanzi al fatto per penetrarlo e farsi penetrare, un
raccogliere tutte le interpellazioni che mi provengono da
quel fatto e dare una risposta non solo intellettuale (di
comprensione) ma anche di adesione vitale, esistenziale,
storica?
Esempi tipici: Gn 32 (meditazione)
Gn 19 (tutti gli aspetti della parola prima e
dopo il fatto).
d) Conseguenze pastorali della Rivelazione
nei fatti e attraverso i fatti.
Tralascio alcune conseguenze di carattere
“dottrinale”: per es. il modo di fare teologia, che dovrebbe
sempre più centrarsi nella. “Storia, della salvezza”; come
pure le implicazioni che questo tema ha su “Evangelizzazione
e sacramenti”.
Mi soffermo solo su alcune conseguenze di
carattere spirituale e pastorale.
1. Dalla Rivelazione - Parola di amicizia
derivavo la spiritualità biblica, come spiritualità di
religioso ascolto di un interlocutore presente.
Dalla Rivelazione della storia (nei fatti) e
attraverso i fatti, deriva un altro fondamentale aspetto
della spiritualità biblico — cristiana: quello
dell’esperienza vitale, fattuale, storica della fede. Mi
spiego. Se la Bibbia è - com’è - realmente - manifestazione
della Parola di Dio attraverso eventi concreti che cambiano
il corso della storia, allora occorre accogliere e
sperimentare concretamente il messaggio rivelato per poterne
capire a fondo il significato.
Gv 7,16-17 lo dice chiaramente, ne è una
riprova: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha
mandato. Soltanto colui che è disposto (volontà, non
velleità) a fare la sua volontà conoscerà se questa
dottrina, viene da Dio, o se io parlo da me stesso”.
Da questo punto di vista, la migliore
definizione della Chiesa è quella di Semmerloth: “La Chiesa
è la comunità di coloro che ascoltano la Parola Di Dio per
metterla in pratica e la mettono in pratica, per meglio
comprenderla”.
Non vi può essere quindi una vera “lectio
divina” della scrittura là dove non c’è e non si cerca
esperienza di fede, cioè sperimentazione della realtà nuova
(esistenziale e storica) alla quale la Parola di Dio ci
convoca e ci guida.
2. Più precisamente, dal punto di vista della
Chiesa-comunità.
- La Chiesa deve capire Cristo: come? La
chiesa deve rivelare Cristo: come?
La Chiesa non può né carpire Cristo né
rivelarlo soltanto nelle parole e con le parole.
Per capire Cristo, la Chiesa deve anche
soprattutto vivere evangelicamente, fare tante esperienze
evangeliche.
Per rivelare Cristo, la Chiesa non può
limitarsi a proclamarlo: deve prendere coscienza della
storia, deve impegnarsi, deve agire per trasformare la vita
e la storia in storia di salvezza.
3. Poiché Dio si è rivelato attraverso i
fatti e la storia (e la storia continua); anche
l’esistenza-vita e la storia presenti diventano il luogo
dell’interpellazione che Dio ci rivolge di continuo.
Il credente deve imparare a leggere e ad
ascoltare Dio nella propria esistenza. Per fare questo, deve
prima conoscere il grande arco della storia della salvezza
biblica e in quello saper leggere, capire vivere la propria
vita come esistenza di salvezza. E la fede diventa anche, in
questo senso, approfondimento dell’esistenza, diventa un Sì
alla vita, in nome di Dio e in obbedienza alla sua Parola.
Non solo la piccola storia di ogni giorno, ma
anche la grande storia dell’intera famiglia umana si fa
trasparente alla Parola di Dio e al suo volere. La Chiesa,
per questo, è chiamata a scrutare “i segni dei tempi” e a
interpretarli alla luce del Vangelo (Gaudium et Spes 4),
cioè a “discernere negli avvenimenti del mondo i veri segni
della presenza e del disegno di Dio” (ibid 11). La teologia
dei “segni dei tempi” si innesta e si fonda sul dato biblico
che la storia è il luogo e il tramite della Parola
interpellatrice di Dio. Sull’ambiguità dei “segni dei
tempi”, vedi CEI, “Contributo al Sinodo dei Vescovi” (1974)
nn 75-76.
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